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Rotta di collisione
intervista a Leonardo Mazzei
Il rifiuto italiano di piegarsi ai diktat della Commissione europea e lo scontro che ne deriva è una delle questioni più dibattute in Germania. Il sito tedesco Makroskop ha rivolto a Leonardo Mazzei alcune domande. Qui sotto l'intervista
La commissione europea ha rifiutato il budget italiano definendolo una “deviazione senza precedenti” dai patti. Perché questa durezza?
La "deviazione senza precedenti" è un'esagerazione evidente. Negli ultimi quarant'anni solo 4 volte il rapporto deficit/pil è stato più basso del 2,4% previsto dal governo per il 2019. Anche nei due anni della massima austerità (governo Monti) questo rapporto fu al 3%. La posizione della Commissione europea, che oggi è arrivata a bocciare il Documento programmatico di bilancio italiano, si spiega solo politicamente. Si vuole colpire in maniera dura un governo che, pur senza attuare una netta svolta verso politiche espansive (come sarebbe stato invece necessario), ha deciso però un'inversione di tendenza rispetto alle politiche austeritarie.
La risposta italiana sembra ferma. È inevitabile una escalation?
La maggioranza di governo non può permettersi una retromarcia. Sarebbe un disastro politico. Essa sta cercando di realizzare dei risultati concreti - pensioni, reddito delle fasce più povere, fisco - senza arrivare allo scontro frontale con l'UE. Ma questa ricerca di un compromesso non è stata accolta a Bruxelles, anzi. L'escalation sembra dunque l'ipotesi più probabile.
Rimane comunque uno spazio per un compromesso? Conte ha detto che forse posticiperanno alcune spese. Un cambio di alcuni decimali non sembra decisivo.
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Il governo piccolo-borghese e antioperaio degli ‘amici del popolo’
di Eros Barone
Per comprendere l’evoluzione (o l’involuzione) della situazione politica del nostro paese, occorre prendere le mosse dalla ristrutturazione dei ‘vincoli esterni’ (UE, USA e BRICS) che, oggi come non mai, ne condizionano il decorso. Da questo punto di vista, la legge di bilancio del governo per il 2019 e l’uso politico delle variabili economico-finanziarie (lo ‘spread’ e il ‘rating’) sono lo specchio fedele di contraddizioni e conflitti del tutto interni alle diverse frazioni della borghesia capitalistica , legati a contrastanti indirizzi politici concernenti il rapporto con i mercati internazionali e con gli attuali schieramenti imperialisti. La crisi economica mondiale ha infatti acuito le fratture esistenti nel sistema capitalistico sia a livello verticale, tra la grande impresa monopolistica e la piccola e media produzione nazionale, sia a livello orizzontale, tra le diverse frazioni (industriale, finanziaria, commerciale) del grande capitale. Pur con tutte le mediazioni che ancora si interpongono (ma che sono destinate a ridursi via via che lo scontro si inasprisce), la Lega e il Movimento 5 Stelle sono per l’essenziale, in quanto “nomenclatura di classi sociali” (Gramsci), 1 l’espressione di tali contraddizioni.
L’attuale fase politica si situa dunque nel quadro di una “crisi organica” 2 della mediazione istituzionale di tipo tradizionale e segna una nuova tappa dello sforzo che da tempo vede impegnate alcune frazioni del blocco dominante sul terreno della ricerca di un’alternativa endosistemica al l’europeismo, cioè alla subordinazione dell’eurozona all’asse capitalistico franco-tedesco, quale si è espressa attraverso il ‘connubio’ dei due partiti (PD e FI) con cui, a partire dagli anni novanta del secolo scorso, le classi dominanti, ‘giocando’ sulla regolazione del vincolo europeistico, hanno realizzato una certa unità e difeso i loro interessi economici.
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Contro la trappola della rassegnazione
Leggere e rileggere Luca Rastello
di Paolo Ortelli
Di Luca Rastello si è scritto e detto moltissimo, post mortem. Lo conoscevano in pochi, forse perché era mosso dall’amore per la verità e aveva uno spirito avverso a ogni conformismo e, quindi, alle logiche da cui dipende la visibilità mediatica. Ha vissuto molte vite – giornalista culturale, reporter, analista politico, viaggiatore, narratore, filosofo, redattore, operatore solidale– e ogni volta ha saputo reinventare sé stesso. Ha lottato fino alla fine contro la sua malattia, e lo ha saputo raccontare in maniera per niente retorica nel suo ultimo libro (pubblicato postumo, nel terzo anniversario della sua morte avvenuta nel 2015) “Dopodomani non ci sarà”, romanzo che si presenta più come un laboratorio di scrittura, una miniera di riflessioni filosofiche e politiche, spiazzanti e memorabili. Figura complessa, irriducibile e da riscoprire per i più, l’opera di Rastello rappresenta un prisma formidabile attraverso cui guardare il presente e per «non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione»
* * * *
Di Luca Rastello si è scritto e detto moltissimo – post mortem. Le parole che, per esempio, hanno speso per lui intellettuali come Goffredo Fofi, Nicola Lagioia, Alessandro Baricco, Roberto Saviano, Walter Siti, Wu Ming, Giorgio Vasta, si riservano solo ai grandi del pensiero e della letteratura.
Non è un caso che Un passo più in là, documentario sulla sua vita trasmesso da RaiStoria, inizi con una domanda: «Perché erano così in pochi a conoscerlo?». E si potrebbe aggiungere: perché soltanto dopo la sua morte, avvenuta il 6 luglio 2015, è diventato un “mito” letterario?
Lo conoscevano in pochi perché Luca Rastello era mosso dall’amore per la verità (anzi, per le tante verità possibili), da una sconfinata curiosità e un senso purissimo della giustizia; aveva uno spirito inflessibilmente critico e perciò avverso a ogni conformismo, alle orazioni civili e alle logiche markettare da cui dipende la visibilità mediatica.
