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badialetringali

Siamo vicini al collasso?

di Marino Badiale

0 30094Sono ormai in molti a sostenere che l’attuale organizzazione economica e sociale è destinata a finire, in maniera più o meno traumatica, nell’arco di qualche decennio. In Francia si parla, forse con un po’ di ironia, di “collapsologie” come di una nuova disciplina scientifica che studia appunto il collasso prossimo dell’attuale organizzazione sociale [1,2,3]. Intendo qui provare a riassumere i termini fondamentali della questione. Cercherò di sostenere che in effetti vi sono argomenti ragionevoli a favore della tesi del collasso prossimo. Questo ovviamente non implica che si possano fissare dei limiti temporali precisi, né che si possano fare ipotesi ragionevoli su quale potrà essere la nuova forma di organizzazione sociale che sostituirà l’attuale.

La tesi fondamentale che intendo esporre è che il collasso prossimo venturo deriverà dal concorrere di cause diverse, sarà cioè il risultato del confluire di diversi processi di crisi. Stiamo cioè entrando in una fase storica nella quale meccanismi di diverso tipo porteranno a problemi sempre maggiori nella riproduzione dell’attuale ordinamento sociale. Nessuno di tali problemi probabilmente sarebbe in sé tale da causare una crisi irreversibile, ma mi sembra ragionevole pensare che sarà proprio la loro contemporaneità a innescare il collasso.

Le crisi fondamentali che stanno confluendo assieme possono essere schematizzate sotto tre grandi etichette: crisi economica, crisi egemonica, crisi ecologica.

Esaminiamole in quest’ordine.

La crisi economica scoppiata nei paesi occidentali nel 2007/08 presenta caratteristiche che hanno spinto alcuni economisti a introdurre (o reintrodurre) il concetto di “stagnazione secolare” [4,5]. È certo vero che la fase più acuta della crisi è stata superata, e che alcuni paesi hanno ritrovato tassi di crescita economica sostenuti.

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lacausadellecose

Ma cos’è questa crisi

di Michele Castaldo

Acqua verso la crisi globale per laumento della domandaRodolfo De Angelis cantava negli anni ’30: “Ma cos’è questa crisi: […] L'esercente poveretto non sa più che cosa far e contempla quel cassetto che riempiva di danar […]”. Se è vero che la storia non si ripete mai uguale a sé stessa, e quando si ripete ha i connotati della farsa, va detto che questa crisi non è una farsa.

Si, è una crisi seria, molto seria e ad essere preoccupati sono innanzitutto lor signori, cioè categorie sociali e personaggi di un potere che vedono scuotere un intero sistema che sembrava incrollabile fino a qualche decennio fa. Cerchiamo di raccapezzarci qualcosa nelguazzabuglio nazionale all’interno di un caotico quadro mondiale.

Il problema è Salvini? Mettiamo subito in chiaro una cosa: Salvini è l’effetto e non la causa dello spettacolo che sta vivendo l’Italia in questa fase. Il problema vero – dunque la causa – è quel 37/38% di elettori (stando ai sondaggi) che lo vorrebbero presidente del consiglio, e perché no? presidente della Repubblica, visto che è così deciso, incisivo, chiaro, schietto, insomma così popolare? Un uomo del fare, un uomo dei sì, un uomo del produttivismo, un uomo che mette l’Italia e gli interessi degli italiani al di sopra di tutti gli altri.

Manovre internazionali? Certo, quelle non mancano mai, ma non inganniamo noi stessi: le manovre prendono piede lì dove c’è il terreno favorevole, tanto è vero che Steve Bannon può ben vantarsi di aver favorito la nascita di un governo come quello giallo verde, ma non potrebbe ascrivere a proprio merito il salto elettorale della lega prima del marzo 2018 ein meno di un anno il travaso di alcuni milioni di voti dal M5S alla Lega di Salvini, in modo particolare al sud. Insomma la storia non la fanno i personaggi che studiano a tavolino come muovere milioni di persone in un senso piuttosto che in un altro. I complottisti si inseriscono in tendenze oggettive cercando di favorire quella che più va incontro ai propri interessi. Il Complotto in assoluto non esiste: l’Urss implose perché le leggi del mercato la fagocitarono. La Jugoslavia implose per le stesse ragioni.

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Un ciclo trentennale è finito. E ora?

di Dante Barontini

nbkbnkjnsldlanskbbknsdclksdI cambiamenti d’epoca risultano facili da leggere solo a distanza di tempo. Ai posteri è semplice vedere le date spartiacque, le decisioni di svolta, l’emergere e l’affondare di protagonisti collettivi.

A chi vive dentro, invece, tocca il compito di cogliere i vari segnali, distinguere ciò che è rilevante da quello che non durerà nulla, connettere quei punti e individuare una prospettiva nel buio oceano denso di onde.

Da qualche tempo andiamo dicendo che la globalizzazione è finita. Quel periodo iniziato formalmente con la caduta del Muro e subito dopo dell’Urss, segnato dal trionfo del neoliberismo capitalistico e dall’egemonia assoluta statunitense, dall’affermarsi di un “pensiero unico” che accompagnava l’esistenza reale di un mercato mondiale altrettanto unico, dove le uniche variabili di prezzo erano rappresentate dalle monete e soprattutto dal lavoro umano.

In quest’arco di tempo ha preso corpo reale anche l’Unione Europea, quasi-Stato fatto di trattati sagomati sull’interesse nazionale dei paesi più forti, fonte di diseguaglianze mai viste sotto la coltre retorica della “comunità”. Germania e Francia ne sono state protagoniste, costruendo o conservando in modo diverso la propria prosperità a scapito degli altri partner, soprattutto mediterranei, e attingendo alle infinite possibilità di delocalizzazione nei paesi dell’Est europeo.

La crisi esplosa oltre dieci anni fa ha fatto prima traballare quegli equilibri. La crisi Usa e l’emersione prepotente della Cina come potenza economica gli hanno dato la spallata definitiva. Le economie occidentali a guida anglosassone rimangono stagnanti solo grazie a politiche monetarie così espansive da aver reso negativo il rendimento del denaro (un controsenso, in ambito capitalistico), indice rivelatore di una “avversione al rischio” degna di una classe di rentier, non certo di imprenditori.

