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Dialogo sopra un libro, un virus ed altri “smottamenti”

Il Lato Cattivo intervista Raffaele Sciortino

sciortinoòlatocattI nostri quattro lettori sanno che non siamo usi a piaggerie. Ma quando – in ambito teorico o pratico – qualcosa di proficuo, valido o stimolante da altri viene fatto, e fortuna vuole che ce ne giunga notizia, non esitiamo certo a darne atto.

È già da qualche tempo che avevamo intenzione di parlare del libro di Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi (Asterios, Trieste 2019). Si tratta di un contributo importante per la teoria comunista, uno dei rari provenienti dall’arido contesto italiano. Contributo importante – dicevamo – perché riesce a tenere assieme, in una visione articolata e di ampio respiro, il corso economico del modo di produzione capitalistico nel decennio inaugurato dalla crisi mondiale del 2008, con quello delle relazioni internazionali e della lotta di classe nelle sue forme di manifestazione peculiari, in un fertile tentativo di comprendere come questi diversi piani agiscano gli uni sugli altri. In ciò risiede la differenza rispetto alla gran parte della pubblicistica consacrata a questi temi ognuno per sé, non da ultimo per la capacità dell’Autore di intuire il punto di caduta verso cui si dirige il movimento reale – nel bene e nel male, ovvero nei suoi esiti possibili tanto potenzialmente sovversivi quanto eventualmente disastrosi.

La rilevanza accordata al piano delle relazioni internazionali non mancherà di far storcere il naso a qualcuno, e vale la pena spendere qualche parola al riguardo per difenderne la legittimità. In termini generali, la rinnovata intensità della contesa nell’arena geopolitica è in tutta evidenza un tratto saliente del periodo aperto dalla crisi del 2008. Tutte le questioni che la mondializzazione, nella sua fase ascendente, sembrava aver spazzato via per sempre tornano all’ordine del giorno in forme anche inedite. È in questo quadro complessivo che si inscrive il cosiddetto “ritorno della geopolitica”: guerra dei dazi fra Cina e Stati Uniti, tensioni crescenti all’interno dell’Unione Europea fra paesi del Sud e paesi del Nord, riconfigurazione in divenire di tutta l’area denominata MENA (Middle East North Africa)… la lista non è esaustiva, ma basta a rendere l’idea.

Quale rapporto con la lotta di classe? Piaccia o meno, le classi e le lotte che le oppongono non evolvono in un “ambiente sterile”, purificato da ogni circostanza perturbatrice. Fra queste, l’attività geostrategica delle varie frazioni e fazioni statal-capitalistiche è, in misura maggiore o minore, sempre presente. Essa non può far sorgere dal nulla determinate forze sociali quando non esistono, né “manipolarne” l’attività in assenza di interessi obiettivamente convergenti, ma è ben in grado di accentuarne certi aspetti piuttosto che altri, di potenziarne l’onda d’urto locale o la risonanza internazionale, e – soprattutto – di inchiodarle con ciò stesso ai loro limiti momentanei o intrinseci. La “strumentalizzazione” geopolitica degli antagonismi sociali è una vecchia storia: non è scomparsa con l’implosione del Blocco dell’Est, e gli esempi contemporanei – dal Venezuela a Hong Kong – certo non mancano. Dal punto di vista della teoria comunista, è fondamentale riconoscere la realtà di questa “surdeterminazione” esercitata dalla politica internazionale sulle lotte di classe “domestiche” (giacché normalmente agganciate ai loro rispettivi perimetri nazionali, non fosse che a mo’ di vettore), depurandola quanto più possibile dal carattere di spy story, e riconducendola dunque all’operato non di onnipotenti burattinai su un materiale storico-sociale malleabile a piacere, ma di forze sociali alle prese con circostanze che non scelgono, e prive di controllo sui risultati della propria praxis. Ma questo ancora non basta. Bisogna altresì far intravedere il punto di rottura possibile, il momento di reversibilità oltre il quale le lotte di classe “domestiche” possono scompaginare la politica internazionale invece di esserne meramente “surdeterminate”. È a quest’unità dialettica fra analisi del presente e prefigurazione del futuro, tra biologia e necrologio del capitale, che dobbiamo tendere. I dieci anni che sconvolsero il mondo costituisce, in questo senso, un avanzamento notevole.

Un paio di mesi fa abbiamo inviato alcune domande all’Autore, in parte incentrate sul libro e in parte sulla scottante attualità – Covid-19, petrolio etc. Ne è venuto fuori quanto segue. Molti sono i nodi messi in evidenza da questo confronto a restare irrisolti, le articolazioni che meriterebbero ulteriori discussioni e approfondimenti. Per il momento, il fatto di poter constatare una prossimità (di orientamenti, di linguaggi, di preoccupazioni etc.) è già molto. Ci auguriamo che in un futuro prossimo ci sia modo di sviscerare a fondo le divergenze. Il dialogo continua…

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Il Lato Cattivo (ILC): Vuoi fornire, a noi e ai nostri lettori, qualche elemento sul percorso teorico e politico che ti ha condotto a scrivere I dieci anni che sconvolsero il mondo?

Raffaele Sciortino (RS): Il libro è il frutto di un percorso piuttosto lungo che, pur calato in una determinata fase, non credo in alcun modo “esemplare” o anche solo tipico. Faccio un passo indietro. Sono uno dei tanti che a fine Settanta si è trovato a essere troppo giovane per aver vissuto a pieno quel decennio, di cui pure si è intessuta la mia formazione politica, e il mio immaginario, ma non abbastanza giovane da non essere coinvolto a fondo dal disorientamento che è seguito alla sua parabola discendente e poi alla sua fine. Nel bene – da subito distante, epidermicamente, da qualsivoglia fascinazione per il “socialismo” e i suoi sottoprodotti tipo emmellismo e antifascismo democratico – e nel male – partecipe di una mal riposta attesa nella ripresa a breve vuoi della classe vuoi del movimento. Ripresa che, non si sa bene come, si sarebbe dovuta collocare oltre le secche sia del vecchio movimento operaio, tardo-stalinista o socialdemocratico, sia delle varie forme di movimentismo divenute nei fatti autoreferenziali. Insomma, nel bel mezzo degli anni Ottanta, mi sono ritrovato nell’isolamento crescente di chi, preso dal demone del comunismo (quale? oramai “inattuale”?), un po’ pensava si trattasse di recuperare il suo filo autentico preservato durante il lungo corso della controrivoluzione dalle eresie (politiche e filosofiche: penso all’hegelo-marxismo tedesco, fino ai francofortesi e alla allora nascente critica del valore, che iniziai a conoscere in Germania in occasione degli studi di filosofia), un po’ guardava con uno scetticismo di fondo a ogni possibile recupero di quella storia tenuto conto della cesura profonda, anche generazionale, intercorsa. Questo insieme di domande mi ha portato ad una prima, vaga percezione della necessità di un “bilancio”, non ridotto però, nei limiti del possibile, a un lavoro fatto a tavolino. Una rispondenza l’ho trovata nell’incontro, in parte casuale, con un ex militante di Programma Comunista, Paolo Turco, che ne era uscito a metà anni Settanta sulla base di una critica serrata degli esiti del bordighismo (ma anche degli altri “ismi”: trotzkismo, consiliarismo, operaismo etc.). Il nodo cruciale era qui il ripensamento del rapporto capitale-classe-partito-comunismo, da leggere come una serie di passaggi materialisticamente ancorati alla configurazione storicamente determinata del rapporto di capitale, in modo da dar conto sia dell’enigma del riformismo interno alla classe – ben oltre ogni teoria soggettivista del tradimento dei capi o della corruzione delle masse – sia della possibilità di una ripresa rivoluzionaria al di là dei vecchi schemi secondo- e terzinternazionalisti, che postulavano la continuità di un’avanguardia politica, condizione divenuta impossibile nel dominio reale del capitale. Era il tentativo di salvare la sostanza del pensiero di Bordiga in merito a che cosa è diventato il capitale senza inchiodarsi a una concezione di una classe sempre uguale a se stessa e “solo” da recuperare alle Tavole del Partito. Cercando così di passare il testimone a una fase toto corde differente, oggettivamente e soggettivamente, senza paura di sporcarsi le mani di fronte a situazioni inedite. Un tentativo che si è rivelato nei fatti impossibile dato che ogni continuità con i cicli precedenti è stata spazzata via, condannando ogni milieu politico allo stato comatoso attuale quando non alla scomparsa pura e semplice. Ma che per me vale come metodo, e quindi come chiave del bilancio storico-teorico del movimento di classe. Chiedersi sempre che cosa è diventata la classe senza dare per scontata la risposta, chiedersi di quali potenzialità è espressione fin dentro la sua subordinazione che a volte appare completa al capitale, non per esaltarne a priori la soggettività in quanto tale – gesto tipico del Linkskommunismus (direttamente nella forma della spontaneità o indirettamente in quella del partito) come di ogni operaismo – ma per rintracciare le contraddizioni specifiche di quello specifico rapporto di capitale e il livello eventuale della loro esplosività (o, all’inverso, della possibilità di gestione da parte del capitale). Su questo piano, ho avuto dagli anni Novanta nell’ambiente torinese anche un interessante

confronto, ancorché non continuativo, con un intellettuale di tendenza politica ed esperienza assai differenti dalle mie (anche per spessore), Romano Alquati, che a partire dal decennio precedente stava portando avanti la sua resa dei conti teorica con l’operaismo. Ovviamente dovrei parlare ancora della miseria politica e teorica degli anni di fine secolo, della sottovalutazione di allora della forza della globalizzazione ascendente, delle guerre umanitarie che andavano ridislocando i termini di che cosa è l’imperialismo, dei primi segnali di reazione che sarebbero confluiti nel cosiddetto movimento no global, e altro ancora. Sono tutti temi che direttamente o indirettamente ho cercato di affrontare nel libro incrociando negli ultimi dieci anni, in tempo reale rispetto ai passaggi della crisi globale, analisi economiche, geopolitiche e delle dinamiche di classe, discusse con un ristrettissimo gruppo di compagni, espressione pur nell’estremo isolamento di una istanza collettiva.

 

ILC: Ripartiamo dalla scottante attualità. Impossibile non parlare del Covid-19. Le analisi del milieu “radicale” ci sembrano oscillare tra una lettura per così dire “biopolitica”, incentrata sulle conseguenze (vere o presunte) della pandemia in termini di controllo sociale, ed una meccanicistica, senz'altro più attenta alle sue conseguenze socio-economiche, ma che riduce queste ultime al possibile colpo di grazia ai danni di un capitalismo erroneamente dato per spacciato. Noi pensiamo che il Covid-19 sarà piuttosto un fattore di forte accelerazione/esacerbazione di tendenze e antagonismi latenti ma già in essere, tra cui il decoupling sino-americano, la disgregazione dell'UE, l'eliminazione dei capitali più fragili e/o tecnologicamente ritardatari, la parziale rilocalizzazione della produzione nei paesi da cui le delocalizzazioni erano partite, e in definitiva la demondializzazione. Tu che ne pensi?

RS: La crisi da Covid – non del tutto imprevista per la scienza ufficiale ma, in alto come in basso, inaspettata nella sua portata – segnerà sicuramente un passaggio importante nella più generale crisi sistemica capitalistica esplosa, anch’essa “inattesa”, nel 2007-08. Con la quale del resto è intrecciata più di quello che possa sembrare. Sia nel senso che viene dopo decenni di cosiddetto neoliberismo, distruttivo nel rapporto perverso tra umanità e natura – l’intreccio tra capitalismo finanziarizzato e sconvolgimenti ambientali è oramai un fattore endogeno tanto più con l’industrializzazione crescente dell’agricoltura – e tra esigenze del profitto e infrastrutture sociali. Sia, più in particolare, perché rappresenta in tutta evidenza la classica goccia nell’innesco della seconda fase della crisi globale, i cui segnali c’erano infatti già tutti (guerra commerciale Usa-Cina, caduta delle borse nel 2018 poi tamponata con iniezioni di liquidità delle banche centrali, segni di recessione in Giappone e Germania, enormi interventi sul mercato Repo1della Federal Reserve a partire da settembre 2019, ora anche guerra sul prezzo del petrolio etc.). Anche se è presto per dire come questo intreccio si svilupperà e con quali esiti.

Questo è un piano. Ma prima di entrare un po’ più nel merito dell’evoluzione possibile della crisi, è bene sottolineare che l’attuale situazione – che, va detto, nessuno sa come potrà evolvere – è assai interessante anche per le reazioni sociali che, seppur solo in forma embrionale, sta suscitando a scala mondiale. E le reazioni sociali sono il terreno pratico della possibile presa di coscienza delle modalità di funzionamento del sistema e dello sviluppo di eventuali scintille di mobilitazione. Su quest’altro piano abbiamo visto che l’emergenza sta rimettendo in moto, anche in Occidente, la testa dei proletari, e non solo, in generale non disponibili a subire ricette neomalthusiane che privilegiano l’economia sulla vita. Temi come lo stato disastroso della sanità, riflessioni seppur solo accennate su quale modo di vivere ci ha portati a questo punto, la domanda se questo sistema di poteri “plurale” e “democratico” sia veramente al servizio della comunità, la distinzione, che attiene a nodi profondi del rapporto tra riproduzione sociale e riproduzione sistemica capitalistica, tra bisogni “essenziali” e no, e altro ancora che si farà avanti: tutto ciò segnala un’istanza in senso lato di classe che non era affatto scontata dopo decenni di interiorizzazione proletaria della “naturalità” del modo di produzione capitalistico (MPC), e in primis delle ragioni dell’impresa. E non è solo questo: una situazione come l’attuale potrebbe minare in profondità l’individualizzazione del rischio, essenziale nella costruzione delle identità nel cosiddetto neoliberismo, lo scarico cioè delle responsabilità sociali sul singolo isolato piuttosto che sul sistema, riproponendo per quanto in termini drammatici il nodo della costruzione di una responsabilità comune. Al contrario di quanto pensa e teme una certa sinistra, tutta imperniata sulla difesa delle libertà individuali, in questa situazione siamo costretti a rispondere non come il singolo ma come singoli al plurale – pena l’inefficacia dell’azione stessa – premessa, questa, di un possibile e non scontato nuovo corso sociale in controtendenza all’atomizzazione fin qui imperante. Esemplifica ciò la serie di scioperi spontanei nelle fabbriche italiane contro l’assenza di misure minime di sicurezza e la prosecuzione del lavoro laddove non essenziale. Anticipata qui dalla protesta dei detenuti, quella operaia è da vedere non solo come sacrosanta difesa della propria salute ma anche come critica in atto di una classe imprenditoriale tutta fiondata sull’utile economico.