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Il ritorno del partito
di Paolo Gerbaudo
Perché sono tornati i partiti di massa? Perché sono ancora il modo migliore affinché coloro che non hanno potere, possano sfidare i potenti. Pubblichiamo la traduzione di un articolo dal sito della rivista americana Jacobin
E’ un luogo comune osservare come l’epoca post crisi sia definita dall’ascesa di movimenti populisti sia sul fronte della sinistra che su quello della destra, nel mezzo di una crescente polarizzazione politica. Tuttavia, non è stata sufficientemente sottolineata la centralità del partito nell’arena politica. In Occidente, e in Europa in particolare, stiamo assistendo ad una rinascita del partito politico. Sia i vecchi partiti, come quello Laburista in Gran Bretagna, che quelli nuovi, come Podemos in Spagna e la France Insoumise, hanno visto una crescita enorme nel corso degli anni, ponendosi tra l’altro al centro di importanti innovazioni organizzative. Dal momento che per molti anni sociologi e politologi hanno concordato nel preannunciare la perdita del primato del partito politico in una società digitale sempre più globalizzata e diversificata, questa rinascita della forma partitica è degna di nota. In effetti, l’attuale ritorno della sinistra ha di fatto smentito queste previsioni. La tecnologia digitale non ha rimpiazzato il partito. Gli attivisti l’hanno piuttosto utilizzata al fine di sviluppare meccanismi innovativi per fare appello ai cittadini, pur riaffermando la forma partitica quale strumento principale per la lotta politica.
Previsioni maldestre
Il fatto che i partiti politici stiano tornando nuovamente alla ribalta, è innanzitutto evidente dal crescente numero di membri all’interno dei partiti, una chiara svolta rispetto al progressivo calo di adesioni a cui hanno dovuto assistere molti partiti storici europei all’inizio degli anni Ottanta. In Gran Bretagna, il Partito Laburista sta per raggiungere i 600.000 membri, dopo aver raschiato il fondo nel 2007, alla fine del mandato di Tony Blair, con appena 176.891 adesioni.
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Alienazione e nuove forme di lavoro
di Lelio Demichelis*
L’alienazione, sebbene mascherata, è presente più che mai anche nelle nuove forme di lavoro. Secondo Lelio Demichelis, il compito della sociologia e dell’economia oggi è costruire uno scenario alternativo, umanistico ed ecologicamente responsabile
L’alienazione, questa sconosciuta. Non se ne parla più, come se fosse magicamente scomparsa dalla scena. Come se le retoriche neoliberali dell’essere imprenditori di se stessi e di vivere la propria vita come un’impresa in competizione con gli altri – unitamente alle retoriche del condividere, del fare community, dei social, dello smart-working e dello smart-job, dello smart-phone e delle smart-cities e, prima ancora, dell’economia della conoscenza e del capitalismo intellettuale (sic!) – avessero davvero cancellato quella ‘cosa’, l’alienazione appunto che per un secolo e mezzo aveva invece caratterizzato pesantemente e drammaticamente le forme e le norme capitalistiche di produzione e di organizzazione del lavoro. L’alienazione, la sua riconoscibilità e il suo contrasto erano – una volta – i fattori-base per la costruzione di quella coscienza di classe senza la quale, diceva Marx, era difficile immaginare una soluzione alternativa al capitalismo – o anche solo a democratizzarlo, come avvenuto nel post-1945.
Oggi, scriveva Luciano Gallino nel 2012, si deve purtroppo constatare che il tema dell’alienazione – fondamentale per cercare di rendere le persone capaci di controllare il lavoro che svolgono, piuttosto che esserne schiave – è scomparso totalmente dal programma di riflessione e dal campo di analisi della sociologia mainstream (sempre più schiacciatasi – aggiungiamo – sulla ricerca quantitativa, divenendo incapace di guardare i processi nell’insieme).
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Una battaglia di Sinistra: riscrivere l’art. 81
di Norberto Fragiacomo
La provocazione “gialloverde” insita nell’ormai celebre rapporto deficit-PIL al 2,4% è stata prontamente raccolta da attori esterni e interni: fra questi ultimi annoveriamo forze politiche liberiste e globaliste (PD, FI ecc.[1]), media ultraeuropeisti e commentatori più o meno schiacciati sulla vulgata sistemica. Tra gli opinionisti sono in parecchi a essere andati fuori tema: c’è chi si straccia le vesti per l’immancabile fascismo ad portas[2] e chi ripete stancamente le usuali giaculatorie sul debito pubblico – ma dalla cacofonia di voci emergono taluni che, più originali, si baloccano con critiche nuove e suadenti. Sta acquisendo credito la seguente posizione: indipendentemente dai suoi contenuti, la manovra in fieri sarebbe incostituzionale perché lesiva dell’articolo 81 Cost. versione 2012, e di conseguenza il Quirinale dovrebbe bocciarla.
Cosa dispone la norma citata? Che “Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.” Attenzione: qui non si parla di formale «pareggio» fra entrate e uscite, bensì di equilibrio – vale a dire della necessità che le spese siano finanziate con risorse per così dire buone e comunque proprie, come quelle derivanti dal patrimonio pubblico o il gettito tributario. Il 2° comma difatti precisa che
“Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali”, mentre il 6° demanda a una legge rafforzata la fissazione di “contenuto della legge di bilancio (…) criteri volti ad assicurare l’equilibrio tra le entrate e le spese dei bilanci e la sostenibilità del debito”.
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Braccio di ferro tra governo, mercati e UE
Scenari su euro, moneta e democrazia
di Enrico Grazzini
La domanda oggi è: come finirà il braccio di ferro tra il governo giallo-verde da una parte e i mercati e la Unione Europea dall'altra? Il governo Conte riuscirà a far decollare il suo programma economico? Oppure l'aumento dello spread – ovvero del differenziale tra i rendimenti dei titoli di debito italiani e quelli tedeschi - farà fallire le manovre del governo, e forse anche il governo stesso? L'Italia è nella morsa dei mercati finanziari mentre l'Unione Europea è ormai a pezzi e la Commissione UE è in scadenza, ma, come gli animali feriti a morte, è più minacciosa che mai. Di fronte alla crisi italiana ed europea sono possibili diversi scenari sul piano economico e politico. L'incertezza aumenta e gli esiti possono essere drammatici. Un'alternativa però esiste: il governo italiano potrebbe evitare di dipendere esclusivamente dai mercati finanziari e, pur restando nell'eurozona, potrebbe creare dei titoli quasi-moneta per finanziare la sua manovra economica, aumentare i redditi interni e diminuire il debito in euro.
