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La mutilazione di coscienza del radical chic

di Adriana Bernardeschi

In un mondo di diseguali che sprofonda nell’orrore di guerre, prevaricazioni, discriminazioni e violenze di ogni tipo, una certa “sinistra” borghese e benestante, spesso di valida provenienza militante, si fa compiaciuta portatrice di effimeri rammendi a una struttura irreparabilmente guasta. Lo fa da privilegiata, totalmente alienata da chi queste ingiustizie e questi orrori li subisce sulla propria pelle. Lo fa perché le è stata amputata la coscienza di classe. Come è avvenuta questa mutilazione e che cosa la alimenta e diffonde? Come contrastarla?

Vivendo per tanti anni a Milano, ho assistito, forse in modo più marcato che altrove, ma non si tratta certo di un fenomeno locale, alla progressiva fagocitazione della coscienza di classe della sinistra da parte del fenomeno cosiddetto “radical chic”.

Il benessere relativamente diffuso (ma sempre con i mendicanti distribuiti ogni pochi metri sui marciapiedi e i senza dimora a dormire nei ripari fortuiti dei mezzanini della metropolitana, a testimonianza delle violente diseguaglianze) degli anni che hanno preceduto l’esplodere della crisi economica (che era però già innescata da tempo) ha prodotto in un certo popolo di sinistra – per la mia esperienza posso testimoniare su quello milanese, ma in forme leggermente diverse, più o meno marcate, questo è successo ovunque – una falsa coscienza da “sabato in barca a vela, lunedì al Leoncavallo”, come recita una canzone degli anni Novanta di un gruppo milanese, per l’appunto.

Lo sdegno per inquinamento, razzismo leghista, discriminazione di genere, malfunzionamento della giustizia e dei servizi… tutto questo, con una fine operazione chirurgica, è stato gradualmente amputato della consapevolezza della sua ragione strutturale basata sui rapporti di produzione capitalistici.

Anche la coscienza collettiva di ciò che era sinistra ha subito la stessa menomazione, una sorta di accecamento per cui, mancando una visione nitida della motivazione sistemica di tutte le “magagne”, le energie si sono spese senza risparmio per atti solidali e politically correct che non intaccano minimamente il meccanismo di base, incompatibile con una civiltà di esseri umani liberi.

Associazioni di sostegno ai migranti, proteste in bici contro l’inquinamento delle auto, pink washing di vario tipo che considera la discriminazione di genere un fenomeno puramente culturale, gruppi di acquisto solidali di cibo genuino ed “equo” accessibile solo ai benestanti (mentre i poveri non escono dall’orizzonte del junk food, e devono pure sentirsene in colpa perché non è “sostenibile”). Antifascismo, persino, espresso dall’alta borghesia illuminata che dallo splendore dei suoi appartamenti in case di ringhiera ristrutturate, che fa tanto pop, condanna il fascismo nostalgico con scritte su borse e magliette – che fa tanto “ribelle” (innocuo) – ma trascura cosa il fascismo sia e che ruolo abbia – storicamente e attualmente – per la sopravvivenza di un sistema marcio che deve usare con corsi e ricorsi storici la sua faccia cattiva. I poveri invece, che quando va bene vivono nel Bronx di quartieri dormitorio con vita a mano armata, non hanno questo sdegno, non se lo possono permettere, e abbandonati da chi, politicamente, poteva dar loro un orizzonte di speranza, ripongono la loro aspettativa di salvezza nel populismo di destra, senza schizzinosità culturali visto che decenni di istruzione pubblica (scientemente) fatiscente li hanno privati di qualunque paletto culturale e persino etico, sull’onda della demonizzazione dell’ideologia, fatto che più ideologico di così non si può.

Perché l’ideologia più forte è quella del pensiero debole, della convinzione propinata – ma smentita sempre più dal declino del mondo unipolare – che la storia sia finita e questo modello di società disumano, che partorisce genocidi in diretta Instagram tollerati dall’individualismo e dalla miseria umana di stomaci sempre più pelosi, possa essere emendato e non debba essere sovvertito.