Questo passaggio non va dato per acquisito di qui in avanti né come facilmente generalizzabile. Dopo questa prima reazione – che ha comunque costretto i governi occidentali presi alla sprovvista a seguire, obtorto collo e in maniera sicuramente inadeguata e contorta, il modello cinese di risposta all’epidemia – è iniziata una fase, quella perseguita dal “partito della riapertura” delle attività economiche, in cui le forze borghesi imprenditoriali fanno leva sul disastro economico che si staglia all’orizzonte per ottenere il consenso alla ripartenza dell’economia (che del resto si è fermata solo molto parzialmente!) anche tra chi, in particolare nel settore privato, vive del proprio lavoro, dipendente o “autonomo” che sia. Vedremo. Per intanto, risulta evidente che qualunque ripresa seria della conflittualità di classe sarà costretta a porsi su un terreno non economicista ma immediatamente sociale e potenzialmente politico. Ed è qui che è emerso un altro elemento importante, e delicato, che la dice lunga sullo stato di salute del globalismo presso le popolazioni: la richiesta di un intervento statale come risposta decisa e tempestiva all’epidemia. Lo Stato come referente, in ambiente capitalistico assunto al momento come naturalità insuperabile, in grado di operare sintesi e rilancio, anche con misure coercitive, per le istanze di cooperazione comunitaria, le sole ritenute in grado di dare una risposta efficace all’emergenza. Ora, sarebbe facile liquidare ciò esclusivamente come illusione legata ad una comunità fittizia. Ciò è sicuramente vero, e oltretutto con il suo interventismo lo Stato cercherà ovviamente di rilegittimare il suo ruolo assai appannato da globalizzazione e crisi. Resta che questo rafforzamento, se si darà, lo sarà sulla scorta di istanze relative al piano di un bene comune, come la salute, mentre su quello della riapertura dei posti di lavoro o della prosecuzione di attività a rischio contagio la delega è risultata da subito più controversa facendo trasparire la divaricazione tra gli interessi immediati delle differenti classi sociali. Il che ci dice che il risultato del processo non è scontato. Tanto più che si è contestualmente fatta strada la richiesta dal basso di venire incontro all’esigenza di reddito da parte della comunità stessa – reddito di esistenza e quant’altro, ovviamente in forma monetaria e fornita dallo Stato con l’accensione di debiti, quindi tutta interna al rapporto di capitale – insieme alla richiesta di stabilire con un “piano”, cioè non lasciando la cosa meramente al mercato, produzioni e servizi indispensabili. In germe, dunque, una serie di esigenze in contraddizione con le necessità del capitale.

Senza immaginarsi film ad oggi improbabili, va però detto che la minaccia alla vita insieme individuale e collettiva ha innescato, confusamente e contraddittoriamente quanto si vuole, un bisogno di comunità che è arrivata, anche solo per poco, a mettere l’economia in secondo piano rispetto alla vita. Non è poco, e credo che confermi in certa misura la plausibilità della mia lettura del “neopopulismo” come terreno – non sto parlando in prima istanza di organizzazioni, partiti istituzionali etc., ma di spinte, dinamiche ancorate a ciò che è divenuto il rapporto di classe – terreno specifico dell’antagonismo di classe nell’Occidente imperialista nella fase che si è aperta con la crisi globale. Con in più, forse, un potenziale slittamento significativo: mentre nella “prima fase” che ho analizzato nel libro, grosso modo dal 2008 alla mobilitazione dei Gilets, lo scontro è stato tra globalisti e cittadinisti- sovranisti, l’attuale crisi nel mentre rimette in campo la necessità di contenere gli effetti più disastrosi della globalizzazione con misure a scala nazionale, al contempo rende evidente che la scala decisiva delle questioni è quella internazionale. Con uno spostamento ulteriore dal piano prevalentemente politico-istituzionale del cittadinismo (corrotti contro meritevoli, competenza etc.) a quello del funzionamento della società. Che cosa ne verrà fuori non lo può preventivare nessuno, ma uno spiraglio di raccordo, né reazionario né “progressista”, tra i due piani forse si potrebbe aprire, così come non è da escludere che si finisca con una guerra di tutti contro tutti non a causa ma in mancanza della lotta di classe. Sono tutti elementi da precisare e approfondire – così come quello, importantissimo, delle reazioni dei giovani, ad oggi ancora passivi – siamo ancora all’impostazione del quadro complessivo che va ad aprirsi.

Ora, di fronte a tutto ciò, alla evidente crisi di governance dei governi e ad una prima, parziale delegittimazione del mercato e financo della tecnoscienza come strumento infallibile di soluzione dei problemi che il mercato eventualmente origini, la sinistra radical ha saputo quasi esclusivamente vedere l’aspetto del disciplinamento sociale cancellando le cause sistemiche dell’emergenza (quando non l’emergenza stessa, sconfinando così nel "complottismo" tanto vituperato dei cosiddetti populisti) e obliterando l’importanza, ancorché ambivalente, delle reazioni sociali di cui sopra. Ci sarebbe da chiederle, se un vero dibattito fosse possibile, dove vedeva ieri tutta questa conflittualità e autonomia dei movimenti che la creazione dello stato d’emergenza oggi dovrebbe schiacciare! (Quanto ai Gilets Jaunes in Francia, il movimento era già in chiaro declino, e inoltre andrebbero ricordate le titubanze iniziali del milieu di fronte ad una mobilitazione spuria, “neopopulista”, in odore di fascismo, machismo, antisemitismo e quant’altro…). Sia chiaro, l’emergenza verrà usata, se possibile, dai poteri, che però in prima battuta risultano in estrema difficoltà e comunque in contrasto al loro interno. Ma discutere delle radici profonde, oggettive, della traiettoria della sinistra radicale – nel senso che questa qualificazione, lontana mille miglia da riferimenti di classe, ha acquisito nel mondo anglo-sassone – esula da questa intervista. Credo che l’insieme dei passaggi di crisi che ci attende ridurrà di brutto la rilevanza della “sinistra postmodernista” che, in una battuta, ha sostituito la decostruzione anti- dialettica del potere alla critica del rapporto sociale di produzione e riproduzione della vita, ovvero un Foucault volgarizzato (e ampiamente sussunto, e neutralizzato, all’accademia anglo-sassone) a Marx (a sua volta, però, già ampiamente volgarizzato, non dimentichiamolo…).

Il tema di queste riflessioni, certo buttate un po’ lì, è comunque importante perché ci ricorda che il marxismo rivoluzionario (etichetta un po’ altisonante) non ha a che fare con un “sistema” inteso in senso struttural-funzionalista, ma con il rapporto sociale di capitale che necessariamente si esprime come antagonismo di classi (al plurale), quindi di soggettività collettive ed eventualmente organizzate.

Pur essendo tale rapporto, attenzione, reificato, e dunque ammettendo entro certi limiti – che non è facile stabilire, peraltro, ed è questione filosofico-politica più che empirica – di essere analizzato, appunto, come “struttura” entro un processo di “storia naturale”. Ecco allora che all’insidia “soggettivista” fa da contraltare quella meccanicista, come giustamente sottolinea la vostra domanda.

 

ILC: Una seconda domanda fa da corollario a quella precedente: fino a che punto può effettivamente spingersi lo smontaggio della mondializzazione? Da un lato, all'incirca negli anni 1970 è avvenuta una rottura storica nel concreto processo di accumulazione: l'ascesa delle imprese multinazionali. Abbiamo qui una forma specifica di internazionalizzazione dell'investimento differente da quelle già conosciute in passato, ad esempio all'epoca della “prima mondializzazione” nell'ultimo quarto del XIX secolo. Di pari passo, si è avuta allora una relativizzazione del ruolo dello Stato nazionale, che volente o nolente è andato ad inscriversi all'interno di una governance de-nazionalizzata e stratificata, di un quadro istituzionale che lo trascende. In quale misura i processi appena menzionati sono reversibili (o, viceversa, irreversibili)?

RS: Tornando al piano “sistemico”, evitare letture lineari è più facile a dirsi che a farsi. Certo, alcuni processi già visibili cui accennate nella domanda accelereranno, per altri si darà una vera e propria precipitazione. Molto dipenderà da come verranno a intrecciarsi il piano della “contingenza” attuale, all’incrocio tra crisi da Covid e crisi economico-sociale, senza dimenticare le ricadute delle misure in corso e future, con quello delle tendenze di fondo già emerse violentemente dieci anni fa. Qui posso solo provare a impostare un ragionamento di fondo, che abbisognerebbe di ben altri approfondimenti teorico-analitici, comparazioni storiche, riscontri empirici e, soprattutto, di un lavoro collettivo.

Il nodo di fondo, effettivamente, è quell’insieme contraddittorio di processi detto demondializzazione. Preferisco, però, almeno al momento parlare piuttosto di crisi della globalizzazione - al di là dello specifico termine che si vuole usare. Non è solo, o tanto, che di demondializzazione parlano in Occidente pro domo sua due specifici campi politici, in parte intrecciati: quello “occidentalista” anti- cinese, che punta a utilizzare la crisi per tagliare le gambe al tentativo di Pechino di aprirsi uno spazio un po’ meno subordinato nel mercato globale; quello “sovranista”, di destra o sinistra che sia, che mira ad una rinazionalizzazione delle politiche statali per riaccentrare sulla nazione la crescita economica (oggi: le speranze in una ripresa). Il punto cruciale è non perdere di vista che la globalizzazione o, come si dice in ambito francese, la mondializzazione non è in primis o esclusivamente una politica che si possa impunemente dismettere: è innanzitutto uno “stadio” (nel senso in cui Lenin parlava di imperialismo) del processo di affermazione del marxiano mercato mondiale. Un processo che corrisponde alla socializzazione antagonistica della produzione – oggi internazionalizzata in re con le filiere globali delle multinazionali – e al prevalere delle forme più astratte e reificate del capitale-denaro (il capitale fittizio) con conseguente ristrutturazione del rapporto tra le classi. Ovviamente, si tratta di un processo per natura interminabile – il cattivo infinito del capitale, pur sempre un “mondo capovolto” – e foriero di contraddizioni esplosive che possono anche, a date condizioni, farlo deflagrare. Inoltre, il capitale in generale si presenta sempre come i molti capitali, in configurazioni storiche concrete che attengono alla specifica, e quindi in parte “contingente”, forma dei rapporti di classe e inter-capitalistici. Nella fattispecie, l’assemblaggio globale uscito fuori dalla crisi degli anni Settanta risulta – o, almeno, così ho provato a ricostruirlo nel mio lavoro – dalla cosiddetta finanziarizzazione, cui l’internazionalizzazione produttiva con conseguente scomposizione-riconfigurazione del fordismo in Occidente e della “dipendenza” del Terzo Mondo ha aperto ampi terreni vergini, dal legame asimmetrico tra Stati Uniti e Cina come perno del circuito mondiale del capitale, e dalla ristrutturazione del rapporto di classe e del ruolo degli Stati emersa dal lungo Sessantotto, con caratteristiche differenti tra Occidente e resto del mondo, ma pur sempre segnate dalla capacità senza precedenti da parte del capitale di sussumere il lavoro e l’insieme dei rapporti sociali.

Ora, l’ordine internazionale liberale che si è imposto all’indomani dell’implosione del socialismo reale – più precisamente: il dominio dell’imperialismo finanziario del dollaro – ha ricevuto un primo serio colpo dalla crisi innescata, non causata, dallo scoppio della bolla subprime. Ne è seguita una sostanziale stagnazione, ancorché non generalizzata a tutte le economie (Germania e, in parte e più tardi, gli Stati Uniti si sono ripresi, la Cina ne è stata solo sfiorata e ha così potuto venire in soccorso dell’Occidente con imponenti investimenti infrastrutturali) con il rallentamento dei tassi di crescita del commercio mondiale e, in misura minore, dei flussi di capitale. Più nel profondo, è vero, il non ridimensionamento effettivo della bolla finanziaria, gli scossoni geopolitici a partire dal nuovo Containment yankee in funzione anti-cinese e anti-russa (dall’Ucraina all’Iran passando per la Siria, fino a Hong Kong), lo smottamento degli assetti politico-sociali in Occidente con l’insorgere del momento populista – tutto ciò non solo segnala una globalizzazione più asfittica e competitiva, ma prefigura la sua disarticolazione. In particolare, con lo scoppio della guerra commerciale tra l’amministrazione Trump e Pechino – nei fatti, una guerra tecnologica che dovrebbe impedire all’economia cinese di risalire la catena mondiale del valore verso produzioni a più alto valore aggiunto – e le sue possibili conseguenze (non a caso temute sia a Pechino che a Berlino).