Se l'Italia non pagasse gli interessi sul debito pubblico avrebbe il bilancio in pareggio
Il programma espansivo del governo si propone obiettivi di crescita molto ambiziosi (nelle condizioni attuali, probabilmente anche troppo ambiziosi). Per rilanciare l'economia, il governo punta all'introduzione del reddito di cittadinanza – che in realtà è diventato un reddito per l'avviamento al lavoro da garantire ai poveri e ai disoccupati –, all'aumento delle pensioni minime e al rilancio (insufficiente) degli investimenti pubblici. Inoltre deve anche trovare le risorse per servire l'elevato debito pubblico. Per fare tutte queste cose il governo deve chiedere soldi al mercato finanziario - cioè alle banche d'affari nazionali e internazionali, ai fondi di investimento, fondi speculativi, fondi pensione, assicurazioni, ecc -.
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Le basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo
di György Lukács
La conferenza sulle Basi ontologiche del pensiero e dell’attività dell’uomo fu redatta nei primi mesi del 1968 e doveva essere letta al congresso mondiale di filosofia che si sarebbe tenuto a Vienna nel settembre di quell’anno. Tuttavia, non avendo poi Lukács partecipato a quel congresso, il testo della conferenza fu reso pubblico nel 1969 sia in traduzione ungherese, sia nella stesura originale tedesca. Quanto al contenuto, la conferenza si fonda sulla cosiddetta «grande» Ontologia, il cui manoscritto era allora praticamente già terminato.
Originariamente apparso in italiano in L’uomo e la rivoluzione, Editori Riuniti, Roma 1973, ora Edizioni Punto Rosso, Milano 2013.
I. Chi voglia illustrare in una conferenza, anche soltanto entro certi limiti, almeno i principi più generali di questo complesso problematico, si trova di fronte a una duplice difficoltà. Da un lato bisognerebbe dare un panorama critico dello stato attuale della discussione su tale problema, dall’altro occorrerebbe porre in luce l’edificio concettuale di una nuova ontologia, perlomeno nella sua struttura fondamentale. Per essere in qualche modo esaurienti almeno sulla seconda questione, che è in concreto quella di fondo, dovremo rinunciare a soffermarci, per quanto brevemente, sulla prima.
Tutti sanno che negli ultimi decenni il neopositivismo, radicalizzando le vecchie tendenze gnoseologiche, ha dominato incontrastato con il suo rifiuto di principio verso ogni e qualsiasi impostazione ontologica, considerata non scientifica. E non solamente nella vita filosofica vera e propria, ma anche nel mondo della prassi. Se analizzassimo bene le costanti teoriche dei gruppi dirigenti politici, militari ed economici del nostro tempo, scopriremmo che esse – consapevolmente o inconsapevolmente – sono determinate da metodi di pensiero neopositivistici. Di qui è derivata l’onnipotenza quasi illimitata di tali metodi e di qui, quando il confronto con la realtà avrà condotto alla crisi aperta, si produrranno grandi rivolgimenti a partire dalla vita politico-economica sino alla filosofia nel senso più lato del termine. Ma giacché noi siamo soltanto all’inizio di tale processo, può bastare avervi fatto cenno.
Noi in questa sede non ci occuperemo neppure dei tentativi ontologici degli ultimi decenni. Ci limitiamo a dichiarare semplicemente che li riteniamo estremamente problematici, bastandoci rimandare agli ultimi sviluppi di un notissimo iniziatore di questa corrente come Sartre, per accennare almeno a tale problematica e al suo indirizzo.
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Mussolini the original: tra liberalismo e sovranità senza popolo
di Arturo
Fondamentale post "fenomenologico" di Arturo. Inutile dire che nella lettura occorre prendersi il dovuto tempo di riflessione. E non trascurare i links. Neppure uno
1. Continuano a moltiplicarsi, in forme anche grottesche, le accuse di fascismo rivolte al governo, alla maggioranza, ai suoi elettori ma anche agli italiani in generale.
Visto che il fascismo storico fu un impasto confuso di filoni politici diversi – sindacalismo, nazionalismo, combattentismo, idealismo, elitismo, eccetera – esso si presta bene ad analisi che si concentrino sul coté ideologico, individuino questo o quell’elemento astrattamente ritenuto essenziale per ricostruire una genealogia in grado di isolare il virus malefico e formulare atti d’accusa.
Con l’impiego di metodologie siffatte si è riusciti nella notevole impresa di identificare le origini del fascismo nell’opera di De Maistre (Isaiah Berlin), come in quella di Marx (Settembrini). Risultati tanto disparati dovrebbero però far sorgere qualche perplessità sul metodo.
Di puro buon senso mi paiono quindi le riserve in proposito formulate dal più noto storico dell’ideologia fascista, Emilio Gentile:
“Nessuno può prevedere a quali altri esiti potrebbe condurre questo modo di studiare le origini dell’ideologia fascista su un piano esclusivamente teorico-intellettualistico, accentuando ora l’uno ora l’altro degli elementi - o dosando in proporzione differente gli elementi - che si reputano essenziali per definire l’essenza di un «fascismo idealtipico».” (Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Il Mulino, Bologna, 1996, pag. 19).
2. Da parte nostra, abbiamo provato a ricollocare il fascismo sul terreno dei rapporti materiali e del conflitto sociale. Un approccio che, se non può vantare l’appeal della novità, mi pare ancora fornito di un certo potere esplicativo.
