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illatocattivo

L'enigma della rottura

Editoriale del n. 2 di "Il lato cattivo"

A quattro anni dalla prima uscita in formato cartaceo, giungiamo infine a pubblicare un secondo numero de «Il Lato Cattivo». Rispetto al calderone di spunti del primo numero, lasciamo al lettore il compito di cogliere nel dettaglio quali «piste» abbiamo seguito e quali abbiamo abbandonato o lasciato in sospeso. Ma un così lungo silenzio merita almeno qualche spiegazione. Non che sia stato un silenzio assoluto o inattivo, data l'intensa attività di pubblicazione e diffusione in cui ci siamo spesi, soprattutto via Internet, di scritti nostri o altrui, riguardanti le questioni più svariate – trovando anche il tempo per un paio di incontri pubblici. Ma è pur vero che contavamo di dare all'uscita della rivista una cadenza semestrale o quantomeno annuale – cosa che puntualmente non è avvenuta. Il tran tran e le difficoltà quotidiane non spiegano tutto.

Diciamo, in primo luogo, che il periodo giusto a ridosso della crisi del 2008, aveva suscitato, in noi come in molti altri, delle aspettative che si sono rivelate essere frutto di un fraintendimento. Se le rivolte nelle banlieues francesi del 2005, il collasso economico del 2008, il movimento greco del dicembre dello stesso anno (per restare agli eventi più eclatanti), potevano lasciar presagire non solo un approfondimento fulmineo dell'antagonismo fra proletariato e classe capitalista, ma soprattutto una semplificazione di questo antagonismo – i proverbiali nodi che vengono al pettine – il seguito non è andato propriamente in questo senso.

Quando andammo in stampa, all'inizio del 2012, la «magagna» era già visibile, ma non ancora così esplicita; oggi, ha assunto dimensioni mastodontiche, e sarebbe assurdo far finta di niente. La serie iniziata nel 2009 con l'onda verde iraniana è stata effettivamente densissima: Occupy, Indignados, Québec, Primavere Arabe, Turchia, Brasile, Bosnia, fino ad arrivare alla più recente Umbrellas Revolution di Hong Kong; collateralmente (e in rapida successione): EuroMaidan e lo scoppio della guerra russo-ucraina, i quattro milioni di francesi scesi in piazza per la manifestazione Je suis Charlie, la vittoria di Syriza in Grecia, l'ascesa di Podemos in Spagna, la «crisi dei migranti», la recentissima apparizione del movimento Nuit Debout ancora in Francia. In appendice: la collisione tra lo Stato Islamico e la sedicente «rivoluzione in marcia» nel Rojava, col successivo intervento della coalizione internazionale. Una serie estremamente eterogenea, con al centro un solo ed inaspettato attore protagonista il cui nome, per gli odierni «sovversivi», è tabù: la classe media. Attenzione: questo non vuol dire che il proletariato viva su un altro pianeta, al contrario! Le lotte del proletariato ci sono (state) eccome – ai margini, agli inizi o negli interstizi, estranee o relegate nelle retrovie di forme politiche colossali: nelle fabbriche di Port-Said, nelle miniere del Donbass, nelle periferie di Londra e Stoccolma, nelle favelas brasiliane, nei cantieri navali di Hong Kong etc. Con in più un ulteriore paradosso: da un lato, questo susseguirsi di eventi di rara intensità, dall'altro, un capitalismo mondiale in fase di stabilizzazione dal 2010.

Di fronte a questa realtà tale quale si presenta, si potrebbe allora essere tentati di volgere lo sguardo altrove e dire: molto rumore per nulla. Di assumere, insomma, la postura aristocratica dei disillusi che la sanno lunga, e che attendono tempi migliori – dicendosi che, in fondo, in ciò che sta accadendo non vi è nulla che veramente ci interpelli, che ci chiami ad una comprensione. Sarebbe facile, appunto.

Sull'altra sponda ci sono, invece, i cantori ribelli delle cose così come sono. Un esempio su tutti: in occasione delle manifestazioni dell'autunno scorso a Hong Kong, David Graeber – nuova velina della contestazione hipster et demo-libertaria – si è profuso in toni trionfalistici:

«Ogni volta che viene dichiarata la fine del movimento Occupy, lo si vede risorgere da qualche altra parte: in Nigeria, in Turchia, in Brasile, in Bosnia [...] L'anno 2011 ha veramente trasformato la nozione di rivoluzione democratica [...] Quando gli storici vi si dedicheranno, lo compareranno al 1848: le insurrezioni quasi simultanee scoppiate a quell'epoca nel mondo intero, non hanno portato ad alcuna presa del potere, ma hanno comunque messo tutto a soqquadro.» (Le Mouvement Occupy se mondialise, in «Le Monde», 13 ottobre 2014).

