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ist onoratodamen

L’economia mondiale nel vortice della crisi

Lorenzo Procopio 

12298489 serie di bombe accesi con la valuta symbolsMentre il governo italiano sventola ai quattro venti gli ultimi dati Istat strombazzando che l’Italia è finalmente fuori dalla recessione, grazie al fatto che l’economia italiana è cresciuta nel 2015 di un misero 0,6%, dopo un quinquennio di contrazione del Pil, i mercati borsistici di tutto il mondo hanno fatto registrare il peggior inizio anno della storia finanziaria del moderno capitalismo. Il crollo degli indici azionari delle principali piazze borsistiche mondiali nelle prime sei settimane dell’anno in corso è stato nettamente il peggiore tra quelli finora registrati, ancor più negativi di quelli fatti registrare nel 1931 e nel 2009,  gli anni immediatamente successivi alle due grandi crisi finanziarie del 1929 e del 2008.

Tale crollo non è stato ovviamente un fulmine a ciel sereno, come qualche prezzolato commentatore vorrebbe far credere per nascondere le reali difficoltà del sistema capitalistico internazionale; infatti, i primi scricchiolii si erano già manifestati nell’estate scorsa quando la borsa di Shangai ha fatto registrare pesanti perdite anche a causa del rallentamento nella crescita della produzione cinese e dell’eccessiva crescita della bolla speculativa sui mercati finanziari della stessa Cina. L’attuale crisi finanziaria è globale e per la prima volta nella storia del capitalismo la propagazione degli effetti dello scoppio della bolla speculativa all’intero sistema internazionale è avvenuta con la velocità della luce. Ciò rappresenta un vero salto qualitativo che differenzia questa crisi di molto non solo da quella del 1929, quando gli effetti del crollo di Wall Street si propagarono sul piano internazionale soltanto nell’arco di qualche anno, ma anche rispetto a quella più recente del 2008 durante la quale i tempi di dilatazione globale degli effetti dello scoppio della bolla speculativa dei mutui sub-prime sono stati nell’ordine di alcune settimane o addirittura di mesi.

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lanatra di vaucan

Cosa vuol dire sinistra oggi?

Emancipazione sociale in tempi di crisi

di Norbert Trenkle

114214437 98e6ee7b 5ee6 4bb0 8b77 f5e2f6996f7bI. Quando più di 25 anni fa il cosiddetto socialismo reale colò a picco, il pubblico liberal-democratico si convinse che il «sistema sociale» basato sull’economia di mercato e sulla democrazia si fosse aggiudicato una storica vittoria nel «conflitto tra i sistemi». Francis Fukuyama decretò la sua celebre sentenza circa la «fine della storia», che fece rapidamente il giro del mondo, mentre alla sinistra tradizionale venne a mancare il terreno sotto i piedi.

In questo clima euforico furono ben poche le voci dissenzienti. Qualcuno suggerì spiritosamente che in realtà l’Occidente non aveva vinto, che sarebbe stato solo l’ultimo degli sconfitti. Lungi dal promuovere il benessere generale il capitalismo scatenato, senza più neppure l’opposizione di un sistema antagonista, dispiegò la sua forza distruttiva con una dinamica ancor più incontenibile. Dalla prospettiva della critica del valore, come era stata formulata nell’ambito del gruppo Krisis, la questione si poneva in termini assai differenti. Secondo la nostra analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale, con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi Stahlmann 1990; Kurz 1991).

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sinistra

Capitalismo 2015: La Grande Depressione ed il dramma greco

di Antonio Carlo

global crisis1) L’economia mondiale nel 2015: PIL, disoccupazione, debito, fallimento delle politiche economiche.

A) Crescita asfittica del PIL.

Da anni seguo la dinamica dell’economia mondiale 1 ed ho la sensazione di essere spesso ripetitivo, ma questo avviene perché le situazioni si riproducono continuamente senza alcuna sostanziale soluzione: ogni anno il debito pubblico cresce, la disoccupazione rimane elevata (anche se le statistiche tendono a nasconderla), l’evasione fiscale si impenna, si fanno riunioni dei vari G (7, 8, 20) che non producono alcun risultato, i consumi delle famiglie cinesi non riescono a decollare, il Giappone oscilla tra recessione e ristagno, etc, etc. etc.

Questo ripetersi avviene anche per i giudizi sull’andamento del PIL almeno dopo il 2010, allora ci fu un rimbalzo abbastanza forte (dopo il calo del 2009) che fece dire a molti (non a me) che la ripresa aveva gambe, ma dal 2011 il quadro cambia pressocchè ininterrottamente: la ripresa c’è ma è modesta, fragile, moderata, inadeguata etc. ed il 2015 non fa eccezione. Così Jack Lew, Ministro del Tesoro USA, osserva che essa è deludente in termini di PIL ed occupazione 2 , Larry Summers, un tempo consigliere economico numero uno di Obama, parla addirittura di ristagno secolare alle porte 3 , Draghi sottolinea che i rischi di ribasso nella crescita non sono transitori etc. 4 . Di particolare rilievo è, a questo proposito, un’intervista della elegantissima signora Lagarde (numero uno della FMI) al noto economista venezuelano Moisés Naìm in cui, pur non accettando la tesi della stagnazione secolare, si osserva che la crescita soffre di una “nuova mediocrità”, che i posti di lavoro creati non sono sufficienti, che enormi quote di ricchezza si concentrano nelle mani della finanza e c’è il rischio che i costi della crisi ricadano sui poveri e le classi medie impoverite 5 .