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La crisi dell’Europa e la sinistra che non c’è
di Carlo Galli
I risultati elettorali in Assia e in Baviera confermano il trend di sgretolamento dei partiti dell’establishment, di centro e di centrosinistra. Come la pelle di zigrino il loro spazio politico si riduce senza sosta, e al contempo le loro aspettative di vita.
È un trend iniziato con la Brexit, proseguito con le elezioni italiane del 4 marzo, confermato dalle vittorie politiche delle forze illiberali in parecchi Paesi dell’Europa centrale. È l’inabissarsi del progetto “atlantico” del secondo dopoguerra, che voleva far coesistere l’economia sviluppata, la democrazia liberale sociale, e la costruzione in Europa di istituzioni sovrastatuali. Ed è il tramonto delle élites, e dei partiti, che lo hanno sostenuto e vi si sono identificati.
Inabissamento e tramonto che non sopraggiungono per cause esterne, ma per le interne contraddizioni che sono esplose quando quel progetto atlantico ha incrociato la globalizzazione, quando la civiltà keynesiana si è trasformata in civiltà neoliberista, quando la costruzione europea, tutta funzionalista, si è trasformata nel dominio dell’ordoliberismo, nell’Europa di Maastricht, dell’euro, di Lisbona. Cioè in un’Europa unita dall’euro ma non dalla politica, da regole e discipline ma non dal consenso dei popoli.
Un’Europa minacciosa per l’Inghilterra, che non ne ha sopportato la burocrazia e i vincoli comunque sussistenti – benché non fosse entrata nell’euro – interpretati come costi e imposizioni ben più gravi dei benefici che ne derivavano. E così ha abbandonato la nave prima che affondasse, alle prime avvisaglie delle crepe. Per lei la civiltà atlantica sarà sostituita dalla “relazione speciale” con gli Usa, se Trump ne vorrà ancora sentire parlare.
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Marx e il capitale come rapporto sociale
di Paolo Ciofi*
Ogni qual volta il capitalismo entra in crisi - e ciò si verifica sempre più frequentemente, fino a diventare uno stato permanente - Carlo Marx, dato per morto e sepolto, regolarmente ricompare e oggi il suo spettro aleggia di nuovo in Europa e nel mondo. Al punto tale che Time, settimanale americano con svariati milioni di lettori, è arrivato a scrivere che «Marx aveva ragione». E l’Economist, caposcuola britannico del pensiero liberale, ha affermato di recente che «la principale ragione per cui Marx continua a suscitare interesse è che le sue idee sono più pertinenti oggi di quanto non lo siano state negli ultimi decenni».
Tuttavia, una reticenza permane proprio sulla questione di fondo, ossia sulla natura del capitale. Giacché, scoprendo l’arcano del capitale, vengono in chiaro le ragioni delle sue crisi e le condizioni del suo superamento. Due aspetti inscindibili che hanno fatto di Marx uno dei pensatori più potenti e al tempo stesso un rivoluzionario instancabile, che concretamente lottava per trasformare la realtà: un esempio di coerenza, di alta moralità. La personificazione dell’unità tra teoria e prassi.
Una «immane raccolta di merci», osserva il pensatore e rivoluzioanrio di Treviri, caratterizza la società dominata dal capitale. Ma cos’è il capitale? Non semplicemente una somma di denaro, che a conclusione della produzione e della circolazione della merce, o dell’impiego nella finanza, si trasforma in una somma maggiore di quella investita; e che ci appare nelle più svariate forme di capitale industriale, bancario, fisso, costante, variabile e così via. Fino al capitale cosiddetto umano, in cui nel nostro tempo, ridotti a cose, si identificano gli esseri umani che producono ricchezza.
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L’Italia e il nemico carolingio
di Marco Della Luna
Non si tratta di nazionalismo, ma di legittima difesa dell’economia contro interessi opposti
Mentre scrivo queste righe, si scalda lo scontro sul deficit del bilancio 2019 (2,4% sul PIL) presentato dal governo italiano e la c.d. Europa, con impennate dello spread: Bruxelles, Moskovici, Dombrovskis lo cassano e minacciano una procedura di inflazione.
Oggi gran parte del mondo – USA, Cina, India, Russia… – ha ripreso con successo, più o meno vigorosamente, politiche espansive, di investimenti (a deficit), di riduzione fiscale e di crescita. I loro sistemi bancari fanno credito all’economia reale e non solo a quella finanziaria.
All’opposto, l’Unione Europea, con la BCE, resta stolidamente abbarbicata a un modello finanziario deflativo, incentrato su austerità e competizione nell’esportazione – cioè, non potendosi abbassare il corso dell’Euro, per recuperare competitività nell’export i paesi non dominanti abbassano salari. Di conseguenza, l’area comunitaria, e soprattutto l’Eurozona, è in coda ai paesi OCSE in quanto ad andamento economico. L’Italia è in coda a questa coda, per le ragioni che ora vedremo. Il sullodato modello finanziario deflativo non è frutto di masochismo, né incompetenza economica, né di ostinazione su dogmi smentiti dai fatti: esso è funzionale agli interessi del capitalismo tedesco e francese, e a ricaduta agli interessi degli elettorati tedesco e francese. Esso infatti, assieme all’Euro, serve al rastrellamento delle risorse dei paesi deboli e all’assunzione definitiva di un ruolo egemonico sull’Europa occidentale, da parte dell’Asse carolingio Berlino-Parigi. Il meccanismo è molto semplice, spiegato in tutti i testi di economia internazionale:
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“Se vuoi distruggere la Ue, devi fare quello che fa Bruxelles”
Deutschlandfunk intervista Sahra Wagenknecht
Grande è il disordine sotto il cielo, la situazione è dunque almeno interessante… L’arrivo dell’estrema destra al governo in Italia, con la collaborazione sottomessa dei Cinque Stelle, ha cambiato molte carte in tavola. Fin quando infatti l’avvento della destra nazionalista era solo un “pericolo” lo schema politico e mediatico era abbastanza semplice: “stringetevi intorno ai partiti di centro, liberali ed europeisti, se non volete trovarvi con il fascismo alle porte”. Anche molti stracci “di sinistra” abboccavano facilmente a quest’offerta, sostanzialmente perché non avevano nulla di originale da dire e molto da temere.