E però, fino a questi ultimi mesi, avevamo sì una prefigurazione della rottura ma non ancora la fratturazione e compartimentazione vere e proprie del mercato mondiale. (Tant’è che l’emergenza Covid ha prodotto in prima battuta uno shock sul lato dell’offerta a causa dell’interruzione dell’anello cinese delle catene produttive internazionali). Che cosa allora può spingere decisamente in questa direzione? Per rispondere a questa domanda, anche alla luce degli scossoni in corso, credo sia importante andare oltre la constatazione dell’inasprimento a tutti i livelli della competizione inter- capitalistica e dunque della quasi fine di quella governance globale a guida statunitense che, in forma ora multilaterale ora unilaterale, ha retto l’ordine internazionale negli ultimi trent’anni. Si tratta di mettere a fuoco la direttrice principale di questa competizione, e questa punta in direzione dello scontro tra Stati Uniti e Cina. Non è certo l’unica, basti pensare alle tensioni tra Washington e Berlino, ma è quella determinante per gli assetti mondiali del futuro, sia perché l’asse asimmetrico Cina/Usa ha rappresentato il fulcro su cui è ruotato il rilancio capitalistico post-anni Settanta, sia perché l’appropriazione del plusvalore prodotto dal proletariato cinese, e asiatico, è stata fino ad oggi la condizione della tenuta dell’accumulazione capitalistica centralizzata dall’Occidente e, insieme, del mantenimento della pace sociale grazie al basso costo delle merci che entrano nella riproduzione della forza-lavoro occidentale. Ora, ciò cui assistiamo è la crescente contraddizione tra l’ascesa cinese da un lato – con la pretesa a una fetta più consistente del valore prodotto, in gran parte appropriato dalle multinazionali occidentali o riciclato nei circuiti finanziari statunitensi via acquisto di Treasury e riserve monetarie in dollari – e un’accumulazione mondiale sempre più asfittica e oberata dal prelievo crescente operato dal capitale fittizio, dall’altro. È questo che rende questa direttrice di scontro pressoché inevitabile, seppure dal percorso e dagli esiti non scontati. La Cina è spinta dal suo stesso corso capitalistico verso una collocazione meno subordinata all’interno del mercato mondiale, che pure non punta a rovesciare né ha i numeri per dominare (i discorsi sul Secolo Cinese sono risibili); cerca anzi di conservare quell’intreccio globale che le ha permesso, seppur con costi altissimi, di recuperare a ritmi accelerati parte del ritardo storico e garantire il patto sociale interno. Washington deve, per le contraddizioni crescenti interne ed esterne del suo dominio mondiale, piegare quel corso alle proprie esigenze, mettendo altresì in riga gli “alleati” europei, in primis Berlino, agendo di fatto da paese revisionista dell’ordine internazionale.

Dunque, la rottura effettiva della cosiddetta mondializzazione è funzione, principalmente, di quanto andrà a fondo lo scontro Usa/Cina. Una competizione tutt’altro che alla pari, peraltro. In prospettiva, Washington deve bloccare e invertire l’ascesa della Cina intaccandone a fondo la stessa tenuta unitaria come Stato e quindi paese. Facendo leva sulle persistenti criticità dello sviluppo capitalistico del Dragone – che meriterebbero un’analisi a parte, qui basta ricordare il persistente divario tra regioni e tra città e campagna, con una popolazione contadina esorbitante, la ristrettezza del mercato interno, l’assenza di un welfare adeguato, la collocazione precaria del montante ceto medio tra sirene occidentali e pressioni proletarie, l’indebitamento crescente, la necessità di una proiezione esterna anche geopolitica e l’assenza di veri alleati, e su tutto l’incognita della tenuta del compromesso sociale tra Stato e classe operaia etc. – opportunamente agite dall’esterno come nel caso della mobilitazione democratica pro- occidentale a Hong Kong. Far saltare la Cina, ecco l’unica Grand Strategy realistica che Washington possa mettere in campo, condivisa al di là delle modalità specifiche da repubblicani e democratici. Il che comporta, altresì, allineare con le buone o con le cattive i partner europei anche a costo di far saltare la UE, continuare a bastonare Mosca (anche se Trump, più lucido in questo dei cold warriors, vorrebbe staccarla da Pechino), smantellare o ridimensionare gli stati non proni come Iran, Venezuela, Turchia etc. Insomma, un programma di regime change globale che la nuova crisi potrebbe rendere ancora più urgente.

Questa strategia – che non è un piano a tavolino elaborato da qualche mente superiore ma, come sempre, si fa strada confusamente nel turbinio degli eventi, e inoltre andrebbe analizzata in relazione ai fattori più propriamente militari e alla possibile sfasatura tra questi e le spinte più strettamente economiche – ovviamente non può correre liscia come l’olio neanche per una superpotenza come gli States, ma ha di fronte, per fermarsi ai soli fattori principali, un grosso ostacolo, un inedito rischio, e un problema di fondo. Vediamoli. L’ostacolo è connesso al cosiddetto decoupling dell’Occidente dall’economia cinese. Se ne fa un gran parlare fin dai tempi di Obama, in realtà, anche se di rilocalizzazione delle produzioni di ritorno dalla Cina non si è visto moltissimo finora. Senza dubbio ciò può cambiare, così come nella cosiddetta guerra dei dazi l’amministrazione Trump ha irrigidito anche alcuni criteri riguardanti i flussi di capitale. Il punto, però, è se l’Occidente e le sue multinazionali possono rinunciare anche solo transitoriamente al capitale fisso investito in Cina che permette di appropriarsi della gran parte del plusvalore estratto dalla classe operaia cinese e, al contempo, abbassare la condizione proletaria qui da noi al punto da rendere convenienti le riallocazioni, con una forza-lavoro disposta agli stessi (o inferiori) livelli salariali, alle stesse (o peggiori) condizioni di vita, e, soprattutto, agli stessi (o più intensi) ritmi e agli stessi (o più lunghi) orari di lavoro. Un ricorso massiccio all’automazione forse lo permetterebbe ma, appunto, ci vogliono capitali da investire e comunque comporterebbe notevoli contraddizioni, sia per le ripercussioni sociali interne negative sia per l’ulteriore spinta che ne deriverebbe all’appropriazione competitiva del plusvalore prodotto a scala mondiale. A ciò è poi connessa la difficoltà, nella crisi che si è aperta, di irreggimentare il proletariato occidentale, o almeno parti consistenti di esso, in funzione anti-cinese (posto che l’irreggimentazione non è processo solo ideologico-propagandistico, ma deve avere basi materiali). Secondo fattore: il rischio, non più da escludere, che l’incasinamento dovuto alla recrudescenza della crisi mondiale e dello scontro geopolitico possa iniziare a intaccare seriamente il predominio del dollaro (e qualche scricchiolio si è già iniziato a sentire) prima che la strategia yankee di sbaraccamento della Cina abbia successo. L’interventismo sempre più massiccio di Fed e Tesoro statunitensi non potrà che portare alle stelle l’indebitamento statale, indebolire il dollaro, rendere visibile a tutti il fatto che questo enorme debito non verrà mai pagato, ma viene piuttosto utilizzato per attirare capitali da fuori o, a date circostanze, scaricare su altri i costi della svalorizzazione. Non è un caso che utilizzando la crisi da Covid, Trump non solo stia alzando il livello dello scontro anti-cinese chiamando a raccolta alleati e vassalli, ma lo fa sollecitando all’interno una mobilitazione dal basso per avviare richieste di risarcimenti, per i danni causati dagli errori e ritardi di Pechino nella vicenda pandemica, e per un ammontare di 1.200 miliardi di dollari pari, guarda un po’, al debito pubblico Usa detenuto dalla Cina, un default manovrato che lascerebbe i cinesi con carta straccia in mano. (Il punto, però, è che d’ora in avanti difficilmente la Cina potrà sottrarsi al rispondere con mezzi altrettanto duri…). Terzo: il problema di fondo è se è ancora possibile una ripresa non asfittica dell’accumulazione solo incrementando l’estrazione di plusvalore a scala globale, ancorché in un ambiente ultracompetitivo, o se piuttosto non si sta palesando la necessità sistemica, al di là di intenzioni e piani dei soggetti, di procedere ad una distruzione massiccia del capitale fisso, ben oltre quella che avrà luogo di capitale fittizio e che ogni attore cercherà di scaricare su partner e avversari. Il che indicherebbe l’approssimarsi di uno scontro bellico – che, va detto, non è questione teorica risolvibile, per dire, con il calcolo della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Che abbia successo la strategia statunitense oppure si vada verso la disarticolazione del sistema internazionale e lo scontro bellico (tutt’altro, quindi, dalle illusioni o speranze multipolariste di molti) – resta che il mercato mondiale, anche nel pieno degli scontri più accesi, è oramai l’arena essenziale per l’estrazione e la realizzazione del plusvalore (tutt’altro, quindi, dalle illusioni sovraniste sulla possibilità di restaurare mercati autosufficienti a scala nazionale o regionale). Da esso non si torna indietro salvo l’esplodere di un conflitto militare mondiale che lo renda, per la durata del conflitto, impraticabile. Un conflitto, comunque, che sarebbe per una ri-spartizione del mercato mondiale stesso.

Oggi, in tutta evidenza, non siamo ancora a questo. La cifra della fase sembra essere quella di un intreccio vieppiù contraddittorio tra evidenti fessurazioni negli assemblaggi globali e accresciuta competizione sul e per il mercato mondiale. Si tratterà di vedere se questa lettura reggerà alla luce dell’evoluzione dell’attuale duplice crisi (sanitaria ed economico-sociale). Al momento, pare su questo piano delinearsi un relativo cambio di passo nelle misure prese dagli Stati occidentali, in primis da Washington, nella direzione non più solo di erogazione di liquidità a salvataggio della finanza, ma anche di interventi effettivi della cosiddetta economia reale. Si tratta, sulla carta almeno, di massicci interventi di stampo keynesiano atti innanzitutto a tamponare la crisi occupazionale e a preservare gli apparati produttivi in vista di una “ripresa”. La cautela è d’obbligo: non è ancora chiaro il dosaggio tra prestiti a imprese e famiglie, che seppur garantiti dagli stati andranno restituiti, salvo la loro “socializzazione” pubblica comunque non a costo zero, e effettivi investimenti pubblici anticiclici. E sempre che, come dicono gli economisti, il cavallo abbia voglia di abbeverarsi alla fonte di questi investimenti, che nel caso di una persistente crisi della profittabilità contribuirebbero solo ad accrescere il debito complessivo. (A questo riguardo il confronto con il keynesismo storico degli anni Trenta che, seppur anch’esso concorrenziale al punto da essere sfociato in guerra mondiale, aveva dinanzi a sé ancora ampi spazi di capitalistizzazione degli stati e delle infrastrutture sociali, va tutto a sfavore degli eventuali tentativi odierni. Così come il confronto con lo scenario occidentale del secondo dopoguerra, meno concorrenziale al suo interno ma perché sottoposto all’ordine statunitense di Bretton Woods, oggi palesemente non ripetibile. L’intera questione sarebbe però da riprendere).

Certo, è evidente che la risposta alla crisi mondiale non potrà questa volta limitarsi a un numero limitato di fallimenti, a denaro facile alle banche e crediti al consumo, e agli investimenti statali cinesi di soccorso. Questa volta i fallimenti saranno di più, il ricorso al denaro facile è sempre più rischioso, e la Cina è molto più indebitata e coinvolta nella crisi dentro un mercato mondiale in netta contrazione. Dunque, proprio al fine di far funzionare un rinnovato keynesismo non più solo finanziario, sarà inevitabile spazzare via una parte significativa dell’immensa bolla di crediti palesemente inesigibili e di capitale fittizio gonfiatasi nuovamente all’indomani della crisi del 2008. Naturalmente ciò avverrà non in modo concordato, pro quota di ciascun paese, ma a seguito di una feroce battaglia per costringere gli altri a subire le conseguenze peggiori della svalutazione.

Dunque si tratterebbe, per chi potrà permetterselo, di un keynesismo ultracompetitivo e selettivo al massimo, funzionale allo scontro sul piano finanziario, industriale e commerciale, oltreché geopolitico. Un conto, infatti, è fare i keynesiani col dollaro moneta mondiale – e anche qui con qualche incertezza, abbiamo visto – un conto è farlo con l’euro esponendolo al rischio speculazione e deflagrazione (è il nodo reale che sta dietro lo scontro intorno alle richieste di mutualizzazione dei crescenti debiti UE). Così come si amplierà il divario tra stati con disponibilità di bilancio ed economie forti e stati già strozzati dal debito ed economie deboli (quanto alla UE, con conseguenze dirompenti, che probabilmente porranno a Berlino la drammatica alternativa di preservare l’unità europea e l’euro perdendo la propria stabilità economica e sociale oppure salvare se stessa rinunciando all’euro e alla UE per come li conosciamo oggi).

Comunque sia, anche nell’ipotesi più favorevole al capitale, che si riesca cioè ad evitare una grande e lunga depressione – la recessione mondiale è oramai data per scontata – permane e anzi si aggrava la necessità di incrementare la base reale del valore per sostenere i profitti, comprese le enormi sezioni fittizie che saranno rimaste in vita – forse anche accresciute – dopo il ciclo di interventismo statale. La concorrenza, quindi, non si fermerà durante la crisi da Coronavirus, e si incrementerà ulteriormente anche con un’eventuale, provvisoria ripresa. Gli Stati, con i debiti accresciuti, dovranno farvi fronte al solo modo capitalisticamente possibile, ossia riducendo le spese sociali e rendendo più competitive le proprie economie. Le aziende andranno incontro a ulteriori processi di concentrazione lasciando sul campo le imprese-zombie sopravvissute artificialmente negli ultimi dieci anni. Gli assetti sociali, a seguito del secco ridimensionamento dei redditi e dei risparmi di proletari e ceti medi salariati e della sparizione e/o torchiatura di buona parte del ceto medio produttivo, ne verranno sconvolti.

