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Libertà di stampa e libertà di parola
Su Wikileaks
di Fulvio Grimaldi
“Tre cose non possono essere nascoste a
lungo: la Luna, il Sole e la Verità”. (Wikileaks)
Fulvio e Julian: si parva licet componere magnis
Il personale è politico, si diceva qualche lustro fa e tanto lo hanno preso sul serio quelli contro cui il concetto era diretto da aver ridotto il nostro personale, ora detto privacy, a setaccio per il quale precipita nel raccoglitore CIA, NSA, piattaforme digitali e nostri servizi, ogni bruscolino della nostra vita. Parto comunque da quel meme per compiere il passaggio da una mia esperienza privata a quella di portata generale, internazionale, planetaria ed epocale di Julian Assange, il detenuto da sei anni in quell’isola di Montecristo che è l’ambasciata dell’Ecuador a Londra.
Loro erano stati i segretari dell’Usigrai, sindacato di sinistra dei giornalisti RAI e poi sono stati e sono segretari della Federazione Nazionale della Stampa, il nostro sindacato. Loro sono Roberto Natale e Beppe Giulietti. Loro raccontavano di essersi dati molto da fare per farmi assumere al TG. Io credo che a favorire il mio passaggio da occasionale interprete simultaneo in Rai, nei tempi del mio ostracismo professionale dovuto alla direzione di Lotta Continua (senza pentimenti alla Sofri), a giornalista dell’azienda, sia stato Piero Badaloni, conduttore di Italiasera e poi di Uno Mattina, ottimo alla macchina, meno in video, che aveva apprezzato i miei trascorsi professionali e ignorato quelli politici.
Comunque, ai tempi in cui ricorsi al sindacato per ottenerne protezione dei miei diritti conculcati da Fausto Bertinotti mediante cacciata su due piedi da “Liberazione”, c’era Roberto Natale, poi opportunamente transitato a portavoce di Laura Boldrini presidente della Camera.
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Venaus, 17 e 18 novembre: da Flint a Flint passando per la Valsusa e il Salento
di Sandro Moiso
Non ho mai apprezzato particolarmente l’opera cinematografica di Michael Moore, ma mi pare che in occasione dell’incontro tra i movimenti che si terrà a Venaus in Valsusa il 17 e il 18 novembre, due dei suoi film, il primo e l’ultimo, possano costituire un ottimo punto di partenza e di arrivo per le riflessioni inerenti alle battaglie che attendono tutti coloro che, sempre più spesso, si contrappongono spontaneamente al modo di produzione corrente e alle sue malfamate “grandi opere”, in nome della difesa dell’ambiente, dei territori e dalla specie umana nel suo complesso.
Nel primo, Roger and Me (1989), sono ricostruite le vicende legate al licenziamento di 30.000 lavoratori dagli stabilimenti della General Motors della città di Flint, situata nel Michigan a poco più di cento chilometri da Detroit, le cui conseguenze hanno portato quella località ad essere, da insediamento industriale legato al ciclo dell’auto qual era, una delle città meno vivibili degli Stati Uniti, con conseguente crescita della criminalità e diminuzione del numero degli abitanti.
Nell’ultimo, Fahrenheit 11/9 (2018), all’interno della descrizione del processo di nazificazione della società americana dell’era Trump, Flint torna in scena sia per il dramma scatenatosi, ufficialmente a partire dal 2014, con l’inquinamento da piombo delle acque distribuite dall’acquedotto locale, sia per l’utilizzo del suo territorio (fabbriche dismesse e quartieri abbandonati tutt’altro che distanti da quelli ancora abitati) come luogo di esercitazione anti-guerriglia da parte dell’esercito americano, con l’utilizzo di armi, esplosivi ed autentiche tempeste di fuoco e di piombo scatenate dagli elicotteri d’assalto.
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Il feticismo e la sua attualità
di Adriano Voltolin
Il paragrafo della prima sezione del Capitale che ha per titolo Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano1, è stato, non casualmente, uno degli scritti che hanno rivestito una notevole importanza nel grande movimento che era iniziato in Europa alla metà degli anni sessanta del novecento. La sottolineatura implicita nello scritto dell’importanza degli aspetti teologici e di quelli ideologici che si sviluppano come sapere all’interno della società e che appaiono essere non semplicemente una sovrastruttura, ma una parte essenziale di quella cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica che è la merce, poneva su un piano diverso la lotta culturale ed ideale nella società rispetto al suo confinamento ad un piano di minore importanza rispetto a quella contro la struttura economica del capitale. Come era stato, nell’Europa tra la prima e la seconda guerra mondiale, con quello che venne chiamato il marxismo occidentale e che aveva trovato, oltre che in Lukàcs2, un esponente importante in Karl Korsch3, così nel 1963 il lavoro di Karel Kosik del 1963 sulla Dialettica del concreto4 riannodava le fila di un marxismo critico5 che ha rappresentato per circa ottanta anni l’interesse della cultura e della filosofia marxiana per gli aspetti ideologici della società6.
Marx in questo scritto rileva in primo luogo che quello dominato dalla merce è un mondo nel quale realtà e ideologia si sostituiscono l’una all’altra cosicché i prodotti del lavoro socialmente determinati scompaiono come tali per riapparire come rapporto sociale tra oggetti esistenti al di fuori di essi produttori7. Questo capovolgimento fa inoltre sì che per essere capito appieno è necessario addentrarsi nella regione nebulosa del mondo religioso Qui, continua Marx, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti dotate di vita propria.
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Fabrizio Marchi, “Contromano”
di Alessandro Visalli
“L’interferenza” è una coraggiosa rivista on line di cui è direttore responsabile Fabrizio Marchi e che fa parte di una crescente e vivacissima area critica con lo stato delle cose presenti, in particolare con l’indirizzo del progetto europeo in quanto parte promotrice della destrutturazione che ci circonda.
In questo libro sono raccolti numerosi articoli usciti sulla rivista che si sviluppano intorno ad alcuni centri tematici ed una tesi-chiave che provo a rendere in questo modo: le varie versioni del ‘politicamente corretto’ sono l’ideologia funzionale allo stato della tecnica e di un modo di produzione che da lungo tempo ha dismesso i ferri vecchi della triade Dio-Stato-Famiglia.