L’immagine somministrata dai media era quella di una “marea nera” che dissolve il vecchio ordine neoliberista, rompendo la “solidarietà europea” (che nessuno ha mai visto, tocca dire) e riaprendo conflitti tra paesi peraltro a abituati a darsele di santa ragione nei secoli. Il corollario non detto era che questa “marea nera” fosse in grado di compattarsi e assumere le redini del processo europeo, per distruggerlo o guidarlo in altra direzione.
C’era del vero, in questa immagine, ma solo a metà. E si è visto subito. Non sul tema dell’immigrazione – dove l’unità dei razzisti è ultra-scontata – ma sulla “legge di stabilità”, ovvero sulla legge fondamentale con cui ogni Stato, a prescindere dal colore della maggioranza politica governativa, decide le modalità di redistribuzione dei carichi fiscali e della spesa pubblica, favorendo o danneggiando specifiche figure sociali.
Qui il cosiddetto “fronte sovranista” (il termine è uno stigma strumentale, come abbiamo provato a spiegare) si è immediatamente sovrapposto al suo teorico avversario (il “fronte repubblicano da Macron a Tsipras”), condannando senza appello e con toni durissimi il governo italiano. In quanto italiano, senza alcuna indulgenza per il suo essere di estrema destra e razzista.
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Capitalismo e grande industria (Cinico Engels)
di Enrico Galavotti
Le rivoluzioni nel capitalismo maturo
E' difficile cercare di capire il motivo per cui, nel suo Anti-Dühring, Engels ritenesse che solo “la grande industria sviluppa quei conflitti che rendono ineluttabilmente necessario un rivoluzionamento del modo di produzione: conflitti non solo tra le classi ch’essa forma, ma anche tra le stesse forze produttive e le forme di scambio ch’essa parimenti crea”. È come se avesse voluto dire: “Siamo arrivati a un punto tale di progresso tecnologico e produttivo che è impossibile andare avanti senza cambiare qualcosa di molto significativo”. La grande industria, nata intorno al 1830, “sviluppa, proprio in queste gigantesche forze produttive, anche i mezzi per risolvere questi conflitti”. Come se prima della grande industria non ci fossero stati i mezzi e i modi per risolvere alla radice i problemi dell’antagonismo sociale!
Questo modo di ragionare è quanto meno deterministico. Forse saremmo esagerati a sostenere che per Engels le rivoluzioni “socialiste” sono possibili solo in presenza di un capitalismo maturo; però di sicuro voleva dire che, in assenza di tale capitalismo, le rivoluzioni sono destinate a fallire i loro obiettivi, a inverarsi nel loro contrario. Nella sua concezione di socialismo il capitalismo maturo porta le contraddizioni a un tale livello di conflittualità che le rivoluzioni diventano inevitabili. È un modo di accontentarsi: anche nel caso in cui manchi la volontà politica di emanciparsi, ci penseranno le circostanze, con tutta la loro crudezza, a farla venir fuori. Detto altrimenti: il proletariato farà la rivoluzione quando sarà disperato, quando non avrà più nulla da perdere, se non avrà saputo farla prima, in condizioni più decenti, più vivibili.1
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Tappare la vita o tappare il TAP
di Fulvio Grimaldi
Quando i 5 Stelle stavano dove era giusto stare
Nei percorsi, nelle ricerche e nelle denunce dei miei più recenti documentari – Fronte Italia-Partigiani del Duemila, “L’Italia al tempo della peste” e “O la Troika o la vita” (trailer e selezioni nel mio sito) – mi sono ripetutamente ritrovato a fianco esponenti, attivisti, rappresentanti eletti del M5S. Più loro che di qualsiasi altro partito. E’ un dato di fatto sul quale potete sbertucciarmi quanto volete, ma è un dato di fatto. Che si trattasse del TAV in Valsusa e del Terzo Valico, della base di guerra MUOS statunitense a Niscemi, del TAP e in genere della devastazione ambientale e sociale provocata dal’ossessione fossile. E se il referendum contro le trivelle, seppur mancando per poco il quorum, aveva conseguito una maggioranza schiacciante degli anti-trivelle, il merito ne è andato in gran misura a chi con le sue mobilitazioni di massa ne aveva favorito l’esito, i 5 Stelle. In particolare, attivisti ed eletti 5 Stelle hanno accompagnato e istruito me e la coautrice dei film, Sandra, negli approfondimenti sul terremoto nelle Marche e nel Lazio (quelli che grazie al TAP verranno squartati in coincidenza con le aree più sismiche), al punto che senza la loro conoscenza-competenza-passione non ne saremmo mai venuti a capo. Al punto che ne è fiorita un’amicizia rigogliosa in profondità e nel tempo.
Questi amici mi hanno espresso stamane rabbia, delusione, frustrazione, dolore. La stessa dei disperati e mortificati che in Puglia erano stati mandati in massa in Parlamento sull’onda della loro adesione ai No Tap. Una rivolta di testa e di pancia, come è giusto sempre che sia, contro quanto questo governo ha deciso su una delle più nefaste, sporche e letali delle Grandi Opere. Grandi Opere, cioè grandi devastazioni, ruberia, mafiosità.
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Keynes
di Michael Roberts
I. L'economia. Rivoluzionario o reazionario?
Durante la Grande Depressione degli anni '30 Keynes fece a meno delle soluzioni monetariste alle crisi e optò per uno stimolo fiscale, proponendo persino la "socializzazione degli investimenti", una politica molto più radicale rispetto alla produzione di più i soldi
Keynes era un rivoluzionario nel pensiero e nella politica economica? Era almeno radicale nelle sue idee? O era un reazionario contrario agli interessi dei lavoratori e un conservatore nella teoria economica? Ann Pettifor è una dei principali consiglieri economici dei dirigenti laburisti di sinistra britannici, Jeremy Corbyn e John McDonnell. È direttrice di Prime Economics, una società di consulenza economica di sinistra e autrice di numerosi libri, in particolare il recente The Production of Money.