Il nodo politico cruciale, in termini generali, sarà di vedere se nel proletariato il richiamo alla solidarietà, riscoperta nella crisi da Covid, verrà piegata ai sacrifici per la ricostruzione nel “dopo- guerra” o se partirà un processo diverso…

 

ILC: Un'altra domanda in merito all'attualità. Avrai senz'altro seguito la rottura del cartello Opec+ e la guerra dei prezzi fra la Russia e l'Arabia Saudita che ne è seguita, apparentemente mitigata dall’accordo raggiunto a metà aprile. Ci esprimiamo qui in modo molto cauto perché la lettura giornalistico-mediatica dei conflitti di geopolitica del petrolio è spesso assai superficiale. Basti ricordare che l'andamento dei prezzi sul mercato spot non concerne la totalità del commercio petrolifero. Resta che con un prezzo medio al barile di 30-35 dollari sul mercato spot, un gran numero (50% secondo alcune stime) di società americane attive nel settore del petrolio di scisto andranno in bancarotta di qui a breve, con il rischio di trascinare con sé – via un aumento dei tassi d'interesse – tutta la schiera di imprese-zombie a stelle e strisce, che sono numerose e indebitate fino al collo (tra grandi società e piccole e medie imprese, parliamo di 15,5 mila miliardi di dollari di debiti). Che la Russia mirasse esplicitamente ad indebolire il settore del petrolio di scisto è assolutamente verosimile, anche in chiave di ritorsione rispetto alle recenti pressioni americane sulla Germania per sabotare il gasdotto Nord Stream 2. Ma la stessa Arabia Saudita, prima dell’accordo, prometteva di utilizzare al massimo le sue capacità di produzione, se non di ampliarle, per inondare il mercato. È ragionevole pensare che l'Arabia Saudita sia diventata così autonoma rispetto ai voleri di Washington, tanto da minacciare la tenuta dell'economia americana?

RS: Mi limito a un inquadramento generale perché la situazione è ovviamente in evoluzione, e la domanda contiene già numerosi e precisi elementi della questione. Il crollo del prezzo del petrolio sotto i trenta dollari al barile a inizio marzo è stato innescato da uno scontro sul lato dell’offerta tra Russia e Arabia Saudita, ma si è poi intrecciato con la diffusione del virus, con conseguenti chiusure e l’inizio della recessione globale, che hanno fatto crollare la domanda e “stabilizzato” il prezzo al ribasso. Che cosa è successo: Riyad ha chiesto a Mosca un “normale” taglio dei barili estratti, come già più volte dal 2016 in poi – allorché si è formato l’Opec+ all’indomani della guerra dei prezzi del 2014-5, anch’essa scatenata dai sauditi supportati da Washington, in funzione anti-russa nel quadro post-crisi ucraina e soprattutto della guerra in Siria, che ha poi provocato l’intervento russo. Le continue richieste saudite di tagli alla produzione, con sostegno ai prezzi, hanno favorito in questi anni gli Stati Uniti che, fuori dall’Opec+, hanno potuto così sostenere la loro produzione shale, che abbisogna causa costi di estrazione di un prezzo di vendita piuttosto alto, e addirittura incrementare le esportazioni (anche di gas liquido, con il quale stanno tentando di inserirsi nel mercato europeo, attraverso il sistema dei rigassificatori, sempre in funzione anti-russa pro “indipendenza energetica” europea, da ridere!, come si vede dalla vicenda North Stream 2 cui accennavate).

Ora, questa volta Putin si è opposto deliberatamente proprio per ridimensionare la quota di mercato Usa attraverso un calo dei prezzi che mette fuori mercato, appunto, una buona parte dello shale. Contando di poter resistere il tempo necessario – grazie alle riserve valutarie e soprattutto in oro accumulate – per vederne almeno un fallimento parziale. Tanto più che in questi anni Washington ha approfittato della situazione, sul versante geopolitico, per menare fendenti contro Venezuela, Iran, Libia, mettendoli fuori gioco anche come concorrenti nel campo dell’energia. Il risultato immediato, effettivamente, è sembrato dar ragione a questo calcolo in quanto la produzione statunitense è immediatamente entrata in crisi, con tutta una serie di fallimenti, chiusure etc. Trump farà di tutto, e non solo o non tanto per ragioni elettorali, per salvare finanziariamente il petrolio da scisto, dato l’intreccio profondo con Wall Street, grazie ai cui finanziamenti speculativi ha fin qui retto. Ma a fronte dell’attuale recessione ciò significa notevoli aiuti statali che vanno ad aggiungersi agli altri enormi interventi anti-recessivi, combinati con le politiche monetarie della Fed (che al momento hanno permesso a Wall Street di recuperare metà delle perdite cumulate tra febbraio e marzo, ma i titoli energetici sono a rischio, la Exxon ha visto calare il rating, tutto il settore energetico è indebitatissimo etc.). Se Putin ha scelto il momento giusto, si tratterà però di vedere se e quanto a lungo la Russia potrà reggere prezzi così bassi senza entrare in crisi economica e sociale interna, tanto più che nel frattempo si sono diffusi globalmente recessione economica e Covid.

Difficile pensare – ad oggi, ancora - una iniziativa direttamente anti-Usa dell'Arabia Saudita, ma ci può stare che nella risposta di Riyad (tagliare i prezzi aumentando la produzione, in un “gioco del pollo” con Mosca) ci sia anche un retropensiero contro lo shale nordamericano. Anche se l’originaria proposta di Riyad era volta, con sacrifici che di nuovo escludevano Washington, principalmente a sostenere i prezzi (il petrolio saudita ha un costo bassissimo di estrazione, ma i sauditi ne dipendono fortemente per le spese statali in continua e incontrollata crescita). È vero, però, che all'Arabia Saudita sta sempre più stretto l'abbraccio del dollaro, basato sulla monocultura petrolifera, e il nuovo principino Bin Salman ha dato, confusamente, segno di voler ristrutturare l’economia saudita in senso meno dipendente dal petrolio e più proiettata verso i mercati asiatici (v. la privatizzazione dell’Aramco, da cui i Saud speravano di incassare risorse per rifinanziare il bilancio pubblico e avviare la ristrutturazione, tra l’altro alquanto boicottata dai capitali occidentali). In queste condizioni il retropensiero saudita anti-shale è inevitabile, perché è chiaro che recessione e calo della domanda acuiranno la concorrenza tra i produttori di idrocarburi e tre big potrebbero essere troppi. La cosa diventerebbe interessante in quanto una rinnovata guerra del petrolio questa volta potrebbe mettere a rischio il petrol-dollaro e contribuire a minare, insieme, l'egemonia Usa e gli equilibri mondiali.

Per intanto, ad aprile si è registrato un tentativo di compromesso sui tagli alle produzioni, che per la prima volta coinvolge seppur in minima misura anche gli Stati Uniti; e, recentemente, il ritiro da parte di Washington di quattro batterie di sistemi anti-balistici Patriot già schierati a difesa dei pozzi sauditi in funzione anti-iraniana. Si tratterà inoltre di vedere in che misura il calo dei prezzi delle materie prime, da sempre trascinato dal mercato petrolifero, avrà ricadute economico-sociali pesanti sui paesi “estrattivisti” del Sud del mondo. Il caos cresce.

 

ILC: Veniamo ai contenuti del tuo libro. Nel tuo libro la questione del capitale fittizio è piuttosto centrale. Per lungo tempo, questo concetto è rimasto per così dire “dormiente”, mentre oggi viene riscoperto anche in ambito accademico. Regna però una certa confusione intorno al suo significato, non estranea ad ambiguità già presenti nei materiali marxiani raccolti nel Libro III de Il Capitale. In un certo filone, la nozione indica l'insieme che della liquidità che può essere mobilitata dalle banche per fungere da capitale-denaro, ed eventualmente essere convertita in capitale industriale. Essa ingloba allora la totalità del capitale finanziario nel senso di azioni o titoli su quote di capitale industriale che sono oggetto di transazione nel processo di circolazione, mentre il loro referente “reale” è in funzione nel processo di produzione. In questo senso, la borsa è “mercato del capitale fittizio” (Hilferding, Il Capitale finanziario), e quest'ultimo diviene quasi sinonimo di capitale potenziale. Vi è poi un'accezione ben più restrittiva, che designa quelle forme di moneta di credito che non corrispondono ad alcun plusvalore prodotto, ma ad un diritto di prelievo sul plusvalore futuro, ad esempio le obbligazioni o i titoli di Stato. Quest'uso della nozione di capitale fittizio è probabilmente più fedele al testo di Marx, ma non è del tutto esente da problemi, non da ultimo il fatto che una parte di esso viene costantemente “reso reale” nella misura in cui questo o quel debitore pubblico o privato non si limita a pagare il servizio del debito, ma estingue (in tutto o in parte) il debito stesso. Complicazione ulteriore, tale estinzione del debito può farsi grazie a quote di plusvalore estratto, ad altro capitale fittizio, o a un misto dei due: pecunia non olet, come si dice. In ultima istanza, però, in una situazione di sovra- indebitamento, una parte del debito complessivo, pubblico e privato, si rivela impossibile da rimborsare e deve essere distrutto (non senza conseguenze sulle quote di capitale industriale tenute in vita da esso): capitale fittizio nel senso di pura carta straccia. Insomma, la faccenda è un po' ingarbugliata. Abbiamo qui almeno tre accezioni differenti della medesima nozione. Come la mettiamo?

RS: In effetti questa categoria rappresenta un po’ l’ossatura, o la filigrana, del mio lavoro sulla crisi globale a misura che – nei limiti della mia comprensione e capacità di “applicazione” all’odierno contesto del capitale – ho cercato di andare oltre il mero livello descrittivo e di cogliere in un nesso unitario, ancorché non indifferenziato, le dimensioni in senso lato finanziarie e quelle dell’economia cosiddetta reale, ovvero della produzione di plusvalore. Con evidente intento polemico, che qui però tralascerei, verso le impostazioni neokeynesiane, comprensive oramai di gran parte del “marxismo” più o meno accademico, che esaltano una presunta economia reale potenzialmente sana di contro alla speculazione finanziaria insana, così come nei confronti delle letture polanyiste (tipiche ad esempio del fu movimento no global e alle quali si riducono le varianti odierne del fu operaismo variamente combinato con il libertarismo di derivazione anglo-sassone). Nel libro il filo argomentativo si dipana passando dalla crisi degli assemblaggi globali vettori dell’imperialismo finanziario del dollaro – se vogliamo usare questa formula – agli smottamenti della riproduzione sistemica capitalistica e ai conseguenti impasse economici, geopolitici, politici. Ad ognuno di questi livelli il nodo del capitale fittizio è cruciale, ovviamente con le dovute mediazioni e, trattandosi di un’analisi di “medio raggio”, senza porlo in primissimo piano.

Prima però di entrare un po’ nel merito della questione, nei limiti consentiti da un’intervista seppur “pesante” come questa, è utile provare a mettere in contesto il ricorso a questa categoria marxiana – dove io ovviamente arrivo dopo tutta una serie di elaborazioni marxiste ben più articolate – collocandolo nel quadro delle sinistre marxiste post-’68. La “categoria” nel senso marxiano della esposizione sistematica delle categorie che ricostruiscono il “concetto generale” di capitale ha infatti una portata storico-ontologica, non meramente metodologica, dunque è anche possibile e necessario chiedersi in quale determinata congiuntura il “capitale fittizio” emerge come una potente chiave di lettura della dinamica del capitalismo. È la congiuntura oggetto del bilancio che il residuo movimento di classe prova a fare degli esiti del lungo Sessantotto. Ora, è evidente che la crisi capitalistica degli anni Settanta è stata l’innesco potente, allora difficilmente intuibile nella sua effettiva portata, di quel processo di globalizzazione finanziaria, discusso sopra, che ha trasformato a fondo il rapporto di capitale nella direzione di una sua “totalizzazione”, combinata e diseguale, a scala mondiale e di una ristrutturazione profonda dei rapporti di classe con la sussunzione crescente non solo del lavoro, ma dell’insieme delle condizioni di vita al meccanismo onnipervasivo della forma valore. Sul versante della teoria marxista legata alle sinistre comuniste storiche, consiliarista o bordighista, si era iniziato a fare i conti con questi sviluppi già prima del ’68, basta pensare alla nozione debordiana di Spettacolo o al capitale comunità materiale di Camatte – ma bisognerebbe ricordare anche i francofortesi, ancorché a livello di riflessione solamente filosofica – ancor sempre nel quadro dell’attesa per una ripresa del movimento di classe. Questa si è poi data ma con dinamiche ed esiti inaspettati che hanno letteralmente mandato gambe all’aria quelle attese ancora tutte incentrate, per dirlo in una battuta, sul rilancio dell’autonomia di classe, e costretto a un profondo lavoro, appunto, di bilancio. Nel corso dei decenni successivi si è tentato da questo versante, in un contesto politico di frantumazione delle reti precedenti con conseguente estremo isolamento, di dar conto della “strana” sconfitta del proletariato, battuto non tanto e solo sul terreno dello scontro, comunque mai pervenuto al livello della lotta per il potere, quanto oggetto di una scomposizione, materiale e politica, nel mentre il capitale riusciva a rilanciare l’accumulazione anche riprendendo e invertendo il segno di alcune delle rivendicazioni e aspettative dei movimenti, spesso filtrate attraverso i ceti medi salariati trascinati in Occidente nel turbinio della “contestazione”, nonché delle istanze anti-coloniali. Su questo sfondo a venire in primo piano è allora la riproduzione complessiva, il capitale sociale totale nell’intreccio complesso dei suoi circuiti, tra produzione circolazione e sfera del credito: il passaggio per così dire dal Primo al Terzo Volume del Capitale marxiano, ora realizzato in re, già oggetto peraltro dei primi abbozzi di periodizzazione del capitalismo (passaggio al dominio reale del capitale etc.) ben al di là di quelle classiche del marxismo secondo- e terzinternazionalista. Credo sia questa la scaturigine reale del cambio di passo operato da letture anche molto diverse elaborate nel clima post-anni Settanta: dalla Wertkritik di area tedesca, che va dalla sinistra francofortese a Postone e al gruppo Krisis, alla critica radicale francese che sta all’origine dell’approccio della comunizzazione, a compagni isolati come Loren Goldner negli Stati Uniti (al quale ultimo mi sono direttamente ricollegato, peraltro). L’esorbitante processo di finanziarizzazione nel cosiddetto neoliberismo ha infine dato il la alla ripresa e rielaborazione della categoria marxiana di capitale fittizio, che in Marx ovviamente è a livello di abbozzo non sistematizzato. Certo, portare la critica dell’economia politica all’altezza dello sviluppo effettivo capitalistico degli ultimi decenni, tanto più nell’isolamento pressoché completo della teoria comunista rispetto al movimento reale, non poteva che comportare tutta una serie di limiti e, soprattutto, il rischio di sciogliere il nesso tra capitale nel suo farsi totale e permanenza del conflitto di classe: perdendo il quale inevitabilmente si tende a ricadere in visioni totalizzanti del dominio capitalistico, alla francofortese, e/o in critiche di stampo giovane-hegeliano. Ma questo è un altro discorso.

