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Rileggendo Victor Serge
di Militant
Ha ancora senso rileggere le Memorie di Victor Serge? Intesa seriamente, è una domanda che pone più di un problema. Il militante politico di questi anni, non necessariamente giovane ma già fuori dalla storia del Novecento (lontano non tanto anagraficamente, quanto soprattutto intellettivamente), leggerebbe senza difficoltà e con ammirazione le straordinarie esperienze politiche dell’autore, si entusiasmerebbe del suo spirito critico, e al tempo stesso sarebbe naturalmente portato a disprezzare la macchina repressiva del socialismo realizzato. Troverebbe conferma della sua tensione anti-totalitaria, scoprirebbe quelle parole, quelle idee di fuoco e al tempo stesso accorte, che confermerebbero la sua rottura ideale con il comunismo, col maledetto XX secolo di guerre e dittature, di sinistra e di destra. Se si è alla ricerca di uno strumento che agiti le coscienze inquiete segnate dalla precarietà e dallo straniamento post-moderno, Victor Serge ha una funzione liberatoria e profetica. Questa lettura mancherebbe però di gran lunga la comprensione effettiva del suo testamento biografico. Dovremo allora chiederci: serve al giorno d’oggi un libro che ci racconti l’orrore del Novecento? Di un testo che, per quanto sopraffino, non farebbe che confermare l’ideologia media dominante, che relega i «totalitarismi» dello scorso secolo a tragico e inevitabile destino di ogni critica della democrazia liberale? No, non serve. Se siamo solo alla ricerca di conferme sull’orrore del comunismo leggiamo pure estasiati Victor Serge. Non ne comprenderemo che una patina ordinaria e volgarizzata, ad uso e consumo del post-moderno, della democrazia liberale, dello status quo, dell’esodo. Victor Serge, per quanto corresponsabile, non merita una fine simile. Se invece siamo alla ricerca dei motivi originari del comunismo – inteso come movimento rivoluzionario per come effettivamente ha preso forma e si è organizzato, attorno a quali idee e a quali battaglie ideologiche – le Memorie di Serge possiedono ancora un valore tutt’altro che superato. Ma che va disincrostato, per così dire.
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Marx reso attuale dal liberalismo
di Federico Repetto
1. Con la crisi globale si ritorna a parlare di Marx, ma in francese, tedesco, spagnolo e inglese più che in lingua italiana
Se su Worldcat.org, il catalogo mondiale delle biblioteche, si cercano opere con le lettere “marx” nel titolo e anche come parola chiave, si può constatare che il decennio 2007-2016, segnato dalla crisi globale, segna un netto ritorno del grande scienziato rivoluzionario rispetto al decennio precedente. Un fenomeno del genere si era già prodotto nel periodo 1966-1977 in confronto a quello 1956-1967. Anche quegli anni furono tra l’altro anni di crisi economica, ma la memoria collettiva ne ricorda soprattutto i movimenti politici e culturali. Dopo di allora diverse grandi trasformazioni sia nel mondo anglofono -e in particolare angloamericano- sia in quello italiano hanno messo da parte Marx: Reagan e Berlusconi, le mutazioni della TV, i nuovi stili di vita, Internet, i social, la disintermediazione generalizzata...
Se usiamo questo incerto indicatore come segnale dell’autonomia della cultura dal pensiero unico e dall’egemonia neoliberale, notiamo che quella di lingua italiana, dopo la generale caduta di interesse per Marx degli ultimi decenni, in quello più recente non riesce più nemmeno a eguagliare il dato del 1967-1976, superato invece nelle altre lingue. Forse essa si è particolarmente piegata al vento dell’”innovazione”, che secondo Matteo Renzi sarebbe l’essenza stessa della sinistra.
Monografie, articoli, file, filmati, ecc. in possesso di biblioteche con la parola Marx nel titolo e con Marx come parola chiave nel catalogo delle biblioteche mondiali (worldcat.org)
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Tanto tuonò che non piovve
Perché i mercati sorridono al Governo nonostante la ‘bocciatura’
di coniarerivolta
La bocciatura della manovra, o per meglio dire il rinvio della Commissione europea, potrebbe far pensare a un Governo in rotta con Bruxelles e, più in generale, con il Fondo Monetario Internazionale e con i mercati, a un’Italia con un piede fuori dall’Europa, con le agenzie di rating pronte a trasformare il debito pubblico italiano in spazzatura. Si potrebbe avere l’impressione che nubi nere si stiano addensando sull’Italia, preannunciando tempesta. La realtà è ben diversa. Per capirlo, bisogna andare oltre le dichiarazioni roboanti dei buffi soggetti coinvolti e l’altalena dello spread, e cogliere gli aspetti politici di fondo che muovono il Governo, da un lato, e le istituzioni europee dall’altro.
Questo Governo ha regolarmente dimostrato di non avere alcuna reale volontà di rottura dell’equilibrio europeo: dopo aver raccolto il voto di protesta contro l’Europa, ha sapientemente evitato di tradurlo in una radicale discontinuità con la disciplina europea. Sapientemente perché Salvini e Di Maio vogliono solamente gestire l’austerità al posto della precedente classe dirigente. Prova ne è la manovra finanziaria disegnata dai giallo-verdi: al di là degli strepiti della Commissione Europea, si tratta di una manovra in avanzo primario che sottrae risorse all’economia, indebolendo la domanda interna, la produzione e l’occupazione. Il Governo, fin dalla sua gestazione, non perde occasione per dimostrare la sua subalternità al paradigma dell’austerità. Avevano pensato ad un Ministro dell’Economia a parole molto critico verso la leadership tedesca che guida l’Europa, il temutissimo Savona, ma sono bastati pochi colpi di spread per convincerli a ripiegare su un grigio tecnico posto a garanzia dei conti. Avevano proposto una deviazione di tre anni dal percorso di rientro dal debito che veniva richiesto da Bruxelles, con la previsione di disavanzi continui del 2,4% dal 2019 al 2021; di nuovo, sono bastate poche bacchettate della burocrazia europea per convincerli a contenere la deviazione al solo 2019, ed imporre dal 2020 il vecchio percorso di contrazione del debito, che significa dosi crescenti di austerità, lacrime e sangue.