Il punto di partenza dell’argomentazione del testo è che man mano che la società si è fatta “liquida”[1], almeno nel nostro occidente ‘sviluppato’, la centralità della “forma merce”[2] è diventata universale. Ciò che dunque serve all’autoriproduzione di questa società, ed in particolare del suo motore, la valorizzazione del capitale[3], è un umano ‘non sociale’[4], che viene in qualche modo messo a disposizione dalla ideologia del ‘politicamente corretto’[5] che in questo senso è ‘falsa coscienza’[6].
All’autoritarismo delle forme tradizionali si sovrappone e sostituisce, certo gradualmente, una forma sottile, ma più ferrea, di autoritarismo del mercato. In altre parole, la questione non è tanto del “plusvalore non pagato” o di appropriarsi del potere giuridico di disporre della proprietà privata, ma di ridefinire la “forma sociale del valore stesso”, ed il suo feticismo che mette in concorrenza tra di loro tutte le classi e gli individui entro esse, siano essi maschi o femmine.
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Autostrade ai privati. Come invertire la marcia
di Simone Gasperin
La storia delle principali infrastrutture stradali italiane è l'emblema dell'interesse pubblico che cede il passo alla rendita. Ma esistono alternative alla speculazione dei privati
Al minuto 25:55 di un compiaciuto documentario sulle autostrade italiane si intravede il ponte Morandi con un “buco” a metà. Ma il fotogramma appare in uno sgranato bianco e nero. Si tratta di un filmato degli anni Sessanta, quando il viadotto Polcevera doveva ancora essere ultimato. Queste le parole trionfanti del narratore: “La Società Autostrade ha completato il raddoppio e l’ammodernamento della Genova-Serravalle, che allacciandosi alla Serravalle-Milano, ha sbloccato le correnti di traffico provenienti dal nord e ha ormai portato a termine anche l’autostrada che arriva a Savona”. Una rasserenante musichetta stile-jazz in sottofondo sembra persino banalizzare un elemento di eccezionale significato per l’economia italiana.
La rete autostradale in Italia evoca una storia di orgogliosa ricostruzione e di progresso materiale, successivamente mutata nello sconforto tipico delle fasi di decadenza e recentemente culminata con il tragico crollo del ponte genovese. Per questi motivi, la vicenda delle autostrade italiane non può essere esclusivamente ricondotta a specialistiche questioni di natura ingegneristica. Essa intreccia innanzitutto il susseguirsi delle strategie di sviluppo economico, o presunte tali, adottate delle autorità pubbliche nel corso degli ultimi decenni.
Fino agli anni Settanta, parlare di autostrade in Europa era semplicemente sinonimo di Italia. Come aveva potuto questo paese ancora semi-arretrato costruire una moderna rete di autostrade su un complesso territorio nazionale, collegando il nord al sud, il Piemonte al Friuli, il litorale adriatico a quello tirrenico? Questo si chiedevano gli osservatori ed esperti di tutto il continente. La risposta, tanto scontata quanto annacquata dalla distanza storica, conduce a individuare un attore protagonista: la Società Autostrade Concessioni e Costruzioni Spa.
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Samir Amin, un teorico militante
di Remy Herrera*
Samir Amin si è sempre definito marxista. Il suo lavoro è stato informato, non senza riflessione critica, dalle teorie dell'imperialismo (in particolare quelle proposte da Paul Baran, Paul Sweezy e Harry Magdoff) come opere pionieristiche sullo sviluppo (come quelle di Raúl Prebisch o, in una certa misura, di François Perroux). Ma si differenzia molto chiaramente dal corpus marxista "ortodosso". Come gli altri grandi teorici del sistema mondiale capitalista, tra cui Immanuel Wallerstein, Giovanni Arrighi e André Gunder Frank, Samir Amin ha prodotto una serie di analisi globali che articolano relazioni di dominio tra nazioni e relazioni di sfruttamento tra classi, e che prendono come oggetto e concetto il mondo moderno come un'entità storico-sociale concreta che forma un sistema, formando un assemblaggio - strutturato da complesse relazioni di interdipendenza - di diversi elementi di una realtà in un insieme coerente e autonomo, posizionandoli dando loro un senso.
Uno dei principali contributi scientifici di Samir Amin è che egli mostra che il capitalismo come sistema mondiale realmente esistente è molto diverso dal modo di produzione capitalista su scala globale. La questione centrale che guida il suo lavoro è capire perché la storia dell'espansione capitalistica si identifica con la storia della polarizzazione globale tra le formazioni sociali centrali e periferiche. La sua risposta mira a cogliere la realtà di questa polarizzazione nella sua interezza, a integrare lo studio delle sue leggi in termini di materialismo storico, cercando di combinare teoria e storia e di tenere insieme i campi economico, politico e ideologico. L'unità di analisi per comprendere i principali problemi delle società è quindi il sistema globale - possibile oggetto di una coerente indagine scientifica olistica a questo livello -, meglio delle formazioni sociali che lo compongono.
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Marx, Engels, l’utopia
di Gian Mario Bravo
1.
Inizio con il titolo dell’opuscolo celebre di Friedrich Engels (condiviso anche da Marx), L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza (1882), diventato uno dei documenti più noti e diffusi del nascente e affermantesi “marxismo” (il marxismo di Marx, dall’inizio del Novecento si parlerà però di marxismi). Il testo era stato redatto qualche anno avanti e pubblicato in un’impegnativa e complessa opera polemica, l’Antidühring, poi estratto da essa con titolo Socialismo utopistico e socialismo scientifico, infine aveva ottenuto la denominazione citata. Tenendo conto solo di quest’opera, potrei - paradossalmente - interrompere il saggio e, con evidente presunzione, affermare che secondo Marx ed Engels, essendosi il socialismo «evoluto» da una visione precedente, utopistica, ed essendo diventato una «scienza», vale a dire il «socialismo scientifico», conseguentemente, si dovrebbe, parlare del rifiuto e anche del superamento di ogni forma di utopia da parte dei due pensatori.
Il ragionamento, pur logico e lineare, condurrebbe a una visione rigida del tema oggetto di discussione e contrasterebbe in gran parte con le convinzioni che Marx ed Engels manifestarono nel corso della loro pluridecennale riflessione sul tema, ben più autonoma e ampia. Sicuramente, una percezione ideologizzata e positivista del marxismo (continuo a parlare del solo marxismo di Marx) fu quasi sempre dominante nel dibattito della sinistra, in Occidente come in Oriente. Così accadde nella discussione della socialdemocrazia tedesca e del socialismo italiano prima della Grande guerra, nel marxismo sovietico durante l’intera sua esistenza, e non solo nell’età di quella che può essere definita la degenerazione staliniana, e così via.