E ha appena vinto il premio tedesco Hannah Arendt per il pensiero politico, concentrandosi su "l'impatto politico e sociale dell'attuale sistema di produzione del denaro, gestito principalmente dalle banche attraverso il credito digitale" e operando un’efficace critica del "settore finanziario globale, che opera al di fuori della portata dell'influenza politica e del controllo democratico".
Quindi Ann Pettifor è un’indiscussa combattente contro le politiche economiche di austerità della scuola neoclassica e una promotrice di misure governative per ripristinare i servizi pubblici e rilanciare l'economia. Ma per riuscirci, si basa interamente sulle teorie e sulle politiche di JM Keynes e del "keynesismo". Recentemente ha pubblicato un breve articolo per il prestigioso Times Literary Supplement, intitolato Gli sforzi instancabili di J. M. Keynes. (…)
In questo articolo, Pettifor paragona le teorie di Keynes nel campo economico a quelle di Charles Darwin nella biologia, per il cambio di paradigma prodotto da entrambe. Secondo lei, Keynes avrebbe "inventato" la macroeconomia, lo studio delle tendenze nelle economie a livello aggregato, sfuggendo alla soffocante ossessione neoclassica con la microeconomia (lo studio del valore e dei mercati a livello della singola unità).
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ATAC, perchè privatizzare non è la soluzione
Una risposta e 5 domande all’Istituto Bruno Leoni
di PuntoCritico
Sul sito dell’Istituto Bruno Leoni, Andrea Giuricin, fellow research dell’Istituto, ha pubblicato recentemente un focus sulla situazione dell’ATAC, l’azienda di trasporto pubblico locale della Capitale: ‘Il buco ATAC peggiora ma è possibile chiuderlo’.
Il saggio elenca alcuni dati relativi ai risultati aziendali, aggiornati al bilancio 2017 dell’ATAC ilancio 2017 dell’ATAC e riassunti in alcuni grafici e disegna il profilo di un’azienda zavorrata dai debiti – quasi 830 milioni di euro solo quelli accumulati nei confronti del settore pubblico (Comune, INPS, Fisco ecc.) – in totale 1,5 miliardi che la società deve ai suoi creditori pubblici e privati e oggi soggetti al concordato preventivo autorizzato di recente dal Tribunale di Roma. Le corse effettuate dal 2012 al 2017 precipitano da oltre 160 a 144 milioni di chilometri annui, il 16% meno di quanto previsto dal contratto di servizio tra ATAC e il Comune di Roma, che scade l’anno prossimo e che il Comune vorrebbe prolungare senza gara fino al 2021. L’età del parco mezzi è alta e in crescita, il che spiega anche l’aumento dei mezzi che prendono fuoco: 14 nel 2016, 20 nel 2017, 9 nei primi mesi di quest’anno.
Per Giuricin il problema è essenzialmente legato ai costi: il costo per chilometro è passato dai 5,94 euro del 2015 ai 6,47 del 2017, contro i 2-2,5 della media europea. Questa situazione sarebbe imputabile in primis alla spesa per il personale, che nel 2014 rappresentava il 44,8% del bilancio, mentre nel 2017 sale al 51,6%. Giuricin cita di sfuggita il dato sull’assenteismo, il 12%, e afferma che ATAC potrebbe fornire lo stesso servizio con 2500 dipendenti in meno.
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Una prima valutazione sul progetto di manovra del governo
di Bruno Steri
Riceviamo dal compagno Bruno Steri e pubblichiamo come contributo alla discussione sulla fase politica che stiamo attraversando
«L’obiettivo dei comunisti e di una sinistra di classe resuscitata dal coma in cui è precipitata deve essere, quale esito di un’opposizione “intelligente”, il disvelamento delle contraddizioni strutturali contenute nel combinato disposto Di Maio/Salvini & C e, con ciò, il fallimento del patto politico “post-ideologico”». Questo dicevamo una diecina di giorni fa; e questo va ribadito oggi, alla luce del progetto di manovra appena licenziato dal governo.
Detto di passaggio, al suddetto obiettivo ha inteso corrispondere la manifestazione dello scorso 20 ottobre, cui il Pci ha aderito, essendo i contenuti della stessa concentrati nella parola d’ordine «nazionalizzazioni»: ciò al fine di evidenziare l’attrito fra le estemporanee dichiarazioni degli esponenti governativi e il più che probabile perdurare di un’assenza di fatti concreti; ma anche per riappropriarsi di un tema strategico che è nostro, che cioè comparirebbe in primo piano in una nostra proposta programmatica, accanto a una riforma fiscale fortemente orientata in senso progressivo (l’opposto della flat tax) e a una consistente imposta patrimoniale (la stessa che Matteo Salvini ha seccamente escluso) . La fase è difficile e tutt’altro che favorevole dal punto di vista dei rapporti di forza, ma ciò non autorizza a restare silenti in attesa degli eventi. Occorre ricostituire le forze, muovendo sin dall’inizio i passi giusti. E provando a dire le cose giuste.
Dare a Cesare quel che è di Cesare
Ma ricapitoliamo i termini della questione. Cominciando in primo luogo col riconoscere a Cesare quel che è di Cesare.
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Prepararsi alla lotta
di Leonardo Mazzei
Stefano Fassina, Sergio Cesaratto e la Legge di bilancio: appunti critici
Stefano Fassina e Sergio Cesaratto sono di fatto due autorevoli esponenti di quel campo della sinistra patriottica che si va in qualche modo componendo. Al di là delle diverse scelte politiche contingenti, siamo da tempo in larga sintonia con loro sulle questioni di fondo. Non a caso i nostri rapporti sono amichevoli.
Naturalmente questo non significa che non vi siano differenze. E mi pare giusto, e spero utile alla discussione, segnalare alcuni punti critici di due loro recentissimi interventi.