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pierluigifagan

La decrescita infelice

di Pierluigi Fagan

cellulaririciclo.645.458L’ultimo numero di Foreign Affairs (Feb. ’16), la punta avanzata della riflessione strategica americana, ripropone il tema della “stagnazione secolare” una sorta de “il re e nudo” lanciato non molto tempo fa da Larry Summers[1]. Il re nudo di Summers si chiama strutturale e perdurante assenza di crescita, l’assenza di crescita potrebbe oscillare come crescita positiva o negativa ad esempio allo 0,2% (stagnazione) o potrebbe risultare addirittura decrescita. Occorre poi sempre dettagliare l’ambito di cui si sta parlando, se cioè parliamo dell’economia americana, di quella occidentale, di quella OECD (Ocse), di quella del mondo ed il quando, in quale prospettiva temporale accadrebbero i fatti. A sfavore della crescita americana, occidentale, OECD, è l’evidenza lampante che è più probabile che cresceranno i mai o poco cresciuti che i già cresciuti se si è in un trend generale di crescita difficile. Ma siamo in un trend strutturale di crescita difficile?

Beh, sembrerebbe proprio di sì. Gli indici e le previsioni son quelle, la sistematica revisione al ribasso di previsioni già non troppo ottimiste è ormai una consuetudine (OECD-2016). Il prezzo del petrolio e delle materie prime, dicono della flessione di domanda e soprattutto, grave allarme ha destato un altro re nudo, il fatto cioè che la capacità di stimolazione dell’economia, degli investimenti, della circolazione e dell’inflazione da parte delle torrentizie immissioni di moneta pompate dalle banche centrali, non ha sortito alcuno degli effetti sperati.

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univbergamo

La crisi capitalistica e le sue ricorrenze

Una lettura a partire da Marx

Riccardo Bellofiore

escher scaleIntroduzione

Nell’attuale dibattito sulla crisi due sono i filoni interpretativi principali che si richiamano a Marx e che proclamano una sua rinnovata attualità. Il primo, proposto da quegli autori che si vogliono marxisti “ortodossi”, è quello che legge la finanziarizzazione come conseguenza della caduta tendenziale del saggio del profitto, e in quest’ottica individua una lunga tendenza alla stagnazione che comincia negli anni Settanta del Novecento. L’altra interpretazione, prevalente per lo più in quei marxisti influenzati dal keynesismo e dal neoricardismo, fa riferimento alla tendenza alla crisi da realizzazione, ovvero da insufficienza da domanda. Questo secondo filone evidenzia come, dopo la controrivoluzione monetarista degli anni Ottanta del Novecento, siano avvenuti profondi mutamenti nella distribuzione del reddito con la caduta della quota dei salari, e sostiene che in un mondo di bassi salari la ragione di fondo della crisi sia l'insufficienza della domanda di consumi: una prospettiva più o meno dichiaratemente sottoconsumista. In entrambi i casi, la crisi attuale coverebbe da molto tempo, e sarebbe la crisi di un capitalismo che si può ben definire asfittico, sostanzialmente e (ormai) perennemente stagnazionistico.

Ritengo che un’interpretazione marxiana della crisi non possa essere sganciata dalla caduta tendenziale del saggio del profitto, ma che questa vada interpretata come una sorta di metateoria della crisi, che ingloba al suo interno le altre e diverse teorie della crisi che si possono trovare o derivare dal Capitale.

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contraddizione

La Crisi irrisolta

Quel che si cela dietro ai drammatici crolli di borsa

di Francesco Schettino

3da48b ac8cbcf13a1f450594939aead4e99fd0È un fatto tristemente noto, grazie anche alla pluralità di pellicole girate sul soggetto e, soprattutto per esperienza diretta di coloro che tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli ottanta erano almeno adolescenti, che l’eroina è una bestia feroce in grado di trasformare completamente qualsiasi essere umano sino a ridurne in fumo ogni traccia di razionalità. Questo concetto doveva essere ben chiaro anche alla classe dominante giacché, anche attraverso l’inondazione del mercato di questa immondizia, che si sostituiva alle cosiddette droghe leggere, o agli allucinogeni, ampiamente usati nella decade precedente, essa riuscì – in modo estremamente più efficace di qualsiasi altra manovra repressiva – ad infliggere un colpo mortale a quello che era restato del movimento della sinistra alternativa italiana erede della resistenza al fascismo e delle battaglie di classe di fine anni cinquanta ed inizio anni sessanta[1]. È altrettanto riconosciuto, anche grazie alla recente uscita di libri o testi sul tema, come la cocaina, droga di classe (dominante) per eccellenza, circoli abbondantemente negli ambienti della finanza ed in particolare a Wall Street, come ampiamente descritto e documentato da un recente film di Scorsese.

Dunque, droga, dipendenza e tossicomania sono elementi che, in un modo o in un altro sono connaturati al modo di produzione del capitale giacché, essendo esso stesso un meccanismo sociale che agisce alla stregua di un organismo biologico, non può esimersi dall’essere attratto da sostanze\elementi che possono generare dipendenza risollevando, nell’immediato, da fasi più o meno lunghe di crisi profonda.

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infoaut2

Iniziata la fase B?

di Raffaele Sciortino

sdacSVFSembra ufficiale: secondo Bloomberg la prosecuzione dei cali sulle borse mondiali - i più consistenti dalla crisi dei debiti sovrani del 2011 - segna inequivocabilmente il passaggio da toro a orso, da un mercato ascendente a uno in discesa di cui non si riesce a prevedere l’atterraggio. Controprove principali: corsa all’oro come bene rifugio (faccia nascosta della moneta creata con un click del computer); acquisti a valanga di titoli di stato Usa, tedeschi, inglesi come “porti sicuri” per il risparmio anche a costo di rendimenti negativi e del gonfiamento di una nuova bolla; assicurazioni sui rischi di default (cds) in netto rialzo.