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Falso ideologico su "quota 100"
I conti fasulli sulle pensioni del sig. Boeri Tito
di Leonardo Mazzei
Le uscite di Tito Boeri non si contano. "Uscite" nel senso più ampio del termine, dato che la sua principale attività non consiste nella gestione dell'Inps, come dovrebbe essere, ma nel mettere becco su ogni questione politica di pertinenza del parlamento. Essendo un uomo delle èlite per nascita, studi e collocazione ideologica, Boeri si permette da anni esternazioni di ogni tipo. Figuriamoci adesso, con il governo gialloverde che gli mette in pericolo il sacro dogma della Legge Fornero!
Nessuno stupore, dunque. Tanto più che lo strabordamento dal ruolo istituzionale di presidente dell'Inps è stato già consentito in passato al suo predecessore, l'indecente Antonio Mastrapasqua (2008-2014). Nessuno stupore, perché ci stiamo occupando dello stesso Boeri che il 19 luglio scorso è andato a sostenere alla Camera che il cosiddetto "Decreto Dignità" avrebbe provocato la perdita di 8mila posti di lavoro all'anno... Nessuno stupore, perché è evidente che il Boeri non è certo un tecnico super partes, bensì uno dei leader di fatto dell'opposizione sistemica al governo Conte. Nessuno stupore, ma davvero non se ne può più di esternazioni fondate su una presunta "autorità", certificata da media servili che mai vanno a scavare sull'attendibilità delle sparate di questo signore.
Dobbiamo dunque occuparcene, anche perché tante sono le bufale diffuse ad arte sul tema, tante le sciocchezze che circolano sia sulla stampa che sul web. E quasi tutte queste autentiche fake news hanno proprio come fonte primaria le apodittiche affermazioni del Boeri. Per farla breve, mettiamo a fuoco tre aspetti di quanto va dicendo il presidente dell'Inps: le sue contraddizioni, i suoi calcoli, le sue insinuazioni.
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Dal sindacalismo collaborazionista ad un sindacalismo di classe
Alcune riflessioni
di Eros Barone
Lo sviluppo normale del sindacato è segnato da una linea di decadenza dello spirito rivoluzionario delle masse: aumenta la forza materiale, illanguidisce o svanisce del tutto lo spirito di conquista, si fiacca lo slancio vitale, all’intransigenza eroica succede la pratica dell’opportunismo…L’incremento quantitativo determina un impoverimento qualitativo e un facile accomodarsi nelle forme sociali capitalistiche, determina il sorgere di una psicologia operaia pidocchiosa, angusta, di piccola e media borghesia...Il sindacalismo si è rivelato nient’altro che una forma della società capitalistica, non un potenziale superamento della società capitalistica. Esso organizza gli operai non come produttori, ma come salariati, cioè come creature del regime capitalistico di proprietà privata, come venditori della merce lavoro. Il sindacalismo unisce gli operai…a seconda della forma che loro imprime il regime capitalista, il regime dell’individualismo economico.
Antonio Gramsci, «L’Ordine Nuovo», 8 novembre 1919.
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Il documento della maggioranza: il gergo di un ceto privilegiato e autoreferenziale
In questo periodo la CGIL sta tenendo le assemblee di base in vista dello svolgimento del XVIII congresso nazionale, che si terrà a Bari dal 22 al 25 gennaio 2019. I documenti presentati sono due: quello della maggioranza, intitolato “Il lavoro È”, e quello della minoranza, intitolato “Riconquistiamo tutto!”.
Orbene, fin dalle prime pagine il documento della maggioranza si configura come un tipico prodotto di quel linguaggio ‘sindacalese’ ‘politicamente corretto’ che, come osserva Stalin in un suo acuto scritto dedicato alla linguistica, impedisce la corretta comunicazione: «Basta soltanto che la lingua si allontani da questa posizione nei confronti dell'intera nazione, basta soltanto che la lingua si metta su una posizione di predilezione e di sostegno di un qualsiasi gruppo sociale a detrimento degli altri gruppi sociali della società, perché essa perda la propria qualità, cessi di essere mezzo di comunicazione tra gli uomini in seno alla società, si trasformi in gergo di un qualsiasi gruppo sociale, degradandosì e condannando se stessa al dileguamento».
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L’Unione Europea è un’opportunità o una gabbia?
Intervista al prof. Francesco Petrini
A ridosso della manifestazione del 20 ottobre per rivendicare la nazionalizzazione dei settori strategici dell’economia, consideriamo utile pubblicare un’intervista inedita da noi realizzata questa estate a Francesco Petrini, professore presso il Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali dell’Università di Padova.
Oggetto della chiacchierata erano stati la genesi e lo sviluppo delle istituzioni dell’Unione Europea. Una battuta su tutte: gli organismi comunitari vedevano la luce mentre contemporaneamente in Italia si stava per animare il dibattito che alla fine del 1962 avrebbe visto la nazionalizzazione dell’energia elettrica, e già allora la Cee ebbe un ruolo nel fornire a Confindustria argomentazioni favorevoli a osteggiare questo risultato. Cinquanta e più anni dopo, siamo qui a raccogliere i cocci delle reti infrastrutturali nazionali privatizzate sotto la spinta della consolidata architettura comunitaria, e come giovani continuiamo a essere il target prescelto per una propaganda ormai già stantia secondo cui le privatizzazioni dovrebbero essere l’orizzonte di un futuro desiderabile. Sappiamo invece il danno che hanno provocato in questi decenni, e come l’infiltrazione dei meccanismi ordoliberali all’interno dell’amministrazione statale abbia condizionato anche istituzioni ancora formalmente in mano al controllo pubblico: il caso emblematico del mondo della formazione e della ricerca, ancora pubblico ma sempre più rivolto agli interessi del mercato, ci permette di parlare di una eterogenesi dei fini in cui la semplice rivendicazione di maggiori investimenti pubblici nel settore, tanto cara alla sinistra, risulta una lancia spuntata quando non porta addirittura acqua al mulino dei sostenitori della costruzione di pochi modelli di eccellenza. Nazionalizzare quindi significa invertire questa rotta mettendo un bastone negli ingranaggi delle macine che ci stanno tritando, riportare al centro gli interessi del pubblico con un cambio di prospettiva sistemico che va ben aldilà della mera titolarità sulla proprietà delle reti, dei beni e dei mezzi.
