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la citta futura

Idee e proposte per affrontare la prossima crisi economica

di Emiliano Gentili

Una lunga riflessione sulla fase attuale di crisi vista nella prospettiva dei comunisti

d2fb689e74a907951fbcf16d13cc9a19 XLPremessa

Ad avermi spinto a scrivere questo articolo è stata senz’altro la voglia di veder tornare i comunisti nuovamente competitivi nell’arena politica. Lontano dall’idea di redigere un improbabile “ricettacolo” politico, ho cercato – ed è questa la prima caratteristica di queste pagine – di stimolare il lettore comunista ad un’auto-riflessione sulle modalità della propria personale attività di militanza, e del contesto nel quale essa è inserita. Una delle ragioni della vastità degli argomenti trattati, così come della grande varietà degli input forniti nonché del modo disorganico con cui vengono forniti, sta proprio nel carattere pedagogico di questo lavoro, che lascia ai lettori parte della responsabilità di collegare dati e riferimenti e trarne indicazioni utili, semplici idee, ma anche riflessioni autonome. Partendo da una descrizione critica della situazione politica ed economica attuale (La situazione attuale, La gestione capitalista della crisi) si passa a considerare l’odierno attivismo comunista, mostrando alcune ragioni delle nostre difficoltà politiche e tentando di individuare problematiche e insufficienze da risolvere (L’atteggiamento dei comunisti oggi). Nell’ultima sezione (Proposte pratiche), analizzando le recenti innovazioni tecnologiche del sistema produttivo e i mutamenti organizzativi che queste stanno generando al suo interno, si individuano nella “rete delle competenze” e nell’accorciamento della filiera produttiva due elementi fondamentali per riflettere in maniera innovativa su come articolare le future lotte politiche. Se questo, in breve, è lo scheletro di questo lavoro, il suo obiettivo dichiarato (nel finale) è quello di stimolare ulteriori contributi da parte di altri militanti.

 

 

I. LA SITUAZIONE ATTUALE

 

Sentimento di unità nazionale

Nell’attuale contesto, in cui a causa dell’epidemia e della quarantena aumentano l’isolamento sociale e le difficoltà economiche - accompagnati da una diffusa sensazione di paura -, la narrazione mediatica è diventata per molti l’unica finestra sulla realtà del mondo esterno ed è riuscita quindi, meglio di prima, ad esercitare un’azione unificante sulle opinioni delle persone.

Il processo di spettacolarizzazione della politica, di mediatizzazione dei toni del dibattito politico [1], la stereotipizzazione degli argomenti trattati (per tipologia e maniera di trattarli) sui media, per citare solo i fattori maggiormente noti, hanno prodotto negli anni un pubblico di fruitori passivi e sempre più anestetizzati a tutto, anche alle tragedie umane; un pubblico, quindi, suscettibile di essere catturato, contagiato, travolto da una narrazione che improvvisamente diventa drammatica, emergenziale e ancor più monotematica. Non solo, questi fattori hanno prodotto anche un’enorme massa acritica. La combinazione di questi ingredienti ha probabilmente contribuito al successo dell’operazione politica di costruzione del consenso attorno al richiamo all’unità nazionale, il quale ultimo - seppur ancora necessariamente mediato e giustificato con la situazione d’emergenza - sembra potersi profilare come l’arma ideologica principale dei capitalisti per riuscire a sconfiggere eventuali future rivendicazioni di equità sociale. Queste, con più o meno forza oppure anche solo in forma embrionale, potrebbero diffondersi a causa della crisi economica post-quarantena.

Il sacrificio sociale delle classi popolari e la rinuncia da parte di queste a rivendicazioni economiche avverranno nel nome dell’unità nazionale ma non dovrebbero verificarsi sulla scorta di un sentimento patriottico, se non parzialmente [2]. Secondo recenti inchieste sociologiche, difatti, parziali sono la diffusione del patriottismo e del sentimento di appartenenza a una comunità etnica. Predominano sentimenti di appartenenza su base culturale, religiosa e sociale; declinano quelli basati sulla condizione lavorativa; crescono ma non sfondano quelli artificiali, basati sul sentimento nazionale [3].

Nonostante ciò, la forma ideologica del sacrificio nel nome dell’unità della nazione ha una storia di sedimentazione nelle coscienze del popolo italiano che, in tempi moderni, inizia negli anni ’80 e passa per l’abolizione della scala mobile, il processo di adesione e permanenza all’interno dell’UE, tutte le principali controriforme delle ultime stagioni governative. Non si tratta, quindi, di un nemico che potremo sconfiggere nei prossimi mesi.

 

Egemonia culturale

Il meccanismo di costruzione del consenso inoltre, lungi dall’essere provocato dal solo apparato mediatico, sembra essersi gradualmente sviluppato fino a coinvolgere l’intero spettro delle rappresentazioni mentali che si originano dalla società civile, arrivando a toccare tutta la nostra cultura (compresi il sistema d’istruzione e la ricerca), i nostri sensi (con modificazioni delle nostre preferenze indotte e sempre più evidenti, soprattutto in termini di gusto e olfatto), l’etica e l’estetica, i rapporti sociali e familiari e, ovviamente, i sentimenti. In particolare proprio le trasformazioni del modo di sentire, gestire e reagire a i sentimenti, specie se lette in rapporto all’evoluzione dell’intera società, potrebbero lasciar supporre che in alcuni secoli di vita il capitalismo sia oramai riuscito a depositare anche uno strato di cambiamenti di livello neurologico, incrementando il vantaggio nei nostri confronti in una maniera che ancora non è quantificabile. Sarebbe quindi fuori luogo parlare semplicemente di costruzione del consenso; meglio utilizzare l’espressione classica di ‘costruzione dell’egemonia culturale’.

Nella storia italiana raramente era capitato di poter osservare una compattezza e uniformità di vedute simili a quelle che vengono oggi evocate dal sentimento di unità nazionale propugnato dai partiti parlamentari. Forse in singole occasioni vi ci eravamo avvicinati - come ad esempio nei giorni successivi agli scontri di piazza a Roma nel 15 ottobre 2011, quando un’ondata di disprezzo bipartisan si scatenò sui manifestanti e, di seguito, vennero elargite condanne penali esemplari -, ma si trattava generalmente di parentesi brevi e su questioni che erano percepite come secondarie. Esistono, certamente, dei momenti in cui si sperimenta un’effettiva unità nazionale per ciò che si prova in rapporto a un determinato evento (ricordiamo la gioia generale per i Mondiali di calcio vinti), ma difficilmente quando l’evento è politico.

 

Rabbia

Dato che si tratta di un sentimento fondamentale ai fini della mobilitazione politica, ci sembra importante fare una digressione sul totale controllo che il ceto politico italiano sembra possedere sulla rabbia della popolazione lavoratrice. Parlando di controllo ci riferiamo alla capacità di evocare, utilizzare e manipolare questo sentimento.

In rapporto alla prossima crisi economica, la classe dirigente cercherà in vario modo di agganciarsi alla rabbia per usarla in funzione anticinese (o xenofoba in generale) e securitaria. Dico securitaria perché, a mio avviso, la rivendicazione di un sempre maggiore controllo sociale, pur se variamente motivata, si spiega meglio come una tattica “aggressivo-passiva” che tendenzialmente è di rabbia verso qualcun altro (che oggi può essere l’immigrato e/o la proiezione dell’italiano medio) mista a paura, piuttosto che con la paura e basta. Questa è una delle ragioni per le quali la rabbia per il progressivo peggioramento delle condizioni socio-economiche di vita viene meglio intercettata da coloro che, oltre a fingere di comprendere le difficoltà che ne derivano e di rivendicare un cambiamento, nei fatti lavorano per spostare il focus del risentimento sociale verso soggetti in realtà estranei alle effettive responsabilità del processo di impoverimento, cercando di farli percepire come pericolosi e ostili, in maniera da rendere appetibili le proprie ricette securitarie e antidemocratiche e “blindare”, con ciò, il prosieguo del processo di impoverimento stesso.

 

Asse economico e asse culturale

Gli argomenti utilizzati a questi scopi assolvono una duplice funzione: questa, a breve termine, di rafforzare l’arsenale giustificativo da utilizzare per riuscire a far passare i prossimi tagli allo stato sociale e al salario senza troppe proteste; quella, strategica, di rafforzare l’asse politico di matrice, per così dire, “culturale” (ossia la capacità di far gravitare il dibattito politico attorno a temi non direttamente economici o non visti come tali come il patriottismo, l’immigrazione, la globalizzazione culturale e la perdita dell’identità sociale), a scapito di quello “economico” (roteante attorno ai temi da sempre centrali per la sinistra, come il salario, le tutele sociali, ecc.) [4].

Una funzione derivata di questo arsenale ideologico ampio e vario è la possibilità della creazione di uno pseudo-dibattito politico, fra destra e sinistra parlamentari, in cui la seconda possa evitare di dover impugnare rivendicazioni sociali “economiche” che potrebbero gonfiarsi fino a sfuggirle di mano e accomodarsi, così, nel dibattito sui temi “culturali”; in quest’ambito la “sinistra” riuscirebbe (e riesce, in effetti) agevolmente a presentarsi nel ruolo di “anti-“, un ruolo di sterile contrapposizione alle sole rivendicazioni di facciata della destra.

 

Inversione di ruoli

Grazie a questo processo si è consolidata una storica inversione di ruoli, fra destra e sinistra borghesi, che assegna alla prima il compito di controllare le pulsioni rivendicative delle masse popolari e, alla seconda, di rappresentare gli interessi della grande borghesia in contrapposizione alle spinte tradizionalistiche della piccola e media imprenditoria (che ha più da perdere dai vincoli europei).

In questo modo si compiono due giri di boa: dal momento che il principale partito di riferimento dei capitalisti, il PD, è il partito dell’alta finanza e non un semplice soggetto politico opportunista e moderato, ancora possibile di rivendicazioni sociali almeno apparentemente “progressiste”, la penetrazione ideologica borghese dei settori popolari che si riconoscono nel concetto astratto di sinistra diventa sempre più forte, al punto che oggigiorno forme ideologiche come il legalitarismo o la meritocrazia vengono identificate come idee di sinistra (speriamo non si aggiunga presto alla lista l’“idea” che il problema del Paese siano i voti espressi dalle fasce della popolazione meno istruite, che andrebbero quindi estromesse dal processo elettorale); la destra borghese, quella alla Salvini e Meloni per intenderci, diventa il collante di una pericolosa alleanza tra piccola e media imprenditoria, da un lato, e lavoratori dall’altro. Quest’ultimo fatto lo si può verificare in molte maniere. Ad esempio, prestando attenzione alla forma più diffusa che assume oggi il tentativo di non perdere identità e cultura popolari (usi e costumi, dialetti, ecc.).

 

Populismo e cultura popolare

Premettiamo che la sinistra parlamentare, mostrandosi elitaria, schizzinosa, vanesiamente intellettuale e distante, appare esclusa a priori dall’argomento.