C’è di più. Fin qui il crollo dei titoli, soprattutto bancari ed energetici, veniva messo in riferimento con il ribasso del prezzo del petrolio, lo scoppio delle bolle speculative e il rallentamento dell’economia cinesi, le difficoltà delle economie emergenti colpite da ingenti fughe di capitali e svalutazioni valutarie, nonché con il pur modesto aumento dei tassi statunitensi da parte della Federal Reserve (la banca centrale). Tutto vero. Ora però viene fuori che il problema di fondo sono i profitti in calo di buona parte della maggiori corporation mondiali - ma con epicentro proprio negli States! - con prospettive ancora più fosche dato il trend negativo di investimenti e ordinativi. Con l’aggravante di livelli di indebitamento -supportati in questi anni dalle politiche monetarie “facili” delle banche centrali- che ora diventano difficili da reggere sia per le imprese sia per le banche che devono cancellare dai bilanci sempre più crediti inesigibili. Il che porta a ulteriori vendite di titoli in un circolo vizioso che si autoalimenta.

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alfabeta

Slump

Franco Berardi Bifo

Babilonia AngersStanno suonando le trombe del giudizio? L’orizzonte economico che si presenta nel primo scorcio dell’anno 2016 suscita vivo sgomento negli osservatori. Mario Draghi ripete l’esorcismo estremo: «Whatever it takes». Ma il pericolo attuale non è più quello di un collasso finanziario come nel 2008. Il pericolo è quello di una crisi di sovrapproduzione globale, e di una stagnazione di lungo periodo. Il crollo delle borse non è che un segnale. Da sei anni le banche centrali prestano denaro a costo zero, e da un paio di anni il petrolio scende ininterrottamente. Cionostante la domanda cala, e la stagnazione persiste, si aggrava, tende a divenire recessione.

Il 10 gennaio il «New York Times» ha pubblicato un articolo di Clifford Kraus dedicato agli effetti che il calo della domanda cinese produce sull’economia globale:

«Per anni la Cina s’è ingozzata di ogni tipo di metalli e di energia perché la sua economia si espandeva rapidamente; le grandi aziende hanno ampliato aggressivamente le loro operazioni di estrazione e produzione, scommettendo sulla prospettiva che l’appetito cinese sarebbe continuato per sempre. Adesso tutto è cambiato. L’economia cinese si contrae. Le compagnie americane, che tentano disperatamente di pagare i loro debiti mentre aumentano i tassi di interesse, debbono continuare a produrre. Questo eccesso spinge i prezzi verso il basso, e colpisce le economie dipendenti dalla produzione di merci di consumo come il Brasile e il Venezuela, ma anche i paesi sviluppati come l’Australia e il Canada» (Clifford Kraus, «New York Times»: China s Hunger for Commodities Wanes, and Pain Spreads Among Producers).

Negli anni passati le grandi corporation hanno investito somme enormi nell’estrazione di petrolio, nella raffinazione dello shale gas, nelle tecnologie necessarie per il cracking, e così via. Il sistema bancario globale ha finanziato queste operazioni.

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doppiozero

Finanza globale e politiche monetarie

Un azzardo morale?

Mauro Magatti

mercato azionario di finanza globale 387670071. È oramai largamente condivisa l'idea secondo cui se dal 2008 ad oggi – negli USA prima e più di recente nella UE – le cose non sono andate troppo male è grazie alle politiche monetarie super-espansive – che ancora qualche anno fa venivano chiamate "non convenzionali". Politiche che hanno permesso di respirare a economie anemiche.

In effetti, l' obiettivo fondamentale di tale intervento è stato quello di ricostituire un livello minimo di fiducia al di sotto del quale le imprese non investono, i consumatori non spendono, le banche non prestano. Da questo punto di vista, quanto hanno fatto le autorità monetarie in questi ultimi anni è stato fondamentale, anche se non esente da rischi. Il problema è che, come i critici hanno sostenuto, la sovraesposizione finanziaria dell'economia globale dal 2008 ad oggi non solo non si è ridotta, ma è addirittura aumentata. Il che significa che quello che Keynes chiamava il "feticcio della liquidità" – e cioè la patologia dei mercati finanziari interessati solo ai rendimenti di breve periodo – è tutt'altro che debellato: in un sistema globale in cui fluttuano enormi quantità finanziarie, ritrovare un sentiero di crescita è molto difficile dato che vi sono contemporaneamente problemi di distribuzione del reddito, di disallocazione delle risorse e di instabilità cronica.

Quel che è chiaro è che la fiducia costruita solo sull'azione della Banche centrali non basta. Le politiche espansive adottate dalla FED (e più di recente della BCE) vanno intese solo come un modo per guadagnare tempo. Il tempo necessario alla politica e alla società per far ripartire l'economia reale e delineare un nuovo modello di crescita.

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sbilanciamoci

Cronache di un mondo indebitato

Vincenzo Comito

I. Il debito complessivo a livello mondiale ha raggiunto, a fine 2014, il livello di 200 trilioni di dollari

t2XFNL’esistenza di un rilevante livello e di una ulteriore e apparentemente inarrestabile crescita dell’indebitamento mondiale è un fenomeno molto evidente; ora, il suo collegamento, per diverse vie, alle difficoltà e al rallentamento dello sviluppo dell’economia, nei paesi sviluppati come in quelli emergenti, pone dei rilevanti problemi di analisi e suggerisce anche delle possibili linee di azione. Nelle tre puntate di questo articolo cercheremo di individuare la situazione e le prospettive di soluzione di una questione cruciale.