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Crisi parallele
Intervista a György Lukács
In «L’utopia concreta. Rivista quadrimestrale», I, n. 1, ottobre 1993 [da «New Left Review», n°60, marzo – aprile 1970]
Compagno Lukács, come giudica la sua vita e l’epoca storica in cui ha vissuto? In cinquantanni di lavoro scientifico e rivoluzionario ha avuto la sua parte di onori e di umiliazioni. Sappiamo anche che è stato in pericolo dopo l’arresto di Béla Kun nel 1937. Se dovesse scrivere un’autobiografia o delle memorie personali, quale lezione fondamentale ne trarrebbe?
Per rispondere brevemente, direi che è stata una mia grande fortuna aver vissuto una vita intensa e densa di avvenimenti. Lo considero come un particolare privilegio di cui ho avuto esperienza negli anni 1917/1919. Poiché provenivo da un ambiente borghese – mio padre era un banchiere di Budapest – e pur attuando un’opposizione piuttosto individuale in «Nyugat»1 – facevo parte tuttavia dell’opposizione borghese.
Non arriverei a dire – non potrei – che il puro e semplice impatto della prima guerra mondiale sarebbe stato sufficiente a fare di me un socialista. Fu senza dubbio la Rivoluzione russa e i movimenti rivoluzionari che ne seguirono in Ungheria che mi spinsero a diventarlo, e a ciò sono rimasto fedele. Ritengo che questo sia uno degli aspetti più positivi della mia vita. È un’altra questione se, oppure no, essa, nel suo insieme, abbia subito degli alti e bassi, in qualsiasi direzione, si può dire però che abbia avuto una certa unità. Guardando indietro, posso individuare le due tendenze che hanno prevalso lungo tutto l’arco della mia esistenza: in primo luogo, esprimere me stesso, poi, essere al servizio del movimento socialista – così come io l’ho inteso in ogni momento. Queste due tendenze non si sono mai disgiunte, né sono mai stato assillato da un qualche conflitto tra di esse.
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Chiuso per fallimento (e lutto)
Il “laboratorio” politico latinoamericano quindici anni dopo
di Daniele Benzi 1
Defeat is a hard experience to master: the temptation is always to sublimate it.
Perry Anderson, Spectrum
La vittoria elettorale di un fascista nel più grande e popoloso paese dell’America latina, un ex capitano omofobo, sessista e razzista, appoggiato dall’esercito, dalle chiese evangeliche, dai proprietari terrieri e adesso anche dal capitale finanziario, che ha già ricevuto quasi 50 milioni di voti al primo turno, sarebbe un ulteriore passo verso l’abisso in Brasile.
La trasfigurazione di un mai ben chiarito “socialismo del XXI secolo” in una cleptocrazia pretoriana in Venezuela, paese ormai sull’orlo del collasso e che rischia seriamente un’invasione e/o una guerra civile qualora certe trame geopolitiche, sociali o finanziarie fuori controllo del governo la rendessero conveniente (o necessaria), è una tragedia per chi ha accompagnato, criticamente, l’evoluzione del processo bolivariano.
Comunque vadano le cose, però, in questi e in altri paesi (Nicaragua in primis), il peggio per le sinistre purtroppo è già accaduto. Il “laboratorio” politico latinoamericano che le aveva ridato fiato, fiducia e speranze non è temporaneamente chiuso per ferie, ma per fallimento. E lutto. Rivelando, fra le altre cose, che almeno per ora un altro mondo non è possibile. Forse solo alcune esperienze locali lo sono, importantissime, ma pur sempre locali, come il neo-zapatismo messicano, difficilmente riproducibili, difficilmente esportabili, difficilmente comprensibili al di fuori del loro contesto, e che si inceppano non appena oltrepassano la soglia di casa.
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Il grande business del debito italiano
di Andrea Fumagalli
Fa scandalo la richiesta del governo italiano di portare il rapporto deficit/pil al 2,4% e così si alimenta una campagna mediatica – a destra come a sinistra – che ha in realtà il vero obiettivo di spianare la strada alla speculazione finanziaria. In base ai nudi dati economici, l’Italia non è affatto a rischio di insolvenza. All’elevato debito pubblico, infatti, fa da contraltare uno dei più bassi valori del debito delle famiglie e delle imprese. Se poi aggiungiamo il surplus commerciale (che è superiore allo stesso deficit pubblico del 2,4%), l’allarme lanciato è solo giustificabile sul piano politico e ideologico e non economico.
Dovrebbe invece fare scandalo che negli ultimi 25 anni sono state promosse politiche fiscali che hanno ridotto le imposte per le società di capitale e le aliquote sui redditi più alti, aumentato le aliquote sui redditi più bassi, ridotto fortemente la progressività, a vantaggio della rendita finanziarie e dei più ricchi, Tali misure hanno sottratto ingenti risorse al bilancio dello stato favorendo, insieme alla spese per interessi, l’aumento del debito pubblico.
Dovrebbe fare ancor più scandalo che a fronte di questa situazione, uno dei cavalli di battaglia di questo governo, sia la “flat tax”.
* * * *
Due sono le principali accuse che la troika economica e le agenzie di rating (entrambe espressione degli interessi dell’oligarchia finanziaria internazionale) rivolgono alla proposta di legge di stabilità del governo italiano.
La prima ha a che fare con la scelta di portare al 2,4% il rapporto deficit/Pil, ben sopra al limite (1,6%) ufficiosamente pattuito dalle precedenti leggi di stabilità dei governi Renzi-Gentiloni (che, a fine 2017, è arrivato al 2,3% nel silenzio generale) ma ben al di sotto del limite ufficiale sancito dagli accordi del 1997 che è pari al 3%.
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Marxisti cinesi e italiani a confronto
di Alessandro Pascale
Il movimento comunista italiano dovrebbe riflettere profondamente sulla necessità di approfondire la questione cinese, la quale rimane oggetto di mistero o di repulsione per molti comunisti italiani che, accettando il giudizio liquidatorio del marxismo occidentale, rischiano di stare dalla parte sbagliata della barricata
Domenica 14 ottobre si è tenuto a Bologna il “V forum europeo sulla via cinese”. Promosso dall’Accademia di Marxismo presso l'Accademia delle Scienze Sociali della Repubblica Popolare Cinese e dall’Associazione Marx21, il seminario ha visto la partecipazione anche della Fondazione Gramsci Emilia Romagna e dell’Istituto Confucio dell’Università di Bologna, configurandosi come un fondamentale momento di confronto tra i marxisti italiani e alcuni dei più prestigiosi esponenti del think tank cinese, giunto alla terza tappa europea dopo aver tenuto conferenze in Portogallo e Spagna.