Veniamo a noi. Quello che mi interessava mettere in luce, nella ripresa di questo filo tortuoso della teoria marxista, è che il capitale fittizio non va considerato come un’escrescenza dello sviluppo capitalistico attuale né una forma limitata del sistema del credito, ma per così dire costituisce l’ambiente economico e sociale in cui oramai si dà quello sviluppo. Senza entrare nel merito di un’analisi marxologica del termine – che pure sarebbe indispensabile per un’analisi approfondita – esso rimanda in generale all’idea di una massa di capitale, denominata in titoli di credito di svariata natura, che esige la propria valorizzazione da una base produttiva che costitutivamente non riesce più a produrre plusvalore in quantità sufficiente a soddisfarla. Non si tratta semplicemente di capitale monetario – necessario questo a fluidificare la circolazione complessiva del capitale e a espandere attraverso i processi di centralizzazione la spirale di un’accumulazione altrimenti troppo lenta – che per così dire ha mancato l’incontro con la valorizzazione reale, perché in questo caso la svalorizzazione è pressoché immediata (anche se, giustamente, pecunia non olet, spesso e volentieri le due forme sono indistinguibili). Il capitale fittizio, divenuto il perno del sistema creditizio, è caratterizzato dal fatto che il divario tra il suo prezzo capitalizzato e il valore sottostante insufficiente, complessivamente inteso, non si chiude per tutto un ciclo di accumulazione, rappresentandone anzi il suo motore principale. In questo senso è l’indice di una fase del capitale, se vogliamo, lo Spettacolo spiegato nei termini della critica dell’economia politica o, più concretamente, l’attuale configurazione dell’imperialismo come sistema mondiale.

In questa lettura il punto qualificante, di cui va dato atto a Loren Goldner, è che la radice del capitale fittizio non risiede in ultima istanza nella creazione di moneta dal nulla ma sta dentro il meccanismo “normale” della valorizzazione immediata. Si può discutere se gli elementi che lui individua siano corretti o i soli: la tecnosvalorizzazione del capitale fisso a seguito degli aumenti di produttività e il peso crescente della produzione per il consumo improduttivo che pesa sempre più sull’accumulazione reale, processi che lasciano permanere la duplicazione di quei capitali nella forma di titoli di credito sulla ricchezza futura. È evidente poi che, a partire da questa scaturigine nella produzione, si crea un vero e proprio circuito autonomo del capitale fittizio – che, come afferma Marx, tende a muoversi secondo una dinamica propria – allorché quei titoli di credito diventano un nuovo tipo di merce dal prezzo del tutto svincolato dal capitale che originariamente rappresentavano (per i titoli del debito statale il legame è ancora più indiretto); un circuito che si amplifica quando essi vengono utilizzati per la creazione di nuovi mezzi finanziari con un effetto moltiplicatore che gonfia all’infinito il capitale fittizio in circolazione. Di qui l’autorappresentazione feticistica, che abbaglia “spontaneamente” niente affatto solo i borghesi, del capitale come D-D’ (e la sua immagine speculare nelle richieste di “regolazione” che scattano a fronte dei contraccolpi socialmente rovinosi del gonfiamento delle “bolle”).

Resta che l’assunto di fondo sulla radice del fenomeno è indispensabile. Indispensabile non solo, in generale, se si vuole evitare di ricorrere come causa della crisi alla follia finanziaria, di modo che ridotta questa alla ragione tutto tornerebbe nella normalità, ma anche per non fermarsi nella spiegazione della crisi capitalistica al piano astratto della caduta del saggio di profitto, tendenza reale ma appunto generale, che non spiega di per sé tempistica e meccanismi concreti dell’innesco delle crisi in quanto articolate al sistema creditizio (oltretutto quando si perviene al piano concreto della concorrenza questo tipo di analisi sembra rimandare alla decisione dei capitalisti il dirottamento degli investimenti nella sfera dei titoli di credito a fronte di una profittabilità in calo degli investimenti produttivi: ma quale è il tasso effettivo oltre il quale avviene quella diversione degli investimenti?).

Con questo, è vero, non siamo che all’impostazione generale. In mancanza, è inutile nasconderlo, di una sistematizzazione della questione in un tutto organico che fin qui nessuno è stato in grado di portare a termine in maniera convincente, quello che si può fare è tentare di esplicitarne i presupposti e le implicazioni. Provo qui a sintetizzarli. Innanzitutto, come accennavo, la categoria di capitale fittizio richiede di assumere il punto di vista del capitale sociale complessivo. Non si tratta di annacquare la produzione immediata di plusvalore basata sullo sfruttamento della forza-lavoro, che resta il cardine del MPC, ma di leggerla nella prospettiva della sua riproduzione allargata come sistema sociale (non “pianificato” se non ex post attraverso violente crisi). È a questa stregua, nella tendenza interminabile alla formazione del mercato mondiale e a un saggio medio del profitto, che il capitale diviene partecipazione pro rata, ovviamente competitiva, al plusvalore complessivo prodotto, non una semplice somma di capitali individuali ma un monopolio di classe. In secondo luogo, si tratta di andare oltre il sistema “chiuso” capitalisti-operai del Primo Volume, considerando il “sistema aperto” del capitalismo reale che capta valore a scala mondiale attraverso forme di saccheggio di risorse umane e naturali senza scambio di equivalenti, complementari al “normale” sfruttamento diretto, proprio attraverso il sistema del credito che pur non creando il capitale fittizio lo fa circolare a scala sempre più ampia e permette ed esige al tempo stesso quel prelievo per insufflare valore nella “bolla”. Di qui l’accresciuta pressione verso la proletarizzazione di crescenti masse umane riducendone il valore della forza lavoro al di sotto delle esigenze della riproduzione, le cosiddette esternalità negative rovesciate sull’ambiente – sulle quali negli ultimi anni si è giustamente fermata, al di là dei molti limiti, l’attenzione di un certo eco-marxismo (Jason Moore, ad esempio) – l’utilizzo degli impianti e delle infrastrutture ben oltre i tempi di ammortamento etc., a cui andrebbero oggi aggiunte le nuove enclosures degli spazi digitali e le molteplici forme del micro-credito.

In terzo luogo: proprio perché il capitalismo costituisce non semplicemente un sistema economico di produzione, ma un sistema di riproduzione complessivo, il capitale fittizio gli è oramai consustanziale in quanto punto (instabile) di equilibrio tra le esigenze di autoespansione del capitale e il circuito produttivo all’altezza di uno sviluppo improntato ad un altissimo livello di produttività del lavoro sociale. Infatti, non è solo che il capitale fittizio opera un prelievo, crescente, sulla produzione reale di valore; di ritorno, esso è sempre più strettamente intrecciato con il capitale produttivo, delle cui sezioni più concentrate permette la tenuta anche in presenza di un calo dei profitti non finanziari, attraverso la capacità di captare valore a scala mondiale e sottomettere a espropriazione la più ampia sfera della riproduzione sociale e delle attività solo formalmente sottomesse alla relazione salariale. Ciò non vale solo per le multinazionali, che spesso e volentieri realizzano più profitti con gli investimenti finanziari di quanti ne facciano con la vendita della produzione. In Occidente anche numerose piccole imprese, per non parlare dei risparmiatori di “ceto medio” con qualche addentellato anche in settori proletari, destinano all’impiego finanziario buona parte dei profitti realizzati o dei propri redditi, acquisendo così il diritto di prelievo su una quota del plusvalore prodotto mondialmente e raccolto dal sistema internazionale creditizio, lo stesso sistema che impacchettava crediti sostenuti da una base reale con crediti tossici e dal calderone tirava fuori utili per tutti gli investitori fino allo scoppio della bolla subprime.

Questa illusione di arricchimento virtuale si è tradotta nella tenuta (se non aumento) degli acquisti sia dei beni riproduttivi che della pletora di beni superflui. La tenuta dei livelli di produzione, ma nei decenni del neoliberismo ascendente si è trattato di un vero aumento, sono dunque resi possibili proprio dal gonfiamento dei valori patrimoniali (immobili e mobili) trascinati su dal vortice del valore delle attività finanziarie. Si potrebbe continuare, per esempio a riguardo delle forme di credito al consumo. L’elemento cruciale è qui che sulla base di tali intrecci il capitale fittizio non solo è spesso difficilmente distinguibile dal capitale monetario da anticipare per investimenti produttivi, ma si scambia in continuazione con capitale produttivo maledettamente reale trascinandolo spesso e volentieri nel caos della svalorizzazione e dunque dell’arresto generale della produzione.

Quarto: come già accennato nel punto precedente, la crescita del capitale fittizio non ha solo consentito di tenere in vita il rapporto del capitale, rimandando l’esplosione delle sue contraddizioni, è servito a conservare i rapporti di dominio di classe. È servito infatti a tenere legati alle sorti del capitale gli strati superiori del “lavoratore collettivo” e semi-classi dedite ad attività parassitarie; ed è servito anche per fagocitare nel meccanismo una buona parte del proletariato occidentale, trascinato al casinò nell’illusione di liberarsi dalla schiavitù del lavoro dipendente, o in quella più terra-terra di integrare i magri guadagni da lavoro, per finanziarsi la rendita pensionistica, l’assistenza sanitaria, l’acquisto della casa, gli studi dei figli. Non è un caso se nei dieci anni della crisi globale trascorsi fin qui, tra i lavoratori che avevano cominciato a integrare il salario con la finanza le agitazioni sono state contenute, quasi paralizzate dal desiderio di vedere ripartire il meccanismo nella speranza di non vedere svalorizzati anche i loro (scarsi) assets. Su questo piano il discorso sarebbe lungo: possiamo però sicuramente dire che è l’intera composizione del proletariato metropolitano e dei ceti medi salariati e non, ma anche delle masse lavoratrici e piccolo-borghesi dei paesi non imperialisti, ad essere uscita radicalmente trasformata. Con ricadute importanti sulla soggettività e sulla dimensione sindacale e politica.

Questo insieme di processi sta dunque alla radice della cosiddetta finanziarizzazione e poi della sua crisi. Crisi scatenata dall’espulsione crescente di capitale dal circuito produttivo – non in prima istanza per moltiplicazione di denaro creato dal nulla ma per una dinamica interna al modo di funzionare del capitalismo nella sussunzione reale, espressione dell’accresciuta produttività del lavoro capitalisticamente socializzato e al tempo stesso dell’impossibilità di realizzare socialmente questi incrementi. Ciò grava su una base reale ridimensionata e, più in generale, su di una riproduzione sociale di cui è impedito l’ampliamento nei suoi elementi costitutivi materiali, dalla forza-lavoro alle condizioni naturali, al sapere accumulato dalla specie umana etc. Ad un certo punto – che non può essere determinato astrattamente dagli indici della caduta del saggio di profitto quasi si trattasse di un sistema chiuso con soli operai e capitalisti – scatta la soglia oltre la quale la contrazione, il non rinnovo della riproduzione sociale materiale diviene da un lato un ostacolo formidabile per l’accumulazione (anche se sarebbe scorretto parlare di ostacoli assoluti), produce dall’altro situazioni che gettano nel caos, sociale e politico, il sistema. Il limite di questa sovraccumulazione – non c’è poco capitale, né il problema è in primis la sua realizzazione o il sottoconsumo da domanda insufficiente, bensì c’è troppo capitale per un plusvalore sempre più scarso relativamente ad esso – è elastico, si dà sul piano storico-empirico non determinabile teoricamente; ma i sintomi sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Per chiudere su questo punto, la risposta è già lunga, vale la pena sottolineare che questa interpretazione della crisi, alla luce di una ben determinata periodizzazione del corso complessivo del capitalismo, permette di inquadrare, in termini generali, sia le sue forme fenomeniche, cioè la svalorizzazione dei titoli cartacei e la cosiddetta deflazione da debito, sia le resistenze a questa svalutazione da parte delle élite globali se non nella misura minima indispensabile a evitare un crash generale e comunque trasferendo i costi in ultima istanza sulle classi lavoratrici. È un nodo, questo, su cui c’è da lavorare perché ciò che arrovella la borghesia è da un lato che una svalorizzazione significativa degli assets finanziari è necessaria e, dall'altro, il terrore che se parziale potrebbe non essere sufficiente a bloccare il corso della crisi trascinando oltretutto nel vortice, per gli intrecci di cui sopra, pezzi cospicui di capitale produttivo, circuiti di consumo etc. Ovviamente, l’analisi deve farsi a questo punto puntuale, entrare nel merito della configurazione concreta del sistema mondiale dell’imperialismo, individuare gli attori principali e le loro strategie etc. Nel libro ho provato a farlo, ma è solo un aspetto, quanto alle strategie di Quantitative Easing e allo scontro tra le due sponde dell’Atlantico (eurocrisi) a partire da due distinte modalità di affrontare il problema. Quella statunitense fondata essenzialmente sulla creazione di nuova moneta, che fa leva sulla capacità del dollaro e dell’apparato finanziario-militare di scaricare sul resto del mondo i costi delle operazioni di salvataggio degli assets finanziari. E quella europea, o meglio tedesca, che ha cercato in linea di massima di evitare la creazione di nuovo capitale fittizio consolidando una parte di quello esistente con il trasferimento delle perdite delle banche sui debiti pubblici, nella speranza di mettersi al riparo dalla speculazione internazionale. A parte la necessità di fare il punto sulla Cina, che ha visto in questi dieci anni crescere in modo ingente l’indebitamento complessivo, l’analisi va ovviamente aggiornata ai recenti sviluppi, come accennavo nelle risposte precedenti.