 

Alcuni dati di base

Già in uno scritto apparso in questo stesso sito qualche tempo fa (Comito, 2015) ricordavamo alcuni dati che danno un’idea del fenomeno; ad essi ne aggiungiamo ora degli altri, più analitici.

Nel testo citato ricordavamo, in particolare, un rapporto Mckinsey (Mckinsey, 2015) del febbraio di quest’anno, che forniva delle informazioni di base sulla situazione.

Il debito complessivo a livello mondiale aveva raggiunto alla fine del 2014 il livello di 200 trilioni di dollari, essendo aumentato di ben 57 trilioni soltanto nel periodo tra il 2007 e il 2014. La sua incidenza sul pil mondiale raggiungeva ormai alla stessa data il 286%, contro il 270% del 2007. Si ha la sensazione, peraltro ancora non ancora suffragata da dati aggiornati, che la tendenza all’aumento sia proseguita nel 2015.

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sinistra aniticap

Economia, le coordinate della crisi in arrivo*

di Michel Husson

7059433 10805259Mentre la zona euro abbozza una fase di ripresa molto moderata, si moltiplicano i pronostici allarmisti sulla traiettoria generale dell'economia mondiale: «La crescita cinese rallenta, l'economia mondiale soffre» è, ad esempio, il titolo di Le Monde del 20 ottobre 2015. Christine Lagarde 1 elenca «le ragioni per essere inquieti sul fronte economico», e Jacques Attali 2 annuncia che «il mondo si avvicina a una grande catastrofe economica».

Cominciamo con un breve panorama della congiuntura: la crescita mondiale rallenta, principalmente nei paesi emergenti tranne l'India. Tale tendenza si alimenta con la diminuzione del prezzo delle materie prime e si trasmette ai paesi avanzati. Anche il commercio internazionale rallenta, allo stesso ritmo del PIL mondiale, come se la mondializzazione produttiva avesse raggiunto un tetto. La zona euro registra una ripresa timidissima e disuguale. Gli Stati Uniti e il Regno Unito se la cavano meglio, ma la crescita tende a rallentare in un caso e appare artificiale nell'altro.

Dal lato della «sfera finanziaria», il quantitative easing (alleggerimento quantitativo) alimenta bolle di attivi [finanziari] più che l'investimento produttivo, che stagna. E la sola prospettiva - finora respinta - di un aumento dei tassi della Fed (la banca centrale degli Stati Uniti) grava come una spada di Damocle sufficiente per destabilizzare le monete e i mercati finanziari di molti paesi. In breve, «l'incertezza e forze complesse pesano sulla crescita mondiale», per riprendere la formula del FMI nelle sue ultime prospettive3.

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pandora

A che punto è la crisi?

di Giacomo Bottos

NASDAQ stock market displayIl modello precedente, che è entrato in crisi nel 2007 (ma si tratta di una crisi -beninteso- che non equivale alla sua fine, ma anzi, in mancanza di alternative, alla radicalizzazione delle sue logiche) ma che già negli anni precedenti aveva iniziato, a livello globale, a presentare numerose crepe, è ciò che chiamiamo neoliberismo, che a sua volta nasce a cavallo tra anni Settanta ed Ottanta. Che cos’è il neoliberismo? Un modello che nasce come reazione alla crisi del precedente sistema, industrialista e fordista, basato su un grado di compromesso tra capitale e lavoro e sull’alleanza relativa tra il capitalismo ed una democrazia sostanziale e organizzata intorno al sistema dei partiti. All’epoca andò in crisi un modello che si era realizzato in quel trentennio postbellico che i francesi chiamano trente glorieuses, che Hobsbawm indicava come «l’età dell’oro». Diversi eventi segnanarono la crisi di questo modello. Li evoco brevemente:

1. La rottura del sistema di Bretton Woods, con la decisione di Nixon di bloccare la convertibilità del dollaro in oro, cosa che rese possibile la libera fluttuazione nel mercato delle valute e pose un importante presupposto per la finanziarizzazione dell’economia.

2. Gli shock petroliferi, che causarono una crisi di redditività delle imprese da un lato e una crisi fiscale degli Stati dall’altro, alimentando contemporaneamente l’inflazione e inondando al tempo stesso il sistema finanziario internazionale di petrodollari in cerca di impieghi redditizi.

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sbilanciamoci

Sette anni di crisi: un bilancio

di Thomas Fazi

In Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare

embalse LOGO DSC0001All’indomani della crisi finanziaria del 2008, quando il sistema fu salvato per il rotto della cuffia solo grazie a massicci interventi di spesa in deficit da parte dei governi di tutti i paesi avanzati (dimostrando la validità dell’assioma keynesiano secondo cui l’unico strumento in grado di risollevare un’economia in recessione è la politica fiscale) furono in molti a sinistra – tra cui il sottoscritto – a credere che il neoliberismo avesse i giorni contati. Cos’era la crisi, in fondo, se non la conclamazione del suo fallimento? Come ha scritto Paul Heideman, «l’impressione al tempo era che l’era della mercatizzazione assoluta stessa volgendo alla fine, e che la crisi dei mercati avrebbe condotto inevitabilmente al ritorno di una qualche forma di nuovo keynesismo».