L’apparizione dei Trump, dei Bannon o dei Salvini è un effetto di questa crisi di egemonia e dell’impossibilità di “conservarli”. Così come le frequenti stragi messe in atto da suprematisti bianchi, negli Usa come in Nuova Zelanda, sono la reazione stragista di una perdita di centralità mondiale dell’uomo bianco anglosassone e protestante.

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tempofertile

Andre Gunder Frank, “Riflessioni sulla nuova crisi economica mondiale

di Alessandro Visalli

specchi teatroIl libro raccoglie i testi di alcune conferenze di Andre Gunder Frank nel cruciale periodo 1972-77, quando la crisi economica sistemica nella quale siamo ancora immersi si stava affacciando alla consapevolezza della sinistra critica, estendendosi dalla sua prima forma, connessa con la crisi energetica (che però è solo un sintomo), fino alla generalizzazione in occidente delle politiche di austerità sostenute ovunque dai partiti socialdemocratici e da quelli ‘eurocomunisti’. Leggeremo questo testo nel contesto dello studio delle diverse diramazioni della “teoria della dipendenza” (e poi dei “sistemi mondo”) che stiamo svolgendo e che sono riassunti provvisoriamente nel post “Sviluppi della teoria della dipendenza”.

Si tratta comunque di una serie di testi di occasione che si collocano in una fase decisiva: si è appena prodotto il trauma della ‘decapitazione’ della “teoria della dipendenza”, da parte del generale Pinochet[1], e Frank, lavorando in stretta connessione con Samir Amin, sta cercando un nuovo schema interpretativo che successivamente si addenserà nella “teoria dei sistemi mondo”. Siamo ancora lontani dalla crisi del 1999, quando lo stesso Frank rompe con la “banda dei quattro” (o, meglio, con i restanti tre membri) formulando la base della sua “teoria del sistema-mondo[2], e Gunder Frank è certamente ancora marxista. Per fornire ancora un qualche contesto, nel biennio successivo a quello di queste conferenze (per lo più tenute tra il 1974 ed il 1976) si avrà la conclusione del ciclo di crescita della sinistra comunista italiana (ormai divenuta “eurocomunista”, come vedremo) e l’offerta di “sacrifici senza contropartite”, insieme all’esordio al centro della scena del “vincolo esterno”[3].

Ma riepiloghiamo le posizioni a questo momento: innestandosi sul tronco della “teoria della dipendenza” di Prebisch, Furtado, Dos Santos, ma innestandovi elementi derivanti dalla sua solida formazione economica[4] e dalla scuola americana di Baran e Sweezy, Gunder Frank negli anni sessanta sviluppa la tesi che per comprendere la persistenza dei fenomeni di sottosviluppo, che interessano l’America Latina, è necessario allargare lo sguardo e focalizzare le relazioni economiche, commerciali e finanziarie, che connettono le élite dei paesi in una catena funzionale alla perpetuazione dei rapporti di sfruttamento.

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sinistra

Crisi globale e capitale fittizio

di Raffaele Sciortino

Excursus dal volume Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios, Trieste 2019, pp. 34-41

f8105376cf5755840c470ee55123426d XLMa qual è il nesso profondo tra globalizzazione finanziaria e crisi globale? Ovvero, come andare oltre il livello descrittivo? È una domanda, chiaramente, dalle importanti implicazioni politiche oltreché teorico-analitiche. In questa scheda alcune indicazioni sulle principali posizioni e sull’ipotesi guida di questo lavoro.

All’indomani della crisi sembra ci siano tutte le condizioni per un ritorno in auge delle ricette keynesiane, vista la débacle in corso del cosiddetto neoliberismo. Per i neo-keynesiani l’eziologia della crisi, letta come crisi principalmente se non esclusivamente finanziaria, sta in primo luogo nel greed di Wall Street, nell’eccessiva avidità della finanza speculativa che avrebbe perso il senso del limite anche a causa delle misure di deregolamentazione degli anni Novanta - in primis l’abolizione nel 1999 da parte del Congresso statunitense del Glass-Steagall Act che, varato sotto il New Deal, prevedeva la separazione tra attività bancaria tradizionale e speculativa - da parte di una classe politica disinvolta e ammaliata dai successi del corso neoliberista.1 A questa diagnosi i post-keynesiani, la sinistra del keynesismo, aggiungono gli effetti deleteri per i livelli della domanda complessiva del sottoconsumo delle masse dovuto alla caduta del monte salari complessivo negli ultimi decenni.2 La terapia proposta è la ri-regolazione della finanza per un maggiore controllo sugli eccessi speculativi, nonché un peraltro assai cauto ritorno all’intervento statale, basato per lo più su politiche monetarie lasche opposte a quelle della scuola austriaca - che vede la crisi come un classico caso di deflazione da debito causata da tassi di interesse eccessivamente bassi - al fine di stimolare la domanda aggregata, eventualmente rivista nell’ottica della green economy. Non si arriva dunque a proporre, in genere, un vero e proprio nuovo New Deal con politiche redistributive significative. Del resto, a questo fine i problemi in Occidente sarebbero enormi se non insormontabili.

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Point Break: Crisi globale - sindacato internazionale

di Daniele Canti*

main tecnologiaDal fallimento della banca d'affari Lehman Brothers avvenuto a settembre 2008 sono trascorsi oltre dieci anni. Sino a pochi mesi or sono, secondo la vulgata, la crisi era ormai alle nostre spalle ed il problema era agganciarsi alla ripresa. Ora qualche dubbio che non ci sia nulla a cui agganciarsi comincia a farsi largo.

Ma anche quando vengono avanzate riserve sul radioso futuro che ci attenderebbe, lo si fa soltanto sull’onda dell’ultimo rilevamento dato in pasto dai mass media e non in base ad un analisi più approfondita del sistema e delle sue contraddizioni.

Partiamo dal 2008.

L’elemento decisivo per la crescita della bolla immobiliare fu la riduzione continua dei tassi praticata dalla Federal Reserve che favorì l’indebitamento delle famiglie americane.