Un caso da manuale dello smarrimento della sinistra fu di classe è dato dalle elaborazioni teoriche di alcuni suoi intellettuali di riferimento sulle novità del capitalismo che a loro piace definire “degli strateghi del capitale”, “delle piattaforme”, “del general intellect”, “cognitivo” e via innovando e gettando alle ortiche, assieme alla cassetta degli attrezzi marxiana, in quanto ritenuta un vecchio arnese, la bussola per non perdersi nel caleidoscopio di ologrammi che sono facce della stessa struttura (per usare un termine preso dalla “vecchia” cassetta).

Non è questa la sede per esaminare una per una queste teorie, e nemmeno ne ho la necessaria competenza, mi limito dunque a citare per sommi capi quelle che secondo me hanno maggiormente contribuito alla mutilazione della coscienza di classe.

C’è chi ritiene che con la separazione della proprietà aziendale dal management che attua le strategie d’impresa il nemico di classe sia cambiato, e che siano gli imprenditori più avanzati a poter fare la rivoluzione, invece della classe lavoratrice, non tenendo conto del fatto che questi “strateghi” vengono in gran parte e lautamente retribuiti con azioni, per cui è molto poco plausibile che i loro interessi siano separati e indipendenti da quelli della proprietà. Peraltro, la distinzione fra proprietà e management è già affrontata da Marx e coerentemente inserita nelle sue concezioni teoriche.

C’è l’annosa questione del lavoro produttivo o non produttivo, in cui si spendono tante discussioni in seno agli intellettuali che affrontano il pensiero marxiano: un falso problema perché l’elemento chiave per capire il ruolo del lavoro nel capitalismo non è il tipo di prodotto dei diversi tipi di lavoro, ma il fatto che questo prodotto derivi da una forma di sfruttamento, in qualunque modalità perpetrato.

C’è poi chi, di fronte all’impossessarsi, da parte delle aziende che operano sul web, delle informazioni che gli utenti forniscono attraverso il loro navigare in rete, parla di sfruttamento del consumatore e individua un valore che non avrebbe la sua fonte nel lavoro, senza tener conto del fatto che questi dati sono solo “valore d’uso” per loro gratuito, come i beni donati dalla natura che poi vengono utilizzati nella produzione, e che il valore si crea invece solo grazie all’attività di chi quei dati raccoglie, sistema, elabora per renderli utilizzabili e vendibili.

Il “vecchio attrezzo” della legge del valore viene rottamato anche appellandosi allo sviluppo delle tecnologie e alla conseguente oggettiva diminuzione del peso del lavoro, che sarebbe dunque sostituito nel suo ruolo fondamentale dal “general intellect”: peccato che finché rimaniamo all’interno di questo modo di produzione, per quanto mutino le forme, è necessariamente il pluslavoro l’unica fonte di valorizzazione del capitale.

Queste ipotesi teoriche, che ho schematicamente portato come esempio, sviano rispetto alla contraddizione fondamentale del capitalismo, segnalata da Marx e ancora valida pur nei mutamenti delle forme storiche: da un lato solo il lavoro, anzi la sua eccedenza rispetto alle necessità di riproduzione del lavoratore, può valorizzare il capitale, dall’altro il capitale, per sua stessa natura, deve risparmiare lavoro per essere maggiormente competitivo. Ci troviamo sempre qui oggi, ancora all’interno del modo di produzione capitalistico, sia pure con tutte le sue innovazioni, e il suo superamento non può prescindere dalla riappropriazione dei mezzi di produzione.

Un sistema come quello capitalistico, che si nutre di sfruttamento e genera discriminazioni e iniquità, che ha bisogno vitale di guerre e di prevaricazione, inevitabilmente per reggersi ha bisogno anche di insinuarsi a fondo negli aspetti “sovrastrutturali”, penetrando nella cultura e costruendo un senso comune che lo naturalizzi e lo subisca come inevitabile. Le elucubrazioni teoriche che ho elencato e tante altre di simile tenore, sfocianti in dotte diatribe che non mettono mai veramente a fuoco la radice del modello di società che viene criticato, sono allo stesso tempo effetto e causa della negazione del ruolo della classe antagonista a quella capitalista nel superamento del capitalismo e dunque nella possibilità di una futura liberazione dell’umanità dagli orrori che questo sistema necessariamente comporta.