Come sappiamo, è accaduto l’esatto opposto. Non solo il regime neoliberale continua a godere di perfetta salute in tutti i paesi avanzati (sì, qualche tabù è stato infranto – si vedano le politiche di quantitative easing – ma solo nella misura necessaria per garantire la sopravvivenza del sistema stesso); in Europa la crisi è stata utilizzata dalle élite politico-finanziarie per sferrare il più violento attacco mai visto, dal dopoguerra ad oggi, nei confronti della democrazia, del mondo del lavoro e del welfare; e più in generale, per ristrutturare le economie e le società europee in una chiave ancor più radicalmente neoliberista di quella esistente. «Una distruzione creatrice – ha scritto Alberto Burgio – finalizzata alla sostituzione del modello sociale postbellico (il capitalismo democratico incentrato sul welfare pubblico e sulla riduzione delle sperequazioni in un’ottica inclusiva) con un modello oligarchico (post­democratico) affidato alla “giustizia dei mercati globali” e caratterizzato dal binomio povertà pubblica-ricchezza privata».

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sole24ore

Perché la Fed rischia di finire nella trappola del Quantitative Easing

Francesco Lenzi

33d65b4Con la frase “sarà probabilmente appropriato alzare il livello obiettivo dei tassi d’interesse federali entro la fine dell’anno” Janet Yellen, presidente della Federal Reserve, pare aver tolto ogni dubbio sul fatto che ci stiamo avvicinando al primo rialzo dei tassi d’interesse negli Stati Uniti. Sono passati circa 6 anni da quando vennero fissati allo 0-0,25% per far uscire il gigante americano dalle secche della Grande Recessione.

Da allora la prima economia del mondo è riuscita a recuperare quasi interamente i posti di lavoro persi, anche se non è riuscita a riavvicinarsi ai ritmi di sviluppo avuti negli anni precedenti al crollo della Lehman Brothers. Dalle parole della Yellen l’abbandono dei tassi a zero sembra pertanto giustificato dal fatto che, con l’occupazione vicina al pieno impiego e l’attività economica in fase di recupero, l’inflazione potrebbe tornare a far capolino. La “normalizzazione” della politica monetaria avrebbe anche lo scopo di contrastare il pericolo di formazione di “bolle” finanziarie, visto il lungo periodo trascorso con tassi a zero e continue immissioni di liquidità.

Però, se dopo i ripetuti messaggi del board della Fed è ragionevole attendersi il molto annunciato rialzo dei tassi e un progressivo percorso di normalizzazione della politica monetaria statunitense, l’analisi del modo in cui i mercati hanno anticipato questa decisione e l’economia globale sta attualmente reagendo porta a conclusioni non più così scontate.

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euronomade

Cronicizzazione della crisi e trasformazioni della governance europea*

Christian Marazzi

cropped laura tedeschi tristezza malinconia gHo come l’impressione che siamo entrati in una seconda crisi della regione Europa e sento la necessità di adottare un approccio indiziario per osservare la direzione che possiamo o dobbiamo intraprendere, allo stesso modo di come il cacciatore osserva la piuma d’uccello sul cespuglio per capire da che parte andare. Ad agosto mi sembra sia successo qualcosa che abbia a che fare con la fine di un ciclo: mi sembra che la crisi cinese dichiari la fine di quella forma che il capitalismo ha assunto negli ultimi trent’anni e che è stata definita impero, dove la colonizzazione della concorrenza, del mercato e della finanziarizzazione ha dispiegato dei confini senza un oltre, senza un fuori. Il lavoro di Michael Hardt e Toni Negri ha sottolineato la materializzazione di questa ragione imperiale che la crisi cinese sembra segni la fine dei suoi equilibri geopolitici, economici e finanziari.

La Cina, dopo forti investimenti nel settore immobiliare e dell’export – che hanno giovato non poco all’occidente in questi anni – e politiche espansive che hanno spinto verso la finanziarizzazione, da quanto si riesce a intuire vive una forte riduzione della crescita e delle esportazioni. Proprio per far fronte a questa situazione, il 12 agosto 2015 il renminbi è stato svalutato (un gesto salutato positivamente dal Fmi, considerato il primo passo per far entrare questa valuta nel novero dei diritti speciali di prelievo) e, per contenere questa svalutazione, gli stessi cinesi hanno venduto qualcosa come cento miliardi di buoni del tesoro americani. Ecco la piuma dell’uccello, ecco l’indizio.

Il flusso di risparmio dal Giappone e dalla Germania verso gli US negli anni Settanta, a cui è subentrata la Cina, ha permesso agli Stati Uniti di sviluppare forme di post-industrializzazione attraverso la finanziarizzazione e, allo stesso tempo, ha reso possibile a questi paesi di concentrarsi sulla crescita economica e una produzione orientata all’esportazione.

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infoaut2

Crash tutto cinese?

di Raffaele Sciortino

China Meltdown 620x461Difficile ad oggi prevedere se il crollo della borsa cinese, che ha trascinato con sé le correzioni delle borse mondiali, sia l’innesco di una precipitazione della crisi globale dopo la pausa, economica in realtà più che geopolitica, degli ultimi due, tre anni. In ogni caso ne rappresenta un passaggio di fase: non solo la Cina sempre meno può, e vuole, fare da volano per un Occidente in prolungata stagnazione, ma si approssima un secco redde rationem sui circuiti di debito globali. Detto in altro modo: tende ad alzarsi il livello dello scontro sullo scarico dei costi della crisi a partire dagli scricchiolii del disequilibrio bilanciato1 Usa/Cina perno finora della globalizzazione.