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La crisi del ciclo progressista
Panorama sull’America Latina nell’epoca di Trump
di Tommaso Nencioni
Alla fine del primo decennio del XXI secolo governi progressisti erano insediati nella pratica totalità degli Stati latinoamericani. Dall’Argentina kirchnerista al Brasile di Lula, dall’Ecuador di Rafael Correa alla Bolivia di Evo Morales, dall’Uruguay del Frente Amplio al Nicaragua neosandinista, dal Paraguay dell’ex Vescovo Fernando Lugo al Salvador guidato dal FMLN, la Patria Grande era unificata sotto le bandiere delle sinistre. La leadership riconosciuta dell’intero processo spettava al presidente venezuelano Hugo Chavez. La rivoluzione bolivariana assumeva caratteri via via più radicali, quella cubana godeva di rinnovate credibilità e legittimità internazionali. Venivano ripresi e implementati processi di integrazione regionale come il MERCOSUR e la CELAC, ed erano le forze popolari alla guida di questi processi, mentre le destre per lo più vi si opponevano. Altri ne nascevano su basi totalmente inedite, come l’ALBA. Perfino all’interno dell’OSA – l’organizzazione panamericana estesa ai Paesi al nord del Rio Grande – la posizione degli Stati Uniti rimaneva spesso isolata. Un progetto di zona di libero scambio estesa a tutto il continente su basi neo-liberiste e promossa da Washington – l’ALCA – era stato sdegnosamente respinto dai presidenti di Argentina, Brasile, Uruguay e Venezuela a Mar del Plata nel 2004. Governi che si erano insediati con programmi timidamente liberali – è il caso di quello hondureño di Manuel Zelaya – finivano per entrare nell’orbita di influenza progressista.
Negli ultimi anni stiamo però assistendo ad un netto rovesciamento dei rapporti di forza nel Subcontinente. Il peronismo argentino ha ceduto il potere ad una coalizione di destra guidata da Mauricio Macri. Di destra anche il governo peruviano. I governi di Paraguay, Honduras e soprattutto Brasile sono stati rovesciati da manovre parlamentari al limite della costituzionalità – si parla apertamente di Golpe.
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Marx e la politica
di Franco Romanò
Il recente film Il giovane Marx ha posto l’attenzione, fra l’altro, su un periodo cruciale della storia europea, che gli storici e anche i programmi scolastici definiscono come Restaurazione. Secondo Mario De Micheli, invece, i trent’anni successivi al Congresso di Vienna1 vanno visti come il tempo in cui si diffondono in tutta Europa gli ideali rivoluzionari che prepareranno il ’48, sia da un punto di vista politico, sia artistico e culturale. Dentro questa temperie, si colloca anche il lavoro del giovane Marx e quello di Engels sulla classe operaia inglese. Il culmine di questo periodo, durante il quale nasce anche la loro profonda amicizia, sarà, nel ’47, la stesura del Manifesto del partito comunista, che sarà pubblicato nel 1848 qualche mese prima dello scoppio dei movimenti rivoluzionari in tutta Europa; un evento che Marx ed Engels avevano previsto. Qual è e come cambia nel tempo il loro rapporto con la politica, tema di questo scritto?
Occorre prima di tutto considerare un problema preliminare e cioè che noi vediamo il rapporto con la politica da post bolscevichi e post socialisti. Uso l’espressione in senso ampio e non la riferisco solo a chi è stato comunista o socialista o che lo è ancora, perché i partiti socialisti e poi Lenin e i bolscevichi non hanno creato solo i loro organismi politici, ma hanno inventato il partito politico moderno novecentesco, un modello che è stato seguito più o meno da tutti, con qualche distinguo per quelli inglesi e una più ampia differenziazione per quelli statunitensi. Può sembrare a prima vista sorprendente tale affermazione, ma se storicizziamo alcuni passaggi, il quadro che ne esce apparirà forse meno sorprendente. Risaliamo allora al periodo successivo alla Comune di Parigi e poi, specialmente, al 1902, quando Lenin scrive Che fare.
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Dal popolo-nazione al populismo: Gramsci e Laclau
di Pasquale Voza
Vorrei partire da un passo del Quaderno 11, in cui Gramsci mostrava come la costruzione dell’«intellettuale nuovo» avesse bisogno di liberarsi da quello che andava considerato «l’errore dell’intellettuale»:
L’errore dell’intellettuale consiste nel credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere) cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non un puro pedante) se distinto e staccato dal popolo-nazione, […] non si fa politica-storia senza questa passione, cioè senza questa connessione sentimentale tra intellettuali e popolo-nazione (Q 11, 68, 1505)1.
Rispetto al corrispettivo testo A, in cui parlava di popolo, qui Gramsci adopera la nozione di popolo-nazione, che chiamava in causa la peculiarità, la determinazione storica dell’intreccio e della interazione Stato-società civile e alludeva alla costruzione di un nuovo «blocco storico» e perciò di una egemonia alternativa. È interessante rilevare come tale nozione diventi nei Quaderni un ricorrente, se pur spesso implicito, criterio interpretativo delle «forme» e dei «limiti» (com’egli diceva) del Risorgimento italiano e della costruzione dello Stato unitario. La specificità della rivoluzione passiva del Risorgimento italiano risiedeva nella angustia-insufficienza delle «forze progressive», che rendeva possibile la circostanza per cui «il gruppo portatore delle nuove idee non è il gruppo economico, ma il ceto degli intellettuali» e per cui, ad opera di tale ceto, si forma una astratta e separata concezione dello Stato, «come una cosa a sé, come un assoluto razionale» (Q 10, 61, 1360-1, corsivo mio, p.v.): una concezione, in quanto tale, del tutto distaccata dal popolo- nazione.
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‘Tutto il potere ai Soviet!’. Parte quarta
Tredici a due: i bolscevichi di Pietrogrado discutono le Tesi di aprile
di Lars T. Lih
Si veda anche, in calce a questo stesso post, l’appendice ‘Le Tesi di aprile: i bolscevichi mettono le cose in chiaro’
Ovunque e in ogni momento, quotidianamente, dobbiamo mostrare alle masse che sin quando il vlast non sarà trasferito nelle mani del Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, non vi sarà speranza di una conclusione a breve della guerra, né possibilità alcuna per la realizzazione del loro programma.