Nel contesto attuale la difesa del folklore popolare appare come il tentativo di non far morire ciò che, all’atto pratico, è già morto: dialetti spesso ridotti tutt’al più al rango di registro linguistico (e al livello di semplici vernacoli), rappresentazioni folkloriche (come ad esempio quelle musicali) che non sono altro che revival, ecc. Il tentativo, in effetti, non può che essere giudicato come un tentativo conservatore. Questo, non potendo riuscire nella cara vecchia impresa del resuscitare i morti, garantisce a chi lo attua un controllo simbolico molto semplice da ottenere: basta impersonare quel morto. Essendo morto, non verrà a protestare.

L’approccio populista dei leader della destra agli elettori, fra le mille cose, è anche questo tentativo. La difesa dell’artigianato (in realtà della piccola e, soprattutto, media produzione industriale) e la difesa “alla Salvini” del Made in Italy, assumono simbolicamente la funzione di difesa delle radici culturali popolari mentre restano, semplicemente, uno dei tratti ideologici della destra deputati a svolgere la funzione di collante sociale tra piccola e media borghesia - in Italia fortemente e storicamente egemonizzate dai conservatori - e i lavoratori.

L’idea più logica, ossia quella che la cultura popolare, progressivamente soffocata dagli sviluppi del mercato capitalista negli ultimi 150 anni almeno, possa rinascere (e continuare a svilupparsi, modificandosi) solo dall’incontro con altre culture, così come è sempre avvenuto in passato, non trova i presupposti per poter fare la sua comparsa nel dibattito politico.

 

Scollamento dalla classe sociale

In tutto ciò i comunisti continuano a cercare di evocare la rabbia nel proprio soggetto sociale di riferimento in maniere che, sinceramente, definire fallimentari sarebbe poco. Tralasciando le innumerevoli inopportunità che costantemente mettiamo in atto in ambito comunicativo, come pure una montagna di difetti che, seppur spesso possiamo individuare, non riusciamo ancora quasi mai a correggere, vorrei che ci concentrassimo su un aspetto che, pur non essendo di primaria importanza, dà la misura della nostra eccessiva distanza da ciò che pensano e provano le classi popolari.

Ciò a cui mi riferisco è la rabbia cieca e volutamente esagerata che rappresentiamo in ogni volantino, ogni comunicazione, spesso indirizzandola verso individui specifici (il Capo del Governo, un membro della governance europea, ecc.).

Come è per le guerre, in cui mentre nel passato il soldato uccideva di mano propria il nemico oggi semplicemente spinge un bottone su un’arma a distanza (magari senza nemmeno vedere la/le vittima/e), così anche è per le disposizioni legislative e finanziarie: dobbiamo sforzarci di considerare che l’azione è divenuta molto più indiretta. Non esiste praticamente più, come era nei secoli scorsi, il padrone che licenzia in prima persona l’operaia (cui magari fino al giorno prima aveva fatto molestie) per poi ritrovarla il giorno dopo a chiedere l’elemosina per le strade insieme a una numerosa e malnutrita prole; oggi la crudezza di un analogo accadimento sfiorerebbe appena la coscienza di un responsabile del personale, incaricato dei licenziamenti, e non giungerebbe minimamente a conoscenza del grande azionista, se non traslato nella forma di dato statistico.

Se il soldato o il capitalista non fanno più esperienza diretta delle conseguenze delle loro azioni vuol dire, di conseguenza, che questi sono persone completamente diverse rispetto ai loro predecessori. Le persone che non si occupano di politica ascoltano personaggi alla Mario Draghi o Jean Claude Juncker senza alcuna sorta di “filtraggio” dettato da profonde convinzioni (come le nostre) in grado di orientarne il giudizio preliminarmente, percependoli come persone più o meno normali, genitori, quello che vogliamo… ma non mostri. Pur se (e sottolineo ‘se’) in collera con essi. L’unico soggetto sociale che sembra mostrarsi un po’ più ricettivo riguardo i nostri toni propagandistici è il sottoproletariato e, in effetti, è ragionevole supporre che, qualora le difficoltà economiche si facessero molto forti anche per i lavoratori più stabili, la necessità e le privazioni renderebbero più facile recepire e condividere toni arrabbiati verso i rappresentanti dei capitalisti.

Il quadro che ho dipinto, però, pur essendo molto specifico dà la cifra del nostro scollamento: tendenzialmente, non capiamo come pensano (e “sentono”) i lavoratori, non sappiamo perché non ci capiscono e nemmeno in che cosa, di preciso, non veniamo compresi. Oltre a ciò mostriamo evidenti indisposizioni al cambiamento, dal momento che non riusciamo a leggere gli stimoli di ritorno che il nostro intervento, propagandistico o di lotta che sia, produce tramite la reazione dei soggetti con cui ci interfacciamo. Ci torneremo nell’ultima parte di questo lavoro.

 

 

II: LA GESTIONE CAPITALISTICA DELLA CRISI

 

Abbiamo velocemente affrontato la questione del controllo dei capitalisti sulle masse popolari, evidenziando alcuni tra gli aspetti che reputavamo più interessanti.

Vedremo ora, altrettanto rapidamente, in che modo la classe dirigente sta utilizzando la crisi, affinché possa essere chiara la dimensione dello scontro. A tal fine abbiamo ritenuto più utile procedere, viste anche le obiettive necessità di sintesi dell’argomento, all’esposizione critica delle recenti rivendicazioni avanzate da Confindustria (in un documento del 20 Marzo [5]) nei confronti di Governo e UE. Queste infatti, sebbene il documento sia già parzialmente datato, rappresentano le aspirazioni e le tattiche dei capitalisti in maniera più chiara dell’attività legislativa del Governo stesso, la quale ultima, naturalmente, è filtrata dalle necessità di mediazione con le istanze provenienti dalla società civile (in primis le necessità materiali delle classi popolari, ma ad esempio anche quelle “tattiche” dei gruppi parlamentari, irrinunciabili per far fronte allo scontro nell’arena politica).

 

La tattica di Confindustria

Il paradigma ideologico all’interno del quale Confindustria sembra essersi mossa è piuttosto “tipico”:

  • enfasi sulla ‘eccezionalità’ della fase di difficoltà economica – prima e più che sulla sua ‘gravità’ –, data dall’assimilazione dello stato di crisi a uno stato di guerra. Ciò al fine di poter porre più agevolmente l’accento, anche a livello mediatico, sulle misure di sostegno alla produzione piuttosto che su quelle allo stato sociale [6];
  • rilancio del ruolo cardine dell’assetto produttivo capitalista in funzione della tenuta complessiva della società e, quindi, necessità di fornire sostegno prioritariamente al sistema produttivo piuttosto che allo stato sociale. Ciò al fine di giustificare il maggior sostegno fornito ai capitalisti, rispetto ai lavoratori [7];
  • foraggiamento di un rinnovato sentimento di unità nazionale coi lavoratori per far fronte alle cresciute esigenze del settore produttivo e proteggere così da eventuali proteste sociali il sistema sociale attuale [8].

Questa impostazione ha permesso di coprire politicamente gli enormi scompensi esistenti tra il quantitativo di sostegno economico fornito al ceto imprenditoriale e bancario, da un lato, e ai lavoratori dall’altro, sulla base di una squalifica a priori delle argomentazioni volte a sostenere la necessità prioritaria di misure di reale tutela popolare. Gli unici che potranno “entrare in partita” – ma comunque solo quando verrà ideologicamente “decretata” l’uscita dalla fase di emergenza – sono i politici e gli economisti di inclinazione socialdemocratica, sostenitori di un approccio orientato al sostegno alla domanda come chiave per il rilancio economico. Potrebbe essere a questo punto necessario, per noi comunisti, interagire con loro su alcune delle loro proposte, al fine di entrare nel dibattito a pieno titolo e poterci di conseguenza interfacciare con la società civile. Esistono anche molti blog e riviste economici d’orientamento marxista che svolgono studi e pubblicano conclusioni interessanti; al momento però non sembra che trovino particolare attenzione, o una qualche forma di rilancio, nella propaganda delle organizzazioni comuniste esistenti.

 

La politica di classe degli industriali

La politica di classe di Confindustria espressione con cui intendiamo il complesso delle azioni politiche che vengono messe in atto al fine di modificare le relazioni fra gruppi sociali, in virtù di determinati interessi economici è basata, come in passato, sulla solida alleanza che gli industriali hanno col mondo della finanza e, in secondo luogo, sul mantenimento del controllo politico della piccola e media imprenditoria le piccole e medie imprese (PMI) –, che in Italia storicamente ha un ruolo di notevole importanza. Le principali leve su cui questa alleanza può prosperare sono, da un versante, il sempre solido rapporto con le istituzioni nazionali e, dall’altro, il rafforzamento della propria posizione nei confronti dell’apparato economico-istituzionale europeo.

A fine marzo gli industriali hanno prodotto un sistema coerente di rivendicazioni esposto in forma compiuta per la prima volta nell’importante documento già sopra citato, dal titolo Affrontiamo l’emergenza economica per la tutela del lavoro. Si tratta di una presa di posizione ufficiale successiva alla promulgazione del decreto cosiddetto Cura Italia e che, quindi, riflette una situazione in cui Confindustria si dichiarava già parzialmente soddisfatta dell’operato iniziale del Governo [9] e provava, per così dire, a “rilanciare” (anche per questo, forse, è particolarmente significativa). Nel momento in cui scriviamo una considerevole parte delle richieste contenute in questo documento è già stata accolta (siamo alle soglie della cosiddetta “Fase 2”), ma l’importanza politica dello stesso non è venuta meno.

Vediamolo nel dettaglio.

 

Confindustria e capitale finanziario

Confindustria ha la necessità di prevedere adeguate tutele (e incrementi di profitti) per il settore bancario. Dal momento che questo è il principale “fornitore” di denaro alle imprese e che queste sono in crisi di liquidità, le coperture finanziarie “extra” vengono chieste principalmente allo Stato e, quando anche sono chieste alle banche, non lo si fa se non fissando una adeguata “ricompensa” per queste ultime in termini di crediti sulle imposte, garanzie statali sui prestiti (principalmente tramite la Cassa Depositi e Prestiti, CDP) e deroghe importanti alla regolamentazione finanziaria dei prestiti e degli investimenti in generale (ricordiamo che le banche italiane possiedono una grossa fetta di debito pubblico italiano e che, quindi, tengono lo Stato “al guinzaglio”).

In alternativa alla CDP, per garantire i prestiti vengono spesso proposte la Banca Europea degli Investimenti (BEI) e il Fondo Europeo degli Investimenti (FEI) ma, non essendo l’UE “disponibile” quanto lo Stato italiano, è facile prevedere su quale istituzione ricadrà il peso maggiore.