Presentiamo di seguito alcune provvisorie ipotesi di lettura e inquadramento degli sviluppi in corso tentando innanzitutto una lettura non scissa tra dimensione “interna” cinese ed “esterna”. Tutto all’opposto della narrazione, di netto segno politico, che va imponendosi in Occidente dove -dopo anni di idiozie giornalistiche sullo scontato “sorpasso” del Dragone ai danni degli Usa- come d’incanto si riscoprono ora i nodi irrisolti dello sviluppo capitalistico cinese (!) per ingiungere a Pechino i compiti da svolgere pena la messa a rischio dell’economia mondiale.

Primo. La svalutazione agostana dello yuan secondo la narrazione corrente sarebbe stata la risposta al rallentamento dell’economia cinese che ha “naturalmente” innescato il crollo di borsa. Risposta “disperata” (addirittura!), comunque “scorretta” (come se gli stati occidentali in questi anni non avessero socializzato le immani perdite dei mercati…).

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euronomade

La ‘cronicizzazione’ della crisi e la necessità di costruire coalizioni sociali

Alberto De Nicola e Biagio Quattrocchi

Appunti per una discussione a venire, a partire dalla giornata seminariale dell’11 settembre nella Scuola estiva di Euronomade

08 etica bioetica economia bannerDa più parti si discute sul fenomeno di sostanziale cronicizzazione della crisi capitalistica in Europa. Intendiamo riprendere questo tema nelle nostre giornate della scuola estiva, per tornare a discutere sulla nozione di crisi e sull’ipotesi che questa congiuntura, più che essere interpretata come una fase ciclica che apre ad un nuova stagione di espansione, sembra contenere invece tutti gli elementi di una “nuova forma di regolazione” di lungo periodo del sistema capitalistico. Sorprende che alcuni economisti del mainstream marginalista, anche negli ambienti da cui più direttamente sono provenute le ricette di politica economica centrate sulla austerità di bilancio e la liberalizzazione dei fattori nel mercato del lavoro, sia nata la preoccupazione sul futuro dello sviluppo capitalistico. Lawrence Summers alla conferenza annuale del Fmi nel 2013 suggerisce l’ipotesi che l’economia statunitense in modo particolare, si stia avviando lungo un sentiero di “stagnazione secolare”, aggiungendo che questa potrebbe essere la «questione [principale] del nostro tempo» . Ciò che questi economisti, insieme a tutte le altre teste d’uovo dell’establishment europeo non potranno mai vedere, è che alla base dell’ipotesi realistica della “stagnazione secolare” opera una radicale trasformazione del rapporto sociale capitalistico, maturata lungo il ciclo neoliberale.

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inchiesta

La crisi globale e la Pizia cinese

Cronaca di un’estate torrida

Angela Pascucci

o CRISI CINA facebookAlla fine è arrivato Capitan America sfoderando un tasso di crescita dell’economia Usa che nessuno si aspettava e il rinvio dell’aumento dei tassi di interesse, e i foschi cinesi sono rientrati nei ranghi facendo quello che tutti si aspettavano dovessero fare, pompare soldi nel loro sistema spompato. Le Borse mondiali hanno rimbalzato di sollievo agguantando i rialzi, la “tempesta perfetta” si è dissolta. Fino al prossimo round che, a leggere bene le cronache economiche rosa del giorno dopo, è acquattato dietro l’angolo.

Ragion per cui l’immagine più vera  di questa torrida estate di crisi finanziaria resta una sola. Quella di un mondo che, entrato nella seconda fase della grande crisi economica deflagrata nel 2008, non ha ancora capito a che santo votarsi per arginarla. Il disorientamento globale è tale infatti da far apparire surreale, anche alla luce del poi, il  raccomandarsi spasmodico alla Cina che nella circostanza è apparsa anch’essa come una Pizia traballante sul suo trespolo fumoso, dal quale nei momenti più critici ha lanciato rimedi, senza apparentemente rendersi conto di dove sarebbero andati a parare.

Breve riassunto. Alle prime avvisaglie di squasso in Borsa, il governo di Pechino prima interviene massicciamente per bloccare il crollo, poi lascia andare rendendosi conto che frenare il panico di 90 milioni di piccoli azionisti incoraggiati dal governo stesso a entrare  nel recinto dei razziatori di professione è come andare contro la forza di gravità, e soprattutto in quel momento non servirà a ridare fiato all’economia in panne.

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nuovasocieta

La ripresa Usa: una tigre di carta?

Prodromi di una nuova crisi globale

di Lorenzo Carrieri

usaUltimamente sono molti gli articoli che parlano di una crescita dell’economia degli Stati Uniti, che avrebbe ripreso a crescere a ritmi costanti nel corso degli ultimi anni: negli ultimi trimestri si è addirittura sentito parlare di livelli di crescita compresi tra il 4% e il 5%.

Ma quanti di questi dati hanno un legame con l’economia reale, ergo con aumento occupazionale e produttività industriale, spesa in beni di consumo e redistribuzione della ricchezza?

A scandagliare e comparare i grafici sulla crescita si notano diverse cose interessante.
Primo, stando ai dato del Bureau of Labor Statistics il 20% delle famiglie americane è composto da tutti disoccupati: come fa dunque il tasso di disoccupazione a stare all’attuale 5,5%?

L’errore della narrativa imperante qui sta nei filtri usati per calcolare i disoccupati: calcolare solo i disoccupati ufficiali, quelli che si mettono alla ricerca di un nuovo lavoro e/o quelli che lo cercano fino a 4 settimane dopo la perdita, trascurando coloro che sono inoccupati di lungo corso.

In tal modo la descrizione della composizione della forza lavoro viene sempre più a restringersi, evitando in tal modo di approfondire la profondità reale della crisi sociale americana.