– Sergei Bagdatev così spiegava le sue apprensioni circa le Tesi di aprile di Lenin nel corso della Conferenza di aprile del partito bolscevico.
In quasi tutti i resoconti delle attività del partito bolscevico, nella primavera del 1917, si troverà una frase che afferma quanto segue: le Tesi di aprile di Lenin risultarono a tal punto scioccanti per i membri del partito che, nel corso di una riunione del Comitato di Pietrogrado tenutasi l’8 aprile, vennero respinte con un voto di tredici a due (e un astenuto). Un episodio al quale viene dedicata niente più che una singola frase, ma una frase che, anche solo presa di per sé, costituisce certamente un pugno nello stomaco. Tredici a due! – I bolscevichi dovevano essere rimasti davvero scandalizzati dal nuovo e radicale approccio di Lenin.
Il potere di una buona storia non dovrebbe essere sottovalutato. L’aneddoto sul voto di tredici a due, dopo il rientro di Lenin, si può collocare a giusto titolo accanto a quello sulla presunta “censura” delle sue Lettere da lontano prima del suo ritorno in Russia. Lo statuto di questi due aneddoti quali fatti indiscussi, probabilmente, conferisce alla consueta narrazione del riarmo più sostegno di qualsiasi seria argomentazione. Precedentemente, in questa serie di testi, prendendo in esame l’episodio delle Lettere di Lenin, ho dimostrato come si tratti di un “documento volubile”, che cambia dunque aspetto laddove messo in questione.
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Il proletariato e la rivoluzione comunista nell’epoca del robot
di Giorgio Paolucci
La rivoluzione comunista o sarà opera del proletariato o non sarà e in tal caso sarà la rovina dell’intera società
Nelle aspettative dei suoi cantori, nel suo inarrestabile sviluppo, il progresso tecnico e scientifico avrebbe dovuto sconfiggere la povertà e regalare agli uomini tantissimo tempo libero da dedicare alla cura di sé e del proprio spirito. Per esempio, Keynes, nel suo famoso saggio del 1930 Possibilità economiche per i nostri nipoti, pur mettendo in guardia dai rischi della disoccupazione tecnologica conseguente ai miglioramenti apportati al sistema delle macchine impiegate nella manifattura, era convinto che il maggior problema dei suoi nipoti, vale a dire le generazioni odierne, non sarebbe stato quello economico ma: “ Come impiegare la loro libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.”
Poi, con l’introduzione della microelettronica e dell’informatica nei processi produttivi e gestionali è sembrato davvero che il sogno fosse ormai a portata di mano; è accaduto esattamente il contrario. I lavoratori si sono sempre più impoveriti e i ricchi sono diventati ancora più ricchi. Negli Stati Uniti, per esempio, Walmart “Paga i suoi lavoratori, se includiamo anche quelli part-time 8,80 dollari l’ora. Adesso – suggerisce di fare il professore e segretario del lavoro della presidenza Clinton, Robert Reich - confrontate questo dato con quello del 1955, quando il maggior datore di lavoro degli Stati uniti era la General Motors, che pagava, in media, i suoi lavoratori l’equivalente di quelli che sarebbero 37 dollari oggi.”[1]
Di contro ormai solo otto persone detengono la ricchezza di metà umanità mentre dieci anni fa erano 385.[2]
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Cottarelli, il fascino discreto dell’austerità
di Marta Fana e Lorenzo Zamponi
Ogni domenica appare in prima serata su Raiuno, affabilmente intervistato da Fabio Fazio. Incarna il mito conservatore del "tecnico" che riduce l'economia ad equilibrio dei conti pubblici
Appare ogni domenica sera, in prima serata, su Raiuno. Affabilmente intervistato dall’ingenuo e sornione Fabio Fazio, mostra tabelle, elenca voci di spesa, snocciola dati. Carlo Cottarelli è diventato ormai una presenza fissa sull’ammiraglia della tv pubblica. Recita il suo Angelus finanziario poche ore dopo quello di papa Francesco, segnando la fine del weekend e il ritorno alle preoccupazioni della quotidianità feriale. “L’economia in prime time non si pensava potesse essere un argomento – ha esordito Fazio domenica 21 ottobre – invece si sta comprendendo quanto sia vitale nella vita di ciascuno di noi”. Un progetto didattico, quindi, di informazione scientifica, con l’idea di fare dell’ex commissario della spending review una specie di Piero Angela dell’economia. Una scelta non casuale e rivelatoria. La promozione di Cottarelli a divulgatore economico per eccellenza della tv di stato, voce neutra e autorevole, in quanto “tecnica”, della scienza che governa le vite di tutti, ci dice parecchio sull’idea di economia che domina il dibattito pubblico, sull’ossessione diffusa per i conti pubblici e il rigore di bilancio e sulla completa rimozione di dettagli come lavoro, produzione, moneta, e lo stesso mercato dall’idea di economia pubblicamente discussa in Italia.
L’uomo dei conti
Chi è Carlo Cottarelli e come è arrivato a occupare lo spazio tra Flavio Insinna e Luciana Littizzetto nella domenica sera degli italiani? Laurea a Siena, master alla London School of Economics, incarichi tra la Banca d’Italia e l’Eni, poi nel 1988, giovanissimo, vola a Washington, dove inizia una lunga e fortunata carriera al Fondo Monetario Internazionale, l’istituzione protagonista dei famosi “programmi di aggiustamento strutturale” nel sud del mondo, e più recentemente dell’imposizione di misure di austerità senza precedenti alla Grecia.