Davanti ad una sala gremita (250 persone presenti, molte richieste di partecipazione respinte per insufficienza di posti disponibili) hanno portato i propri saluti e svolto interventi di alto livello anche accademici italiani non prettamente marxisti, oltre a rappresentanti del PCI e del PRC. Assenti invece delegazioni ufficiali di PaP e PC. Il seminario si è strutturato in quattro sessioni, precedute dai saluti di apertura. Vista l'eccezionalità dell'evento, pare utile offrire di seguito un breve sunto di ogni intervento.
Saluti di apertura
Ad aprire gli interventi è stato Deng Chundong, presidente dell'Accademia del marxismo e “capo” della spedizione cinese, che ha motivato la partecipazione all'incontro e più in generale la politica attuale cinese così: “l'obiettivo è contribuire al progresso dell'Europa”.
Yang Han, direttore dell'Ufficio stampa dell'Ambasciata della Repubblica Popolare Cinese in Italia, ha ribadito che “la Cina non chiederà agli altri Paesi di copiare il suo sistema”, vantando poi i successi della via cinese al socialismo: “il 30% della crescita mondiale, per molti anni consecutivi, è merito della Cina”. Una crescita resa possibile grazie alla politica di “apertura” e “liberalizzazione” nella “globalizzazione” attuale. Han ha criticato gli impulsi crescenti al “protezionismo” che stanno prendendo piede in Occidente di fronte ad una globalizzazione sempre più egemonizzata dalla Cina, proponendo piuttosto la necessità di una “riforma del sistema della governance mondiale”.
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Dieci ragioni contro il cosmopolitismo
di Moreno Pasquinelli
Dobbiamo occuparci di Carlo Rovelli, fisico teorico e blasonato divulgatore scientifico — in gioventù, come molti, militante d'estrema sinistra. [1] Ma non è di filosofia della scienza che vogliamo parlare bensì di filosofia della storia, quindi politica. Parliamo di un articolo pubblicato per l'inglese The guardian, e che il CORRIERE DELLA SERA ha pubblicato il 31 luglio scorso dandogli un grande risalto. Il titolo è programmatico e apodittico: L'UNICA NAZIONE È L'UMANITÀ. Un trattatello in quattro teoremi nel quale egli ricapitola in modo esemplare la visione cosmopolitica dell'ultima borghesia.
Primo teorema
«Politiche nazionaliste o sovraniste stanno dilagando nel mondo, aumentando tensioni, seminando conflitti, minacciando tutti e ciascuno di noi. Il mio Paese è appena ricaduto preda di questa insensatezza».
In poche righe tre proposizioni.
(1) La prima proposizione è che l'Europa avrebbe conosciuto un cinquantennio di pace grazie al processo che è sfociato nella nascita dell'Unione europea. In verità l'assenza di conflitti — il nostro non prende nemmeno in considerazione quelli sociali e di classe — è stata dovuta all'equilibrio del terrore tra le due superpotenze (USA e URSS), e quindi al fatto che l'Europa occidentale è stata incapsulata nella NATO (che è la piattaforma su cui è nata la Comunità europea prima e la Ue poi).
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A sinistra: da dove ripartire?
Virgilio Carrara Sutour intervista Carlo Galli
Professor Galli, parlando della distanza della sinistra e del centro-sinistra dall’elettorato che vorrebbero rappresentare, del loro eterno dividersi e della conseguente incapacità a reagire a forze che si accaparrano elementi del loro discorso, da dove possiamo partire per ricercare le cause di questa condizione?
Il fatto di parlare, allo stesso titolo, di ‘sinistra’ e di ‘centro-sinistra’ costituisce in sé un indice di indeterminatezza su ciò che oggi la sinistra è.
Con ogni evidenza, il centro-sinistra si è posto come architrave dell’attuale sistema socio-politico ed economico. Ciò ha funzionato finché il sistema ha avuto un minimo di capacità produttiva, di ordine e benessere. Quando il sistema, nel 2008, è andato in crisi (benché le ragioni della crisi siano insite nella sua stessa natura), la politica italiana è stata sospesa: abbiamo avuto governi tecnici sorretti in Parlamento quasi da tutta l’Assemblea. In seguito, abbiamo avuto un centrosinistra – la fase renziana – che ha promosso una serie di riforme funzionali a un assetto tutt’altro che ‘di sinistra’.
Ossia?
Allo scopo di rendere il sistema sociale ed economico più funzionante, conservandone tutte le contraddizioni interne, alcune riforme sono state fatte (il ‘Jobs Act’, la ‘Buona Scuola’); altre sono fallite: la Costituzione. Di fatto, il centro-sinistra non ha saputo – questo è il punto – individuare e, men che mai, correggere le contraddizioni del sistema, che produce più disagio che benessere, più povertà che ricchezza. Inoltre, quando produce ricchezza, non la distribuisce equamente. Il sistema genera disuguaglianza crescente e priva i cittadini, soprattutto i giovani, di un ragionevole futuro.
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La pagliuzza e la trave
L'informazione, Di Maio, Calabresi
di Fulvio Grimaldi
Libertà come sei invecchiata, quando passi non ti riconosco più!
Sì, viaggiare (fuori, dentro, con e contro i media)
Nel primo tempo, quello del Vaffa, i 5 Stelle si astennero dal mescolarsi tra le anime morte, ma esuberantemente ciarliere, dell’informazione-comunicazione-intrattenimento-rintronamento, specie televisivi. Fecero bene a tirare un frego tra loro, che parlavano alla gente nelle piazze e in rete (ahimè solo per chi la frequentava), e coloro che le arrangiavano attraverso i canali consolidati del totalitarismo comunicativo. Nel secondo tempo, maturati, iniziarono a mescolarsi, con un certo occhio alla selezione. E fecero bene, giacchè ovunque apparissero e con chi, disintegravano l’interlocutore. Nei supplementari, oggi, si mescolano con chiunque, vanno dappertutto, anche da Barbara D’Urso. E non so se fanno bene, anche Renzi l’aveva fatto, davanti alle stesse ginocchia nude, d’attrazione e distrazione (che poi se uno le toccasse finirebbe alla garrota) della stessa intervistatrice, celebrante della star di turno. Forse gli tocca, giacché tutti, dappertutto, ne parlano e nel 99,9% dei casi male. E visto che sei al governo e ti ha messo lì la nazione, tocca rispondere. Sennò resta muto anche chi li ha eletti. E questo, in democrazia, non dovrebbe andar bene.