Altro cosa da sottolineare: l’aumento di posti di lavoro non considera l’aspetto contrattuale dello stesso rapporto: dai dati del BLS risulta che quasi il 90% delle nuove posizioni sono solo part-time (dai 3 ai 6 mesi di contratto, assunti per lo più nella ristorazione e nei fast-food, dove la busta paga settimanale è di 351$…), mentre quasi 250mila posizioni full-time sono andate perdute.

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controlacrisi

Il mal cinese si chiama capitalismo

di Domenico Moro

crisi opportunitaLa crisi borsistica della Cina e dei cosiddetti emergenti sta destando grande preoccupazione in Europa e negli Usa. Non si tratta di una crisi puramente finanziaria. Dietro il crollo delle borse c’è il calo maggiore in sei anni e mezzo dell’indice della produzione manifatturiera, il crollo dell’export del -7,3% nei primi sette mesi del 2015 rispetto all’anno scorso, e il drastico rallentamento della crescita del Pil della Cina, ormai la seconda economia del mondo di cui negli ultimi anni è stata la vera locomotiva.

Insomma, quella che si profila non è soltanto una possibile crisi della Cina, del Brasile e degli altri emergenti. Si sta profilando un rallentamento, se non una crisi, della globalizzazione e il rischio che si verifichi un secondo e più devastante secondo tempo della crisi iniziata nel 2007-2008, con lo scoppio della bolla dei mutui, che ebbe come epicentro gli Usa. Gli effetti della crisi dei mutui si estesero a tutto il centro più sviluppato dell’economia mondiale, oltre agli Usa, all’Europa occidentale e al Giappone. A distanza di otto anni non si è ancora verificata alcuna completa “recovery” in questa parte dell’economia mondiale. Nonostante i reiterati Quantitative easing, cioè l’immissione di massicce dosi di liquidità da parte delle banche centrali, nei casi migliori il tasso di crescita del Pil è ancora al di sotto di quello potenziale, e nei casi peggiori (in Italia e nella maggior parte dell’area euro) la crescita è nulla e il Pil reale rimane ancora al di sotto del livello del 2007.

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effimera

L’angelo sterminatore*

di Franco Berardi (Bifo)

Introduzione/Prefazione a Diario della crisi infinita (ombre corte) di Christian Marazzi

antonella incorvaia tristezza della luna gQuesto libro di Christian Marazzi non è solo un diario dell’involuzione “austeritaria” che sta distruggendo la società europea, è anche un’indagine sugli effetti della piena realizzazione di un modello che lo stesso Marazzi aveva cominciato a delineare venti anni fa, ne Il posto dei calzini[1].

Nel 1994 quel libro anticipava gli effetti dell’integrazione linguistica dei processi produttivi, e al tempo stesso cartografava concettualmente il duplice mutamento che la svolta linguistica del capitale comporta.

Il primo aspetto del mutamento consiste nella sussunzione della dimensione comunicativa, affettiva, relazionale all’interno del processo di valorizzazione. Il secondo aspetto è la transizione che porta il denaro ad assumere sempre più una funzione pragmatica in quel ciclo della comunicazione umana che siamo abituati a chiamare “economia”.

A partire dagli anni Novanta, la ricerca di Marazzi converge con la ricerca di quei filosofi del linguaggio che cercano di capire come il verbo si faccia carne, primo tra tutti, naturalmente Paolo Virno.

Il denaro è un caso particolare ma anche esemplare del farsi carne del linguaggio, ovvero del farsi merce del segno monetario. Lo sviluppo di questa analogia tra denaro e segno linguistico ci ha portato però molto lontano. Vediamo dove.

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ilcosa

Sette lezioni critiche e la teoria del meno peggio

di Turi Comito

GodMoneyA otto anni dall'inizio della Grande Crisi del nuovo millennio credo si possa fare un breve sommario dei principali effetti, diretti e collaterali, che questa ha comportato per un pezzo di mondo (quello dell'Europa Occidentale in primis) dal punto di vista economico, sociale e politico.
Ho chiamato questo sommario "lezioni" ma è solo un promemoria senza pretese di completezza, giusto per riepilogare alcune cose (tra le tante) riepilogabili.

 

1. La Crisi nasce negli Stati uniticome collasso del sistema finanziario privato dovuto all'ennesima bolla immobiliare. Banche dedite al prestito facile, alle stregonerie mobiliari (CDS, subprime, ecc.), agli investimenti d'azzardo e via dicendo crollano sotto il peso di crediti inesigibili e falliscono - creando disoccupazione, distruzione di ricchezza privata, impoverimento di milioni di persone - oppure (nella maggior parte dei casi) vengono salvate dalle finanze pubbliche, cioè dallo Stato, attraverso tassazioni supplementari per i propri cittadini o (come nel caso statunitense) attraverso una super produzione di moneta.

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effimera

Gli anfratti inermi del potere

Dialoghi e pensieri su “Diario della crisi infinita” di Christian Marazzi

di Francesca Coin e Stefano Lucarelli

aziende crisiScriveva Deleuze:

“quando scrivo su un autore il mio ideale sarebbe di riuscire a non dire nulla che potesse rattristarlo… pensare a lui, all’autore sul quale si scrive. Pensare a lui con tanta forza che non possa più essere un oggetto e che non sia neanche più possibile identificarsi con lui. Evitare la doppia ignominia dell’erudizione e della familiarità. Restituire a un autore un po’ di quella gioia, di quella forza, di quella vita politica e di amore che lui ha saputo donare, inventare” (Dialogues, 1977).