Tra il 2000 ed il 2003 il tasso della FED passò dal 6,5% all’1%. I lavoratori americani compravano case, i mutui erano vantaggiosi, il prezzo degli immobili saliva. Il valore degli immobili dati in garanzia si gonfiava a dismisura. La FED, resosi conto della bolla immobiliare che si era creata, dal 2004 al 2006 alzo il tasso d’interesse al 5,5%. I lavoratori, in pochissimo tempo, si ritrovarono con rate di mutui molto più alte che non riuscivano a pagare. Gli immobili crollarono di valore. Nel frattempo, grazie alla “tripla A” attribuita dalle blasonate società di rating ai titoli di credito derivati dalla cartolarizzazione dei mutui subprime (sottoscritti prevalentemente da lavoratori precari), i fondi pensione dei lavoratori americani si fecero una scorpacciata di titoli spazzatura. Così in un colpo solo la working class americana perse il lavoro, la casa, la pensione.

Ma perché la Federal Reserve si comportò in modo così apparentemente irrazionale? La ragione è molto semplice. Risiede in un’altra bolla che era scoppiata nel 2001 quella delle dot.com , le aziende informatiche facenti riferimento a Internet. La politica monetaria espansiva messa in atto, era dunque la risposta al collasso economico derivato dalla precedente bolla speculativa.

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sinistra

I dieci anni che sconvolsero il mondo

Introduzione

di Raffaele Sciortino

Raffaele Sciortino: I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios, 2019

dalla COPertina. I DIECI ANNI A un libro obiettivamente denso si addice un’introduzione la più possibile asciutta. Il lettore non troverà qui, dunque, un riassunto del contenuto ma qualche indicazione del quadro nel quale questo lavoro si inserisce, della sua articolazione, delle questioni di fondo che punta a sollevare.

Il quadro. I dieci anni che hanno scosso, se non ancora sconvolto, il mondo sono gli anni della prima crisi effettivamente globale del sistema capitalistico: scoppiata tra il 2007 e il 2008, essa ha investito a cascata i meccanismi della globalizzazione finanziaria, gli assetti geopolitici mondiali, le dinamiche soggettive delle classi sociali fin dentro un Occidente che sembrava bloccato per sempre sul mantra neoliberista. Dieci anni possono essere poca cosa a scala storica ma sono un periodo già discretamente lungo a scala generazionale, tanto più se forieri di trasformazioni significative. Poco per fare un bilancio storico ma non per tentare un primo bilancio del presente inteso come un passaggio della storia. Questo libro, allora, non è un lavoro storiografico canonico - pur basandosi su fonti rigorosamente vagliate - ma è un lavoro politico come figlio di questo decennio. Non solo perché per una sua parte rielabora, sistematizza e fornisce una cornice teorica ad articoli da me scritti in tempo reale man mano che la crisi globale e i suoi risvolti venivano a delinearsi. Ma soprattutto nel senso che è il tentativo di mettere in prospettiva questi dieci anni a partire dalla convinzione che sono in corso mutazioni importanti, per certi versi veri e propri punti di non ritorno.

La dinamica degli ultimi decenni - già esito della peculiare controrivoluzione succeduta al lungo Sessantotto e segnata dal sempre eguale dello Spettacolo mercantile lubrificato dal circuito del debito - si è rimessa in moto. E lo ha fatto, finalmente, a partire da sconquassi che originano non dalla periferia ma dal centro dell’impero del capitale, scuotendo il consenso neoliberista diffuso e il suo pilastro, il soft power statunitense, rimettendo in campo l’interventismo statale a salvataggio dei mercati, riaccendendo il conflitto inter-capitalistico, suscitando anche in Occidente reazioni sociali e politiche esterne e contrarie ai dettati dell’ortodossia liberale.

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carmilla

Aprire gli occhi, leggere la crisi

di Sandro Moiso

Countdown. Studi sulla crisi. Vol.III, Asterios Abiblio Editore, Trieste Novembre 2018, pp.160, euro 15,00

debito mondiale crisi finanziaria 480x320Secondo le stime dell’ufficio statistico federale, a novembre, in Germania la produzione di beni di consumo è diminuita di oltre il 4%, i mezzi di produzione di quasi il 2% e i beni intermedi dell’1%. Il calo della produzione è stato avvertito anche nel settore energetico e delle costruzioni e tutti questi problemi sono associati alle difficoltà incontrate dall’industria automobilistica del paese governato da Angela Merkel.

Se la cosiddetta locomotiva tedesca non si dimostra più così capace di trainare il trenino europeo, anche dall’altra parte del mondo l’economia cinese inizia a dare i primi segnali di cedimento, mentre la guerra dei dazi tra USA e Cina aggiunge ulteriori preoccupazioni sullo stato “reale” dell’economia mondiale e allo stesso tempo per i titoli azionari statunitensi, il mese di dicembre scorso è stato il peggiore dal 1931, ovvero dalla Grande Depressione!1 Inoltre “le principali detenzioni estere di debito statunitense a ottobre sono calate di altri 26 miliardi […] Sempre in base a dati ufficiali riferiti allo scorso ottobre, gli investitori esteri hanno venduto altri 22,2 miliardi di dollari di titoli azionari statunitensi, il sesto mese di vendite di fila”.2 Così che al World Economic Forum di Davos, tra il 22 e il 25 gennaio, in sostituzione di tre rappresentanti assenti di altrettanti pezzi da novanta dell’establishment economico occidentale (Macron impelagato tra gilets jaunes e affaire Benalla; Theresa May incastrata tra un Parlamento ribelle e una possibile hard Brexit e Trump e la delegazione americana che hanno colto l’occasione dello shutdown federale per non prendervi parte), ha preso posto un’unica autentica convitata di pietra: la recessione mondiale.

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contropiano2

Fine di un’epoca

di Vladimiro Giacché*

La crisi del 2007 ha dimostrato che la crescita e i profitti nel capitalismo non possono più essere garantiti dalla speculazione finanziaria. È necessario un cambio di sistema

kk llnvlnlmnvldfkdPer capire la prossima crisi, dovremmo guardare alle origini e all’evoluzione della precedente: dal 2000 al 2005, a causa dei bassi tassi di interesse, negli Stati Uniti emerse una consistente bolla finanziaria. Sul mercato immobiliare locale, i prezzi e il numero di contratti di mutuo raddoppiarono. A partire dal 2006, i prezzi iniziarono a scendere. Iniziò a sussistere un problema di eccesso di offerta, ovvero un problema di sovrapproduzione nel settore delle costruzioni. Nel 2007 si evidenziarono i primi problemi con i prodotti finanziari, che avevano a che fare con alcuni prestiti ipotecari statunitensi rischiosi (i cosiddetti mutui subprime).