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Le mani su Machiavelli. Una critica dell’Italian Theory
di Pier Paolo Portinaro
[È uscito in questi giorni, per Donzelli, Le mani su Machiavelli. Una critica dell’Italian Theory di Pier Paolo Portinaro. Ne presentiamo alcune pagine. «Italian Theory», si legge nel risvolto del libro «è espressione, non priva di ambiguità, che riassumerebbe un presunto tratto comune della filosofia italiana, racchiudendo in un unico orizzonte Machiavelli e Gramsci fino all’operaismo e alla biopolitica. È proprio quest’ultima, invece, oggi, ad aver generato un terreno favorevole al diffondersi di quella postura antipolitica che è esattamente l’opposto della lezione del Segretario fiorentino. Ma alla lezione di Machiavelli può essere più sobriamente ricondotto quel filone di pensiero elitistico che ha accompagnato criticamente la via italiana alla democratizzazione – un altro Italian Style, potremmo dire, quello dei maestri del disincanto democratico: Salvemini, Bobbio, Miglio, Sartori, Pizzorno. È questo altro filo del pensiero politico italiano che Pier Paolo Portinaro ricostruisce nel volume: seguendo il quale, secondo l’autore, l’enigma dell’eterna crisi italiana può essere meglio decifrato, senza ricorrere a troppo inclusive – e impropriamente apologetiche – letture metapolitiche della storia»].
* * * *
[…]. Questo – risulterà evidente fin dalle prime battute – è uno scritto polemico e idiosincratico, di cui è bene circoscrivere fin d’ora le finalità. Non intendo infatti contestare che nei decenni passati molti ingegni italici si siano spesi con serietà e competenza all’interno della comunità transnazionale degli studiosi, quella che un tempo si chiamava «repubblica dei dotti», e per questo abbiano trovato rispettosa e partecipe accoglienza in essa. Né intendo sottostimare il fatto che la straordinaria fioritura della letteratura italiana tra Dante Alighieri e Torquato Tasso abbia creato le condizioni, e non da ieri, per una ricerca multidisciplinare sulla specificità della cultura italiana e della sua forza di proiezione nel mondo. O ancora che autori come Alessandro Manzoni e Giacomo Leopardi siano stati determinanti nel conferire una cifra e una tonalità di pessimismo storico alla letteratura italiana contemporanea.
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Il canone minore
di Giacomo Foglietta
R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli 2017
Il canone minore. Verso una filosofia della natura di Rocco Ronchi ci pone subito di fronte ad un’idea insolita per chi si occupa di filosofia. La storia del pensiero filosofico conosce un canone ‘maggiore’ ma, al contempo, anche un canone minoritario, una chiave di interpretazione alternativa delle grandi domande teoretiche. Tradizione di pensiero che – sostiene Ronchi senza mezzi termini – sarebbe l’unica a poter fregiarsi propriamente del titolo di filosofia. Per cominciare a capire la proposta di Ronchi può essere utile allora provare a mettere in chiaro di cosa parliamo quando parliamo di canone maggiore. Quali sono e quali sono state le caratteristiche del pensiero filosofico dominante? Se è la filosofia a determinare la natura della modernità, allora per rispondere alla suddetta domanda bisognerà innanzitutto chiedersi che cosa significhi essere moderni in filosofia. Secondo Ronchi la contemporaneità, da Kant in avanti, ha assunto rispetto a questo problema una posizione ben precisa facendo della finitezza la chiave di interpretazione della realtà e della verità. La finitezza come dato immediato e come condizione di accesso all’ente è diventata la cifra della modernità filosofica, la quale ha visto nella millenaria consapevolezza della nostra mortalità, del nostro limite costitutivo, una nuova forma di assoluto. In questo nuovo orizzonte di riferimento la mancanza strutturale dell’essere umano, la sua sottomissione al desiderio, alla limitatezza della ragione, lo identifica quindi come l’unico essere veramente finito e come tale depositario di una comprensione più profonda della verità.
L’alternativa proposta da Ronchi si prefigge allora in prima istanza proprio la messa in discussione di questo dominio della finitezza e, di conseguenza, la messa in discussione dell’eccezione umana. Ronchi sceglie una via antica, frequentata prima di lui da teologi speculativi, filosofi della natura rinascimentali e, in epoca contemporanea, anche da autori pienamente moderni.
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Capitalismo 2018. L’anno delle ricette impossibili e delle paure riemergenti
di Antonio Carlo
1) Bilancio 2017 dagli squilli di tromba al terrore per il crollo prossimo venturo
A) I risultati del 2017. Ripresa solida o recessione in agguato?
Nel 2017 il PIL mondiale cresce del 3,7% con punte del 6,5% (Cina), del 2,4% in USA e nella UE, mentre il Giappone si ferma all’1,8%1 . I primi commenti sono assai positivi, la ripresa è solida, si dice, non più fragile e modesta come si sosteneva per gli anni precedenti, eppure dopo poco il prof. Feldstein, capofila degli economista conservatori americani, osserva che negli USA una nuova recessione è alle porte2 , gli fa eco il noto politologo Bremmer per cui il mondo trema ancora a 10 anni dal crac del 20083 e con lui esponenti del mondo degli affari USA4 . Forse la stroncatura più dura della ripresa posteriore alla crisi del 2008 la leggiamo in un giornale non certo sospettabile di anticapitalismo come “Il Corriere della sera”, con toni degni di un marxista radicale e con argomenti che chi scrive avanza dal 20055 , se non dagli anni ’80 del secolo passato6 . Scrive Salvatore Bragantini: “La causa profonda e negletta della lunga crisi è lo spostamento di ricchezza a danno dei ceti medi che l’ha preceduta. Raghiram Rajan, non un sovversivo né uno sprovveduto, scrisse in Fault Lines (2010) che i 2/3 di tutto il reddito addizionale, prodotto tra il 1977 ed il 2007 in USA è andato al famigerato 1%. Solo lì sono affluiti i guadagni di produttività che prima erano spartiti con i lavoratori dipendenti, via via politicamente indeboliti dalla metà degli anni ’80; essi hanno trovato nella droga del debito il sostegno di un tenore di vita inesorabilmente in calo. Parola di Ben Bernake, governatore della Banca Centrale USA al tempo del crac: “L’origine è indietro nel tempo, decenni di stagnazione dei salari, diseguaglianze …”.