Inesperti e indisciplinati, non avvezzi alle buone regole, come sono tutti quelli che arrivano da fuori e in ritardo, i 5 Stelle a volte rispondono male. Senza neanche coprirsi la bocca. E tutti lo vengono a sapere e siccome quelli che gestiscono l’informazione, da sinistra a destra, li hanno in uggia, potete immaginare lo tsunami di riprovazione e damnatio memoriae, praesentis et futuri che gli arriva addosso. Uno tsunami che ha a disposizione tutti i venti per potenziarne la forza devastatrice: tv, stampa, metà dei social, i chierici, i laici benpensanti, gli amici del bar che guardano la Juve e le comari che festeggiano la gravidanza di Meghan e danno retta a Gramellini.
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Quale economia oggi per il bene comune?
di Luca Benedini
Una serie di approfondimenti e riflessioni – riferiti eminentemente al mondo attuale – su Marx, l’evoluzione scientifica e la storia, sui “fallimenti del mercato”, sulla “economia del prendersi cura” (caring economics), sull’economia pluralistica, su lotta di classe e difesa dell’ambiente all’epoca della globalizzazione, su catena di montaggio e organizzazione del lavoro, su economia e qualità della vita
I
Fondamenti economici e bene comune: una sintesi anche pratica
Quando politici ed economisti presentano attraverso i maggiori mass-media di un paese i modelli economici da loro caldeggiati o sponsorizzati, spessissimo si tratta semplicemente di tentativi di manipolare l’opinione pubblica insistendo su fasulle idee di facciata o su ideologie prive di effettivi riscontri nella realtà. Un rapporto onesto, corretto e autentico con le persone sull’economia richiede invece, innanzi tutto, di cercare di renderle consapevoli delle sue dinamiche effettive e dei suoi meccanismi reali [1]. E ciò a partire dalla questione che da tempo appare più scottante: il mercato.
Gli attuali pregi del mercato
Paradossalmente, uno degli effetti delle economie statalizzate che nel ’900 hanno cercato di ridurre a livelli minimi o addirittura nulli il mercato (dopo rivoluzioni come quelle russa, cinese, cubana, vietnamita, ecc., o dopo occupazioni militari come quella sovietica nei paesi del “patto di Varsavia” e in Corea del Nord) è stato proprio una crescente puntualizzazione dei meriti attualmente insostituibili del mercato.
Tra le innumerevoli voci che hanno notato questo, sintetizzava nel dicembre 1991 su Scientific American Nathan Rosenberg – docente di economia alla Stanford University – nel suo saggio Marx wasn’t all wrong: «Le economie centralizzate si sono dimostrate incapaci di condurre a livelli elevati di benessere materiale le masse socialiste», tanto più partendo da società scarsamente industrializzate.
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Marx e Keynes oggi
Lucio Gobbi intervista Marco Veronese Passarella
Sono trascorsi più di dieci anni dal 15 settembre 2008, giorno della dichiarazione del fallimento di Lehman Brothers, la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti e avvio di una reazione a catena che ha messo in crisi le fondamenta del sistema finanziario globale. Una crisi le cui ripercussioni, immediate e pesantissime anche sull’economia reale, hanno portato alla recessione globale del 2009 e contribuito a porre le basi della crisi dell’euro e dei debiti sovrani del 2010-2012, particolarmente acuta nel nostro Paese. Dieci anni di crisi che hanno visto anche un rinnovato interesse per il pensiero economico di Marx – e in particolare per la sua analisi del capitalismo – che si accompagna anche a frequenti riferimenti alla necessità di “politiche keynesiane”. Nel quadro del cambiamento economico in corso stanno avvenendo anche una serie di trasformazioni che pongono problemi nuovi o ripropongono nel nuovo contesto questioni antiche: disoccupazione tecnologica, pianificazione e big data. Per arricchire il dibattito su tali questioni, di cui Pandora si occupa da tempo, abbiamo intervistato Marco Veronese Passarella, economista eterodosso italiano e studioso di impostazione marxista attento anche al pensiero di Keynes.
Marco Veronese Passarella è docente di economia presso l’Economics Division della Leeds University Business School. I suoi interessi di ricerca includono le teorie dei prezzi e della distribuzione, la dinamica macroeconomica, l’economia monetaria e la storia del pensiero economico ed è autore di articoli su riviste scientifiche nazionali ed internazionali, tra le quali il Cambridge Journal of Economics, il Journal of Economic Behavior & Organization, la Review of Political Economy e Metroeconomica. Fa parte della redazione di Economia e Politica ed è membro del gruppo Reteaching Economics.
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Germania, Target 2 e Piano B
Quando l’Europa fa le pentole ma...
di Giovanna Cracco
"La probabilità che l'euro decada non è pari a zero. Come economisti dobbiamo prenderla in considerazione". Parole di Kai Konrad, organizzatore insieme a Jorg Rocholl del convegno "L'euro è sostenibile - e se invece non lo è?" (Is the euro sustainable - and what if not?) tenutosi il 14 marzo scorso all'ESMT, European School of Management and Technology, di Berlino (1). Non pensiamo a due figure marginali: Konrad, attuale direttore del Max Planck Institute for Tax Law and Public Finance, è stato presidente del Consiglio dei Consulenti tecnici al Ministero delle Finanze tedesco dal 2011 al 2014, e Rocholl, presidente dell'ESMT, nello stesso ministero è dal 2011, e tuttora, membro del Comitato economico.
