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GB, il Labour di Corbyn

di Michele Paris

La vittoria di Jeremy Corbyn nella corsa alla leadership laburista in Gran Bretagna, anche se prevista nelle ultime settimane, è giunta come una valanga sulla maggioranza “centrista” e vicina a Tony Blair dei vertici del partito. I risultati della sfida, annunciati ufficialmente qualche giorno fa, hanno rivelato in maniera incontrovertibile il profondissimo senso di alienazione dal sistema politico d’oltremanica sentito dalla gran parte della popolazione.

Allo stesso tempo, i tentativi di leader e burocrati del partito di provare a impedire un esito praticamente mai in discussione con tattiche di dubbia legalità e di sicura inopportunità democratica hanno mostrato ancora una volta il divario incolmabile tra la politica ufficiale e i bisogni e le aspirazioni dei lavoratori e della classe media britannica.

L’improbabile ascesa di un relativamente oscuro deputato laburista alla guida di uno dei due principali partiti della Gran Bretagna è stata resa materialmente possibile in primo luogo da una recente modifica delle norme che regolano le procedure di voto e da un colossale errore di valutazione di alcuni suoi leader.

Allo scopo di rinvigorire un partito screditato da decenni di costante spostamento a destra e scosso dalla sconfitta elettorale del mese di maggio, il Partito Laburista aveva deciso di garantire la possibilità di votare per il proprio nuovo leader a chiunque avesse pagato la somma simbolica di tre sterline. Così facendo, centinaia di migliaia di persone hanno intravisto e colto al volo la possibilità di mandare un chiarissimo messaggio a una leadership fissata sul perseguimento di politiche “centriste”, pro-business e, in politica estera, irrimediabilmente appiattite sulle posizioni dell’imperialismo americano.

La candidatura di Corbyn, poi, era scaturita dall’appoggio ottenuto da 36 deputati laburisti, cioè appena uno in più del numero necessario a consentire a un membro del partito di correre per la leadership, la metà dei quali non faceva parte dell’ala sinistra del partito. La loro decisione era stata determinata da considerazioni di opportunità, poiché essi ritenevano che la partecipazione di Corbyn alla competizione interna per il ruolo di leader avrebbe potuto beneficiare il “Labour”, dando cioè l’impressione dell’apertura del partito a tutti gli orientamenti.

Soprattutto, per alcuni, la presenza di un candidato di “estrema sinistra” come Corbyn, e la sicura sconfitta a cui sarebbe dovuto andare incontro, sarebbero state utili a dimostrare l’esiguità di un elettorato “radicale” in Gran Bretagna, così da giustificare la prosecuzione di politiche neo-liberiste da parte del partito.

Questa previsione è stata però completamente demolita dalla realtà di un voto che ha registrato un sostegno massiccio per l’agenda progressista e anti-austerity di Corbyn, il quale ha ottenuto quasi il 60% dei consensi, vale a dire più di quanto raccolto complessivamente dai suoi tre sfidanti. L’umiliazione più pesante è stata inflitta alla candidata maggiormente identificata con la corrente facente capo a Blair, Liz Kendall, finita ultima con appena il 4,5% dei voti, dietro a Andy Burnham (19%) e Yvette Cooper (17%), entrambi ex membri del governo di Gordon Brown (2007-2010).

Questo risultato ha anche smentito clamorosamente l’interpretazione condivisa da media e commentatori “mainstream” sulle sfortune del Labour, sconfitto sonoramente nelle ultime elezioni a causa delle posizioni eccessivamente di “sinistra” promosse dall’ormai ex leader, Ed Miliband.

Da questo singolare punto di vista, dopo cinque anni di devastazione sociale imposta dal governo Cameron gli elettori avrebbero punito i laburisti per non avere incluso nel loro programma, tra l’altro, ulteriori tagli alla spesa pubblica e una politica estera ancora più aggressiva. Come appare evidente, una simile logica manca di spiegare come l’agenda di Corbyn abbia potuto avere un tale successo tra coloro che hanno votato per la leadership del Partito Laburista.

Con lo stesso atteggiamento, i giornali anglo-sassoni in questi giorni hanno in gran parte giudicato un grave errore l’elezione di Corbyn, visto che un leader che promuova politiche anti-austerity e relativamente pacifiste non può che trascinare nel baratro il Labour.

Dai media vicini ai laburisti come il Guardian a quelli filo-conservatori, come il Financial Times che ha definito “disastrosa” la scelta del Labour, il panorama britannico ha visto un coro di critiche più o meno velate al nuovo numero uno del partito, la cui vittoria lascerebbe presagire una lunga permanenza dei conservatori al governo.

Parallelamente, il Labour potrebbe andare incontro a una vera e propria spaccatura, come confermerebbero i malumori espressi dall’ala moderata del partito e le rinunce da parte di alcuni leader a occupare cariche nel nascente governo ombra di Corbyn.

Ciò che risulta interessante nel valutare le reazioni della stampa ufficiale è l’indifferenza nei confronti dei sentimenti degli elettori. Infatti, nonostante tre votanti su cinque abbiano espresso il proprio appoggio a politiche progressiste e la loro contrarietà alla deriva conservatrice del Labour, l’esito dell’elezione non rispecchierebbe la vera disposizione del paese, fissato piuttosto, come la sua leadership, su misure ultra-liberiste o poco meno.

In realtà, molte delle proposte su cui Corbyn ha fatto campagna elettorale sono condivise dalla maggioranza della popolazione e, per moltissimi, non risultano affatto “radicali”: dalla nazionalizzazione delle ferrovie all’opposizione della privatizzazione del sistema sanitario, dall’ostilità alla NATO all’aumento della spesa per il welfare.

Anche per un giornale di tendenze teoricamente progressiste come il Guardian, le idee promosse da Corbyn sarebbero però residuati degli anni Settanta, a conferma di come ciò che passa per dibattito politico ufficiale in Gran Bretagna come altrove sia dominato dagli interessi di una classe ben precisa e di quanto sia difficile tracciare un percorso alternativo all’austerità, allo smantellamento dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori.

Il successo di Jeremy Corbyn rappresenta ad ogni modo una tendenza non limitata alla Gran Bretagna. Il trionfo di Syriza nelle elezioni di inizio anno in Grecia, l’ascesa nei sondaggi di Podemos in Spagna e l’entusiasmo generato dal senatore indipendente Bernie Sanders in vista delle primarie democratiche negli Stati Uniti indicano una repulsione generalizzata per le politiche a senso unico perseguite dalla classe politica occidentale e propagandate come le uniche percorribili da parte dei media ufficiali.

Che vi sia un appetito diffusissimo tra le popolazioni di tutti i paesi per una politica svincolata dai poteri forti, quando non addirittura alternativa al capitalismo in crisi terminale, non signifca però che il cambiamento possa giungere attraverso movimenti relativamente nuovi e senza esperienza di governo - come conferma il voltafaccia di Syriza sull’austerity nell’ambito della trattativa con l’Unione Europea - o per mezzo di organi ampiamente screditati e del tutto allineati al neo-liberismo e all’imperialismo di Londra e Washington come il Partito Laburista in Gran Bretagna e il Partito Democratico negli Stati Uniti.

Anzi, candidature o successi come nel caso di Corbyn o di Sanders possono nascondere manovre delle classi dirigenti per impedire una mobilitazione indipendente su diverse basi ideologiche e veicolare il malcontento popolare e le tensioni sociali verso un canale sicuro, rappresentato da partiti che, in fin dei conti, hanno come riferimento quelle stesse élites il cui dominio sulla società si vorrebbe vedere allentato.

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