Lo stesso Graeber non ha mancato di perorare anche la causa della «rivoluzione in marcia» nel Rojava:

«Nel 1937, mio padre si arruolò volontario per combattere nelle Brigate Internazionali in difesa della Repubblica Spagnola. [...] I rivoluzionari spagnoli speravano di realizzare la visione di una società libera a cui il mondo intero avrebbe potuto ispirarsi. Invece, i poteri mondiali decisero per una politica di “non intervento” [...] persino dopo che Hitler e Mussolini, apparenti sostenitori di tale politica, iniziarono a fare affluire truppe e armi a sostegno della fazione fascista. Il risultato fu quello di anni di guerra civile, terminati con lo schiacciamento della rivoluzione e con quello che fu uno dei più sanguinosi massacri del secolo. [...] Non avrei mai pensato di vedere, nel corso della mia vita, la stessa cosa accadere nuovamente. [...] La regione autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei pochi raggi di luce – un raggio di luce molto luminoso, a dire il vero – a emergere dalla tragedia della Rivoluzione siriana. [...] Se oggi vogliamo stabilire un parallelo con i Falangisti assassini di Franco, con chi altri possiamo farlo se non con l’ISIS? Se esiste un’analogia con le Mujeres Libres di Spagna, con chi potrebbe essere se non con le coraggiose donne che difendono le barricate a Kobane? Davvero il mondo – e questa volta, cosa più scandalosa di tutte, la sinistra internazionale – si sta rendendo complice nel lasciare che la storia si ripeta?» (Why is the world ignoring revolutionary kurds in Syria?, in «The Guardian», 8 ottobre 2014).

Ci risparmiamo, per una volta, di controbattere: Graeber non è un «recuperatore», e probabilmente crede alle stupidaggini che scrive; semplicemente, parla a nome e nei termini propri delle classi medie di cui è espressione. Il fatto che il modo di produzione capitalistico possa essere qualcosa di più che una politica e, al limite, un rapporto di distribuzione, non gli passa neanche per l'anticamera del cervello. Ognuno dei limiti del movimento Occupy e di tutto ciò che – dagli Appennini alle Ande – vi somiglia anche solo alla lontana, rappresenta per lui un elemento di novità e un segno di forza. Tuttavia Graeber è soltanto la punta di diamante di un nutrito manipolo – tra i quali vi sono anche compagni a noi più vicini e generalmente più lucidi (cfr. il nostro «Questione curda», Stato Islamico, USA e dintorni) – poco stimolato dall'ipotesi che il rovesciamento rivoluzionario degli attuali rapporti sociali, possa e debba essere qualcosa d'altro che la semplice e miracolosa ubiquità di Occupy – o di qualsiasi altro «movimento sociale» – nel tempo e nello spazio.

Per noi, si trattava innanzitutto di sfuggire ad entrambe queste posture: non si può salvare una costruzione teorica a costo di sacrificare la realtà; ma nemmeno darsi ad un puro elogio del presente, a discapito di un solido inquadramento teorico. Siamo allora tornati per l'ennesima volta alla sorgente – che non poteva che voler dire: a Marx – allo scopo di giungere ad una comprensione della fase attuale che fosse il più dialettica possibile, che contenesse cioè nella comprensione positiva delle cose, anche il loro ineluttabile tramonto, la loro distruzione necessaria. Quella che nel primo numero de «Il Lato Cattivo» compariva come «l'epoca delle rivolte» (formula proposta dal gruppo/rivista Blaumachen, ormai disciolto) si precisa come una fase di rivolte politiche caratterizzate dall'interclassismo e dall'egemonia della classe che meglio esprime questo interclassismo: la classe media. Anche qui, sarebbe stato facile accomodarsi sul carattere «transitorio» di questi dati, dirsi semplicemente: passerà. Ma bisogna essere in grado di spiegare perché. Ovvero: (far) intravvedere in cosa potrebbe consistere il superamento di questa fase, il suo ineluttabile tramonto; mostrare, insomma, che la rivoluzione comunista non è un'immensa manifestazione di piazza o un «movimento sociale», estesi su scala mondiale. In un testo di gioventù, Marx scrive:

«La rivolta industriale […] può essere parziale fin che si vuole, essa racchiude in sé un'anima universale; la rivolta politica può essere universale fin che si vuole, essa cela sotto le forme più colossali uno spirito angusto»1.

Per riprendere e riattualizzare la formula, era necessario trasporla nella configurazione odierna del «geroglifico sociale»: individuare i fondamenti della «rivolta politica» e della «rivolta industriale», e la frontiera che le separa; cogliere il processo attraverso il quale (oggi) la prima assorbe la seconda; figurarsi il processo inverso – rovesciamento della praxis! – per mezzo del quale la seconda potrebbe (domani?) dissolvere la prima. Cos'è oggi questo «spirito angusto» della «rivolta politica»? Che ne è della «rivolta industriale» e della sua «anima universale»? Il testo che segue – che è anche l'unico di questo numero – tenta, fra le altre cose, di rispondere a tali interrogativi.

Rimarchiamo infine che, malgrado la stesura di queste pagine ci sia costata tempo e fatica, poco o nulla di ciò che vi si potrà trovare è frutto «originale» delle nostre povere teste bacate: esso è soprattutto il condensato delle innumerevoli discussioni avute con compagni vicini e lontani negli ultimi quattro anni. 


Note
1 Facciamo qui riferimento all'articolo Glosse marginali di critica all'articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale, firmato: Un Prussiano», apparso nel n. 63 del «Vorwärts» il 7 agosto 1844, e dedicato alla rivolta dei tessitori di Slesia. Teniamo ad esplicitare che l'uso che facciamo qui dell'opposizione rivolta industriale/rivolta politica, si discosta notevolmente e volutamente dai motivi originari dell'articolo di Marx, legati alla problematica umanista del «comunismo filosofico» all'interno della sinistra hegeliana («Ma non scoppiano forse tutte le rivolte, senza eccezione, nel disperato isolamento dell'uomo dalla comunità?», ivi).

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