Come riporta Die Welt (2), gli economisti invitati hanno concordato sulla necessità di modificare i Trattati dell'Unione europea inserendo una regola eurexit, secondo tre scenari ipotizzabili: l'uscita di un Paese senza il consenso degli altri Stati, l'uscita con il consenso degli altri Stati, l'uscita imposta a un Paese contro la sua volontà. "I vantaggi derivanti dall'avere regole di uscita chiare consisterebbero nel ridurre i costi macroeconomici legati all'uscita, compresa l'attuale incertezza, rendendo così i conflitti fra gli Stati meno probabili", ha affermato Clemens Fuest, presente all'incontro, accademico di forte peso nell'opinione pubblica tedesca, presidente dell'Ifo Institute for Economic Research, l'ente di ricerca più importante del Paese.
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Il pensiero economico dominante scopre la politica fiscale?
di Angelantonio Viscione*
I modelli economici mainstream hanno commesso grandi errori di previsione, soprattutto durante gli anni della crisi, e questo ha spinto alcuni economisti a rivisitarli per avvicinarli maggiormente alla realtà. I cambiamenti proposti restano però vani: il pensiero economico dominante affonda comunque le sue radici in invadenti e controverse teorie neoclassiche
Dinanzi alle evidenze empiriche raccolte durante gli anni della crisi economica, gran parte degli economisti appartenenti a scuole di pensiero mainstream ha dovuto ammettere che le ricette di politica fiscale suggerite dai propri modelli economici si sono rivelate a dir poco inefficaci[1]. Ci riferiamo, in particolare, alle teorie d’ispirazione liberista secondo cui l’intervento dello Stato nell’economia dovrebbe ridursi al minimo e la politica monetaria dovrebbe mirare solo al controllo dell’inflazione[2]. In questo saggio vedremo brevemente quali sono le caratteristiche principali del modello teorico oggi dominante e, a titolo d’esempio, analizzeremo una proposta di sua rivisitazione apparsa sulla prestigiosa Oxford Review of Economic Policy a firma di due economisti mainstream esperti di politica fiscale, Christopher Allsop e David Vines (2015). Il nostro scopo è capire qual è la direzione verso cui si muove il pensiero economico dominante e, allo stesso tempo, cercare di capire se i ripensamenti in seno all’economia mainstream possano essere considerati sufficientemente adeguati ad affrontare le crisi economiche.
1. Il Nuovo Consenso in Macroeconomia
Il paradigma teorico dominante viene spesso definito come “Nuovo Consenso in Macroeconomia” e va a combinare ipotesi di ispirazione neoclassica come l’ottimizzazione temporale, le aspettative razionali e il Real Business Cycle con le ipotesi neokeynesiane di concorrenza monopolistica, di vischiosità dei prezzi e di centralità del ruolo di stabilizzazione della politica monetaria (Goodfriend 2007, p. 59). Una versione estremamente semplificata del modello del Nuovo Consenso in un’economia chiusa prevede un sistema di tre equazioni[3]:
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La passione durevole
di Salvatore Bravo
La passione durevole per trascendere le passioni tristi
Alle passioni tristi del capitalismo assoluto si può contrapporre la passione durevole espressione significativa che Costanzo Preve mutua da György Lukács, per rigenerarla nella resistenza teoretica. Il capitalismo assoluto è l’epoca delle passioni tristi, indotte geometricamente e matematicamente secondo il dispositivo della valorizzazione. Passioni disabitate dal soggetto umano, alienate in quanto la loro genesi è nell’automatismo, nel riflesso ritmico ed accelerato dei sistemi di vendita che si riflette nei comportamenti quotidiani, programmati secondo la ferrea legge dell’eterogenesi dei fini, solo che in questo caso, le azioni individuali si pervertizzano nel trionfo del capitalismo assoluto. Il mercato nella sua espansione necessita di stimolare passioni attraverso mezzi che procurano imitazione di massa. E’ una regressione a cui assistiamo, fatale e letale, la si presenta come il prezzo da pagare per l’espansione del PIL, si occulta il dato mortifere: intere generazioni sono cancellate dall’olocausto mediatico. Vi è il passaggio da uno stato di imperfezione minore ad uno stato maggiore. Generazioni che vivono il loro arco esistenziale come consumatori, sconosciute a se stesse. Le passioni tristi sono brevi, mancano di determinazioni, sono flessibili disposizioni emotive, esse devono essere tali, in modo che ad ogni esigenza del mercato debbono essere disposte ad adattarsi, nella rincorsa verso un’impossibile stato di benessere. Se così non fosse non avremmo un numero tanto esorbitante di giovani depressi presso cui si interviene attraverso le istituzioni per normalizzarli, per educarli alla sopportazione fatale del sistema.
Passione durevole e Bestimmung
Alle passioni tristi si può contrapporre La passione durevole essa può essere espressa per alcune sue qualità con il termine Bestimmung, ovvero passione durevole, vocazione, determinazione.
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Infrastruttura 5G e Huawei, tra guerra e de-globalizzazione
di .manproject
Il 9 settembre alla Fiera del Levante il Ministro Di Maio ha assistito all’accensione, sostanzialmente una demo con la presentazione di alcune future applicazioni, della prima antenna a standard 5G prodotta dal colosso cinese Huawei, presente all’evento anche il management di TIM e Fastweb. Il 28 settembre all’interno di un’attività di lobbying altrimenti usuale, ma in questo caso di alto profilo e di una certa risonanza, presso la Nuova Aula dei Gruppi Parlamentari, lo stesso Ministro in compagnia di altri esponenti del Governo e del Sindaco Virginia Raggi hanno assistito allo Huawei 5G summit. Nel periodo tra i due eventi, verso la metà di settembre, il primo lotto di frequenze 5G (700MHz) è stato assegnato agli operatori, il 2 ottobre si è conclusa anche l’asta per gli altri lotti (3700Mhz e 26GHz).
Il posizionamento italiano di Huawei nel settore delle telecomunicazioni 5G ha tuttavia destato critiche e allerta da più parti. Analisti geopolitici come Germano Dottori, l’economista nonché primo ministro gialloverde in pectore durante le consultazioni successive al 4 marzo Giulio Sapelli e soprattutto l’intelligence statunitense, la quale ha messo in guardia il Copasir contro la penetrazione di Huawei nelle infrastrutture 5G, il quale Copasir ha conseguentemente convocato Di Maio per riferire nelle prossime settimane. Il punto sollevato è quello della sicurezza dei dati oggetto di presunte o possibili azioni di spionaggio da parte del Governo Cinese: a questo proposito è bene fare chiarezza su alcuni punti.