Quello che segue è noto: massiccia insolvenza dei mutuatari, problemi nei mercati finanziari. Saltano alcuni fondi speculativi e banche specializzate. La crisi si diffonde in tutto il mondo, e sarà la peggiore dagli anni ’30.

Ma perché la crisi è stata così grave?

In primo luogo, i mutui subprime erano solo uno degli elementi costitutivi di un enorme edificio finanziario costruito in 30 anni. Nel 1980, la somma di tutte le attività finanziarie globali equivaleva approssimativamente al prodotto interno lordo (PIL) globale. Alla fine del 2007, il rapporto tra queste attività e il PIL (eufemisticamente chiamato anche “profondità finanziaria”) era del 356%.

In secondo luogo, questa ipertrofia finanziaria non era una malattia in sé, ma un “farmaco” (al tempo stesso) contro un’insufficiente valorizzazione del capitale e contro la massiccia sovrapproduzione di capitale e merci nel triangolo del capitalismo maturo (USA, UE e Giappone).

A questo punto dobbiamo fare un passo indietro. A partire dagli anni ’70, abbiamo registrato una crescita sempre più bassa e tassi di investimento in calo, in particolare in Giappone e nell’Europa occidentale. Ciò ha comportato un calo globale dei tassi di investimento rispetto al PIL mondiale, nonostante l’enorme aumento degli investimenti in molti paesi in via di sviluppo, specialmente in Cina. È interessante notare che l’ipertrofia della finanza e del credito, cioè del “capitale capitale produttivo d’interesse” (Karl Marx), si sviluppa parallelamente alla caduta degli investimenti.

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il rasoio di occam

Crisi come arte di governo

di Dario Gentili

Perché la crisi è diventata il principale metodo di governo e disciplinamento della popolazione? Per capirlo – sostiene Dario Gentili nel suo ultimo libro, Crisi come arte di governo (Quodlibet, 2018) – bisogna fare una genealogia della stessa krisis, risalendo al momento in cui, nella Grecia antica, si sono consolidati i suoi significati più propri. Del libro pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore e dell'editore, che ringraziamo, l'introduzione

LA CRISI COME ARTE DI GOVERNO GENTILIC’è un nesso tra il discorso dominante della crisi economica che dal 2008 sta colonizzando le politiche della gran parte dei Paesi del mondo e i Like/Dislike con cui, attraverso i social media, i cittadini globali si esprimono sugli argomenti più svariati e negli ambiti più disparati? A prima vista tale nesso può sembrare azzardato: come può una crisi economica che determina un discorso che vincola gli Stati a scelte obbligate trovare un corrispettivo nella più ampia diffusione e nella più radicale individualizzazione dell’esercizio della critica? Eppure, a ben vedere, le scelte obbligate dalla mancanza di un’alternativa che la crisi impone e la riduzione della critica all’approvazione o meno di un’alternativa prestabilita presuppongono la medesima modalità di giudizio: il giudizio pro o contro.

Infatti, il giudizio pro o contro – tra due opzioni tra loro opposte, che pone la scelta tra due alternative in contrapposizione – passa oggi per essere la modalità di giudizio per antonomasia. Ciò è riscontrabile tanto nelle questioni di portata pubblica quanto in quelle che concernono la condotta dei singoli individui. In generale, esso rappresenta il modello a cui ogni procedimento decisionale deve, in ultima istanza, essere riducibile, affinché si possa infine giungere a una decisione finale e risolutrice – sulla vita della società e sulla propria vita individuale. E tuttavia, sebbene in netta contrapposizione, le alternative che questa crisi e questa società costantemente pongono sembra non abbiano nulla di davvero risolutivo: uscire dalla crisi o imprimere una svolta alla propria personale condizione sociale ed esistenziale. Sembra pertanto che il giudizio pro o contro, per quanto mai come oggi si eserciti così frequentemente e diffusamente, non produca alcuna decisione effettiva – è questo, almeno in prima battuta, il nesso tra la crisi economica e lo statuto della critica al tempo dei social media.

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jacobin

L’egemonia della paura

di Martino Avanti

Finita l'era dei compromessi forzati, l'attuale equilibrio mondiale fatto di finanziarizzazione e debito si regge sulla demonizzazione dell'altro da sé

capitalismo jacobin italia 990x361La crisi economica iniziata nel 2008 è una crisi sistemica del modo di produzione capitalista. Il capitale, come forza sociale onnicomprensiva, come disciplina sulla società e sulla natura, appare sempre meno in grado di riprodurre adeguatamente la sua base sociale e naturale. Stiamo tuttavia perdendo la capacità di cogliere l’intreccio tra storia e geopolitica alla base dell’avvitamento disfunzionale del capitalismo. La cosiddetta “scuola di Amsterdam”, nel combinare marxismo (gramsciano) e relazioni internazionali ci permette di afferrare questi nessi strutturali. La recente pubblicazione di Transnational Capital and Class Fractions (curato da Overbeek e Jessop) ne offre un quadro d’insieme a quarant’anni dai primi lavori. Quanto segue ne presenta, integrandoli con l’analisi del presente, i concetti teorici più innovativi, concentrandosi principalmente sull’opera di Kees Van der Pijl.

 

Concetti onnicomprensivi di controllo

L’egemonia è una forma di dominio di classe che si basa sul consenso piuttosto che sulla forza; consenso che è attivo tra i gruppi che fanno parte del blocco sociale unificato da uno specifico concetto onnicomprensivo di controllo (neoliberalismo/liberalismo corporativo) e passivo per chi non ne fa parte ma manca della forza di modificarlo o concepire il mondo diversamente. Nelle fasi egemoniche, la società nel suo complesso assimila i principi e il modus operandi su cui riposa il dominio della frazione dominante, considerandoli normali.