  • CDP e BEI dovrebbero concedere finanziamenti agevolati (fino a 30 anni) alle banche, affinché queste finanzino le imprese medie e grandi. I finanziamenti dovrebbero essere garantiti (in caso di insolvenza) da Stato o FEI e prevedere il pagamento integrale degli interessi da parte dello Stato (attraverso crediti d’imposta concessi alle banche, ossia scontando dalle tasse tutti gli interessi che queste, affinché lo Stato possa fornire garanzia nel caso di insolvibilità del prestito ‘da parte loro’, dovrebbero pagargli!). I finanziamenti, di non lieve entità, dovrebbero coprire almeno 9 mesi di stipendi, tasse, contributi, oneri sociali, utenze, fornitori, affitti, ecc. [10]. Lo stesso tipo di finanziamento viene richiesto anche per situazioni non emergenziali, ossia “programmi di riorganizzazione aziendale e rafforzamento filiere strategiche INDUSTRIA 4.0” [11]. All’UE vengono chiesti un incremento delle concessioni relative alle garanzie europee sui finanziamenti bancari (tra cui la possibilità che le istituzioni forniscano garanzia sui prestiti bancari a titolo direttamente gratuito) [12], previste in via emergenziale dalla Commissione Europea (Temporary Framework), e un ufficiale ritardo nell’applicazione di alcune misure di regolamentazione finanziaria, adottate per scongiurare la possibilità di nuove crisi dovute a bolle speculative (come quella del 2008). Le misure in oggetto sono gli accordi internazionali di Basilea III e il MREL; le rivendicazioni sono di non aumentare la disponibilità di capitale necessaria per poter fare investimenti (e di ridurre in generale i cosiddetti “requisiti prudenziali”, almeno per i prossimi 1-2 anni), nonché di concedere alcune deroghe alle banche con troppa passività in bilancio [13].
  • Alle banche, gli industriali chiedono “eventuali misure di tolleranza sui prestiti in essere alle imprese danneggiate dal Covid-19” (ricordando, nello stesso capoverso, la necessità di ridurre i vincoli posti alle banche per emettere nuovi finanziamenti) [14].

In sostanza: richiesta di accrescere il tasso di profitto del capitale finanziario e di copertura totale dei prestiti da parte delle istituzioni (delle quali i cittadini sono i principali finanziatori, attraverso le imposte), in caso di insolvenza delle imprese cui sono destinati.

 

Confindustria e capitale industriale

Per le imprese strategiche o grandi Confindustria chiede ulteriori ammortizzatori:

  • Emissione di consistenti prestiti della durata di 4 anni da parte di CDP e BEI, per aziende sopra i 300 milioni di € di fatturato, con possibilità di conversione in capitale alla scadenza (ossia: se l’impresa non è in grado di restituire il denaro, lo Stato acquisisce un valore equivalente sotto forma di azioni dell’impresa insolvente e, in più, con un patto di riacquisto a determinate condizioni da parte dell’azienda per il futuro. Vale a dire: ripagateci quando volete e, se siete in difficoltà, entriamo provvisoriamente come azionisti fin quando non ricominciate a guadagnare) [15].
  • Creazione di un fondo statale (aperto anche ai privati) per il finanziamento delle imprese strategiche [16].

Per le PMI viene proposto anche:

  • Di implementare il Fondo di Garanzia per le PMI, al fine di finanziarle fino a 5 milioni di € (il Cura Italia prevede un massimo di 1,5 milioni) [17];
  • Di far accedere al Fondo anche le mid cap (aziende con una capitalizzazione in borsa tra i 2 e i 10 miliardi di €) con meno di 500 dipendenti [18];
  • L’introduzione di una regolamentazione nazionale (analoga al Temporary Framework europeo) che permetta facilmente coperture sino al 90% delle esigenze di liquidità [19];
  • Di delegare alle Regioni (!) il compito di portare al 90% la copertura dei buchi finanziari delle imprese nei casi in cui queste non possano accedere ai capitali di un Temporary Framework “italiano” (considerando che il Fondo può arrivare massimo all’80, per legge) [20];
  • Una copertura di garanzia, tramite il Fondo, di operazioni d’investimento che prevedano allungamenti fino a 30 anni [21];
  • Di creare sezioni speciali del Fondo dedicate a coprire gli interessi dovuti dalle imprese sui prestiti del Fondo stesso (!), finanziate da Regioni, Comuni, enti pubblici e camere di commercio [22];
  • Di ammettere al Fondo, ossia ai finanziamenti statali, ogni impresa e senza alcuna verifica [23];
  • Di rafforzare, per la durata dell’emergenza, il PMI Supporting Factor (meccanismo europeo) fino a 10 milioni di € (teniamo presente che nel 2019 era stato portato da 1,5 a 2,5 milioni) [24];
  • Ulteriori interventi di garanzia istituzionale sui prestiti [25] e di agevolazione nell’accesso al credito [26];
  • Una serie di forti misure volte a garantire le proprietà immobiliari di PMI, tra cui spicca la creazione di un fondo d’investimento immobiliare sostanzialmente garantito dallo Stato, ma aperto ai privati, per acquistare immobili dalle imprese al solo fine di riaffittarglieli con possibilità di riscatto a prezzi predeterminati [27].

Questa grande iniezione di liquidità, quindi, verrebbe scaricata per intero sulle spalle delle istituzioni e causerebbe presumibilmente grossi tagli allo stato sociale, con la finanziaria del prossimo autunno. Specie se si tiene conto delle ulteriori richieste degli industriali, che invocano:

  • la sospensione di qualsiasi versamento fiscale e contributivo per tutte le imprese (non solo quelle in difficoltà) e il prolungamento del periodo di rateizzazione per i versamenti già programmati, oltre alla possibilità di pagare i debiti tributari in 10 anni e senza sanzioni [28];
  • il riconoscimento automatico per tutte le imprese, su richiesta ma senza verifica alcuna, della “comprovata e grave situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica” [29], nonché la concessione automatica e generalizzata della Cassa Integrazione Covid-19, riconoscendola anche a quelle aziende che hanno registrato soltanto sospensioni o riduzioni di orario (e con in più la possibilità di applicarla retroattivamente) [30];
  • la deduzione fiscale dei finanziamenti, qualora prevista, andrebbe concessa sempre e senza verifica, visto che le attività giudiziarie sono sospese; stesso discorso per quanto riguarda lo stop (fino a fine luglio) alle procedure per fallimento [31].

Confindustria e l’UE

Visto l’enorme carico di denaro richiesto allo Stato, e in un’ottica di accrescimento del proprio potenziale di competitività sul mercato, il ceto industriale italiano tenta di “girare” all’UE (o ai Paesi UE più ricchi) parte di questo carico, proponendo di:

  • emettere debito europeo (Eurobond) [32];
  • mettere a disposizione degli Stati che ne hanno bisogno la linea di credito precauzionale del MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) ma abolendo i sei criteri di accesso, giudicati limitativi (come quello relativo debito pubblico, ad esempio). Nessuna richiesta riguardo alle condizionalità, guarda caso, nonostante l’alto livello di dettaglio di tutto il documento [33];
  • realizzare un programma nazionale di sostegno alle imprese che consenta di attivare la garanzia dell’UE su programmi di agevolazione gestiti da CDP [34];
  • realizzare dei basket bond [35] di filiera, con CDP e BEI come investitori (e con, ovviamente, garanzia dello Stato sulle prime perdite) [36];
  • congelare le valutazioni di rischio, alleggerire le regole di definizione di default [37] e facilitare la possibilità di sfruttare la causa di forza maggiore per giustificare eventuali inadempienze contrattuali [38].

Queste le rivendicazioni prettamente economiche.

 

La visione strategia di Confindustria

Difficile dire, fra quelle che saranno (o sono già state) accolte, quante saranno applicate esclusivamente nel periodo di emergenza sanitaria e quante, invece, rimarranno in vigore anche dopo o comunque lasceranno dei cambiamenti. Di certo dobbiamo rilevare che una parte di esse si riferisce a periodi di tempo superiori ai due anni previsti dall’Istat (nelle settimane successive al 20 marzo) per ritornare alle stime per il PIL del Gennaio 2020. Il dubbio, però, sembra levarcelo in parte la stessa Confindustria quando, in calce al documento, esplicita in maniera molto chiara un segmento della propria visione strategica, riguardante l’organizzazione – e il dispiegamento – degli investimenti pubblici e della realizzazione (statale) di infrastrutture.

Affinché ciò possa essere messo in atto in tempi rapidi e con efficienza, Confindustria propone che venga istituito un Comitato Nazionale per la Tutela del Lavoro, composto da rappresentanti di Governo, imprese e banche (ma non dai lavoratori). Al suo interno, propone di stabilire un comitato di carattere tecnico che coinvolga amministrazioni e enti gestori di servizi pubblici e da cui dipenderebbero il funzionamento degli ambiti più essenziali in questo momento: sistema sanitario, approvvigionamenti, interventi urgenti per assicurare la continuità produttiva delle imprese, ecc. Il Comitato Nazionale dovrebbe poi dotarsi di un piano triennale di sviluppo e di un metodo di lavoro basato su commissari straordinari (per tutte le opere di carattere strategico) e task force operative di esperti con compito di fluidificazione dei rapporti tra amministrazioni (per accelerare le procedure). In caso di fallimento della task force, verrebbe chiesta la “possibilità di procedere anche in questi casi a commissariamenti” [39].

Confindustria non sembra quindi pensare in un’ottica puramente emergenziale [40]. Le sue rivendicazioni, specie se relazionate con l’evoluzione recente del contesto politico e sociale nostrano, appaiono seguire una precisa strategia politica di erosione della rappresentanza democratica popolare e di copertura delle perdite economiche da parte delle istituzioni, con uno specifico e marcato accento sulla facilitazione dell’accesso ai prestiti. Il tutto, basandosi su un fronte unico di banche e imprese e sull’elevato potere di ricatto che questo è in grado di esercitare nei confronti dello Stato.

 

In difesa o all’attacco?

I milioni di euro che il Governo sta destinando all’emergenza sociale sono quantitativamente irrisori, se rapportati al gettito complessivo che sta venendo destinato alle imprese in questi giorni.

Fare semplicemente il confronto fra gli stanziamenti effettuati per banche e imprese e quelli per il sostentamento dei lavoratori in difficoltà, però, potrebbe non essere l’approccio politicamente vincente: apparirebbe scollato dal contesto sociale perché non tiene conto della priorità di importanza che oggi, diffusamente, si attribuisce alle attività capitalistiche, percepite come funzionali al mantenimento dello status quo sociale. Ad una grossa parte degli stessi lavoratori, quindi, questa visione potrebbe sembrare “estremista” (massimalista), nonché chiusa o dogmatica; può essere recepita correttamente solo da chi vive in condizioni di assoluta necessità o, temporaneamente, da chi ha recentemente visto peggiorare di molto le proprie condizioni socio-economiche.

Come se non bastasse, quest’approccio pare produrre essenzialmente rivendicazioni di sostegno al reddito che, per quanto moralmente indiscutibili, si configurano generalmente come palliativi non risolutivi di nulla (o addirittura controproducenti, come nel caso tedesco di Hartz IV) e tendono a generare e rafforzare dinamiche di concorrenza fra i lavoratori.