Intanto, di riflesso, e a tutela del mancato cambiamento, masse di persone provenienti da una cultura di fu sinistra e spesso di militanza introiettano un individualismo incontenibile, appiattiscono il proprio senso critico e si riversano, mutilate della coscienza di classe, nelle battaglie radical chic descritte all’inizio di questo articolo, spezzettando lo sforzo, ormai “riformista” e non più rivoluzionario, in mille rivoli specifici, di stampo buonista-ecologista-pseuofemminista e molti altri “ista” – vari tipi di “giardinaggio”, per dirla come Chico Mendez – assolutamente ininfluenti, anzi addirittura, loro malgrado, complici degli orrori del capitalismo, in quanto non più consapevoli di dove colpire la struttura ma solo di dove fare precari e modesti rammendi. Complici perché deviano la rabbia, il disagio, la spinta al cambiamento verso sbocchi innocui e compiacenti.

Da questa riflessione, credo che derivino con chiarezza due esigenze primarie, per chi ancora vuole creare un mondo nuovo e una nuova umanità.

La prima: ricostruire una potente azione politica che agisca anche sul piano culturale e della comunicazione, fornendo formazione teorica, possibilità di approfondimento e confronto, informazione critica; questo e altri giornali comunisti stanno lavorando in questo spirito e si auspica un loro progressivo coordinarsi in modo da avere più forza e potersi conquistare una nuova egemonia nelle coscienze della classe subalterna.

La seconda, non per importanza: ricostruire, a partire dai luoghi di conflitto e da una ritrovata connessione sentimentale fra gli sfruttati, il soggetto politico che organizzi queste coscienze e si faccia promotore e orientatore della lotta di classe in tutte le sue forme.

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Ros*Lux
Sunday, 17 March 2024 17:37
Brava !...Se si sforza ancora un po' potrebbe arrivare finalmente a prendere coscienza,che da 20 anni in Italia la giornata lavorativa legale è di 13 ore ed oltre ex art. 7 Dlgs 66/2003...In Grecia dal 2023.
È tornata attuale la rivendicazione della giornata lavorativa legale di 8 ore.
La data dell' 8 marzo fu scelta da Rosa Luxemburg per superare la censura e l oblio, con il simbolismo dei numeri
3 e 8 sono appunto 3 volte 8 ...
8 ore di lavoro,8 di riposo,8 ore per se e per la lotta di classe per il socialismo.
Ora non le resta che spiegarlo agli altri esponenti del Mrpc ,che soffrono della sua stessa mutilazione classista della coscienza ma in forma più acuta...
Come Giannini che ha scritto di strage dei femminicidi , quando nel nostro paese sono sotto la media europea, mentre non ha scritto nulla sulla strage dei lavoratori,in piccola parte anche lavoratrici,morti sul lavoro,con un incidenza sopra la media europea e piu che doppia rispetto alla Germania ,nel medio periodo pregresso.

Per ostacolare il movimento contro la guerra Rosa Luxemburg fu imprigionata per anni durante la prima guerra mondiale,oggi forse non sarebbe imprigionata perché è l'intero movimento femminista ad essere prigioniero dell'ideologia neofemmminista orwelliana...
Tutto questo spiega come anche questo 8 Marzo tra le rivendicazioni dello sciopero prevalgono i temi propagandistici dei femminicidi e del gender pay gap , che rimuovono quelli che dovrebbero essere i veri temi rivendicativi: il rischio dell'allargamento della guerra fino a coinvolgerci, il pay gap dei lavoratori della gig economy pagati a cottimo,la giornata lavorativa legale di 8 ore.

il neofemminismo è classismo rosa arcobaleno...lotta di classe al contrario... strumento dell'Imperiarcato ,della guerra imminente.

La Grande Sorella...Google (& Alexa ) con il Doodle diffonde il falso storico neofemmminista dell'origine dell'8 marzo nella commemorazione delle operaie uccise da un incendio appiccato dal maschio padrone.
Mentre in realtà fu la Conferenza Internazionale delle Donne Socialiste del 1910 a Copenaghen a indicare tale data per lo sciopero generale internazionale per giornata lavorativa legale di 8 ore.
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