Partiamo dall'articolo di Fassina dal titolo «Lettera Ue dovuta. Confermare deficit al 2,4%, ma riscrivere Legge di Bilancio», dove si sostiene appunto che:
«riconoscere il profilo della Nota di Aggiornamento al Def come condizione necessaria non implica “tema libero” per la scrittura della Legge di Bilancio».
Siamo ovviamente d'accordo, e fra l'altro il parlamento è lì anche per questo. Tuttavia l'argomentazione su come "riscrivere" la Legge di Bilancio non mi convince.
Ma facciamo un passo indietro. Nella prima parte del suo intervento, Fassina fa tre affermazioni importanti: che il problema dell'Europa è il mercantilismo tedesco, che
«sarebbe ora di riconoscere l'insostenibilità sistemica del mercato unico e dell'euro». .. «l’innalzamento degli obiettivi di deficit di finanza pubblica per il prossimo triennio era necessario».
Fin qui non possiamo che condividere in toto.
I problemi nascono nella parte finale dell'articolo, dove il suo ragionamento sulla manovra viene così condensato:
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“La sovranità non è uno scandalo ma neppure un feticcio identitario”
di Alessandro Visalli
Su Il Manifesto, Loris Caruso scrive un articolo dal titolo e parte dello svolgimento promettente, forse il ghiaccio inizia a sciogliersi, ma lentamente. Il sottotitolo, probabilmente della redazione, resta, invece, completamente ghiacciato:
“Sinistre. Egemonia non è stabilirsi sul terreno avversario ma disarticolare il suo discorso. Alcuni toni della sinistra neo-nazionalista sono anche inutili dal punto di vista elettorale”.
L’articolo stesso può essere diviso in due parti nettamente separate, nella prima l’autore si pone in via astratta e, ricordando i suoi studi, afferma che il termine ‘sovranità’, come quello di ‘nazione’ non è affatto un abominio impronunciabile. Nella seconda, improvvisamente, si mette dal lato della cittadella assediata della propria comunità elettiva, e promulga una scomunica. Per poterlo fare disegna un avversario di comodo e ne attribuisce la figura a chi più teme[1].
Loris Caruso è un ricercatore alla Scuola Normale Superiore in Sociologia dei fenomeni politici, ed è laureato in Scienze Politiche a Milano, dottorato a Torino, dove nasce nel 1976, autore di “Io ho paura”, e di “Il territorio della politica”, a dicembre 2017 scrive (sempre su Il Manifesto) anche un articolo su “L’anomalia della sinistra italiana” ripreso nella pagina di una delle associazioni oggetto della sua requisitoria, “Senso Comune”. Il ricercatore quarantaduenne, che aveva venti anni al finire degli anni novanta, è piuttosto diverso da me come sensibilità di base, cosa che rende interessante la lettura, ma dal mio punto resta tutto sommato connesso all’assorbimento che molta parte della sinistra occidentale ha compiuto suo malgrado nel clima inospitale del ‘riflusso’[2] e dell’insorgenza del neoliberismo[3], consolidatosi durante i governi di sinistra in Europa e negli USA negli anni novanta.
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Marx l'ostinato
di Jean-Marie Vincent
Nella storia della teoria, il pensiero di Marx segna una cesura: che lo si voglia o meno, esiste un prima di Marx, e un dopo Marx che non vuole e non può finire. Malgrado il collasso del «socialismo reale» e malgrado la crisi delle organizzazioni politiche che rivendicano l'eredità dell'autore del Capitale, al di là di quelli che sono i fenomeni alla moda, la sua opera continua ad essere oggetto di controversie e di scontri ricorrenti. In questo - nella misura in cui Marx rimane un uomo del passato (del diciannovesimo secolo), e anche nella misura in cui egli ha avuto dei seguaci che dai suoi pensieri hanno tratto dei dogmi con pretese universali - c'è qualcosa di decisamente paradossale. Non deve forse, Marx, come ogni altro, rendere conto di tutti i crimini ed i misfatti che sono stati commessi in suo nome? Non si deve forse, nei suoi confronti, elaborare il lutto per metterlo nel suo giusti posto e mostrare come egli sia sorpassato? Le risposte a queste domande, che a priori non sono illegittime, non sono affatto semplici, ma possono essere circoscritte nella seguente maniera: Il pensiero di Marx - nella sua incompletezza e nella sua tensione rispetto agli altri modi di teorizzare - destabilizza sia i suoi avversari che coloro i quali sono i suoi seguaci. Non si riposa mai, non è mai soddisfatto di sé stesso, dal momento che continua a porre delle domande insolite ed in quanto si rimette continuamente al lavoro sulle sue stesse elaborazioni. Per meglio chiarire questa rivoluzione teorica, si potrebbe dire con Adorno, come prima approssimazione, che Marx concepisce la conoscenza come se fosse un riflesso del processo lavorativo, e come un rapporto sociale (cfr. Adorno, Kants Kritik der reinen Vernunft, Frankfurt, 1995, p. 260).
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Lo spread sul filo del rasoio tra mito e realtà
di Redazione
Lo spread oltre la propaganda, la retorica e la campagna elettorale permanente. "Ricordate lo spread del 2011? Bene, chi ha comprato allora, nel 2011, i Btp, alla data di oggi, tra cedole e apprezzamento ha guadagnato oltre il 50% cumulativo. Per pagare il tutto il paese non è fallito ma è stato, semplicemente, tosato. Il governo Conte sta facendo una scommessa simile, offrire un titolo appetibile senza entrare in una zona dove lo stato finisce sbancato, coltivando sostanzialmente il proprio elettorato". "l’Italia in pratica è l'unico paese Ocse che paga rendimenti sui titoli di stato superiori all'inflazione". "Il conto si pagherà. A spese della società italiana, ovvio, ma niente è gratis".