Sarebbe a questo punto più proficuo, forse, lamentare l’assenza di una patrimoniale forte, così come proporre la nazionalizzazione di settori o aziende in particolare difficoltà, e inquadrare queste misure innanzitutto come occasioni di risparmio per lo Stato e di salvaguardia di posti di lavoro. La nazionalizzazione, soprattutto, dev’essere una rivendicazione pratica e che venga formulata assecondando il livello di coscienza politica medio, non una astratta presa di posizione ideologica per sostenere la quale non abbiamo nemmeno prodotto piani economici e politici sufficientemente strutturati da poter essere confrontati con quelli dei capitalisti, e che non avremmo comunque la forza e la capacità politiche di promuovere. Per cui, meglio presentarla come una semplice misura tattica (meglio se molto specifica, per una o più determinate aziende) per far fronte alla crisi che come un viatico per il socialismo, approfondendo l’argomento e studiandone anche gli effetti a breve termine.

 

 

III: L’ATTEGGIAMENTO DEI COMUNISTI OGGI

 

Uno dei freni che impediscono alla nostra fazione politica di crescere sta nella difficoltà di strutturare una modalità di approccio proficua e funzionale verso il soggetto sociale di riferimento. Tenendo conto che le ragioni di questa difficoltà sono ben radicate, proviamo ad analizzare le principali.

 

Finanziarizzazione dell’economia.

Il ciclo di accumulazione di capitali, ripartito con la fine della II Guerra Mondiale, entrò in fase recessiva dopo gli anni ’60. In quel momento i capitalisti, anziché passare a distruggere ingenti quantità di forze produttive per far poi ripartire il mercato, riuscirono a sostenerlo investendo massicciamente nel capitale produttivo d’interesse (il complesso delle attività creditizie e finanziarie). In questa maniera, però, innescarono un meccanismo insano che drogava (e droga) il sistema economico rendendolo sempre più dipendente da sé – oggi i volumi delle transazioni finanziarie, com’è noto, hanno raggiunto livelli impensabili anche solo fino a qualche decennio fa –, aumentando le dimensioni dei profitti derivati da attività finanziarie anche nel momento in cui le condizioni dell’economia reale non migliorano ma, anzi, peggiorano [41].

Uno dei risultati politici della finanziarizzazione dell’economia, e quindi di questo prolungato periodo artificiale di relativo benessere, è stato il fatto che la classe dirigente ha potuto tenere la povertà e le difficoltà sociali al di sotto di una soglia di relativa controllabilità e per un tempo sufficientemente lungo (che arriva ad oggi) da far sì che le stesse ragioni storiche dell’esistenza dei comunisti abbiano cessato di essere percepite, rendendo superflua la presenza di una fazione di rivoluzionari progressisti [42].

In molti Paesi (ma in special modo in Italia) ciò ha lasciato una sola via di successo politico per chi mirava a sovvertire il capitalismo: quella di limitarsi a difendere il salario dei lavoratori nel quadro di una più equa ripartizione del plusvalore, ossia all’interno di questo nuovo “capitalismo eternamente funzionante”. In Italia il PCI arrivò persino a “colonizzare” settori dell’economia e delle istituzioni capitalistiche (si pensi alle cooperative), mentre puntava a migliorare il Paese spingendo verso una maggiore eguaglianza sociale.

Con la fine del sogno socialista e i primi “scricchiolii” nella tenuta della stabilità del sistema i margini politici di manovra, per chi ricercava un serio egualitarismo, dapprima si esaurirono, portando i comunisti a spostare l’accento su questioni come quella del rafforzamento della democrazia rappresentativa o quelle culturale e morale, per poi invertirsi di segno, aprendo con ciò la stagione della difesa delle vecchie conquiste operaie. Da questo momento la sinistra politica – non a caso fin da allora molto più concorde e uniforme nelle rivendicazioni relative ai diritti civili – si divise tra chi decise che la stabilità del capitalismo non fosse più in discussione e passò direttamente nel campo avversario, rinunciando a difendere i lavoratori nel nome della (prioritaria) stabilità del sistema economico, e chi si mantenne su un percorso anticapitalistico, variamente interpretato. Per motivi opposti, in entrambi i casi si andò a perdere quella che forse aveva costituito la più profonda ragione politica e morale, per i militanti, del loro impegno nel percorso degli ultimi decenni: il tentativo di mantenere intatto il legame con la classe sociale dei lavoratori (che costituiva la propria identità sociale) e, di pari passo, anche il mantenimento della propria identità politica e culturale. Gli uni, per il contenuto delle loro nuove politiche [43]; gli altri, per la sopravvenuta inadeguatezza delle vecchie.

 

Blocco del processo epistemologico.

Fin dai primissimi anni seguenti la Rivoluzione d’Ottobre i comunisti russi si ritrovarono in una situazione di cosiddetto accerchiamento capitalistico (e, poco dopo, di leadership internazionale del comunismo). Questo accerchiamento, assieme ad altri fattori (come le generali caratteristiche dell’intellettualità e della cultura dell’epoca, o la forte influenza religiosa sulla psicologia del loro popolo), ipostatizzò la situazione di arroccamento difensivo intellettuale cui i comunisti, dopo il fallimento della rivoluzione in Occidente, si videro costretti.

In poche parole, l’accerchiamento dei Paesi capitalisti contribuì progressivamente a che il rapporto dei comunisti col mondo, in origine marcatamente orientato all’analisi del capitalismo e alla “scoperta” dei modi per abbatterlo, così come a favorire la nascita e lo sviluppo del pensiero rivoluzionario in tutti gli ambiti scientifici e umanistici della cultura borghese, mutasse le sue priorità e si orientasse sulla base delle necessità cui doveva obbedire la nazione sovietica: la competizione col modo di produzione capitalista e, perciò, la difesa del socialismo reale.

Non intendiamo qui disconoscere gli importantissimi contributi che centinaia di politici, economisti e pensatori comunisti di vario genere diedero, nel corso del XX secolo, alla cultura umana: senza la straordinaria capacità del pensiero marxista di realizzare collegamenti audaci e trovare soluzioni singolari, questi non avrebbero avuto luogo. Nonostante ciò, la tendenza (sempre viva) del marxismo a “condensarsi”, trasformandosi da semplice metodo in un‘insieme fisso di idee’ - risultato transitorio della sua applicazione in una forma storica specifica e determinata - si rafforzò notevolmente dall’inizio di questa situazione di accerchiamento. Fondamentale, a tal proposito, fu la tendenza storica dei sovietici a rivestire di carattere ideologico molte loro scelte tattiche: dalle misure interne di tipo organizzativo a quelle culturali, fino ad alcune scelte politiche generali.

Piccola parentesi: è importante sottolineare che questa tendenza è insita nel marxismo – dal punto di vista dell’evoluzione storica della teoria e non della teoria in sé – fin dai suoi albori. Per esempio, come evidenziava Stefano Garroni in un articolo di qualche anno fa, addirittura nel Manifesto del Partito Comunista è possibile rintracciare il processo di trasfigurazione di un’idea da elemento transitorio, storicamente determinato in senso contingente, quale avrebbe dovuto essere, a funzione paradigmatica della teoria. Parliamo dell’analogia maestro-allievo, secondo la quale la borghesia educa un proletariato capace di spodestarla: “Non è solo vero che la borghesia educa (nel senso che sappiamo) il proletariato, ma anche lo corrompe, o, detta in altri termini, se è vero – com'è vero e come leggiamo nel Manifesto – che la borghesia costruisce un mondo sociale e politico a propria immagine, allora è vero, anche, che costruisce un proletariato a propria immagine e che il processo di costruzione di un'autonoma coscienza di classe implica, pure, un impegno da parte proletaria a liberarsi da un'immagine di sé, costruita, appunto, dalla stessa borghesia”.

L’accenno a uno sviluppo predeterminato del proletariato, che ci indispone a sviluppare teorie e prassi adeguate a tirar fuori e strutturare questo “impegno”, può essere associato alla diffusione del pensiero evoluzionista, che avveniva in quei decenni: “È probabile che la ‘caduta’ in una prospettiva evoluzionistica più che dialettica, che ci sembra qui di registrare in Marx ed Engels, non abbia una sola motivazione: per un lato, ad esempio, va considerato il clima politico del '48 - che con la sua effervescenza poteva indurre ad ottimismi non sempre giustificati -; ma, per un altro, non va trascurata anche l'ovvia considerazione che la maturazione dialettica del pensiero di Marx ed Engels non avviene tutta d'un colpo. Teniamo presente, comunque, che quando i marxisti ottocenteschi leggevano Marx in una prospettiva positivistico-evoluzionistica non erano, solo, influenzati dall'imperante "darwinismo sociale", ma potevano anche trovare appigli, per la loro interpretazione, nelle stesse pagine di Marx ed Engels”[44].

Questo “retaggio evoluzionistico”, qui esposto in un singolo esempio, è proprio di un determinismo meccanicista più che dialettico e sembra tuttora essere molto presente nel nostro pensiero e contribuire in maniera consistente al nostro ritardo culturale, rendendo le nostre idee poco duttili e suscettibili di essere integrate. Ciò, oltre a facilitare la divisione dei militanti sulla base di assiomi teorici distanti dalla pratica politica (e pervenutici in una forma oramai antica, quella originaria), inficia in vario modo la nostra capacità di adattamento. A mio parere sarebbe importante prestare attenzione a questo fatto e tenere presente, in generale, che a volte le categorie interpretative di Marx ed Engels possono portare il retaggio della forma classica dell'intellettualità del XIX secolo (vale a dire i sistemi chiusi fatti, appunto, di categorie epistemologicamente rigide, la logica meccanicista e, in generale, l’intero coacervo di influenze culturali e politiche che l’epoca esercitava su di loro).

Anche la mitizzazione del comunismo, del relativo universo simbolico e delle sue figure storiche di maggior rilievo, quindi, esaurita la funzione propagandistica e unificante che poteva esercitare in epoche ormai lontane, si è oggi trasformata in un ulteriore fattore di ancoramento alla vecchia immagine che abbiamo di noi stessi, come comunisti (si tratta di un altro retaggio novecentesco che era adatto alla mentalità e alle caratteristiche della cultura popolare di oltre 100 anni fa, ma che con noi è sopravvissuto quasi immutato).

Per riassumere, a grandi linee: le necessità politiche tattiche diventarono paradigmi ideologici, al fine di sostenere e difendere il socialismo reale dall’accerchiamento capitalista, anche solo indirettamente. Dal giustificare aspirazioni politiche rivoluzionarie e passibili di “utopismo” sulla base della spietata e feroce critica teorica e pratica condotta contro il capitalismo vigente si passò, perciò, con la nascita dello Stato sovietico, alla giustificazione della linea politica del momento sulla base delle stesse aspirazioni (ma concepite in maniera progressivamente più astratta). Ossia: dalla giustificazione delle aspirazioni future sulla base della critica al presente, si passò a giustificare il presente (sia quello dell’azione politica nei Paesi capitalisti, sia quello dei Paesi socialisti) sulla base di un’ormai incontestabile legittimità degli obiettivi di lungo termine. Dalla critica radicale ad un approccio molto più acritico.