Non è tuttavia il capitale in generale, quello con la “C” maiuscola, a esercitare l’egemonia, bensì una specifica frazione del capitale totale (produttivo/finanziario/commerciale), i cui esponenti sviluppano quelle che Gramsci chiamava filosofie spontane.

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Il capitalismo entra nella sua fase senile

jwbeavlskvnbjvsdvazL’inizio d’anno distrae sempre un po’, anche sul piano delle “percezioni”. La visione si distorce nella comunque fiduciosa attesa che “il nuovo” porti novità, sperabilmente positive. E’ un momento che, paradossalmente, accorcia la capacità di visione, facendo passare in secondo piano sia la durezza delle cose che, soprattutto, “il lungo periodo”. Quello che determina entità e direzione dei processi storici, anche economici, e che ben poco risente di quanto avviene nel breve arco di 365 giorni.

Pensiamo perciò sia utile riproporvi questa intervista a Samir Amin, rilasciata a Ruben Ramboer nel 2012, che non ha perso un grammo della sua attualità. Del resto, il vecchio saggio ricorda lui stesso che – in fondo – la crisi attuale (segnalata da tutti a partire dal 2007-2008) si colloca al di qua di un crinale storico ben più fondamentale. Visto da lui e pochi altri già nella svolta degli anni ‘70.

Dedicato a chi ha sempre così fretta di “vedere i risultati” da rinunciare per sempre a capire in che direzione stiamo andando. Sono tanti, se ci pensate un attimo… Sicuramente quanti quelli che, con la scusante dei “tempi lunghi”, non muovono mai un passo perché non è mai “il momento giusto”.

* * * *

“Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale”. Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E lo è ancor meno con la politica dei governi. “Economizzare per ridurre il debito? Menzogne deliberate”; “Regolazione del settore finanziario? Frasi vuote”. Egli ci consegna la sua analisi al bisturi della crisi economica.

Dimenticate Nouriel Roubini, alias dott. Doom, l’economista americano diventato famoso per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all’inizio degli anni 1970.

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lanatra di vaucan

Tutto sotto controllo sulla nave che affonda

di Robert Kurz

navecheaffondaSovraccumulazione, crisi da indebitamento e «politica»

A partire dagli anni Settanta sono sempre più numerosi i sintomi di una grave crisi per la riproduzione del sistema globale della merce. Tassi di crescita declinanti o stagnanti, disoccupazione «strutturale» di massa largamente svincolata dal ciclo congiunturale, sia nei paesi sviluppati dell’OCSE che alla periferia del mercato mondiale, la crescita del protezionismo con le avvisaglie ben visibili di una «guerra commerciale» tra gli USA, il Giappone e l’Europa e, non da ultimo, la «crisi del debito» strisciante del Terzo mondo, sono tutte manifestazioni di una crisi ormai impossibile da trascurare, su cui incombe, come se non bastasse, una crisi ecologica su scala planetaria sempre più minacciosa: dal «buco dell’ozono» nell’atmosfera terrestre fino alla distruzione delle foreste equatoriali africane e amazzoniche, dall’espansione delle distese desertiche fino alla contaminazione delle catene alimentari, dalla devastazione dei sistemi ecologici come il Mare del Nord, le Alpi e il Mediterraneo fino all’inquinamento irreversibile del terreno e delle acque potabili etc.

Allo stesso tempo però anche il sedicente «socialismo reale», ex- e pseudo-alternativa dell’ormai devastante sistema della merce – di cui è, in realtà, carne della stessa carne – si dibatte in una crisi ancora più grave, almeno per il momento. Stagnazione e paralisi culturale, una produttività sempre più declinante rispetto all’Occidente, disordini nazionali e separatismi ne sono altrettanti indizi, così come la rapidità della distruzione ecologica, forse l’unico terreno in cui lo «standard occidentale» sia stato non solo raggiunto ma addirittura superato.

Si ha però l’impressione che, «in un modo o nell’altro», ci si debba rassegnare a questi due sistemi in disarmo; l’uomo finisce con l’assuefarsi a tutto, persino alla propria fine.

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lavocedellelotte

Il punto sulla crisi

Intervista a Tony Norfield, Michael Roberts e Paula Bach

recessione 1000x650Pubblichiamo la traduzione di un’intervista (già apparsa su LeftVoice e LaIzquierdaDiario) a tre importanti economisti marxisti che fanno il punto sulla più recente congiuntura economica. In realtà si tratta di studiosi non molto noti in Italia, se non in circoli ristretti. Questo nella misura in cui il dibattito teorico nella sinistra italiana è pressoché assente, da cui lo scarso interesse a rendere disponibile nella nostra lingua i lavori e gli articoli di chi invece è impegnato in serrate discussioni a livello internazionale, e in particolare in America Latina e nel mondo anglofono. Paula Bach è un’economista marxista argentina che si occupa di economia internazionale; è inoltre militante del Partido Socialistas de los Trabajadores e collaboratrice de La IzquierdaDiario e di Ideas de Izquierda. Micheael Roberts, invece, è un economista marxista britannico (con un passato “nel ventre della bestia” come analista finanziario); ha scritto alcuni importanti libri come “The Great Recession” e con Guglielmo Carchedi il recentissimo “World in Crisis”. Micheal tiene inoltre un’aggiornatissimo blog, purtroppo solo in lingua inglese, ma dal quale – prendiamo qui l’impegno – vedremo di attingere più frequentemente per delle traduzioni. Anche Tony Norfield è un economista marxista britannico “forte” di un passato nella City di Londra, del quale ha potuto giovare per scrivere un libro sul ruolo centrale che ancora svolge l’imperialismo britannico nell’architettura geo-economica e geo-politica mondiale. Il libro si chiama “The City”. Abbiamo già tradotto un’intervista a Tony QUI. Anche Tony Norfield tiene un blog molto interessante che si concentra sull’economia e sull’imperialismo.

* * * *

È difficile prevedere precisamente quando avrà luogo una recessione, ma è possibile individuare alcuni segnali, come ad esempio la tendenza all’appiattimento della curva dei rendimenti*, la quale indica che potremmo essere vicini a una nuova decelerazione.