* * * *
Come ampiamente prevedibile la vicenda spread ha catturato l’attenzione politica. Non solo dei soggetti istituzionali ma anche di chi, da differenti posizioni, si occupa di politica. Non è la prima volta che accade, nel 2011 lo spread in poche settimane passò da quota 150 a oltre 500 causando il crollo del governo Berlusconi. E’ la prima volta che accade con un uso consolidato dei social media. Quindi con un radicamento microfisico del tema e della criticità sociale che l’accompagna. Certo, per diversi trader, lo spread a 500 rappresenta solo lo scrollone di un albero che sta comunque in piedi ma, dal punto di vista politico e sociale, è un grosso elemento di fibrillazione.
Nei mesi scorsi, a livello di mainstream, erano circolate due tesi differenti. La prima è che lo spread non era così importante per valutare le finanze di un paese. La seconda, di tipo opposto, è che si stava preparando il grande complotto contro l’Italia.
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I comunisti, la politica e la classe. Fare i conti con passato e futuro
di Mauro Casadio*
La decisione del PRC di non partecipare alle elezioni di Potere al Popolo sullo Statuto, presa la sera prima della consultazione online, ci sembra sia stata una scelta errata e da un certo punto di vista incomprensibile. Un pronunciamento politico degli aderenti ad una forza, in cui il PRC ha evidentemente un peso notevole, non può portare ad una crisi e ad una spaccatura politica se si condividono i fini del progetto avviato un anno fa con l’assemblea del Teatro Italia.
Probabilmente è su questi fini che bisogna tornare a ragionare, per capire cosa è accaduto, al di là del clima conflittuale e del delirio sui Social, che si dimostrano essere sempre più un elemento dannoso di confusione dove l’opinione personale, cioè l’individualismo spinto, travolge ogni capacità di analisi raziocinante della difficile realtà con la quale tutti noi dobbiamo fare i conti, fuori dalla virtualità di quel mondo.
In questo frangente contraddittorio, prodotto da una trasformazione radicale delle condizioni generali in cui operiamo, sentiamo spesso nei ragionamenti fare riferimento alla questione dell’unità, che è certamente un elemento importante, in quanto non ci si può certo augurare la frammentazione. Una questione, l’unità, che nella storia della sinistra in Italia a partire dagli anni ’70 ha accompagnato (casualmente?) il declino della sinistra stessa fino all’attuale condizione, che non dipende certo dalle divergenze interne a PaP. Tale constatazione, evidente agli occhi di tutti, ci porta alla conclusione che non possiamo scindere la questione dell’unità necessaria dai contenuti che non sono “divisivi”, come oggi va di moda dire, ma che essa è il prodotto di determinate visioni della realtà, delle sue dinamiche e delle prospettive con cui ci si intende misurare.
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America Latina: chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso
di Carlo Formenti
Il giro a l’izquierda in America Latina, la svolta a sinistra che ha visto l’andata al potere di governi progressisti in Argentina e Brasile e la nascita di regimi variamente definiti postneoliberisti, populisti di sinistra o socialismi del secolo XXI in Bolivia, Ecuador e Venezuela non ha mai suscitato l’entusiasmo delle sinistre radicali (autonomi e trotskisti in particolare). Negri, ad esempio, ha definito Chavez e Correa come due ducetti fascisti e dichiarato che il liberismo è preferibile al loro neosviluppismo statalista; quanto ai trotskisti, è noto che qualsiasi regime che non segua la loro linea politica (cioè tutti, visto che non hanno mai svolto un ruolo egemone in qualsiasi processo rivoluzionario – ad eccezione di Trotsky, che non era trotskista) è per loro un nemico.
Questa postura ideologica riflette sentimenti e interessi di quell’ampio e variegato corpaccione di ceti medi latino americani (professori, studenti, funzionari pubblici, artigiani, piccoli imprenditori e commercianti, nuove professioni “creative”, tutti coloro che si è ormai soliti chiamare “ceto medio riflessivo”) che, ancor più di quello di casa nostra, oscilla fra reazione e sovversivismo piccolo borghese. Quando i movimenti di massa avanzano, come è avvenuto fra fine anni Novanta e inizio del Duemila, costoro si accodano, lucrando vantaggi economici, ideali e di status sociale (le costituzioni bolivariane registrano non a caso i desiderata dei “nuovi movimenti” che hanno appoggiato i processi rivoluzionari in cambio del riconoscimento di certi diritti individuali).
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Perché l’isteria sul Def italiano non ha senso
di Orsola Costantini
Gli organi di informazione, con sprezzo del ridicolo, lanciano quotidianamente l’allarme rosso sugli sforamenti di qualche punto di indici economici da ben pochi davvero compresi nel loro complesso calcolo e funzionamento. Ottimo dunque questo articolo pubblicato sul sito dell’Institute for New Economic Thinking, che mostra come, se si stenta a capire il senso dei parametri imposti dall’Unione europea è, molto semplicemente, perché questo senso non c’è. Formule e modelli basati su presupposti economici sbagliati servono più che altro a confondere e distrarre l’opinione pubblica, che discutendo a perdifiato (e spesso anche a vanvera) su cifre e percentuali perde la sostanza che c’è sotto: una strategia economica fondata su modelli irrealistici, ormai smentiti anche a livello accademico, al servizio di un disegno politico
Le reazioni alle cifre inserite nel documento programmatico di bilancio si basano su ipotesi screditate e tradiscono un fondamentale fraintendimento della crescita economica e dell’austerità.
In questi giorni, niente accende gli animi come un nuovo documento programmatico di bilancio. Se poi è presentato dal governo più controverso (o forse al secondo posto) in Unione europea, quello italiano del Movimento Cinque Stelle e Lega, l’agitazione è garantita.
Il 27 settembre il ministro delle Finanze italiano Giovanni Tria ha comunicato alla Commissione europea l’intenzione di apportare modifiche al programma di bilancio stabilito dal precedente governo. “Il nuovo programma genererebbe un rapporto deficit/ PIL del 2,4% nel 2019, implicando un saldo strutturale di bilancio in rapporto al PIL di -0,8%, ossia una deviazione programmata dell’1,4% rispetto all’obiettivo".
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