La fissità con cui veniva trattato l’apparato teorico comunista storico e l’ossificazione del dibattito lasciarono aperte solo due porte: da un lato, la possibilità di un allontanamento dal marxismo, oramai visto come invecchiato e inadatto (la parabola del neo marxismo come movimento culturale in fondo, anche fra tanti meriti, è la storia della perdita d’influenza dei comunisti sull’intellighenzia occidentale) [45]; dall’altro, la possibilità di rimanere ideologicamente fermi:

“È significativo che mezzo secolo dopo la morte di Lenin la maggior parte dei vecchi partiti comunisti fosse ancora impegnata nella lotta per soppiantare il capitalismo nei loro Paesi, cercasse nuove strategie e quindi (nonostante la nostalgia per le antiche certezze in molti dei loro membri) abbandonasse l’equivalente marxista dell’integralismo biblico. Viceversa, laddove la sete per l’antica certezza ancora prevaleva e il marxismo impartiva “lezioni” che dovevano soltanto essere formulate e applicate “correttamente” – benché la correttezza di un gruppo equivalesse all’“errore” di un altro –, questa tipologia di marxismo si atrofizzò dal punto di vista della teoria. Tendeva ad essere ridotto a pochi semplici elementi, quasi a degli slogan: l’importanza fondamentale della lotta di classe, lo sfruttamento dei lavoratori e dei contadini o del Terzo mondo, il rifiuto del capitalismo o dell’imperialismo, la necessità della rivoluzione e della lotta rivoluzionaria (compresa quella armata), la condanna del “riformismo” e del “revisionismo”, l’indispensabilità di un’“avanguardia” e cose simili. Tali semplificazioni hanno fatto sì che il marxismo fosse svincolato da qualunque contatto con la complessità del mondo reale, dato che l’analisi era semplicemente strutturata per dimostrare alcune verità già rivelate nella loro pura forma. Potevano pertanto essere combinate con strategie di volontarismo puro, o qualunque altra cosa preferissero i militanti. In sostanza, questa forma residuale del marxismo integralista usato come guida all’azione consisteva di elementi semplificati tratti dal leninismo classico, a meno che (come tra i neo anarchici) non fossero anche questi effettivamente dissolti nella retorica [46].

Crollata l’Unione Sovietica i comunisti si trovarono a giustificare le proprie aspirazioni ad una società egualitaria non più sulla base di una situazione esistente nel presente – per quanto parzialmente fraintesa – ma sulla base del passato, quello del socialismo reale, che si allontanava progressivamente nel tempo. Questa svolta introdusse ulteriori rigidità e difficoltà negli sviluppi successivi del pensiero comunista che nel frattempo, fra l’altro, avendo perso influenza sugli intellettuali, non possedeva più il livello necessario per competere coi capitalisti sul piano culturale. (Guardando il futuro sulla base del passato, del resto, si rischia di perdere di vista il presente) …

Alcune di queste rigidità oggi possono essere individuate, per esempio, nella difficoltà di calare le rivendicazioni di carattere generale nella realtà specifica, nell’incapacità di trovare una forma organizzativa adeguata ai tempi e di costruire un’immagine accattivante di sé [47], nell’incapacità di proporre un’opinione originale e di livello “accademico” sugli argomenti di quelle branche della cultura borghese che sono nate o si sono considerevolmente sviluppate negli ultimi decenni (come ad esempio la psicologia sociale o l’informatica, ma basterebbe anche solo riferirsi alla letteratura sui social media o sulle nuove forme di lavoro). Quando pure alcune opinioni interessanti vengono proposte, per merito di gruppi o singoli compagni, non avviene comunque un’assimilazione da parte del corpo militante, così frammentato, disperso e restio ad imparare nuove cose che non siano direttamente ed esplicitamente confermative della forma classica della propria teoria marxista.

Vale forse la pena ricordare, quindi, che l’apporto alla nascita del socialismo scientifico dato dall’economia politica inglese, della filosofia classica tedesca e del socialismo utopistico francese, ossia di ciò che di meglio l’umanità aveva creato sino ad allora (come ognuno di noi sa a memoria), non stava tanto a significare che il marxismo fosse la sintesi migliore della migliore cultura borghese, come spesso si è detto, suggerendone con ciò la superiorità rispetto alle teorie avversarie e indirizzandoci verso l’isolamento culturale. Significava che questo nasce e si sviluppa solamente in rapporto ad essa, in contraddizione con essa e mettendo in campo, in questo confronto, la maggior ricettività possibile. Un altro fattore, infatti, contribuisce al blocco del processo epistemologico.

 

Isolamento politico, isolamento sociale, isolamento culturale.

Nell’attuale momento storico noi comunisti viviamo una situazione di completo isolamento politico. Questa, considerata dal punto di vista dell’interazione sociale, pratica, col soggetto sociale di riferimento, assume la forma dell’isolamento sociale: scarsa considerazione per le nostre idee e proposte, non riconoscimento della possibilità, per noi, di svolgere un ruolo attivo nella società contemporanea, fraintendimenti costanti su ciò che diciamo, attribuzione alla “tipologia classica” del comunista di caratteristiche che in realtà non ci descrivono efficacemente (saremmo tutti di estrazione sociale medio-alta, viziati o annoiati, drogati o comunque dediti per prima cosa al soddisfacimento edonistico dell’esistenza), ecc.

Questo isolamento sociale rafforza e/o contribuisce a causare alcune dinamiche tipiche, come il frazionamento organizzativo e la poca ricettività verso idee provenienti dall’esterno del nostro ambiente (che a volte è quello del solo collettivo politico in cui si milita ed è quindi strettissimo). Inoltre, rende quest’ambiente un luogo adatto ad essere frequentato da persone che hanno già una propria naturale inclinazione verso l’isolamento sociale, l’anticonformismo astratto, il provare una rabbia sorda verso l’esterno (indipendentemente da cosa si intenda per “esterno”), un’enorme rigidità mentale e così via. D’altronde nelle condizioni attuali la continuazione, per anni, dell’attività militante comunista richiede già di per sé alle nuove generazioni una certa dose di chiusura e rigidità mentali, per sostenerne la tenacia, e tende ad allontanare – in parte o del tutto – le forze più energiche e promettenti sotto il profilo del rinnovamento.

Il bisogno costante di conferme ideologiche – che negli ambienti più ortodossi è spesso accompagnato dalla mitizzazione del comunismo e in quelli di movimento dalla trasformazione di indicazioni politiche pratiche, contingenti e particolari in vincoli ideologici, il meticoloso rispetto dei quali determina immancabilmente la possibilità di appartenere o meno a quell’ambiente – è rafforzato dalle presenti condizioni di isolamento politico cui siamo sottoposti e limita le possibilità di essere e mostrarci aperti nei confronti di idee non comuniste, aperti anche solo al dialogo.

Ricercando nella chiusura dei nostri ambienti gli aspetti più legati alla socialità e alla comunità di gruppo, molti compagni delle ultime generazioni, magari non pienamente integrati nel contesto sociale generale, trovano un modo per vivere la socialità in maniera antisociale, in contrapposizione alla società intera. L’utilizzo di droghe, originariamente giustificato sulla base di un rifiuto di tipo individualistico della società (creare un diverso tipo di divertimento da contrapporre a quello commerciale, foraggiato dal mercato capitalista) e sulla necessità dell’ampliamento della sfera dei diritti civili, è solo uno di questi modi, sebbene forse il più evidente.

In generale, poi, l’isolamento sembra produrre un certo narcisismo, un senso di superiorità nei confronti delle idee diverse, che è politicamente contro-adattativo e si produce in un circolo vizioso assieme all’incapacità di colmare il ritardo culturale.

 

Frammentazione organizzativa, ideologica, politica.

La frammentazione odierna è un contesto adeguato alle caratteristiche che il movimento comunista assume oggi, nonché funzionale alla loro riproduzione (ho voluto porre questo punto fermo, prima di passare alla critica, perché raramente vi si presta attenzione).

Per questo motivo non sono un sostenitore de “l’unità per l’unità”, così come non penso che la volontà di unificazione dei comunisti - che venga espressa con tentativi di “cartellizzazione” a fini elettorali o puramente organizzativi - possa bastare a superare la presente fase di divisione. Non credo nemmeno, però, all’idea secondo cui l’organizzazione nascerà dalle lotte o, meglio, dalle spinte all’unificazione che queste daranno, una volta giunte a un livello di maturazione (radicalità, estensione) sufficiente. Le due impostazioni sembrerebbero antitetiche ma, a ben vedere, sono entrambe mutuate da una lettura astratta dei processi storici.

La prima riduce l’analisi della complessità del reale alla declinazione di alcuni fatti e coordinate ormai assimilati, storicamente condivisi dai comunisti e dati per scontati, e si ritrova con in mano null’altro che la forza di volontà per smuovere un quadro di realtà che a quel punto gli appare come irrimediabilmente fermo e che, difatti, viene politicamente aggiornato – man mano – solo dopo che i mutamenti sono avvenuti, e soltanto per essere sostituito da una nuova versione, altrettanto statica, di quello. Il limite di quest’impostazione sta nel suo idealismo, quindi.

La seconda, invece, oltre ad un dubbio ottimismo sul decorso che dovrebbero seguire le lotte sociali, non sembra concepire in maniera dialettica il processo di strutturazione dell’organizzazione, visto in fondo più come un processo di crescita quantitativa che di adeguamento qualitativo alla realtà materiale. Qui il limite, volendo ricondurre il discorso a dicotomie classiche, sta nel meccanicismo. Come sappiamo, dietro il meccanicismo si nasconde comunque una concezione idealista del cambiamento, così come dietro l’idealismo una concezione meccanicista della relazione di causa-effetto. Entrambe le impostazioni non colgono che il cambiamento è sempre bidirezionale e coinvolge tutti gli elementi in gioco, a causa di una distribuzione mobile (e intercambiabile) dei ruoli e delle funzioni di questi (la causa cambia insieme al cambiamento che produce; causa ed effetto si scambiano di ruolo) e della loro universale correlazione [48].

Non è quindi possibile tentare un cambiamento nel mondo senza concepirsi, per primi, in cambiamento. Detta in maniera spiccia: non è possibile ottenere successi politici senza mettersi realmente in gioco. Per farlo, dobbiamo lasciar cadere tutte le nostre certezze (a cominciare da quelle ideologiche), di fronte agli altri ma soprattutto a noi stessi, affinché le nostre idee possano rinforzarsi e divenire nuovamente delle armi affilate contro lo stato attuale della società. Anche questo cambio di atteggiamento, però, non può prodursi da solo; se avremo fortuna, dovrà nascere all’interno di un processo più grande, per il quale proveremo più avanti a ipotizzare dei probabili input che ne facilitino l’avvio. La volontà, per quanto non possa essere da sola la forza in grado di generare un processo di cambiamento, è un fattore di modificazione del percorso storico su cui l’umanità si è incamminata, e l’unico su cui possiamo contare fino in fondo.