Seppure le tecnologie Huawei venissero adottate massivamente, i cinesi non avrebbero formalmente nessun accesso ai dati degli utenti italiani che sono, entro i termini di legge, gestibili e visibili direttamente soltanto dall’operatore di telecomunicazioni che acquista le frequenze ed eroga il servizio.
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La grave crisi dei governi bolivariani
di Silvano Ceccoli
Questo ampio articolo di Silvano Ceccoli focalizza la situazione politica dell'America Latina, rivolgendo una speciale attenzione a due paesi, l'Ecuador e il Perù, e analizzando in particolare le cause della crisi del movimento bolivariano. L'autore ha fondato una ventina di anni fa il Circolo Culturale Proletario di Genova, del quale Eros Barone è l'attuale presidente. Egli è stato più volte nei paesi di cui tratta in questo articolo, come dimostrano le fonti giornalistiche citate nel corpo dell'articolo; è inoltre autore di un libro su "Sendero Luminoso" e conosce molto bene il Perù e l'Ecuador. Ci è parso che le informazioni e le valutazioni che caratterizzano l'elaborato, angolate secondo un preciso punto di vista marxista e comunista, siano di un certo interesse per l'inquadramento della situazione politica che si è venuta a determinare nell'area presa in considerazione dall'autore
Ecuador, il tradimento di Lenin Moreno
In Ecuador, ormai, è assodato il voltafaccia del partito di governo Alianza Pais e del Presidente Lenin Moreno. Giovedì 23 Agosto scorso, il Primo Ministro ecuadoriano José Valencia annuncia la decisione presa dal Presidente Lenin Moreno, di uscire dall’Alba1 (=Associazione Bolivariana per l’America Latina), l’Alleanza voluta da Chavez, che riunisce tutti i paesi latinoamericani guidati da partiti affini, che aderiscono al movimento bolivariano, sorto in Venezuela. Questa grave decisione del governo ecuadoriano, guidato da Lenin Moreno, è stata presa in concomitanza con l’altra altrettanto grave decisione di far partecipare truppe della marina militare ecuadoriana alle esercitazioni militari navali organizzate dagli USA, che si tengono dal 31 Agosto al l’11 Settembre 2018, al largo di Cartagena, in Colombia. Oltre all’Ecuador, partecipano all’esercitazione militare navale, denominata LIX Esercitazione Multinazionale di Manovre Militari Unitarie, altri 11 stati: Argentina, Brasile, Canada, Colombia, Costa Rica, Honduras, Gran Bretagna, Messico, Panamá, Perú e Repubblica Dominicana, tutti sotto la guida degli USA.
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Pensioni: pensavamo fosse ‘quota 100’ e invece era l’apocalisse (almeno per Boeri)
di coniarerivolta
Non pago delle infinite dichiarazioni rilasciate negli ultimi anni sui presunti e inesistenti dissesti dell’INPS e le inevitabili riforme pensionistiche restrittive da attuare a raffica, il presidente dell’Istituto previdenziale Tito Boeri, nella sua audizione alla Camera dell’11 Ottobre, torna alla ribalta in veste di guardiano privilegiato del dogma dell’austerità pensionistica. Oggetto del suo inquieto allarmismo è ora il provvedimento annunciato e inscritto nel DEF varato dal governo, noto come quota 100. Di cosa si tratta? Della possibilità di anticipare la pensione rispetto ai criteri oggi vigenti in base alla Legge Fornero approvata nel 2012, usufruendo di una combinazione tra età e numero di anni contributivi, la cui somma ammonterebbe a 100. Ricordiamo che sulla base della legge Fornero, ad oggi, un lavoratore potrebbe accedere alla pensione o tramite vecchiaia ad un’età di 67 anni o, indipendentemente dall’età, con 43 anni di contributi. Criteri ultra-restrittivi rispetto a soli pochi anni fa che, al tempo dell’approvazione della Legge suddetta, provocarono un repentino aumento dell’età pensionabile a gravissimo detrimento di tutti quei lavoratori in procinto di accedere alla pensione negli anni successivi alla riforma. Quota 100, peraltro, non farebbe altro che riportare il sistema, a partire dal 2019, ad un livello di quota che risulterebbe persino più elevata di quella che sarebbe entrata a regime con la precedente Legge Sacconi già pesantemente restrittiva, secondo cui al decorrere dell’anno venturo il sistema avrebbe viaggiato a quota 99, persino un anno sotto la famigerata e temuta quota 100. La Riforma Sacconi prevedeva, infatti, un meccanismo di adeguamento automatico delle quote all’aspettativa di vita e per il 2019 si prevedeva il raggiungimento di quota 99. Non è ancora del tutto chiaro, peraltro, se nel provvedimento del governo quota 100 sia affiancata o meno all’abolizione del meccanismo di adeguamento automatico nel tempo dell’età pensionabile alla vita media attesa stimata.
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Sovranismo e nazionalismo
di Luca Michelini
Se avessimo una stampa degna del nome, potremmo conoscere la situazione politica e sociale francese. Purtroppo non è così e stentiamo perfino a capire la situazione del nostro paese, che ogni volta, infatti, consegna sorprese politiche di ogni genere. Se avessimo, poi, investimenti pubblici nell’istruzione pubblica di ogni grado e livello degni del nome, anche la capacità di lettura e di governo della realtà sarebbe ben maggiore di quella attuale. Stante la situazione disastrosa nella quale viviamo, non possiamo che dare il peso appropriato alla televisione pubblica e privata, che ancora esercita un’influenza notevole sui costumi anche politici della nazione.
Ebbene, una rinnovata Rete 4, cioè quella rete che ora Berlusconi ha deciso di distaccare dal leghismo montante per proporre un più moderato liberalismo, ha trasmesso (il 9 ottobre) un’interessante intervista e confronto politico-giornalistico con Marine Le Pen. Ad affrontarla c’era un aggressivo Bersani e altri giornalisti, anch’essi più o meno antinazionalisti e antisovranisti.
La prima cosa che colpisce ascoltando la Le Pen è la sua caratura politico-intellettuale: ben diversa e senz’altro superiore a quella dei politici italiani, anche di quelli che con lei vorrebbero allearsi. Non ha avuto alcun timore del confronto, che è stato libero e sereno, e ha sempre argomentato con precisione e calma, alla fine avendo la meglio di interlocutori che partivano già dalla presunzione di avere comunque la ragione dalla loro parte.