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Il dibattito sul bilancio italiano e la questione della sovranità
di Jacques Sapir
Dopo lo straordinario successo dell’edizione 2018 del convegno annuale organizzato dall’associazione Asimmetrie – quest’anno intitolato “Euro, mercati, democrazia – Sovrano sarà lei!” – tenuta a Montesilvano (Pescara) il 10 e 11 novembre scorsi, presentiamo la traduzione dell’intervento di Jacques Sapir, già direttore degli studi all’École des hautes études en science sociales di Parigi, direttore del Centre d’études des modes d’industrialisation e membro straniero dell’Accademia Russa delle Scienze. Il discorso ha aperto due intense giornate di conferenze e dibattiti, che hanno coinvolto ottocento spettatori in attento e partecipato ascolto di venti relatori tra economisti, giornalisti, politici e scrittori, italiani ed europei. E dimostra come la sovranità sia un elemento necessario, anche se non sufficiente, alla stessa democrazia
L’attuale crisi che oppone l’Italia e la Commissione europea sulla manovra di bilancio italiana, dopo la sua pubblicazione[1], apparentemente verte su alcune percentuali[2]. In realtà, si tratta della questione essenziale di sapere chi è legittimato a decidere del bilancio italiano: il governo, costituito dopo elezioni democratiche, o la Commissione e le sue varie appendici, che pretendono di imporre regole provenienti dai trattati?
Una questione che oggi è fondamentale: si governa in nome del popolo o in nome delle regole? Essa ha implicazioni evidenti: chi ha il potere di governare, il legislatore la cui legittimità deriva dalla sovranità democratica, o il giudice che governa nel nome di un diritto?
Dietro la questione della percentuale di deficit consentito o rifiutato al governo italiano non c’è solo la questione della fondatezza della decisione italiana[3], ma anche quella di sapere se l’Italia è ancora una nazione sovrana. Questo spiega perché il sostegno al governo italiano sia giunto da tutti i partiti per i quali la sovranità è uno dei fondamenti della politica, e in particolare da France Insoumise[4]. La questione della sovranità è quindi di centrale importanza in questo conflitto.
L’aspirazione alla sovranità dei popoli si esprime oggi in molti Paesi e in forme diverse. Eppure questa sovranità è messa in discussione dal comportamento delle istituzioni dell’Unione Europea. Ne sono una prova le dichiarazioni fatte da Jean-Claude Juncker in occasione delle elezioni greche del gennaio 2015 [5].
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Le esternalizzazioni: l’altro volto dell’austerità
di Arianna Tassinari
Per anni ci hanno raccontato che affidare ai privati i servizi pubblici razionalizzava spesa ed efficienza, in realtà si è abbassata la qualità e precarizzato il lavoro. Ma proprio nel Regno unito scopriamo che non sono processi irreversibili
Nell’assenza totale di dibattito pubblico, in Italia è sempre più alto il numero di servizi “pubblici” gestiti da attori privati ed erogati da lavoratori ingaggiati con condizioni e salari ai limiti dello sfruttamento. È la realtà dilagante delle esternalizzazioni: un processo strisciante ma sempre più pervasivo che, da vent’anni a questa parte, rende indefiniti i confini del settore pubblico nel nostro paese, creando una corsa al ribasso sul costo del lavoro, sui diritti dei lavoratori e sulla quantità e qualità dei servizi offerti.
Le esternalizzazioni in Italia
In generale, per “esternalizzazione” si intende il processo per cui attività e servizi precedentemente prodotti e distribuiti all’interno del perimetro di competenza delle Amministrazioni Pubbliche – sia centrali che locali, come scuole, università, Asl, enti locali –- vengono trasferiti “all’esterno”, ovvero ad imprese private. Seguendo la traccia solcata da precursori come gli Stati uniti e il Regno Unito, anche in Italia questo processo ha assunto negli ultimi vent’anni un rilievo sempre maggiore. Secondo le stime del rapporto Isfol (2011), nel periodo 2004-2009 la pubblica amministrazione in Italia era il quarto settore per il ricorso agli strumenti dell’esternalizzazione, dopo quello dei trasporti, dei servizi finanziari e delle telecomunicazioni – contando per un 17% del valore totale dei contratti nel settore dei servizi esternalizzati.
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Freud e i processi collettivi
di Elvio Fachinelli
In due trascrizioni del 1989 di interventi televisivi per la sede Rai Bolzano, Fachinelli si confronta con il Freud che tratta dei processi collettivi tramite l’analisi della psicologia delle masse e il concetto di totem. Nel primo caso, si mette in evidenza il problema del rito, nel secondo si mostra l’inevitabilità della dissidenza verso la figura paterna
Individuo, società, religione
Quello dei rapporti tra individuo e società è certamente un problema molto complesso, che ha travagliato generazioni di studiosi e di filosofi e che ha trovato anche Freud in una situazione di interrogazione aperta. Proprio perché così complesso, infatti, non si può pensare che in Freud vi sia una soluzione univoca, valida una volta per tutte. Direi che, da questo punto di vista, si può parlare di una doppia versione freudiana dei rapporti individuo-società. La prima – la più diretta e immediata – vede in pratica nella società l’estensione e l’amplificazione di una serie di problematiche che hanno radice all’interno dell’individuo. In altri termini, nella società ci troveremmo di fronte a una serie di problemi che grosso modo ricalcano le vicende individuali del soggetto, soprattutto quelle infantili.
C’è poi una seconda versione, che in fondo risulta abbastanza isolata all’interno dell’opera freudiana, ma che, a mio parere e a parere anche di altri, è il punto forse più interessante della elaborazione di Freud. Si tratta di una tesi contenuta in Psicologia delle masse e analisi dell’Io, un testo del 1921 in cui appare fondamentale la presenza dell’altro – l’altro inteso appunto come gli altri individui – all’interno del soggetto stesso, e ciò attraverso dei legami d’identificazione. Freud muove da un esame comparato del comportamento delle folle – delle masse potremmo dire oggi – e dei fenomeni dell’innamoramento e dell’ipnosi, trovando in atto, in tutti e tre i casi, un processo di sottomissione al volere dell’altro: il problema della società si configura così non come una semplice amplificazione dei problemi del soggetto individuale, ma in un certo senso come una situazione di mescolanza, se non di capovolgimento, in cui il soggetto individuale è già intrinsecamente, all’origine, connesso al suo gruppo sociale, alle sue appartenenze esterne.