 

Subire l’influenza della destra

Questo è l’ultimo elemento su cui vorrei soffermarmi e, mi sembra, anche quello apparso relativamente più di recente. Il nostro arretramento politico e ideologico non è iniziato ieri ma negli ultimi anni ha subito una vistosa accelerazione; la frequenza con cui attingiamo dal vocabolario, dai modi di fare e pensare e, in generale, dall’immaginario collettivo della destra, sembra essere aumentata in parallelo.

Alcune categorie ad esempio, come quelle di geopolitica, degrado, disagio, sono ormai di uso comune anche fra noi comunisti. La prima sottintende la possibilità di uno sviluppo armonico delle relazioni politiche fra Paesi imperialisti. Le altre, meno dibattute ma egualmente significative, appartengono a una terminologia probabilmente più adatta alla piccola-borghesia e forniscono una rappresentazione delle difficoltà economiche e sociali non solo attenuata, ma anche facilmente innestabile e confondibile con elementi di matrice culturale, quali lo stato di incuria di una zona urbana, la disapprovazione verso questo o quel comportamento altrui, le difficoltà di integrazione con persone di cultura nazionale differente, ecc.

È chiaro che abbiamo, per così dire, ceduto terreno politico nell’ottica di ridurre la “dissonanza culturale” [49] che c’è tra noi e il soggetto sociale di riferimento [50]. Complessivamente però, al di là dei singoli esempi, l’utilizzo di questi termini e dei discorsi ad essi correlabili che, seppur in maniera embrionale, si stanno sviluppando anche nei nostri ambienti, facilita lo spostamento del nostro centro di gravitazione politica verso il cosiddetto “asse culturale” [51] (all’interno del quale sono egemoni forme ideologiche di destra, come la xenofobia e il nazionalismo, con annesse le politiche tristemente note). Nostro obiettivo, invece, dovrebbe essere quello di spostarlo verso l’asse economico.

Altra conseguenza di questo processo è stata la creazione nel tempo di larghe fasce di militanti che hanno adottato un universo simbolico (mi riferisco, ad esempio, alle cosiddette “sottoculture urbane”) adatto all’attivismo politico di piccolo gruppo e allo scontro tra bande più che alla formazione del partito, al controllo del territorio più che allo sviluppo di una solida egemonia culturale. Ovvio che non si debba fare tabula rasa di tutto e ripartire da zero (sarebbe anche controproducente), ma crediamo che intanto sia importante prendere coscienza di questi fatti.

Per tirare le somme, potremmo forse dire che il tentativo di combattere l’isolamento sociale e politico si sta configurando sempre più spesso anche come un tentativo di replicare l’approccio degli ambienti della destra al nostro soggetto sociale di riferimento. Chiaramente, funziona meglio per loro che per noi.

Questo tentativo di replica non si limita a singoli elementi, tutti appartenenti alla sfera pratica (o estetica) e assimilati in un’ottica votata al pragmatismo. La mia impressione è che stia andando a costituire una pericolosa tendenza ideologica all’interno dei nostri ambienti e che, indirettamente, stia anche imponendoci un approccio diverso ai lavoratori, innestato su tratti tipici della destra. Prendiamo il frequente utilizzo, da parte nostra, di argomentazioni logiche estremamente semplificate, tese principalmente a suscitare rabbia in chi le riceve. Si vedano, ad esempio, i recenti attacchi a Confindustria che più partiti, organizzazioni, collettivi hanno lanciato in queste settimane. Una buona parte lo ha fatto esclusivamente mettendo in luce le agevolazioni economiche che i capitalisti stanno ottenendo (al massimo confrontandole con la scarsità dei sussidi ai lavoratori), rinunciando ad allargare le argomentazioni; dando per scontata, cioè, la coscienza di classe dei lavoratori. Attualmente, infatti, i regali alle imprese non vengono visti così male dall’opinione pubblica.

Siamo arrivati a ciò a causa dell’impossibilità di riuscire a costruire un messaggio più articolato che sia allo stesso tempo mediaticamente efficace. A mio avviso questo crea un corto circuito che contribuisce ad inchiodarci alla funzione di rappresentazione di una tendenza meramente culturale, più che politica. Potremmo provare ad uscirne ampliando il nostro spettro di intervento; commentando spesso, ad esempio, il dettaglio delle manovre finanziarie in atto (sempre in questa forma obbligatoriamente didascalica), in maniera tale da costruire un retroterra che ci renda poi più facile “farci seguire” mediaticamente (e mi riferisco innanzitutto ai social), probabilmente persino continuando ad esprimerci nelle forme attuali.

Occorrerebbe però anche una gamma più variegata di toni: puntando tutto sulla rabbia e, allo stesso tempo, intervenendo su aspetti specifici che, per il semplice fatto di essere tali e di non essere di dominio pubblico, non possono suscitarla in chi ci ascolta, rischieremmo di apparire in un certo senso “sconnessi”. Saper utilizzare anche un registro interlocutorio, oltre a renderci più semplice uscire con nostre proposte sulle questioni specifiche (e a stimolarci a farlo, dato che le occasioni di confronto con persone di idee differenti aumenterebbero), amplierebbe la nostra ricettività e rafforzerebbe l’immagine delle organizzazioni comuniste, facendole apparire più capaci di rappresentare le istanze dei lavoratori. Questi ultimi tendono oggi a percepirsi come “corpo elettorale” o, comunque, come soggetto passivo di fronte alle dinamiche politiche, perciò si tratta di un passaggio imprescindibile per poter riuscire in seguito a mobilitarli in prima persona [52].

 

 

IV. PROPOSTE PRATICHE

 

Come molti, penso che la questione organizzativa sia il nodo centrale da sciogliere per tornare a contare nell’arena politica. Non tanto per l’importanza della questione in sé (che comunque è centrale), quanto perché è quella più largamente dipendente dalla nostra volontà. Per farci uscire dalla paralisi, infatti, servirebbe una scossa; una scossa interna, indotta, senza la quale quelle provenienti dall’esterno (come le crisi economiche) non possono fare nulla. Vorrei quindi discutere due punti: uno relativo all’organizzazione interna delle nostre formazioni politiche e un altro relativo all’organizzazione delle lotte di tipo economico (sindacale).

 

Mutamenti del sistema produttivo: la produzione modulare.

All’inizio del XX secolo i comunisti colsero appieno il carattere strategico del principale mutamento che stava interessando l’industria: il passaggio dalla produzione per lotti (con la quale il prodotto veniva realizzato in un’unica postazione) a quella in serie. Riuscirono, quindi, non solo a comprendere la possibilità di organizzare l’intervento di boicottaggio della produzione (scioperi, sabotaggi, occupazioni, ecc.) in maniera specifica, sulla base dell’effettiva articolazione del processo produttivo, così da poter bloccare la catena di produzione con un investimento politico minimale (scioperi mirati, di settore, ecc.). Scelsero anche di modellare, in una certa maniera, la forma dell’organizzazione politica comunista su quella del processo produttivo capitalista, stabilendo un rapporto dialettico tra le due. I partiti dei lavoratori assunsero quindi, progressivamente, una forma organizzativa articolata in maniera più strutturata, più complessa, orientandosi secondo il vecchio principio de “l’uomo giusto al posto giusto”, ossia della divisione scientificamente organizzata dei compiti.

Questa, più che le tante declinazioni specifiche e particolari che la forma-partito comunista assunse man mano, è l’intuizione cui penso dovremmo rifarci.

Oggigiorno l’industria capitalista si sta ponendo di fronte alla sfida della cosiddetta “produzione modulare”. La produzione modulare consiste nella capacità di produrre moduli di prodotto standardizzati che possano essere assemblati in un secondo momento (piattaforma del prodotto), dando luogo a una famiglia di prodotti correlati e tendendo, così, a soddisfare le esigenze più specifiche dei clienti (personalizzazione del prodotto). Ne abbiamo esempi in atto già oggi, ad esempio nel commercio di indumenti (personalizzabili tramite software, chiamati “configuratori di prodotto”, accessibili gratuitamente online e spesso integrati nel sito web dell’azienda), come le scarpe Converse o migliaia di altri capi d’abbigliamento. La flessibilità del processo produttivo, che permette la personalizzazione della merce, è enormemente avvantaggiata dall’utilizzo della nuova manifattura additiva (stampanti 3D).

La produzione modulare consente (e consentirà sempre più) ai capitalisti di introdurre un nuovo fattore di stabilizzazione del mercato e di compensazione delle perdite di profitti: la possibilità (relativa, al livello tecnologico di oggi) di un’allocazione potenziale multipla della merce, ossia la possibilità di convertire una parte della merce destinata ad essere invenduta in un qualcosa di più vendibile, intaccando la tendenza alla sovrapproduzione.

 

Mutamenti del sistema produttivo: l’innovazione tecnologica e la meccanizzazione

Un primo elemento che potrebbe interessarci riguarda il substrato di innovazioni che stanno permettendo e continueranno a permettere questo cambiamento industriale strategico, e che producono: la raccolta, elaborazione e condivisione informatica di dati d’ogni tipo, in primis di quelli relativi al processo produttivo; l’ulteriore erosione delle posizioni lavorative manuali ad opera delle macchine (meccanizzazione).

La raccolta, elaborazione e condivisione dati avviene tramite l’accostamento di nuovi strumenti informatici al processo produttivo. L’IOT (Internet of Things, un sistema di interconnessione tra oggetti, luoghi e persone integrato con la produzione, da cui genera grandi quantità di informazioni “grezze”) fornisce dati al Big Data Analytics (strumento che permette di analizzare, gestire e integrare fra loro una quantità di dati altrimenti ingestibile, al fine di ottenerne conoscenza utile al miglioramento del processo produttivo) che, dopo averli elaborati, li passa al Cloud Storage and Computing (spazio virtuale di dati e servizi, accessibile tramite internet e diffuso anche per telefoni e computer) affinché vengano resi disponibili per una consultazione (e utilizzo) efficiente e semplificata.

Questo processo migliora enormemente l’efficienza del mercato e lo rende più aggressivo nei confronti del consumatore (più in grado di orientarne la domanda), più agile e flessibile nel riconfigurarsi sulla base delle necessità produttive e commerciali, e abbatte i costi di produzione informatici (soprattutto grazie al Cloud, che permette alle aziende di accedere a programmi e servizi poderosi senza essersi dotate di un apparato hardware e software adeguato).

Questo processo viene sostenuto da strumenti tecnologici quali i dispositivi indossabili (come i braccialetti di Amazon, riguardo cui tendenzialmente abbiamo evidenziato, nella nostra propaganda, soltanto l’aspetto dell’incremento dello sfruttamento del lavoratore, pensando automaticamente che la loro introduzione servisse principalmente alla diminuzione dei costi di produzione), quelli di realtà aumentata, la stampa 3D e la digitalizzazione della manifattura (incremento della comunicazione fra computer e macchina, in sostituzione di quella uomo-macchina).