È con questo spirito che ci accingiamo a scrivere qualcosa sull’ultimo testo di Christian Marazzi, Diario della crisi infinita (Ombre Corte, 2015), un testo denso e articolato di cui ci piacerebbe provare a restituire almeno un po’ della forza e della vita politica che lo impregna.

Dobbiamo iniziare con una domanda. Più volte durante la lettura ci siamo chiesti, infatti, quanti economisti, in quest’epoca, potrebbero pubblicare una collezione di testi scritti in anticipo sull’oggi. Quante volte, in altre parole, sarebbe possibile mettere alla prova della storia le proprie previsioni senza esserne imbarazzati. L’origine di questa domanda sta nella prima caratteristica spiazzante del testo: Marazzi è stato in grado di anticipare già anni addietro, precisamente, i nodi con cui si confronta il presente, a descrivere non un semplice diario – forse il titolo è troppo modesto – ma una sorta di dissezione, implacabile e ossessiva, di ogni particolare della crisi, nel tentativo di offrire, con precisione tanto raffinata quanto a volte dolorosa, una mappatura ad uso sovversivo di quella che egli stesso, in una bella intervista con Gigi Roggero, ha definito “la guerra diffusa della crisi”.

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popoff

Cosa sta succedendo in Cina?

di Eduardo Garzòn

La seconda economia planetaria colpita da una storica e preoccupante bolla speculativa con conseguenze difficili da pronosticare

bolla speculativa cinaLa storica caduta della borsa cinese dovrebbe preoccupare molto di più di quanto stia avvenendo. In fondo stiamo parlando della seconda economia più grande a livello internazionale, una delle poche al mondo che in anni di crisi economica internazionale ha continuato a crescere a ritmi elevati e agendo da locomotrice per buona parte del pianeta, e che ha un potenziale di destabilizzazione per l’economia mondiale decine di volte superiore a quello della Grecia.

Tutto è iniziato alla fine dell’anno scorso. Il governo cinese, abituato a tassi di crescita economica travolgenti, non vide di buon occhio che l’economia cinese stesse rallentando nell’anno 2014 (segnò la sua crescita più bassa degli ultimi 25 anni), così ideò un piano per dare impulso alla crescita: iniezioni statali di enormi quantità di capitale alle borse con il fine di apportare alle imprese già molto indebitate nuove fonti di finanziamento. L’obiettivo era che gli indici di borsa, stagnanti dal 2009, aumentassero in forma graduale ma costante. Tuttavia quello che hanno ottenuto è stato l’inizio di un rally del mercato azionario che ha creato una delle più grandi bolle nella storia.

Ciò che sicuramente non saputo ben valutare il governo cinese è stato l’impatto che il contesto internazionale avrebbe avuto sulle sue borse. Per farla breve, alla fine del 2014 la Banca Centrale Europea (Bce) già stava tessendo la sua nuova strategia di espansione quantitativa, il Quantitative easing, consistito nell’inondare i mercati finanziari di denaro per stimolare l’economia europea.

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doppiozero

Diario della crisi infinita

La crisi come forma permanente di accumulazione e di comando capitalistico

Cristina Morini

morini marazzi 6 luglio 2015 boteroParafrasando liberamente il disinvolto e cinico Gordon Gekko del vecchio film Wall Street di Oliver Stone, “al massimo settantacinque persone in tutto il mondo” riescono a comprendere che cosa stia capitando davvero nel sistema economico globale. Nella grande con-fusione tra capitale e stato, cioè di fronte al dominio diretto del potere economico e finanziario sui processi della decisione politica e perfino sulle ragioni dell’etica, si genera un senso – puramente emotivo e intuitivo – di vertigine e di assedio. In un certo senso, la violenza strutturale dei meccanismi dell’economia contemporanea sfugge alle categorie della politica ma non a quelle del corpo-mente. Così, seguendo quella che si potrebbe definire un’ispirazione foucaultiana, il potere che ci mette in difficoltà con la crisi, la precarietà, il debito, noi lo sentiamo prima di tutto con i nostri corpi, attraverso i riverberi che si riflettono sulle nostre vite.

Il sentimento prevalente del nostro tempo è, dunque, la percezione, indistinta e soffocante, di un “divenire mondo del capitale attraverso gli strumenti della governamentalità neoliberista”, per usare un’efficace immagine di Dardot e Laval tratta dal loro ultimo libro Del comune o della rivoluzione del XXI secolo (DeriveApprodi 2015), ovvero “la sensazione che non si possa più uscire da tale cosmo”. I discorsi “morali” che, a volte, vediamo dipanarsi a partire dalla descrizione delle nuove forme dell’organizzazione economica mondiale connessa alla crisi permanente, non riescono a rappresentare una difesa utile. Da questo punto di vista, non ha grande senso il rimpianto per l’età dell’oro del fabbrichismo, dell’economia “reale”, fondata su beni materiali e tangibili e contrapposta a una presunta, imprendibile e forviante, produzione “immateriale” contemporanea, che tutto avrebbe scombinato e corrotto. Tracciare una linea netta è pressoché impossibile, dovendo, tuttavia, tenere presente l’aspetto nullificante della convenzione finanziaria che sta alla base dell’intero processo: “Il vecchio modello industriale di accumulazione era fondato sul ciclo Denaro-Merce-più Denaro. Il nuovo modello di accumulazione sembra fondato sul ciclo Denaro-Predazione-più Denaro, che implica però una conseguenza: Denaro-Impoverimento sociale-Più denaro [...]. Come attrattore e distruttore di futuro, il capitalismo finanziario cattura energie e risorse trasformandole in astrazione monetaria, cioè in nulla” (Franco Berardi, prefazione a Diario della crisi infinita di Christian Marazzi, ombre corte).