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Perché Varoufakis non è la soluzione ma parte del problema
di Paolo Gerbaudo
Dopo aver incontrato Corbyn, il leader di Diem25 si appresta a vedere Sanders per lanciare un'internazionale progressista che si contrapponga ai populismi di destra. L'iniziativa, che a prima vista sembra condivisibile, è velleitaria, senza radici e controproducente. Impossibile riformare l'esistente su base cosmopolita, meglio la proposta di rottura con l'UE teorizzata da Melenchon
Una grande internazionale progressista, dagli Stati Uniti all’India, passando per la Gran Bretagna e l’Italia. Questa la proposta altisonante lanciata nelle ultime settimane dall’ex ministro delle finanze greco durante il governo Tsipras Yanis Varoufakis. Una proposta che vuole controbattere a quell’Internazionale Nazionalista che Steve Bannon, l’ideologo di Donald Trump, ha messo in moto negli ultimi mesi e che si potrebbe concretizzare alle elezioni europee con un trionfo dell’estrema destra: da Marine Le Pen, e Viktor Orban alla Lega di Matteo Salvini. Quella di Varoufakis è un’iniziativa che a prima vista sembra condivisibile, anche visti gli indubbi meriti del carismatico politico greco nel costruirsi una nicchia nel dibattito mediatico, e nello svelare i meccanismi perversi della governance europea in diversi suoi libri di successo. Tuttavia questa proposta è la manifestazione più lampante dei limiti di Varoufakis e della sua avventura politica: un vero e proprio condensato di quello che la sinistra non dovrebbe fare per rispondere all’avanzata dei Trump di tutto il mondo.
L’appello lanciato dalle pagine del quotidiano britannico di area liberal The Guardian e poi diffuso da varie testate internazionali, tra cui il manifesto in Italia, vuol inserirsi in una fase storica che sembra incupirsi giorno dopo giorno, con l’ondata del populismo di destra che sta trionfando in diversi paesi, per ultimo in Brasile, con l’elezione del neofascista Jair Bolsonaro, che promette minacciosamente di “fare pulizia” della sinistra e dei movimenti popolari. Contro questi macabri figuri che approfittano della crisi della globalizzazione per dare linfa ad una agenda smaccatamente reazionaria, l’idea di Varoufakis è chiara: prendere la direzione opposta e rivendicare un internazionalismo cosmopolita, che vada all’attacco della xenofobia e dello sciovinismo che sembrano dominare il discorso politico.
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Deficit strutturale italiano: una questione di stime
di Davide Cassese
La Commissione europea ha bocciato la manovra italiana perché considera il deficit troppo alto, ma si tratta di giudizi frutto di stime contestatissime nel mondo scientifico che però, di fatto, ostacolano qualunque politica di crescita per il Paese
Da qualche settimana va avanti lo scambio di battute tra l’esecutivo italiano e la Commissione Europea sul contenuto della Manovra economica. La Commissione ha respinto la manovra, rimandandola indietro al governo perché ne rivedesse la sostanza, in quanto manifesta una deviazione significativa dai parametri del Patto di Stabilità e crescita e un allontanamento dal percorso di aggiustamento dei conti pubblici.
Secondo la Commissione il maggiore deficit indicato nella NADEF 2018 dal governo rispetto al deficit tendenziale, diversamente da quanto prevede il governo, non apporterà benefici alla crescita e non contribuirà a ridurre il rapporto debito/PIL secondo quanto stabilito dai Trattati.
Nello specifico, la lettera della Commissione indica che a fronte dello sforzo strutturale dello 0.6% del PIL raccomandato dalla Commissione, il governo italiano presenta un deterioramento strutturale pari allo 0.8% del PIL. Tutto ciò rappresenta una deviazione dal rispetto del Patto di Stabilità e crescita senza eguali nella storia.
Il deficit strutturale e il PIL potenziale
Il termine “strutturale” accoppiato alla parola “deficit” identifica una specifica fattispecie: la differenza tra le entrate e le spese dello Stato al netto delle circostanze cicliche (peggioramento della congiuntura) e delle misure una tantum (misure imprevedibili come catastrofi naturali o emergenze sociali come l’immigrazione). Il deficit strutturale, dunque, rappresenterebbe la condizione dei conti pubblici di un Paese in corrispondenza del PIL potenziale, vale a dire in corrispondenza di una situazione in cui l’economia riesce ad impiegare tutte le risorse di cui dispone – lavoro e capitale – senza generare pressioni inflazionistiche. Per l’Italia, che è un Paese con elevato debito pubblico, le regole europee prescrivono un deficit strutturale pari a zero.
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Il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza alla luce della fase politica
Tra DEF, commissione Europea e propaganda
di Noi Restiamo
Il decreto-legge 113 del 2018, meglio noto come decreto Salvini, è diventato uno dei nodi centrali del dibattito politico nell’ultimo mese e mezzo. Per la Lega, oltre che per il social media manager di Matteo Salvini, è diventato un baluardo identitario estremamente importante attorno a cui continuare ad agglomerare sostegno e costruire consenso elettorale – anche a fronte delle difficoltà di reperire coperture finanziare alla flat tax nella legge di stabilità, un altro dei temi agitati con più forza in campagna elettorale e che aveva perso terreno nel discorso pubblico in termini di credibilità. La sua natura liberticida, razzista e repressiva merita ai nostri occhi un approfondimento che sia in grado di dare una lettura politica a quegli aspetti che sembrano più “neutralmente” tecnici.
Purtroppo, molte volte si è avuto prova del fatto che la politica non è attenta alla tenuta costituzionale delle leggi ma al mantenimento dello status quo, che siano poltrone, come per i grillini, o che sia la ben più pesante tenuta della compatibilità europea, come è stato per Mattarella.
L’insussistenza dei requisiti di straordinaria necessità e urgenza per l’emanazione di un decreto-legge (ex art. 77 Cost.) – format di produzione normativa che spesso è servito ad aggirare le lungaggini e i rischi di rallentamento che caratterizzano i lavori parlamentari –;
l’eliminazione del permesso di soggiorno umanitario, senza introdurre istituti che coprano completamente lo spazio lasciato vuoto, che comporta un peggioramento delle condizioni di vita dei titolari dei nuovi permessi speciali, limitando la possibilità di accedere al Servizio Sanitario Nazionale (ledendo il diritto alla salute, art. 32 Cost.) ed, essendo notevolmente più brevi (invece che i vecchi 2 anni, ora saranno di 6 mesi o massimo 1 anno), ostacolando l’accesso alle prestazioni di assistenza sociale o agli alloggi di edilizia residenziale pubblica1;
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Psicanalisi e politica
di Lea Melandri
Melandri rilegge sotto il segno della continuità la traiettoria teorica e la pratica politica ed analitica di Elvio Fachinelli che dal ’68, passando per l’apertura dell’asilo di Porta Ticinese fino all’89, aveva lottato per mettere al centro il desiderio. La sua ricerca “bio-psico-sociologica” si propone di rovesciare sia i rapporti di classe che i rapporti familiari, mostrando l’inseparabilità di una trasformazione che riguardi sia il privato che il politico
L’originalità del pensiero e della pratica di Elvio Fachinelli sta nell’intreccio tra politica e psicanalisi, come ricerca di “nessi” tra poli tradizionalmente contrapposti, resa possibile dall’aver inteso la politica nel senso marxiano di “politica radicale” – capace di andare alle radici dell’umano –, e la psicanalisi come pratica disposta ad andare “oltre” la «segregazione di un rapporto duale».