Il Cloud, inoltre, avviando questo processo di condivisione delle informazioni sembra assecondare la tendenza dei capitali alla “centralizzazione senza concentrazione”, ossia al dispiegamento reticolare (“decentrato”) della filiera produttiva della merce sotto il dominio del capitale centralizzato [53], quindi confermandosi ulteriormente (assieme alle altre innovazioni tecnologiche) come un’integrazione strategica del processo produttivo.

Per quanto riguarda il processo di meccanizzazione, le novità di cui abbiamo parlato sembrerebbero indicare, grossomodo, un progressivo relegamento del lavoro operaio alle mansioni di: portare e spostare i macchinari, progettare il prodotto, risolvere eventuali problemi che possono verificarsi durante la produzione. Per contro, assumerebbero maggiore centralità le figure di competenza “iper-specialistica”. Su quest’ultimo fatto dovremmo concentrare la nostra attenzione.

 

Mutamenti del sistema produttivo: la “rete delle competenze”.

Sembrerebbe che i capitalisti, pur se fra difficoltà, ritardi e polemiche interne, si stiano orientando verso la creazione di una rete di lavoratori altamente specializzati, una vera e propria rete delle competenze. Questa rete assumerebbe un ruolo organico e ben definito all’interno della nascente industria: la riorganizzazione e l’elaborazione delle informazioni raccolte tramite i supporti tecnologici sopra elencati, al fine di migliorare il processo produttivo e le interazioni dell’azienda con clienti, partner, fornitori, ecc.

Al potenziamento di questa rete l’Italia destina da anni uno stock di liquidità [54] in supporto a quella investita direttamente dalle imprese, all’interno di un Piano Nazionale Industria 4.0 [55]. L’entità dei finanziamenti, al momento, per la verità non è grande (non solo in Italia ma nel mondo). Questo può dipendere da molti fattori, interni ed esterni, ma l’adozione diffusa di queste innovazioni da parte di aziende grandi o strategiche (per non parlare delle PMI o delle start up) descrive chiaramente una linea di tendenza, per di più in crescita.

Centralità di raccolta, elaborazione, condivisione ed utilizzo dei dati, quindi, attraverso la creazione di un apposito segmento organizzativo; investimento nella formazione specializzata e approccio sempre più raffinato ed efficace al consumatore. La domanda che pongo è se non fosse opportuno, anche per le organizzazioni comuniste, considerare prioritaria la creazione di una sorta di rete delle competenze che ci permetta di modulare opportunamente l’intervento politico. L’analisi sempre più ampia della realtà, e la condivisione della ricerca in tutte le sue fasi, potrebbero del resto aiutarci anche a superare l’isolamento culturale e politico.

Nel mondo attuale credo che sia indispensabile, per competere coi partiti dei capitalisti, disporre di un apparato di economisti, sociologi, psicologi, scienziati, comunicatori (di tutti i tipi, dall’ambito social al marketing and design), e così via, che ci renda in grado di controllare ogni intervento di carattere politico in tutti i suoi aspetti, ad un livello il più possibile vicino a quello accademico delle diverse discipline implicate: dalla scelta dell’ambito su cui intervenire, passando per la formulazione teorica e l’applicazione pratica, fino all’aspetto comunicativo. A ben vedere al momento, anche a causa della nostra scarsa incidenza politica e dell’ormai ridottissimo pragmatismo delle nostre idee, la composizione sociale media dei militanti comunisti non è di ceto così basso. In proporzione dovremmo avere un certo numero di laureati e, finanche, di lavoratori ad alta competenza specialistica. Potrebbe essere possibile quindi fin da subito, per alcune organizzazioni, strutturare una forma embrionale di rete delle competenze. A questa, ovviamente, dovrebbe fare da contraltare un sistema di formazione per i militanti, orientato allo studio non solo della nostra teoria politica generale, quanto pure della sua applicazione in singoli ambiti d’intervento, anche molto specifici, e sviluppato secondo metodologie differenti dal nozionismo e dal funzionalismo del sistema d’istruzione (e di ricerca) capitalista.

 

Estensione della lotta di classe.

Teniamo presente che i capitalisti, nello spasmodico tentativo di aumentare le possibilità di profitto, hanno già da tempo creato un nuovo asset di valorizzazione del capitale che ruota attorno alla qualità del prodotto [56] e che le loro potenzialità di consolidamento dell’egemonia culturale si sono, in tal modo, centuplicate. Questo perché la qualità del prodotto è un concetto astratto, che può essere ideologicamente orientato secondo le esigenze del mercato. Come conseguenza ecco allora modificarsi freneticamente le nostre abitudini, i nostri gusti (perfino quello per il cibo e i profumi hanno subito pesanti modificazioni, negli ultimi decenni). Si può ben dire che oggi, molto più di prima, ogni merce è di per sé un veicolo dell’egemonia culturale capitalista.

Se fosse così non avrebbe senso, per un partito comunista, rimandare l’acquisizione di competenze specializzate ad una fase in cui si siano raggiunte una crescita organizzativa e una forza sociale adeguate, come fanno i partiti borghesi: assimilare economisti, social media managers, ecc., difatti, nel campo avverso è una prerogativa di partiti con sufficienti disponibilità finanziarie e un grosso seguito fra la popolazione. Il loro modo di intervenire politicamente, costruire e usare la propria immagine e via dicendo, però, è controproducente per la nostra politica perché rafforza l’egemonia culturale avversaria. Tra l’altro questi partiti si “appoggiano” principalmente su conoscenze e acquisizioni esogene, sviluppate in una certa maniera non da loro ma dal mercato (si pensi, appunto, all’esistenza dei social e dei relativi comportamenti virtuali che si sono consolidati negli ultimi 12 anni, e a come i leader populisti possano farne un uso vantaggioso, oppure all’odierna psicologia dello scontro politico fra partiti capitalisti) e che quindi, copiando il loro esempio, non potremmo sviluppare a nostra volta, a meno di non volerci costringere a esperimenti politici maldestri o all’opportunismo.

Ogni singolo volantino, ogni singola iniziativa, dovrebbero essere calcolate nel dettaglio sulla base delle possibilità di trarne il massimo profitto politico, se non vogliamo rafforzare ulteriormente la presa dell’egemonia culturale avversaria che, teniamolo presente, nel corso delle generazioni può produrre modificazioni talmente profonde (probabilmente persino a livello neurologico, come accennavamo all’inizio di questo lavoro) da risultare difficilmente reversibili. Il dettaglio, se fossimo epistemologicamente liberi da vincoli, andrebbe considerato non come la conclusione del lavoro di analisi, ma come il punto di partenza di una nuova ricerca.

Il capitalismo sta conducendo una guerra su tutti i fronti perché, estendendo il processo di mercificazione del mondo fino agli aspetti più profondi della coscienza e della psicologia umane, ha automaticamente scelto di estendere la lotta politica col comunismo anche a questo livello; continuare a fare politica nei soli ambiti d’intervento politico canonici del XX secolo significherebbe, quindi, rifiutarci di entrare in partita.

 

Necessità di un approccio multidisciplinare.

Se ancora non siete convinti vorrei che riflettessimo sul fatto che, al di là della veridicità o meno delle tesi che ho sostenuto, il solo tentativo di affrontare la questione della riorganizzazione dell’intervento comunista mi ha messo di fronte alla necessità di un approccio talmente multidisciplinare da risultare impossibile, per una persona sola, di essere portato avanti a livelli adeguati e politicamente competitivi. Queste pagine ne sono la prova. Colgo allora l’occasione per scusarmi delle moltissime approssimazioni che accompagnano l’articolo in ogni sua parte e che riflettono, oltre i limiti dei miei sforzi, il nostro incredibile e inaccettabile ritardo storico.

Un ritardo storico ben rappresentato dallo stato attuale in cui versa il movimento comunista, soprattutto in Italia, indecente al punto da risultare oltraggioso nei confronti della nostra memoria storica. Se vogliamo tornare a poterci sentire degni e orgogliosi, nel concreto, di essere comunisti, se vogliamo che le nostre opinioni possano tornare ad avere peso, dobbiamo fare sforzi divergenti dalle linee di retaggio che ci ha consegnato il comunismo novecentesco. Andare sempre avanti, senza arrenderci mai, per ricominciare ad erodere le posizioni del capitalismo e riacquisire al più presto una quota di controllo culturale e politico della società civile, che per noi significa ossigeno.

 

Mutamenti del sistema produttivo: accorciamento e maggiore internazionalizzazione della filiera produttiva.

Credo che le recenti innovazioni industriali, che hanno il grande pregio di accorciare e snellire la filiera produttiva, al fine di aumentare il rendimento, ci offrano un’occasione irrinunciabile: articolare l’intervento economicista (sindacale) di radicamento sul mondo del lavoro seguendo l’articolazione di filiera e non più le divisioni di categoria (ma pur sempre integrandolo, chiaramente, con le rivendicazioni di categoria, quantunque queste tendano a diventare meno efficaci a causa della scientifica divisione dei lavoratori operata dal capitale). È significativo che parte della base militante abbia implicitamente “digerito” l’avvento di questa progressiva divisione quasi come se fosse una scelta politica tattica dei capitalisti cui bisognava reagire con maggiori sforzi di radicamento, anziché la conseguenza di mutamenti strategici del processo produttivo ai quali rispondere con una radicale rimodulazione dell’intervento politico e l’aggiornamento della teoria.

Un radicamento anche molto parziale – ma opportunamente ricercato e strutturato – fra i lavoratori delle diverse componenti di un’unica filiera produttiva, renderebbe possibile bloccare nuovamente in maniera incisiva la produzione e dimostrare l’efficacia della lotta sindacale nel XXI secolo. La filiera produttiva tecnologica, breve ma dispiegata generalmente (e ancora più di prima) attraverso diversi Paesi, ci consentirebbe (ed obbligherebbe) inoltre di proiettare l’intervento politico comunista con più facilità, rispetto a prima, a livello internazionale.

È chiaro che senza adeguate e approfondite ricerche su: quali siano queste filiere; quali impieghino tipologie di lavoratori più suscettibili di mobilitazione; quali posseggano una rilevante centralità a livello politico (anche su singole questioni), mediatico o puramente mobilitativo; quali approcci tentare con le nuove tipologie di lavoro (i margini di intervento ci sarebbero, se fossimo in grado di portare avanti analisi e tentativi comuni e ben direzionati); quale rappresentazione, quale immagine della nostra lotta sia opportuno proporre all’opinione pubblica, ecc., sarà impossibile anche solo tentare di mettere in pratica idee di questo tipo.