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economiaepolitica

Stagnazione Secolare: politiche fiscali inadeguate o trappola della liquidità?

di Stefano Di Bucchianico

Politiche fiscali | Nei modelli economici della teoria dominante non è concepibile che politiche fiscali coraggiose guidino la crescita. Bisogna guardare ai modelli post-keynesiani. Il dibattito sulla Stagnazione Secolare e i suoi limiti 

Politiche fiscaliUn recente dibattito tra Larry Summers e Joseph Stiglitz apparso su Project Syndicate ha riacceso i riflettori sulla ‘teoria della Stagnazione Secolare’ (in seguito SS); successivamente, Paul Krugman ha preso parte alla diatriba con un intervento sul suo blog sul New York Times. Come si vedrà dalla ricostruzione del dibattito, a confronto vi sono la posizione di Stiglitz, che guarda alla stagnazione come risultato di una inadeguata politica fiscale espansiva, e quella di Summers e Krugman, i quali da un lato ritengono necessario uno stimolo fiscale in situazioni di trappola della liquidità, ma dall’altro giudicano la polemica di Stiglitz priva di contenuti realmente nuovi rispetto a quanto da loro proposto.

 

1. Il dibattito

La SS, coniata originariamente da Alvin Hansen (1939) durante gli anni ’30 a seguito della Grande Depressione che colpì gli Stati Uniti, è stata ripresa e riaggiornata negli ultimi anni da Larry Summers (2014, 2015). Krugman (1998) ne propose una versione embrionale già nei tardi anni ’90, discutendo le possibili cause della perdurante stagnazione giapponese; in seguito ha sostenuto la pressoché totale sovrapponibilità tra la sua spiegazione e quella data da Summers. Nella più recente versione di Summers la rilevanza della politica fiscale torna in auge; in situazioni di stagnazione persistente essa è giudicata preferibile rispetto alle misure di politica monetaria che convenzionalmente agiscono tramite un abbassamento del tasso di interesse di riferimento controllato dalla Banca Centrale. Tale prescrizione di politica economica sarebbe preferibile in quanto la politica monetaria avrebbe esaurito la propria efficacia una volta raggiunto il cosiddetto ‘zero lower bound’ sul tasso nominale dell’interesse di politica monetaria.

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sinistra

Crisi economica e disordini mondiali

di Michel Husson

finance3 1024x680 mnwormi329txjiesu18ub44gm1o34bi1emtgcwi18wDieci anni dopo il crollo della Lehmann Brothers, si moltiplicano i contributi, attorno a due questioni: come è successo? Può succedere di nuovo? Ma quasi tutti sono centrati sulle derive della finanza, passate o future. Il punto di vista adottato qui è leggermente diverso, poiché cerca di identificare le radici economiche dei disordini mondiali. Il suo principio guida è il seguente: l’esaurimento del dinamismo del capitalismo e la crisi aperta dieci anni fa conducono a una globalizzazione sempre più caotica, portatrice di nuove crisi, economiche e sociali*.

 

1. Il capitalismo senza fiato

Il dinamismo del capitalismo poggia in definitiva sulla sua capacità di ottenere incrementi di produttività, in altre parole di far crescere il volume di beni prodotti per ora lavorata. A partire dalle recessioni generalizzate del 1974-75 e del 1980-82, gli incrementi di produttività si sono tendenzialmente rallentati. Siamo passati da ciò che alcuni hanno chiamato «Età dell’oro» (per sottolineare la natura eccezionale del periodo) al capitalismo liberista, oggi minacciato da una «stagnazione secolare». Durante quel periodo, il capitalismo ha ottenuto il risultato spettacolare di ripristinare la redditività, nonostante il rallentamento degli incrementi di produttività illustrato nel grafico 1 [1].

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sinistra

Capitalismo 2018. L’anno delle ricette impossibili e delle paure riemergenti

di Antonio Carlo

altan crisi economica1) Bilancio 2017 dagli squilli di tromba al terrore per il crollo prossimo venturo

A) I risultati del 2017. Ripresa solida o recessione in agguato?

Nel 2017 il PIL mondiale cresce del 3,7% con punte del 6,5% (Cina), del 2,4% in USA e nella UE, mentre il Giappone si ferma all’1,8%1 . I primi commenti sono assai positivi, la ripresa è solida, si dice, non più fragile e modesta come si sosteneva per gli anni precedenti, eppure dopo poco il prof. Feldstein, capofila degli economista conservatori americani, osserva che negli USA una nuova recessione è alle porte2 , gli fa eco il noto politologo Bremmer per cui il mondo trema ancora a 10 anni dal crac del 20083 e con lui esponenti del mondo degli affari USA4 . Forse la stroncatura più dura della ripresa posteriore alla crisi del 2008 la leggiamo in un giornale non certo sospettabile di anticapitalismo come “Il Corriere della sera”, con toni degni di un marxista radicale e con argomenti che chi scrive avanza dal 20055 , se non dagli anni ’80 del secolo passato6 . Scrive Salvatore Bragantini: “La causa profonda e negletta della lunga crisi è lo spostamento di ricchezza a danno dei ceti medi che l’ha preceduta. Raghiram Rajan, non un sovversivo né uno sprovveduto, scrisse in Fault Lines (2010) che i 2/3 di tutto il reddito addizionale, prodotto tra il 1977 ed il 2007 in USA è andato al famigerato 1%. Solo lì sono affluiti i guadagni di produttività che prima erano spartiti con i lavoratori dipendenti, via via politicamente indeboliti dalla metà degli anni ’80; essi hanno trovato nella droga del debito il sostegno di un tenore di vita inesorabilmente in calo. Parola di Ben Bernake, governatore della Banca Centrale USA al tempo del crac: “L’origine è indietro nel tempo, decenni di stagnazione dei salari, diseguaglianze …”.