A monte, come diceva egli stesso, stava per un verso la «passione per il preistorico», ereditata da Freud, che lo portava a cercare in un lontano passato sia le ragioni della “rovinosa dialettica” che ha diviso e contrapposto biologia e storia, corpo e pensiero, individuo e società, sia i segnali di insospettate potenzialità antropologiche, e per l’altro, la sua “curiosità spinta” per tutto ciò che avveniva intorno a lui.
A fare da cerniera è il tempo:
«Sono sempre stato diviso tra l’interesse per ciò che mi passa accanto in un preciso momento e un uso più profondo, più personale e intenso del tempo. Vorrei dire quasi un uso solitario». [1]
In realtà una divisione netta, nella sua ricerca teorica e pratica, non c’è mai stata. Anche in quel pieno di «nuovi paesaggi», quale è stata la «stagione breve, intensa, esclusiva» del ’68, Fachinelli non ha mai smesso di guardare in profondità, come dimostrano gli scritti nati dalla sua presenza nelle università occupate, a Trento e a Milano – Il desiderio dissidente (febbraio ’68), Gruppo chiuso o gruppo aperto?” (novembre ’68) –, e quelli che vi hanno fatto seguito: Che cosa chiede Edipo alla Sfinge, Il paradosso della ripetizione, forse il suo saggio più importante, nato dalla riflessione sulle ragioni profonde che avevano visto un movimento antiautoritario, fluido e creativo ripiegare su frazionamenti, formazioni rigide, di stampo partitico: le «fortezze nel deserto».
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La UE e la BRI: un rapporto complicato
Troubles down the Road
di Vladimiro Giacché
Relazione al V Forum Europeo sulla via cinese: “L’approccio cinese e lo sviluppo europeo in una nuova era” (Academy of Marxism, Chinese Academy of Social Sciences – Associazione Marx XXI – Fondazione Gramsci Emilia Romagna – Istituto Confucio, Bologna – Edizioni MarxVentuno), Bologna, 14 ottobre 2018
1. Considerazioni introduttive
Nel corso del III forum Italia-Cina, svoltosi a Roma 2 anni fa, avevo messo in luce alcune contraddizioni nel rapporto UE-Cina. [1] Queste contraddizioni derivavano a mio giudizio da tre fattori principali:
1) la natura in sé complessa delle relazioni economiche (mai soltanto economiche, ma sempre intrecciate a obiettivi politici e geopolitici, e comunque determinate dalla formazione sociale prevalente e dalla gerarchia di interessi conseguente);
2) la natura specifica dell’UE (non un’unione politica, ma tutt’altro che monolitica anche da un punto di vista economico; anzi, afflitta da una contraddizione specifica: il fatto cioè che proprio l’integrazione monetaria ha accentuato - per meccanismi sui quali esiste ormai abbondante letteratura - le differenziazioni interne e anzi la vera e propria divergenza economica tra gli Stati che ne fanno parte);
3) infine, il fatto che gli interessi dei diversi Stati dell’Unione non riescono a trovare una composizione armoniosa all’interno dell’UE.
Ritengo che da allora queste contraddizioni si siano aggravate e si stiano oggi ripercuotendo sugli accordi commerciali, sull’atteggiamento da tenere nei confronti degli investimenti diretti esteri (IDE) cinesi in Europa e anche nei confronti della Nuova Via della Seta (Belt and Road Initiative, BRI).
2. L’UE e la BRI: un atteggiamento poco costruttivo
A quest’ultimo riguardo sta sempre più emergendo un atteggiamento che vede nella BRI un progetto non da condividere, ma da ostacolare. Si è passati da uno “scetticismo passivo” [2] a qualcosa di peggio.
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Un laboratorio di scrittura, un libro sovversivo*
di Leonardo Casalino
Luca Rastello, Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime, a cura di Monica Bardi, pp. 320, € 16,90, Chiarelettere, Milano 2018
Due temi percorrono le pagine di questo libro. Il primo è quello legato alle cose “penultime”: per Luca Rastello rappresentano “un tratto quasi terminale della corsa – quando l’inizio è dimenticato e la fine è certa e verosimilmente prossima, ma non ancora arrivata – che viene rischiarato da una sorprendente lucidità, come da una luce più forte”. È la sola parte dell’universo che può essere raccontata, come ci aveva spiegato in ‘Undici buone ragioni per una pausa’, edito nel 2009 per i tipi della Bollati Boringhieri.
Il secondo è il tema del “prendere tempo”, del narrare come strumento per rimandare la morte. In una bella conferenza tenuta a Milano nell’autunno 2014 Luca Rastello, partendo dal ‘Tristam Shandy’ di Sterne, aveva offerto un esempio raffinato e intelligente di letteratura comparata mettendone in relazione le pagine con Proust, Carlo Levi, Hašek, ‘Le Mille e una notte’ e Virgilio.
Prendere tempo, dunque, per prolungare le cose penultime. Nel leggere i testi di Dopodomani non ci sarà, ritrovati in un file del computer dopo la morte e pubblicati postumi, è però difficile sottrarsi all’impressione di trovarsi di fronte alle “ultime” pagine di Rastello. Come riuscire, allora, ad attribuire loro una natura di “penultime”, in modo da poter prolungare il dialogo con la voce e le parole del loro autore? Ho provato a farlo mettendo in relazione il libro con le recensioni – ancora non raccolte in volume – che Luca Rastello pubblicò sulla rivista L’Indice dei Libri del Mese nel corso degli anni Ottanta; un decennio, quest’ultimo, su cui non disponiamo di un suo testo narrativo o giornalistico.
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