Il punto, dietro queste strategie, è la necessità per il capitale di incrementare la produzione di plusvalore, per alimentare il moloch di capitale fittizio con una quota maggiore di valore reale. Ma anche, in astratto, l’instaurazione di un nuovo equilibrio tra capitale accumulato e base produttiva, tenuto conto che il limite all’aumento del tasso di plusvalore è che esso non può essere mai più che una parte del tutto. E la parte frazionaria della giornata lavorativa che va al lavoro necessario alla riproduzione della vita del lavoratore è già divenuta minima. Per diminuirla sensibilmente ci vorrebbe un aumento inaudito della potenza produttiva, con tutte le contraddizioni che ciò comporterebbe, oppure una riduzione dei costi di riproduzione della forza-lavoro quasi a zero. Il problema, peraltro, si era manifestato già negli anni ’70, e allora una soluzione fu trovata con la globalizzazione, le delocalizzazioni e l’apertura della Cina, con effetti di ritorno sulla condizione della forza-lavoro occidentale sia con la fornitura di tutta una serie di beni riproduttivi a prezzo ridotto che ne ha abbassato il valore sia per la pressione sulla competizione interna alla classe operaia mondiale. Per le ragioni che abbiamo visto, oggi questo diventa più complicato, l’incremento della produzione del plusvalore non è per nulla facile. Ne consegue che si fa strada inevitabilmente l’altra alternativa: la svalorizzazione del capitale fittizio accumulato. Per ora, questo processo è consistito nei molteplici tentativi di lasciare gli avversari col cerino acceso. Non è detto che ciò basti, e allora tornerebbe all’ordine del giorno la necessità di qualcosa di più di una semplice svalorizzazione, una vera e propria distruzione fisica del capitale esistente in tutte le sue componenti. A quel punto la tendenza alla guerra generale si imporrebbe, ovviamente senza che ciò significhi che una tale distruzione possa essere programmata e decisa a tavolino; come nei cicli precedenti, la guerra sarebbe la conclusione di un processo anche lungo di scontro tra i diversi soggetti, statali e non. La quantità e vastità dei conflitti attualmente in corso apparirebbe allora sotto un’altra luce. Con ciò, e chiudo, lungi da me l’idea che tutti i problemi teorici sarebbe risolti con il giusto “utilizzo” della categoria del capitale fittizio. Restano nodi aperti, in particolare a riguardo di possibilità e modi di una ristrutturazione complessiva del rapporto di classe come fuoriuscita dalla crisi, e possibili fraintendimenti, quali la negazione della possibilità di una ripresa economica in assoluto o la rappresentazione di un declino inarrestabile, quasi in termini naturalistici, del MPC. Sarà il caos, per salti, ma pur sempre un caos definito dallo scontro tra classi e prospettive sociali. Senza che si possa escludere la comune rovina delle classi in lotta.

 

ILC: Nel tuo libro poni anche una certa enfasi sul concetto di imperialismo e sulla disgrazia in cui è caduto. A nostro avviso, ci sono delle buone ragioni per questa reticenza, non da ultimo il fatto che sia stato utilizzato per definire tutto e il contrario di tutto, e talvolta per legittimare delle colossali porcherie. Ciononostante, la questione della sua ripresa e rielaborazione deve essere posta. Vale qui la pena ricordare che nell'opuscolo L'imperialismo fase suprema del capitalismo, Lenin teorizzava l'ingresso in una nuova fase dello sviluppo capitalistico, sostanzialmente caratterizzata dalla fusione del capitale industriale con il capitale bancario, e dal predominio di monopoli e trust. L’attualità di questa teorizzazione dipende dall'attualità dei fenomeni di cui intendeva rendere conto, la quale deve essere empiricamente verificata. Qual è, ad esempio, la situazione degli oligopoli odierni? Qual è la loro capacità (sempre e comunque relativa) di sottrarsi alla concorrenza o, detto in termini marxiani, di sfuggire alla perequazione generale del saggio di profitto? Questo è un primo problema. Per amor di verità, va detto poi che il pamphlet di Lenin non delineava una concezione particolare del rapporto fra paesi capitalistici centrali e paesi periferici – se non dal punto di vista dell'esportazione di capitali e del colonialismo (un dato piuttosto fattuale) – né formulava una contrapposizione tra un campo imperialista ed uno non-imperialista. La stessa teoria dell'aristocrazia operaia – comunque da rivedere a nostro avviso (i monopoli non redistribuiscono spontaneamente i loro sovrapprofitti; e i prezzi elevati che discendono dal loro dominio è tutto fuorché favorevole per le tasche dei salariati dei paesi centrali) – non postula che gli operai dei paesi centrali partecipino allo sfruttamento di quelli dei paesi periferici o semi-periferici, come affermerà invece Arghiri Emmanuel alla fine degli anni 1960, con una teoria assurda tanto nei presupposti quanto nelle conclusioni (per riassumere, i paesi vi figurano come branche della produzione). Infine, nella fase suprema di Lenin riecheggia la fase più recente che figura nel sottotitolo de Il capitale finanziario di Hilferding, opera che assieme a L'imperialismo di Hobson fu la sua principale fonte d'ispirazione. Da questi pochi cenni, si potrebbe desumere la visione seguente: imperialismo in primo luogo come “nuova epoca di guerra e rivoluzione” non necessariamente suprema, nel senso di ultima, ma che segna comunque una discontinuità nella misura in cui, in essa, lo scontro inter-capitalistico non è più risolvibile in maniera “puramente” economica o attraverso conflitti periferici e, allo stesso tempo, la questione del comunismo torna all'ordine del giorno nelle aree centrali dell'accumulazione. Imperialismo, dunque, come fase – non unica, ma periodicamente ricorrente – in cui prevale la “tendenza alla guerra universale” (Giovanni Arrighi, Geometria dell'imperialismo) e di conseguenza alla frammentazione del mercato mondiale, in opposizione a periodi in cui prevale la tendenza opposta, quella alla “convivenza pacifica” fra i principali poli capitalistici e all'unificazione del mercato mondiale. In questo senso, si sarebbe tentati di intendere il 2008 – l'anno della crisi mondiale, ma anche del conflitto in Georgia, primo segnale della riscossa russa sul piano geopolitico – come lo spartiacque fra il momento unipolare americano (= unificazione del mercato mondiale) e il progressivo riaffiorare della contesa geostrategica (= frammentazione del mercato mondiale). Sei d'accordo? Ti soddisfa questa declinazione del concetto di imperialismo?

RS: È sicuramente un aspetto della questione ma, appunto, solo un aspetto. Il ripresentarsi della tendenza alla contesa imperialistica aperta, in prospettiva anche sul terreno militare, si dà oggi in uno scenario assai differente da quello tratteggiato da Lenin e dal ricco dibattito del marxismo dell’epoca, ancora caratterizzato dalla limitatezza relativa della diffusione del MPC a scala mondiale. Provare a inquadrarlo all’oggi, tra invarianze e discontinuità, è indispensabile non solo per un’analisi della “fase”, ma per evitare letture economiciste e/o lineari rispetto alle dinamiche inter-capitalistiche e della lotta di classe, punto politico, questo, molto delicato. La situazione è per certi versi inedita: anche solo alla scala delle relazioni tra stati vediamo, a dirla grossolanamente, una sorta di “superimperialismo” (non à la Kautsky, sia chiaro), gli Stati Uniti, interconnesso economicamente con imperialismi a sovranità dimidiata in Europa occidentale – dopo un passaggio di egemonia Gran Bretagna-USA senza un diretto confronto militare che segna la fine del “vecchio colonialismo” – che si confrontano con due formazioni come Cina e Russia di capitalismo “in recupero”, concorrenziali ma non antagonistiche all’Occidente, e sullo sfondo vaste aree periferiche “dipendenti”, socializzate ai meccanismi centrali della produzione e della finanza, che vedono stati “canaglia”, stati subordinati all’Occidente, magari con qualche velleità di gioco in proprio a scala regionale, e stati “falliti” (la terminologia yankee è pari alla creatività della sua industria dell’intrattenimento). Qui posso solo abbozzare un ragionamento in grado di rinvenire un filo unitario a fronte di tale complessità. Che, a livello teorico, non può prescindere dai nodi che abbiamo discusso nella domanda precedente sul capitale fittizio, portandoci però più vicini, in termini marxiani, ai livelli concreti della concorrenza tra i molti capitali, e dunque all’analisi della logica specifica dell’oggetto specifico.

Mi sembra che si possa e si debba utilizzare il termine imperialismo almeno in tre accezioni importanti. Primo, l’imperialismo come stadio irreversibile di sviluppo del MPC, giusta Lenin, caratterizzato dall’estrema centralizzazione dei capitali e dal monopolio di classe – sempre più impersonale, giusta il Bordiga di Proprietà e capitale – sulle forze produttive sociali, che non cessano affatto di crescere seppur con modalità sempre più catastrofiche. È la reazione alla tendenza alla crisi insita nel capitale, che non delinea di per sé alcuna lineare decadenza, ma anzi conserva possibilità di relativo ringiovanimento attraverso la ristrutturazione del rapporto di classe e della divisione internazionale del lavoro ma, attenzione, a costi sociali e naturali crescenti e non senza passare attraverso caos, guerre e possibili rivoluzioni. Secondo, l’imperialismo come sistema mondiale combinato e diseguale: dove lo sviluppo ineguale si dà non solo a scala nazionale ma, appunto, a scala internazionale andando a configurare una divisione, non statica ma relativamente persistente una volta cristallizzatasi, tra paesi e stati imperialisti e aree e stati che non sono riusciti a far parte del pugno di potenze imperialiste di leniniana memoria. Il punto importante è che la peculiare mondializzazione odierna conferma, e non smentisce, la natura del capitale come rapporto sociale che può esistere solo con una forte polarizzazione, di classe e geoeconomica, della ricchezza prodotta con lo sfruttamento della forza-lavoro umana e dell’ambiente naturale, senza alcuna possibilità di capitali alla pari. Terzo, la tendenza alla contesa anche armata inter- imperialistica, che solleva però il problema di come ciò si intrecci concretamente con i conflitti inter- capitalistici nelle aree non centrali e, in particolare, con le spinte antimperialiste di soggetti borghesi nazionali che qui possono darsi (sul problema politicamente delicato del rapporto di questo antimperialismo borghese con l’anticapitalismo ritorno dopo).

Quindi, se l’imperialismo è mondiale, non è né unitario né omogeneo, differenziandosi tra un gruppo ristretto di soggetti (al plurale) imperialisti e soggetti che pur rientrando nel quadro delle relazioni capitalistiche non sono, non possono essere imperialisti e a volte si configurano come antimperialisti (borghesi), con tutte le gradazioni del caso, relative ai fattori di potenza per come si sono sviluppati nel corso storico. Ciò non è in contraddizione, ma va insieme con il fatto che il rapporto di capitale ha esteso di molto il suo raggio di azione quanto a spazio geografico e intensità, senza tuttavia mutare il dato di fondo della concentrazione del plusvalore estratto in un gruppo sempre più ristretto di paesi e attori economici – questi ultimi ovviamente mutati rispetto alle fasi precedenti ma perfino più centralizzati di prima (v. l’industria dell’informatica dominata da poche potenti corporations a stelle e strisce). Di conseguenza, ed è una conseguenza non da poco, pur nel quadro dell’affermazione globale del MPC non abbiamo né avremo mai un proletariato mondialmente reso omogeneo sotto un comando unico del capitalismo con la scomparsa di ogni problema di sviluppo ineguale, anche di carattere nazionale. Questo pone almeno tre ordini di problemi “nuovi”: collocazione e ruolo dell’egemone mondiale; portata e conseguenze dell’ascesa della Cina capitalistica; ruolo delle masse del Sud del mondo e natura della rivendicazione democratica.