Uno dei concetti che ha espresso Bersani è che il sovranismo in effetti è nazionalismo, il che ha una pesante responsabilità storica, quella di aver portato per secoli la guerra sul suolo europeo. Sono ormai numerosi i politici italiani che si aggrappano a questo tipo di ragionamento. Anche Cuperlo lo propone all’interno del Pd.
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Pane, cittadinanza e sicurezza
di Norberto Fragiacomo
Più ancora del borioso e divisivo Governo Renzi quello attuale sta catalizzando su di sé sentimenti opposti, che vanno da un’implacabile avversione a genuini entusiasmi (tralascio l’opposizione sempre più sbracata del PD: fino a ieri viva voce dei mercati, i suoi esponenti si sgolano oggidì nei panni di ultras dello spread).
I sostenitori, va riconosciuto, sono in larga maggioranza: le loro schiere, tuttavia, sono per lo più formate da “gente comune” che fa di necessità virtù, e per difetto di alternative affida le proprie preci alla trimurti Conte-Di Maio-Salvini. Meno numerosi sono coloro – in buona parte di provenienza marxista – che motivano il proprio appoggio con argomenti più articolati, assegnando in sostanza a questo anomalo esecutivo un ruolo che potremmo definire di “guastatore” nei confronti del fortilizio europeo e liberista. Eccesso di fiducia e ottimismo? Mi piacerebbe avessero ragione, ma a essere onesto coltivo parecchi dubbi sugli intenti “rivoluzionari” dei c.d. gialloverdi e soprattutto sulla loro determinazione, sulla capacità di tenuta di fronte agli assalti esterni: benché indebolita dalle stramberie di Trump, la finanza euroatlantica sa di non potersi permettere una tattica attendista (e difatti ha già scatenato il personale politico di servizio, da Juncker ai figuranti piddini).
Del pari non condivido l’atteggiamento di quanti (la quasi totalità della sinistra-sinistra) contestano il governo qualsiasi cosa faccia, scorgendo dietro ogni sua azione un perfido inganno. Si tratta di una condanna aprioristica, che non abbisogna di prove perché fondata sul “fatto notorio” che le forze politiche al potere sarebbero fasciste, razziste ecc.1 Questa posizione appare dialetticamente robusta solo perché puntellata dai media e dai loro ispiratori, che comprensibilmente la giudicano funzionale alle proprie esigenze.
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Il superamento della religione nell’Anti-Dühring di Engels
di Enrico Galavotti
L’ateismo del comunismo primitivo
È impossibile dar torto a Engels quando considera ridicola l’idea di Dühring di “abolire” la religione nella società socialista. Infatti il socialismo scientifico ha sempre detto ch’essa è soltanto un epifenomeno, una sovrastruttura che si estinguerà da sé, insieme allo Stato politico, quando il socialismo sarà realizzato.
Ciò che non piace, nella sintesi engelsiana sulla posizione del socialismo in merito al fenomeno religioso, è un’altra cosa. Scrive nel suo Anti-Dühring: “Agli inizi della storia sono anzitutto le potenze della natura quelle che subiscono questo riflesso…”, assumendo col tempo “svariate e variopinte personificazioni”. Quale riflesso? “Ogni religione non è altro che il fantastico riflesso nella testa degli uomini di quelle potenze esterne che dominano la sua esistenza quotidiana, riflesso nel quale le potenze terrene assumono la forma di potenze ultraterrene”.
Molto feuerbachiana questa definizione della religione. Cerchiamo di capir bene cosa Engels voleva dire. Anzitutto non si sta riferendo alle religioni politeistiche, tipiche dello schiavismo, poiché subito dopo parla di “mitologia comparata” dei popoli indoeuropei, di cui i Veda induistici costituiscono l’origine ancestrale. Egli si sta riferendo alle religioni più primitive, quelle clanico-tribali, cioè quelle passate alla storia col nome di “totemico-animistiche”.
Queste però non erano religioni che riflettevano rapporti sociali di tipo antagonistico. Erano dunque così alienanti? così predisposte a fuorviare gli uomini dall’idea di doversi liberare da rapporti sociali frustrati? Assolutamente no, anche perché appunto non esisteva ancora lo schiavismo.
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Gli equilibristi sul filo del deficit che fa scendere il debito
di Roberto Tamborini
La “Finanziaria del popolo” delineata nella Nota di aggiornamento al DEF del nuovo governo suscita molte preoccupazioni e critiche da parte dei partiti di opposizione, esponenti dell’industria e della finanza, numerosi economisti ed esperti, la Commissione europea. La ragione principale riguarda l’impatto del deficit programmato del 2,4% per il 2019 sul già elevatissimo debito pubblico italiano (sebbene nell’ultime dichiarazioni si parli di una successiva riduzione). Ci sono numerosi altri aspetti (più importanti?) della politica fiscale giallo-verde che possono essere discussi, tuttavia qui esamineremo solo questo problema, che al momento appare come il più caldo.
La Commissione europea potrebbe bocciare il piano in quanto, pur rimanendo entro il limite del 3% di disavanzo, esso vìola l’impegno dei paesi ad alto debito a farlo diminuire in maniera adeguata. Il famigerato Fiscal Compact, sottoscritto dall’Italia, richiederebbe un taglio del rapporto debito/Pil di un ventesimo all’anno per la parte eccedente il 60% , vale a dire circa 3,5 punti di Pil per l’Italia. Una cifra del tutto irrealistica, che la Commissione potrebbe non mettere in conto, ma ciò non significa che potrà far passare una manovra che faccia aumentare il debito/Pil. La gran parte dei paesi europei non è disposta a convivere con un condòmino che può far crollare l’intero edificio da un momento all’altro. Alcuni esponenti della maggioranza di governo sono convinti, e vogliono convincere il resto del mondo, che la manovra in disavanzo non avrà effetti sul debito, o potrà ridurlo, grazie al suo effetto sulla crescita del Pil (altri esponenti invece oppongono un ducesco “me ne frego”). L’idea è che se il deficit fa crescere il Pil più del debito, il rapporto debito/Pil scende, i creditori dello Stato italiano si rassicurano sulla sua solvibilità, il famigerato spread non sale, e tutto andrà benissimo. Il miracolo del deficit che fa scendere il debito può succedere davvero?
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