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alfabeta

Apocalittici del data-capitale

G.B. Zorzoli

Togli il paradosso da un pensatore e avrai un professore. Questo aforisma di Kierkegaard è la stella polare di Evgeny Mozorov: non contento di fare largo uso di paradossi, forse per timore di perdere l’orientamento, nei suoi scritti ne inserisce talvolta qualcuno che, paradossalmente, lo porta fuori strada. Gli è accaduto in un recente articolo sul «Guardian» (Tech titans are busy privatising our data), che ruota intorno a un fatto ben noto: Google, Facebook e compagnia («the leading tech firms») continuano a offrirci servizi sottocosto, perché in tal modo si appropriano di altri dati su di noi; una merce preziosa, pagata a caro prezzo da chi deve venderci qualcosa ed è interessato a conoscere i nostri gusti e le nostre preferenze.

Per non fermarsi a un’affermazione così banale da essere alla portata di qualsiasi professore, Morozov si rifà ad alcune analisi contenute in Alphaville, un blog del «Financial Times», secondo cui il modello di business delle «leading tech firms», basato sullo sfruttamento intensivo dei dati in proprio possesso, distorce il funzionamento del mercato, privandolo delle informazioni necessarie per un’efficiente allocazione delle risorse.

Non contento di riportare senza spiegazioni una conclusione così osé, Morozov ne fornisce un’interpretazione tanto paradossale quanto priva di prove: il modus operandi di Google, Facebook e compagnia cantando «sta mangiando il mondo e questo mondo include certamente industrie automobilistiche, banche, hotel, giornali».

A questo punto la porta è spalancata per un secondo paradosso. Se l’economia reale rallenta, non sarà più in grado di rimunerare in misura adeguata la vendita di dati e i signori del web non potranno più offrirci servizi sottocosto. Qui scatta il terzo, decisivo paradosso – le «leading tech firms» utilizzeranno qualsiasi mezzo per obbligarci a pagare i loro servizi, instaurando una forma ipermoderna di feudalesimo – che porta inequivocabilmente fuori strada Morozov. Se i potentati economici non hanno più nemmeno i soldi per acquistare dati sensibili per le loro campagne pubblicitarie, com’è pensabile che gli ipermoderni servi della gleba siano in grado di pagare i servizi offerti dai signori del web?

In realtà Morozov incomincia a sbandare prima, quando appoggia il suo primo paradosso sulla citazione acritica delle analisi, di per sé discutibili, del «Financial Times», dimenticando che la fonte dei paradossi più efficaci la fornisce un esame attento di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi. Dopo avere per decenni descritto l’inflazione come il peggiore dei mali possibili, da combattere con ogni mezzo (cioè con provvedimenti che colpiscono chi meno ha), le grandi istituzioni finanziarie ci raccontano oggi che la deflazione è ancora peggio e un po’ d’inflazione non fa male, ma non ci spiegano come mai siamo arrivati a questo punto. A due fattori, già presenti, che favoriscono le spinte deflattive – l’eccessiva, ma soprattutto sregolata finanziarizzazione dell’economia e la disoccupazione tecnologica, che per la prima volta colpisce il lavoro intellettuale intermedio, ma anche medio-alto (nelle Borse più della metà delle transazioni è gestita direttamente da software) – se ne sta infatti aggiungendo un altro, non meno strutturale: l’abbassamento del costo delle transazioni. Alle forme di disintermediazione ormai consolidate – acquisti e pagamenti online – si stanno affiancando opportunità altrettanto innovative. Uber vale 68 miliardi di dollari (più di Ford e General Motors), ma conta su poche centinaia di salariati diretti, mentre per molti degli autisti occasionali, disoccupati spesso cronici, lo scarso reddito che traggono da questo lavoro rappresenta un misero ammortizzatore sociale, come conferma la loro agitazione – la prima! – per ottenere un minimo sindacale. L’affitto di una stanza tramite Airbnb può aiutare il ceto medio impoverito ad arrotondare lo stipendio, ma Airbnb, che vale 26 miliardi di dollari e vanta l’offerta annua di oltre 40 milioni di stanze per notte in 192 paesi, occupa solo 500 persone. Considerazioni analoghe valgono per altre startup, come Blablacar (20 milioni di passaggi annui in auto tra due città) o Snapchat.

Con una parte così elevata del valore creato allocata al capitale, diminuisce il reddito a disposizione della maggioranza dei cittadini e, di conseguenza, cala o addirittura si annulla l’inflazione da domanda. Gli strumenti a disposizione delle banche centrali e delle istituzioni finanziarie internazionali per contrastare il fenomeno sono indeboliti da tassi prossimi allo zero o addirittura negativi, mentre non sono per ora in vista proposte di politica economica realmente innovative.

Paradossalmente è vero che i vecchi e nuovi signori del web stanno indebolendo gli altri settori dell’economia, e che – tra retribuzioni ridotte all’osso e disoccupazione crescente – impoveriscono ulteriormente la maggior parte dei cittadini, ma ciò dipende dall’organizzazione del lavoro che adottano per avere successo, non perché Google e Facebook vendono i dati di chi si connette.

Non riguarda il Morozov pensiero, ma è ancora più paradossale che non abbia riacquistato popolarità la tanto bistrattata previsione di Marx sull’impoverimento tendenziale del proletariato, indotto dallo sviluppo capitalistico.

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