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euronomade

Il mondo sottosopra. Appunti geopolitici

di Sandro Mezzadra

Intervento introduttivo alla prima sessione della scuola estiva 2018 Resistenze molteplici, Passignano sul Trasimeno, 13 settembre 2018

stranger things upside downa. Il tema e l’obiettivo di questa prima sessione della scuola estiva

Ci ritroviamo a Passignano in un contesto politico profondamente mutato rispetto alle scorse edizioni della scuola estiva di Euronomade, in Italia così come a livello globale. E scontiamo un sostanziale disorientamento, in particolare nel nostro Paese, di fronte a una destra ogni giorno più aggressiva, capace di consolidare il proprio consenso attorno ai naufragi nel Mediterraneo, alla diffusione capillare del razzismo, alla caduta di un ponte. Non abbiamo soluzioni da offrire, ma siamo convinti che il tempo del disorientamento debba cedere il passo al tempo di una ricerca e di una sperimentazione condivisa tanto sul terreno della teoria quanto sul terreno delle pratiche politiche. E riteniamo che un contributo essenziale a questa ricerca e a questa sperimentazione debba venire da un tentativo di analizzare il mutamento radicale che si sta determinando negli equilibri (e negli squilibri) globali: solo collocandola all’interno di questo “mondo sottosopra”, la stessa congiuntura italiana risulta comprensibile nei suoi tratti di fondo – e, questa è la nostra scommessa – nella sostanziale fragilità dei suoi assetti.

Questa sera vorremmo da una parte cominciare ad avanzare e a verificare alcune ipotesi sugli scenari globali emergenti, proponendo dall’altra alcuni criteri di metodo per l’analisi della dimensione “geopolitica”: l’assunzione della tensione tra “geopolitica” e “geoeconomia” (tra confini territoriali e frontiere del capitale) come asse centrale della nostra discussione e la convinzione che oggi più che mai le forme assunte dall’ordine e dal disordine globale – la riorganizzazione degli spazi politici ed economici nonché le tensioni tra essi nella globalizzazione – sono una variabile cruciale per qualsiasi progetto di trasformazione radicale dell’esistente, indipendentemente dalla scala su cui questo progetto si esercita in prima battuta.

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blackblog

Lo schianto: più il come, che il perché

di Michael Roberts

crash4Questa settimana, Adam Tooze si trovava a Londra per presentare il suo nuovo libro, "Crashed, How a decade of financial crises changed the world" [In italiano: "Lo schianto. 2008-2018. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo", Mondadori]. Tooze è anche l'autore di "The Deluge and The Wages of Destruction" [in italiano: Il prezzo dello sterminio, Garzanti editore]."Il prezzo dello sterminio" ha vinto il Premio Wolfson per la storia ed il Premio Logam come libro dell'anno. Adam Tooze ha insegnato a Cambridge e a Yale, ed oggi insegna storia alla Columbia University. A mio avviso, egli è il più importante storico economico radicale.

Il nuovo libro di Tooze apporta un enorme contributo alla storia economica del collasso finanziario globale del 2008-9. Tooze ci mostra che cosa sia successo e come è nato quello che è stato il più grande boom del credito dei primi anni 2000 che alla fine ha portato al più grande disastro finanziario che ci sia mai stato nelle economie moderne, ed al conseguente crollo della produzione capitalista, il peggiore dagli anni '30. E conclude dicendo che il modo in cui questo schianto è stato trattato dai "poteri" - vale a dire, attraverso i salvataggi delle banche e la salvaguardia della ricchezza dei più ricchi, a pese di tutti noi - ha provocato l'emergere di una reazione "populista" contro il "capitalismo", sia da parte della sinistra, come in Grecia o in Spagna, sia da parte delle persone di destra, come è avvenuto con Trump, con la Brexit, e con la Lega in Italia. Quindi, l'eredità dei primi dieci del capitalismo del XXI secolo, nel secondo decennio, è ancora con noi. E peggio ancora, il problema soggiacente di fondo, quello del debito crescente e del settore finanziario fuori controllo, non è stato ancora risolto. La crisi finanziaria del 2008-9 potrebbe benissimo ritornare.

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blackblog

Possibilità di azione - E nel concreto!

di Herbert Böttcher

Lettera aperta alle persone interessate ad EXIT! nel passaggio dal 2017 al 2018

lead 960 5404Non è per caso che le difficoltà nel formare il governo, dopo l'elezione del parlamento tedesco, mostrino di essere in relazione con le centrali questioni sociali ed ecologiche, le questioni relative ai rifugiati ed al clima. È qui che diventano chiari i limiti dell'azione del governo, il quale pretende di gestire i processi di distruzione sociale ed ambientale, che vanno dal collasso degli Stati fino alla distruzione delle basi della vita, attraverso quelli che sono i metodi della scatola magica dell'immanenza capitalista: ora, più mercato, ora di nuovo, un'altra volta, più Stato; e tutto questo in una successione sempre più rapida, oppure, se è necessario, facendo uso di una miscela delle due cose. E, in tutta questa confusione, dev'essere mostrata una faccia o un profilo.

Alla domanda preoccupata di un presentatore televisivo - che si domanda, di fronte agli ambigui risultati elettorali, se si possa fare affidamento sull'instabilità politica, ora presente in Germania, così come negli altri paesi europei - risponde uno dei soliti esperti accademici: «Oggi, l'Europa è arrivata anche in Germania». Il professore ha ragione, perché l'instabilità politica è sempre meno lontana dalla Germania. Ma il fatto che egli abbia trasfigurato in normalità quello che è lo stato di crisi comune all'Europa, dimostra che non ha capito niente.

A partire dal progetto del modello verde-rosso della riforma Hartz IV, e dalla deregolamentazione del lavoro - con la conseguente massificazione del lavoro precario -, la Germania è riuscita ad ottenere un vantaggio per quanto riguarda l'esportazione nel quadro della concorrenza fra i paesi in crisi.

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idiavoli

Effetti del Quantitative easing

di I Diavoli

immagine cop 2L’inverno è arrivato. Una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico, finanziario e sociale. Quasi dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in Occidente. Soltanto la torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing, impedì che l’economia globale finisse in cenere. Ma gli effetti del Quantitative easing sono paragonabili a una coltre che ha cristallizzato la volatilità delle piazze borsistiche: oggi, il mondo finanziario vive immobilizzato allo zero termico, in quel glaciale torpore imposto dal pilota automatico delle banche centrali.

* * * *

Riprendiamo qui sui Diavoli la versione estesa di un articolo sulle conseguenze politiche del Quantitative easing europeo, pubblicato da Guido Brera sul «Corriere della Sera» del 19 dicembre 2017.

L’inverno è arrivato. Una spessa coltre di ghiaccio, sotto forma di enorme iniezione di liquidità, ha cristallizzato il panorama economico, finanziario e sociale.