Primo. Con il passaggio alla sussunzione reale e al salto tecnologico della produzione che si è avuto con il pieno dispiegamento dell’imperialismo mondiale tra le due guerre e poi con l’affermarsi dell’egemonia statunitense nel secondo dopoguerra, si è data la piena generalizzazione dei valori fittizi, dapprima riprodotti coi meccanismi inflattivi del regime di Bretton Woods, e poi esplosi a seguito della sua fine negli anni Settanta. Da allora una massa crescente di titoli denominati in dollari senza corrispettivo reale adeguato vaga in cerca di valorizzazione scambiandosi con i surplus commerciali globali o risucchiando dai paesi subordinati masse di capitale attraverso il sistema dei prestiti internazionali e del debito pubblico. Gli stati, sempre più capitalistizzati, e le banche centrali dei paesi imperialisti hanno assunto il ruolo di garantire questa circolazione – e di preservare il valore dei titoli cartacei in caso di crisi impedendo la deflazione generalizzata – attraverso il trasferimento continuo di risorse prelevate dalla forza lavoro globale e dai paesi periferici. Qui si colloca il ruolo finanziario peculiare e cruciale degli Stati Uniti, altra faccia del loro dominio geopolitico, come garanti e insieme massimi estorsori del sistema globale grazie al finanziamento garantito dal deficit della propria bilancia dei pagamenti. Di qui la corrispondente spinta alla globalizzazione, che ha aperto alle scorrerie del capitale fittizio sia le catene del lavoro fattesi globali sia le risorse umane e naturali negli spazi non ancora sussunti, e mai completamente sussumibili, alla produzione capitalistica avanzata. Gli Stati Uniti occupano dunque un ruolo centrale avendo in mano le leve della finanza e della moneta mondiale oltreché un dispositivo militare capace di una proiezione globale. E il nesso tra dominio del dollaro e strategie statunitensi è la chiave di volta della geopolitica mondiale.

Dunque, come aveva già ben visto Bordiga all’indomani del secondo conflitto mondiale – parlando di colonialismo termonucleare – l’egemonia Usa è qualitativamente differente dalle egemonie precedenti che avevano sempre visto sorgere rivali imperialisti potenzialmente in grado di sostituirli. L’imperialismo finanziario del dollaro, pur in difficoltà, sembra aver incrinato seriamente questa dinamica, non nel senso che non si danno e daranno contrasti sempre più forti nella competizione mondiale, ma nel senso che non si vede sul breve-medio termine un possibile egemone alternativo, in grado di tenere insieme un meccanismo così complesso e intrecciato – anomalia constatata dal resto anche dall’ultimo Arrighi. La crisi dell’egemonia a stelle e strisce in questo modo si configura come rischio di disconnessione dell’intero sistema capitalistico mondiale, contro quelle che nel libro ho chiamato fascinazioni multipolariste. Una relativa novità, questa, che apre tutta una serie di domande sia sulla possibile dinamica inter-imperialistica – è pensabile, ad esempio, che la Germania si svincoli dall’atlantismo e a quali condizioni ciò si darebbe? – sia su quella tra imperialismo e resto del mondo, in particolare la Cina. Ma apre anche interrogativi sulla correlazione di forze più favorevole alle sorti di un possibile processo rivoluzionario, che evidentemente necessita, su tutto, di una messa in crisi dall’interno e dall’esterno della potenza Usa, come intravisto dal Bordiga che polemizza con le fascinazioni bipolari degli internazionalisti puristi. Sono tutti fattori in certa misura inediti, che non si possono affrontare esclusivamente con le armi della teoria leniniana, o luxemburghiana, dell’imperialismo.

Secondo: la Cina. Diamo per scontata qui la sua natura capitalistica, come ben sanno del resto i borghesi seri. Ma con questo non è ancora detto tutto. Essenziale è che la sua “transizione” al capitalismo – sull’onda di una rivoluzione contadina democratica e antimperialista e grazie alla trasformazione di centinaia di milioni di contadini in proletari che oggi producono per il mercato mondiale – se da un lato non ha reso possibile, per il “ritardo” storico e i limiti di fondo della sua formazione economico-sociale, l’accesso al club imperialista, dall’altro ha prodotto un’anomalia che fa della Cina un caso a parte rispetto al classico rapporto di dipendenza “neocoloniale”. Per due ragioni fondamentali: la presenza di un proletariato enorme e disciplinato e di uno Stato sufficientemente stabile per fornire l’ambiente adeguato alle delocalizzazioni post-‘79; e, condizione di ciò, una dialettica democratica sostanziale tra classi lavoratrici e Stato, tra mobilitazioni e sviluppo capitalistico, con ricadute in termini di un patto sociale di tipo quasi socialdemocratico. In questo quadro, se la parte decisiva del plusvalore estratto ritorna nelle metropoli occidentali, il residuo di profitti che rimane in Cina, percentualmente bassissimo, ma di massa comunque considerevole, ha non solo favorito la formazione di una borghesia interna, ma viene in parte significativa centralizzato nello Stato, che non è un semplice comitato eterodiretto dalle metropoli imperialiste, ma persegue un progetto di sviluppo del capitalismo nazionale. A differenza di molti altri tentativi nati dalla de-colonizzazione, quello cinese per fattori storici di classe e dimensioni territoriali non ha fatto la fine di tutti gli altri (de-colonizzazione dell’America Latina, nazionalismo arabo, pan-africanismo), maciullati dalla propria incoerenza, dall’isolamento internazionale e dalla reazione imperialista. La Cina sta utilizzando il suo surplus per costruire una rete di affari parallela a quella principale con l’Occidente, sfruttandone le difficoltà e facendo così da sponda in Africa, America Latina, centro e sud-est asiatico, a politiche economiche e finanziarie un minimo più autonome dai centri imperialisti.

Ora, ben lungi dall’essere una dittatura ferocemente repressiva, come nel mainstream occidentale anche di sinistra, lo Stato cinese – non per natura, ma per la dialettica di potenti forze sociali, interne e esterne – è fin qui riuscito a preservare la base del patto sociale: il connubio tra sviluppo delle forze produttive e diffusione di (relativo) benessere (differenziato) a tutte le classi. Ovviamente, l’ascesa sociale non si è data semplicemente dall’alto, ma grazie a una mobilitazione costante di proletari e contadini, nei canali ufficiali, Stato e partito, e, quando necessario, nei canali non-ufficiali degli incidenti di massa che, anche quando repressi, hanno sempre dato vita a una risposta dialettica da parte di Stato e partito. Questo compromesso sociale è il fattore fondamentale che ha garantito la stabilità interna. E qui iniziano i problemi. I miglioramenti ottenuti non sono certo dovuti a migliori condizioni ottenute dalla Cina dai committenti internazionali. Anzi, in risposta alla crisi del 2008 lo Stato è dovuto ricorrere a un crescente indebitamento interno, fattore altamente rischioso (come si già visto nella mini-crisi del 2015-16), senza peraltro ottenere nulla in cambio da parte dell’Occidente se non… la guerra dei dazi di Trump e le accuse di aver causato la pandemia attuale. Per la Cina è, dunque, essenziale riscattarsi dalla condizione attuale di officina per il mondo occidentale e riuscire a captare una quota maggiore del plusvalore mondiale risalendo la catena del valore. Non per provocare un generale rivolgimento del mercato mondiale, ma per passare dalla sua attuale situazione periferica almeno a una posizione semiperiferica, perché ne va della sua stabilità e, in ultima istanza, della sua stessa tenuta come Stato unitario.

Non è questo il luogo per analizzare le leve utilizzate da Pechino a questo fine: creare marchi propri; sviluppare un proprio settore di produzione di macchinari industriali e di tecnologia; estendere il mercato dei propri prodotti, di consumo e di investimento, raggiungendo zone periferiche del mercato mondiale (Nuove Vie della Seta). Il punto è che questi tentativi innalzano il livello del conflitto tra imperialismo e Cina. Anche la politica dei “piccoli passi” corrode la base materiale del comando imperialista sul valore globale, a maggior ragione in un momento come l’attuale, in cui la crisi generale rende più acuto lo scontro. L’alternativa di fondo è dunque se la Cina potrà dedicare le sue risorse allo “sviluppo interno” o dovrà, per amore o per forza, bruciarle sui mercati internazionali per contribuire ad evitare una eccessiva svalorizzazione del capitale fittizio (altrui per la stragrande parte). Il fatto è che la Cina non può isolarsi come nell’epoca maoista e anche un'ipotesi di "regionalizzazione" non potrà mai arrivare a costituire regioni rigidamente separate le une dalle altre, ma al massimo creare dei blocchi in competizione per conquistare le posizioni migliori sul mercato mondiale, nella prospettiva di uno scontro militare generale.

Tutto ciò ha importantissime ricadute sui rapporti di classe. Su questo piano la dinamica, per le ragioni viste, non è semplicemente a due, proletariato contro Stato e borghesia, ma – anche a prescindere dalla collocazione di contadini e ceti medi urbani – almeno a tre, a causa dell’inaggirabile presenza e pressione imperialista esterna. Il che esclude molto probabilmente (anche se non del tutto) che uno sviluppo della lotta di classe dei proletari cinesi possa esitare immediatamente una sollevazione interna e mondiale contro il sistema, a meno che non si sia sviluppata anche in Occidente una profonda rottura della pace sociale. Per questo, nella rimessa in moto di dinamiche sociali di sconvolgimento degli assetti presenti, è ipotizzabile un passaggio, o meglio tutto un percorso, di rivendicazioni democratiche, dal segno di classe assai differente nei diversi casi. O nel senso di una liberalizzazione economica e politica consona agli interessi imperialisti occidentali: trasformare lo Stato cinese accentratore e nazionalista in uno Stato liberale e democratico che rinunci a ogni intervento dall’alto pro sviluppo nazionale lasciando mano libera a quei capitali e ai sgomitanti ceti medi che finirebbero per farsi attrarre dai ben più attraenti centri finanziari occidentali (di qui i tentativi di rivoluzione colorata tipo Hong Kong, le manovre intorno a Tibet, Xinjiang etc.). O nel senso della democratizzazione di uno Stato capitalistico giunto a maturità, con un ampio mercato interno in grado di sostenere gli interessi borghesi senza bisogno di una guida statale rigidamente centralizzata ma anche in grado di porsi “alla pari” con i concorrenti mondiali (è probabilmente la prospettiva a lungo termine dell’attuale dirigenza comunista, ma obiettivamente difficile a realizzarsi). O, infine, nel senso di una attivizzazione proletaria che – passando dapprima per una difesa, dal punto di vista del proprio interesse di classe (in sé), del capitalismo nazionale e del suo ulteriore sviluppo a fronte delle pressioni imperialiste – se ne divincoli procedendo, per salti, verso propri obiettivi classisti e internazionalisti, verso una propria istanza di potere. Il che non sarà possibile, ripeto, senza che una seria ripresa proletaria di classe si dia in Occidente, anche grazie all’effetto di ritorno qui della resistenza classista, ancorché interna al quadro del capitalismo nazionale, lì. Di più, ad oggi, è difficile ipotizzare.

Terzo. A fronte della connessione, ben più profonda che in passato, tra sviluppo capitalistico locale e globalizzazione imperialista, il cosiddetto Terzo Mondo si è frantumato e dissolto politicamente (così come il terzomondismo). Possiamo distinguere grosso modo due campi. C’è una serie di paesi che in un’ottica esclusivamente capitalistica tentano un percorso di maggiore autonomia nazionale rispetto all’imperialismo del dollaro, facendo eventualmente sponda su Cina e Russia (su quest’ultimo paese, importante per i risvolti strategici mondiali, non è possibile qui fermarci): spesso collocati su linee di faglia geopolitiche, provano a giocare un ruolo regionale più autonomo (Turchia, Iran, Sudafrica, Brasile, Argentina, con l’India in posizione più ambigua; Corea del Sud, Taiwan, Messico sono per ragioni storiche o geografiche dentro l’orbita Usa). Il problema strutturale che questi paesi hanno dovuto affrontare, e devono affrontare, è però che l’estensione del lavoro salariato non è avvenuta secondo quelle che erano le speranze della decolonizzazione, cioè con formazione di capitali nazionali e loro accesso diretto al mercato mondiale, bensì attraverso la delocalizzazione delle produzioni di marchi occidentali, che trattengono la più parte del plusvalore prodotto. I margini di concessione del padronato dunque sono, spesso, prossimi a zero. Né le lotte operaie possono influire sulle decisioni dei committenti occidentali, che possono delocalizzare altrove la produzione. La questione da economica diviene perciò politica, chiamando in causa lo Stato, unico soggetto in grado di avere un potere sull’intero territorio nazionale, ma anche di intervento internazionale. Allo Stato i proletari richiedono misure legislative di miglioramento delle condizioni di lavoro, ma anche misure di welfare sociale. Gli stati in questione non hanno, però, alcuna possibilità di intaccare in profondità le regole dei mercati internazionali. Rimane un’unica possibilità, l’indebitamento sui mercati finanziari internazionali, con flussi di capitali il più delle volte a breve, il cosiddetto hot money, sempre pronto a involarsi a ogni minimo segnale di instabilità interna o internazionale.

C’è poi il campo, ampiamente maggioritario, dei paesi cosiddetti arretrati che non sono in grado di coagulare fronti socio-politici e alleanze internazionali in direzione di uno sviluppo più autonomo dall’imperialismo, e proprio per questo ne subiscono, nell’illusione di farvi leva, una dipendenza vieppiù accentuata, anche a rischio della propria destrutturazione. Non si tratta, però, solamente della classica borghesia dipendente. A nutrire aspettative verso l'Occidente sono ampi strati di ceto medio e di "ceto medio in formazione", i giovani scolarizzati, se non anche semiproletari e proletari, che alla luce del fallimento dei tentativi postcoloniali mostrano di aver “interiorizzato” la dipendenza neocoloniale e dunque tendono ad attribuire a fattori esclusivamente endogeni – corruzione, casta politica etc. – la causa della loro miseria. La penetrazione occidentale ha qui profondi varchi davanti a sé, non solo per l’esercizio del suo soft power, ma per profonde ragioni materiali legate all’intreccio oramai inestricabile, in questi paesi, tra rapina imperialista e meccanismi capitalistici interni che hanno pervaso nel profondo queste società: crescono, o sembrano crescere, le opportunità di arricchimento o di integrazioni al reddito con l’appropriazione delle conoscenze necessarie e con la possibilità di mettersi in gioco individualmente nel mare magnum del capitale fittizio. La “liberazione” si configura allora come variante locale della rivendicazione meritocratica del cittadinismo occidentale, più che come un rovesciamento degli assetti socio-economici interni e internazionali. La democrazia viene rivendicata contro i vincoli dei regimi postcoloniali e non, insieme, contro l’Occidente. Emblematici a questo riguardo la Primavera Araba e il suo esito completamente detournato dall’Occidente, le aspettative illusorie dei “profughi” che provengono dall’Africa, le recenti vicende di mobilitazione in Libano, Iraq, Iran. Si tratta, insomma, delle basi materiali delle rivoluzioni colorate che, nonostante le evidenti difficoltà statunitensi, sono ben lungi dall’essersi esaurite.