Alcune di queste analisi in realtà sono state parzialmente condotte [57], ma non in maniera sistematica e orientata al successo pratico dell’operazione politica specifica; inoltre, esse di norma rimangono appannaggio di una nicchia di compagni interessati principalmente all’aspetto intellettuale e speculativo e, non trovando questi ultimi delle possibilità concrete di metterle in pratica, non vengono condivise. Non serve sottolineare ancora una volta l’imprescindibilità della rete delle competenze, i vantaggi potenziali della quale abbiamo solamente accennato. Pensate alla rete delle competenze come alla possibilità di aprire un affaccio sul mondo, dal quale possano uscire (calibrate nelle forme adeguate e tradotte in indicazioni pratiche generali) le nostre idee di trasformazione rivoluzionaria.

Ho voluto, con questo articolo, proporre ai compagni e alle compagne un approccio e una sensibilità politici differenti. Nel farlo ho scelto di adottare un’ottica che, pur mitigata nella forma, è al 100% pedagogica. Un percorso di riflessione autopedagogica, del resto, è ciò che ci meritiamo per aver trascorso decenni a sentirci avanguardia per “diritto storico”, ossia per null’altro che un sottoprodotto della forma dell’intellettualità d’inizio Novecento.

Auspico quindi che questo elaborato, pur con gli evidenti limiti che presenta, possa costituire uno stimolo per gli altri compagni e suscitare nuovi contributi “divergenti”. Questi, magari, saranno più qualificati di quello del sottoscritto e potranno anche stimolare tentativi pratici nelle nostre organizzazioni.


Note:
  1. N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi?, Roma, p. 135, Ediesse, 2019
  2. N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi? cit., p. 125. “Il sentimento identitario nazionale dei nostri intervistati è debole in sé stesso: non emerge infatti una rivendicazione orgogliosa di appartenenza simbolico-culturale alla nazione, che anzi viene descritta spesso come decadente. Tale sentimento però si fortifica nella relazione con chi proviene dall’esterno e serve a rivendicare la precedenza su molti diritti, in un gioco a somma zero”.
  3. N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi? cit., pp. 64, 65
  4. N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi? cit., pp. 164, 165
  5. https://www.confindustria.it/wcm/connect/c1be4e6e-3728-4fe3-9ec9-a8a6441d9509/Emergenza+economica+per+la+tutela+del+lavoro_Confindustria_20.3.2020.pdf?MOD=AJPERES&CACHEID=ROOTWORKSPACE-c1be4e6e-3728-4fe3-9ec9-a8a6441d9509-n4nyPrL
  6. Ad esempio: … restituire fiducia rispetto a un percorso di ricostruzione che dovrà far seguito a un evento correttamente equiparato a una guerra”. (Confindustria, Bene il primo passo del Governo, ora pianificare i prossimi. Serve un piano shock, Comunicato del 18/03/2020, www.confindustria.it)
  7. Ad esempio: Dalla tenuta del sistema produttivo dipendono le prospettive di rilancio sociale dell’intero Continente, una volta terminata l’emergenza sanitaria. In particolare, dall’industria dipendono direttamente o indirettamente un terzo circa di tutti gli occupati nel nostro Paese. (Confindustria, Sintesi del documento “Affrontiamo l’emergenza economica per la tutela del lavoro”, 20/03/2020, www.confindustria.it)
  8. Ad esempio: Il nostro appello è che si affronti questa emergenza da economia di guerra, facendolo insieme, con la consapevolezza della gravità e con senso di unità nazionale nel rispetto di tutti noi. (Confindustria, Basta polemiche. Lavoriamo tutti con responsabilità, Comunicato del 25/03/2020, www.confindustria.it)
  9. Gli interventi auspicabili sono molti e vanno in diverse direzioni, alcune delle quali già recepite nel decreto legge Cura Italia e in altri Paesi Membri. Tuttavia, oggi è urgente rafforzare la diga per evitare che il fermo della domanda provochi una crisi di liquidità delle imprese. (…) Nel riconoscere, pertanto, l’importante sforzo compiuto dal Governo, riteniamo cruciale che si definisca fin d’ora il quadro delle prossime azioni. (Confindustria, Sintesi del documento cit.)
  10. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza economica per la tutela del lavoro, p. 7, www.confindustria.it, 20/03/2020
  11. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 8
  12. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 10
  13. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 9
  14. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 8
  15. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 8
  16. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 8
  17. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 5
  18. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 5
  19. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 5
  20. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 5
  21. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 6
  22. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 6
  23. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 6
  24. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 9
  25. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 6
  26. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 5
  27. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 7
  28. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 4
  29. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 4
  30. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 5
  31. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 11
  32. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 2
  33. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 3
  34. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 4
  35. basket bond sono titoli garantiti da un pool di obbligazioni emesse da PMI e Mid Cap Italiane. CDP agisce nel ruolo di Anchor Investor (investitore di riferimento, che mantiene l’investimento a lungo termine, ne garantisce la coerente destinazione d’uso e attrae altri investitori, come una sorta di “garante informale”)
  36. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 8
  37. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 9
  38. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., p. 10
  39. Confindustria, Affrontiamo l’emergenza cit., pp. 13, 14
  40. Come conferma l’attività legislativa degli ultimi Governi, le richieste di Confindustria si iscrivono perfettamente nel trend degli ultimi anni: basti anche solo leggere il Decreto Crescita dove, giusto per fare un esempio, per le PMI era già previsto un aumento del 100% del finanziamento agevolato concesso dal Governo per sostenere gli aumenti di capitale decisi dagli azionisti (da 2 a 4 milioni di € per ciascuna impresa)
  41. “Nel periodo che va dal 1973 al 2008, il saggio di crescita del prodotto interno lordo pro capite […] è stato all’incirca la metà del saggio di crescita registrato negli anni 1950-1973. Se dal calcolo si escludesse la Cina, esso sarebbe ancora inferiore. E all’interno di questa stessa serie storica la crescita è sempre minore col passare degli anni. La crescita mondiale negli anni Novanta è stata mediamente inferiore a quella dei decenni precedenti, e il decennio successivo si è chiuso con la peggiore crisi mondiale degli ultimi ottanta anni. Tra il 1960 e il 1970, il Pil mondiale non è mai cresciuto ad un ritmo inferiore al 4 per cento; dal 1991 in poi, in nessun anno è cresciuto ad un ritmo superiore al 4 per cento, ed è quasi sempre risultato molto inferiore. Dopo il 2008 […] le cose non sono andate meglio: la crescita del Pil nei cosiddetti paesi emergenti non è riuscita a compensare il brusco calo, e poi l’affannoso e stentato recupero nei paesi a capitalismo maturo”. (V.Giacchè, Stagnazione secolare o caduta tendenziale del saggio di profitto, http://www.marx21.it/index.php/internazionale/economia/26008-stagnazione-secolare-o-caduta-tendenziale-del-saggio-di-profitto, 2015)
  42. Questo lungo periodo è stato ed è una fase priva di cambiamenti sociali epocali, in grado di segnare una netta discontinuità rispetto al passato. La popolazione, probabilmente, non si percepisce più da tempo inserita in un flusso storico orientato al progresso anche per questa ragione. Si contribuisce a produrre (e riprodurre), quindi, un ambiente ostile, estraneo o poco ricettivo verso le idee di cambiamento sociale radicale.
  43. Secondo un’analisi condotta dopo le ultime elezioni politiche, i voti ai partiti sono abbastanza trasversali alle diverse classi sociali, con la significativa eccezione del voto al PD, che registra un “confinamento nelle classi sociali più alte e con un reddito più alto”. De Sio (2018), citato in N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi? cit., p. 171
  44. S. Garroni, Introduzione al Manifesto del partito comunista, https://www.sinistrainrete.info/marxismo/15041-stefano-garroni-introduzione-al-manifesto-del-partito-comunista-2.html
  45. Per una lettura allo stesso tempo appassionante e sintetica sulla genesi del neomarxismo, si consiglia E. Hobsbawm, Come cambiare il mondo, Milano, cap. XIV, Bur Saggi Rizzoli, edizione 2012
  46. E. Hobsbawm, Come cambiare cit., pp. 377, 378
  47. “[Nel popolo] c’è un atteggiamento contraddittorio rispetto all’ideologia. […] emerge un post-ideologismo molto forte […]. Quando una cosa sembra vecchia suscita diffidenza, irrisione e lontananza”. (N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi? cit., p. 55)
  48. Il marxista greco Eftichios Bitsakis tende ad orientarsi verso la sostituzione della categoria di ‘causalità’ con quella di ‘interazione’. Si veda, ad esempio, Eftichios Bitsakis, La materia e lo spirito, Gorgonzola (MI), pp. 200, 201, Edizioni PonSinMor, 2014
  49. L’espressione è stata introdotta da Vic Gammon (1996), in riferimento all’insegnamento della musica nella scuola pubblica: “Nel caso della musica, l’alunno spesso sente una forte dissonanza culturale tra l’esperienza condotta a scuola e l’esperienza esterna alla scuola”. (Citato in C. Delfrati, Fondamenti di pedagogia musicale, Torino, p. 8, 2008)
  50. Nella stessa ottica trova spazio un diffuso pregiudizio antintellettuale, oggigiorno abbastanza comune nei nostri ambienti
  51. “Utilizzando la celebre sistematizzazione di Herbert Kitschelt, gli assi della competizione politica ad oggi sono l’asse sinistra-destra (asse economico) e un asse culturale, quello tra i vincenti della globalizzazione (cosmopoliti, aperti agli scambi economico e culturali) e i perdenti della globalizzazione (che da queste aperture hanno tratto svantaggio economico e un senso di perdita delle proprie radici culturali)”. (N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi? cit., pp. 164, 165)
  52. In realtà, “una volontà almeno astratta di partecipazione esiste. Quando è evocata, è evocata come unitaria, “di tutto il popolo”, potremmo dire, ed è evocata solo in relazione all’attività e alla protesta sociale, non all’attività e alla protesta sociale, non all’attività politica in senso stretto. È in ogni caso più un sentimento di attesa – che qualcosa succeda e che qualcuno la metta in moto – che l’espressione di una volontà di attivazione”. (N. Bertuzzi, C. Ciacagli, L. Caruso, Popolo chi? cit., p. 55)
  53. “Anche senza ‘concentrazione’, il comando tecnico, finanziario e produttivo ha continuato comunque a ‘centralizzarsi’, con fusioni e acquisizioni. Le unità produttive sono state connesse ‘in rete’, lungo filiere transnazionali, stratificate secondo una gerarchia interna dei diversi moduli”. R. Bellofiore, La crisi capitalistica e le sue ricorrenze: una lettura a partire da Marx, Trieste, p. 62, Asterios Editore, 2012
  54. https://www.mise.gov.it/index.php/it/incentivi/impresa/credito-d-imposta-beni-strumentali; https://www.mise.gov.it/index.php/it/incentivi/impresa/credito-d-imposta-r-s; https://www.mise.gov.it/index.php/it/incentivi/impresa/credito-d-imposta-formazione
  55. https://www.mise.gov.it/images/stories/documenti/guida_industria_40.pdf
  56. R. Bellofiore, La crisi capitalistica cit., p. 62
  57. Ha avuto una certa diffusione il libro Dove sono i nostri. (Clash City Workers, Dove sono i nostri, Napoli, La Casa Usher, 2014)

 

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