Quasi dieci anni fa, i primi focolai della Grande Recessione cominciavano a divampare. Ben presto l’incendio divampò in Occidente. Soltanto la torrenziale pioggia di cartamoneta lanciata dagli elicotteri delle banche centrali, con l’avvio del Quantitative easing, impedì che l’economia globale finisse in cenere.

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vocidallestero

Note sulla condizione globale

Bond vigilantes, banchieri centrali, crisi 2008-2017

di Adam Tooze

bond vigilantes[Dallo storico inglese Adam Tooze, professore alla Columbia University e vincitore del Wolfson History Prize, un utilissimo e ampio riassunto di quanto accaduto sui mercati finanziari in questi anni e sul ruolo dei banchieri centrali. Alzare la testa dalla contingenza attuale, per porsi in una prospettiva più ampia dal punto di vista del tempo e dello spazio, consente di osservare meglio le forze devastanti che sono in opera nel contesto globale in cui viviamo. Dopo la liberalizzazione dei capitali, negli anni 70, la politica ha gradualmente perso ogni potere, lasciandolo a entità sciolte da qualsiasi vincolo elettorale: da una parte i mercati, lontanissimi dall’avere – neanche collettivamente – comportamenti razionali, dall’altro le banche centrali, di fatto diventate arbitre del destino di Paesi e governi. Nel gioco strategico che contrappone questi giganti, noi cittadini e i nostri diritti – per cui è stato versato sangue – come il diritto a un lavoro, a una vita dignitosa, alla salute, siamo sempre più deboli e a rischio].

* * * *

L’economia politica alla fine del ventesimo secolo era caratterizzata da un evidente parallelismo. A partire dalla metà degli anni 70, un aumento del debito pubblico senza precedenti in tempi di pace coincise con la liberalizzazione delle transazioni internazionali di capitali.

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sinistra

Capitalismo 2017

La Grande depressione e l’ascesa di Trump: ovvero la tragedia e la farsa

di Antonio Carlo

Questo lavoro riprende le ricerche degli anni passati pubblicate su Sinistrainrete ai seguenti link: 2009, 2010, 2011, 2012, 2013, 2014, 2015, 2016

45873811) L’economia mondiale nel 2017, i mali di sempre senza soluzione

A) Scienza economica ed istituzioni davanti alla Grande depressione. Confusione ed impotenza

La Grande depressione in atto1 ha spinto la scienza economica in una situazione di incertezza estrema (alludo ovviamente a quegli studiosi che non sono struzzi per vocazione e convenienza). Due economisti italiani (entrambi conservatori) scrivono (relativamente ai “perché” della crisi”): “Alcuni economisti affermano di sapere perché: scarsa domanda (pubblica), diseguaglianze che riducono i consumi delle famiglie, calo della produttività, salari che non crescono: la verità è che non sappiamo se davvero vi sia una stagnazione secolare, e se ci fosse da che cosa dipenda. Sarebbe molto più utile se gli economisti riconoscessero la difficoltà di capire un periodo anomalo e di grande incertezza invece di pronunciare “verità”. L’incertezza è l’unico fulcro intorno al quale ruotiamo e l’incertezza non aiuta ad investire ed accrescere.

L’unica soluzione è diventare più innovativi, in modo da ridurre i nostri costi e rendere più difficile a Cina ed India di imitare i nostri prodotti”.2

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sergiobellucci

La crisi e la Transizione

di Sergio Bellucci

Bellucci CiniI. Il giudizio sulla crisi

Il giudizio sulla natura dell’attuale “crisi” del capitalismo contemporaneo, è il tema di partenza per la definizione di una strategia politica in grado di affrontare il passaggio storico che stiamo vivendo

Sulla differenza di giudizio della fase, infatti, derivano le conseguenti scelte politiche che caratterizzeranno le opzioni politiche in questo secolo. Il punto di partenza, quindi, non può che essere l’analisi di questa crisi e il giudizio che se ne dà.

A mio avviso, per comprende la vera natura della crisi è necessario analizzare le trasformazioni che il capitalismo ha generato nella forma di produzione, nei cicli economici, nel forma del lavoro – e al sua stessa idea -, nei prodotti. In altre parole, se non si affronta il tema qualitativo della cosiddetta “Digital Disruption” – e si rimane all’interno dello schema quantitativo dei vari schemi basati sul modello keneysiano, del puro intervento sulla moneta o sulla domanda – si rimane puramente all’interno delle possibilità di intervento offerte dalle logiche redistributive. Si rinuncia, cioè, all’autonomia politica derivante da una autonoma visione del mondo, si rimane imprigionati nella logica di “aggiustamento interno al sistema”.

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sebastianoisaia

A dieci anni dalla "Grande Crisi"

di Sebastiano Isaia

Lo scritto che segue si compone di una serie di appunti messi insieme da chi scrive in un ordine forse discutibile. Appunti che non ho avuto il tempo, né la voglia in verità, di rivedere, e di ciò mi scuso con i potenziali lettori, i quali molto probabilmente si imbatteranno in errori formali e sostanziali, sgrammaticature e ripetizioni. Penso tuttavia che la loro lettura non sia del tutto impraticabile, né forse del tutto inutile, e per questo li pubblico, sempre confidando sulla buona predisposizione dei lettori

rod s3 amazonawsOgni scienza sarebbe superflua, se la forma fenomenica e l’essenza delle cose coincidessero immediatamente

(K. Marx, Il Capitale).

Parte I

Yanis Varoufakis e altri cosiddetti “marxisti irregolari” hanno paragonato la Grande crisi iniziata nel 2007 negli Stati Uniti al crollo del «Comunismo reale» iniziato nel 1989 con la caduta del famigerato Muro. L’analogia non regge neanche un poco; e non solo perché il Capitalismo è lungi dall’essere crollato definitivamente, mentre del regime “sovietico” non è rimasto che un pessimo ricordo, ma soprattutto perché allora non crollò il Comunismo, né un Socialismo più o meno reale, quanto un regime capitalistico incapace di reggere il confronto con il più forte e dinamico assetto capitalistico di “stampo occidentale” che aveva negli Stati Uniti il suo più importante pilastro.