In entrambi questi campi extra-occidentali – che, ovviamente, non sono affatto separati da una muraglia… cinese – il cuore del problema sta nell’estrema difficoltà a riformulare il nesso tra lotta sociale contro i meccanismi del capitalismo interno – bloccato, distorto, eterodiretto – e lotta all’oppressione imperialista. Questo nesso è oggi più diretto e stringente che in passato, ma al tempo stesso si è fatto meno visibile alle masse di questi paesi, sia per la pervasività dei meccanismi finanziari, sia per il venir meno dell’aspirazione a un modello alternativo di società che, a torto o a ragione, aveva accompagnato e sorretto le lotte anticoloniali del passato. Queste, infatti, non si erano scontrate con la necessità quasi immediata, come invece oggi, di assumere una connotazione anche anticapitalistica, avendo al contrario davanti a sé ancora margini di sviluppo economico e sociale dentro quel quadro. A tutto ciò, inoltre, contribuisce in negativo la debolezza attuale della lotta di classe in Occidente. Questo insieme di fattori insomma lascia spazio alle sirene del mercato mondiale, in particolare tra quei settori che preferiscono l’accesso diretto ad esso piuttosto che il proseguimento di politiche volte a limitarne il potere nel proprio paese. Ciò apre una divaricazione sul fronte interno tra sostenitori e avversari delle politiche statali di protezione, che può giungere fino al punto di provocare guerre civili interne (che è quanto l’imperialismo ha da ultimo provato o è riuscito a realizzare in Venezuela, Bolivia, Iran, Iraq, Libano etc.).

Per concludere, il mondo globalizzato dal capitale non è condizione immediata della globalizzazione del proletariato e delle sue lotte, anche se a differenza o comunque più dei cicli precedenti lavora in questa direzione. Per essere chiari: ciò non giustifica alcuna lettura terzomondista o anti-imperialista (nel senso borghese di questo anti-imperialismo, nulla su cui si possa puntare per immaginifiche trascrescenze rivoluzionarie). Neanche Cina e Russia hanno i numeri per creare un proprio mercato autonomo, tanto meno per ipotetici sganciamenti (del resto, fosse ciò possibile, porterebbe difilato alla guerra con l’Occidente). Come per il socialismo, anche il capitalismo non è possibile in un solo paese!

 

ILC: Veniamo al neopopulismo. In un passaggio del tuo libro sottolinei il fatto che i movimenti neopopulisti, anche nei loro tratti “mostruosi”, ripropongono caratteristiche già proprie del vecchio movimento operaio, delle socialdemocrazie etc. Il nazionalismo, ad esempio. Tutto ciò è verissimo. Ci sembra però importante sottolineare una differenza fondamentale: il rapporto con il sindacato. Il neopopulismo si sviluppa in una società in cui i corpi intermedi si sono fortemente indeboliti, ed è un'espressione di questa debolezza che allo stesso tempo la contesta e la rivendica, o la interiorizza. In questo senso, non si vede nella multiforme galassia neopopulista un vero tentativo di ripensare il ruolo del sindacato, e il rapporto con esso. Ovvero: si resta su un piano totalmente politico, anzi iper-politico. Per restare in Italia: quanti tesserati della FIOM votano Lega? Quanto sindacalismo di base ha simpatizzato per i Cinque Stelle? Sono cose risapute. Eppure, nell'uno come nell'altro caso, non solo non si è data nessuna saldatura, non fosse che momentanea, ma non c'è stata nemmeno una vaga riflessione sul ruolo del sindacato in quanto tale, su come rivitalizzarlo all'interno di quella democrazia nazionale che il neopopulismo, nelle sue varie espressioni, si propone di difendere o di restaurare. Eppure, in questa prospettiva sostanzialmente riformista, o comunque di lotta per le riforme, questo punto è fondamentale. Malgrado tutto quel che ci può fare schifo dei sindacati, o dei corpi intermedi in generale – una società che ne è priva è una dittatura, non una democrazia. Ovviamente non ci illudiamo sulle virtù intrinseche della seconda rispetto alla prima, ma una differenza fra le due c'è. La molteplicità e l'antagonismo fra gli interessi delle varie classi e frazioni di classi è presente in entrambe, ma non si dispiegano nella stessa maniera. Ora, da un lato – e fino a prova contraria – la cornice istituzionale più adatta ai paesi a capitalismo maturo resta la democrazia; e in democrazia il lavoro salariato deve avere, almeno in linea di principio, la sua rappresentanza politica e sindacale. Se è vero che la ristrutturazione degli anni 1970-‘80, ovvero la cosiddetta “controrivoluzione neoliberale”, ha praticamente fatto sparire la prima, non ha totalmente eliminato la seconda. Per un motivo in fin dei conti banale: la lotta di classe, nelle sue forme più basilari, quelle (per farla breve) della lotta sul terreno del salario e delle condizioni di lavoro, per quanto possa affievolirsi, non scompare mai. Chi dice lotta su questo terreno dice negoziazione, quindi anche rappresentanza. Che ciò poi debba generare dei ceti stipendiati, delle burocrazie che perseguono obiettivi propri, può non piacerci, ma in una certa misura fa parte del gioco. D'altra parte, l'esperienza storica insegna che non è sotto una dittatura che la critica (teorica e pratica) del capitale in quanto tale, si sviluppa più agevolmente. In dittatura, si lotta per la democrazia: si potrebbero fare mille esempi, dalle sollevazioni anti-burocratiche nel blocco dell'Est (Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968, Polonia 1980) alle transizioni post-regime in Spagna, Grecia e Portogallo nel corso degli anni 1970. Insomma, per venire infine alla nostra domanda: non credi che nei neopopulismi attuali si sia fatta sentire l'assenza di una costola sindacale? Non credi che per il neopopulismo questa assenza, fino a che si darà, sarà fatale in termini di capacità di incidere effettivamente sui rapporti di forza, sia domestici che internazionali?

Questa domanda ne sottintende un'altra. Oggi le lotte rivendicative sul luogo di lavoro, quantomeno nei paesi a capitalismo maturo, sono molto deboli. Se si esaminano le cifre delle ore di lavoro scioperate annualmente, si vede che nella maggior parte dei paesi centrali queste sono perfino inferiori al periodo 2000-2008, non esattamente vivaci da questo punto di vista. Ebbene, nel tuo libro e in alcuni interventi successivi, hai ipotizzato un “secondo tempo” del neopopulismo, una sua radicalizzazione. Con questa ipotesi, prospetti anche la ripresa di lotte rivendicative su vasta scala e, eventualmente, la fusione/saldatura tra neopopulismo politico e settori del movimento sindacale, o forme di tipo para- sindacale (“autoconvocati”, comitati di base, assemblee territoriali etc.)? Se si, come immagini la loro articolazione?

RS: Nell’interpretare la dinamica neopopulista – rigorosamente limitata all’Occidente “affluente” e guardando a spinte e contenuti profondi più che ai provvisori e precari contenitori che fin qui si son dati – ho cercato di evitare i due unilateralismi opposti e speculari della forma finalmente rinvenuta della ripresa di classe e del rinato fascismo. Siamo dunque su una lunghezza d’onda completamente altra dal cosiddetto populismo di sinistra nonché dagli studi “politologici”. Resta però molto da scavare, tenendo conto che non è l’unico campo delle forze socio-politiche in Occidente e, soprattutto, che va visto nel quadro della frammentazione della composizione proletaria. C’è il problema di mettere meglio a fuoco come nel neopopulismo da un lato venga definitivamente a conclusione la parabola del movimento operaio classico riformista, dall’altro si ripresentino in veste nuova istanze neo-riformiste. E quindi di approssimare in maniera un po’ meno vaga i contorni di un suo “secondo tempo” (tutto ancora da darsi), assai più “sporco e cattivo” delle manifestazioni fin qui viste. In una battuta, l’analisi di questo fenomeno – del quale nel libro ho abbozzato una fenomenologia attuale incrociando le due varianti cittadinismo/sovranismo, una genealogia che rimanda alla storia del movimento operaio novecentesco e al passaggio cruciale del Sessantotto, e infine una prima caratterizzazione teorico- politica – vuole rispondere alla domanda vera, non retorica: dove si è nascosta la lotta di classe (in primis proletaria, ma non esclusivamente)?

Non è qui il caso ovviamente di sintetizzare questa lettura – che potrebbe, peraltro, utilmente essere messa a confronto con i vostri contributi, più teorici e un po’ meno fenomenologici, sui ceti medi salariati. Diciamo che il neopopulismo rappresenta una prima rottura soggettiva, ancorché debole, del nuovo proletariato – orfano, per lo più inconsapevole, del fu movimento operaio politico-sindacale e tutto interno ad una melassa interclassista segnata da ceti medi in difficoltà – rispetto all’imperversante dominio del cosiddetto neoliberismo. Una flebile rottura e rivendicazione di esistenza – che ha comunque scongelato quasi d’un colpo i blocchi sociali-elettorali – rese possibili innanzitutto dalla crisi globale e dai suoi effetti di impoverimento, ancorché non generalizzato, di de-cetomedizzazione, di caduta delle aspettative (e delle rivendicazioni, anche). Al tempo stesso, la composizione sociale che sta alla base della mobilitazione neopopulista vede settori vecchi e nuovi, scomposti, rimescolati, riconfigurati in profondità dall’azione della globalizzazione e del capitale fittizio, con tutte le conseguenze del caso su comportamenti, mentalità e aspettative, (perdita di) identità, forme di mobilitazione, come è evidente dalle istanze meritocratiche, anti-corruzione etc.

Ora, per venire al nodo cruciale che credo stia dietro la domanda, un’assimilazione neopopulismo/riformismo risulterebbe sbagliata. Non tanto perché potrebbe richiamare in vita improbabili tatticismi da parte di “avanguardie” che provino a cavalcarlo, ma perché si tratta di processi che si danno in cicli di accumulazione, e dunque del rapporto di classe, assai differenti. Sono, è vero, il frutto della medesima esigenza, quella delle classi proletarie di provare a condizionare il sistema per migliorare la loro situazione senza minimamente metterlo in discussione, anzi percependosi come i portatori della migliore soluzione nell’interesse stesso del sistema. In questo il neopopulismo è chiaramente molto più avanti del riformismo operaio-borghese classico, che comunque, dismessa ogni velleità alternativista, si era da tempo pienamente posizionato sul terreno del miglioramento del sistema senza frapporre ostacoli alle sue necessità di crescita permanente. Le differenze radicali stanno nell’autonomia relativa – espressa sia dai programmi che dalle forme organizzative sindacali e politiche – di cui le classi proletarie potevano godere con il vecchio riformismo, e che manca completamente nel quadro del neopopulismo. In questo l’agenda del capitalismo, cui il riformismo si è completamente piegato solo dopo una lunga esperienza di conflitti, si afferma fin da subito come piattaforma “naturale”. Effetto, come abbiamo visto, dell’avvenuta “totalizzazione” del capitale, che spiega come mai il soggetto neopopulista è fondamentalmente reattivo, non incarnando minimamente nel proprio movimento un’alternativa di modello sociale complessivo, come invece è stato per tutta una lunga fase con il riformismo operaio.

Ciò tuttavia non significa affatto che il neopopulismo è, per esprimerci grossolanamente, un movimento del capitale, resta un movimento delle classi che ne sono variamente sfruttate e oppresse, nel senso che contiene le loro specifiche istanze sia pure in un quadro di completo assoggettamento al capitale, non dall’esterno ma dall’interno per così dire. Nelle condizioni date nell’epoca del “capitale totale” – che resta un rapporto sociale di classe e non può cancellare contrapposizione e conflitto – fenomeni come il neopopulismo, o quanto lo dovesse sostituire, sono per così dire un percorso obbligato per queste classi, ripeto: con la possibilità che tale percorso assuma anche forme diverse da esso, in particolare da quello che si esprime al momento. Ciò ne fa un terreno su cui si gioca la partita di fondo tra le due possibilità estreme, la sua trasformazione in un movimento al diretto servizio del capitale, con il neopopolo che si fa nazione in lotta contro altre nazioni, oppure in un movimento che superando se stesso in una lunga serie di rotture si ponga in aperto antagonismo al capitale. Il che, in un clima sociale assai più surriscaldato dell’attuale, dovrà sciogliere l’ambivalenza costitutiva del neopopulismo come incubatore di istanze, con/fuse insieme, di classe e nazionaliste.

Ora, il punto è provare a mettere a fuoco – a partire dai fenomeni che si svolgono, confusamente e contraddittoriamente, sotto i nostri occhi, letti però con la lente della teoria – le condizioni a che l’ambivalenza possa sciogliersi nella seconda direzione. Se il capitale si è fatto totale, cum grano salis, se la vita sociale in tutti i suoi aspetti sembra ormai pulsare solo al suo ritmo, la condizione fondamentale è che il capitale si manifesti per quello che è (diventato) complessivamente: distruttore della vita in senso lato, della specie come dell’ambiente naturale. Sono già molti gli elementi che vanno verso questa presa d’atto, ma la molla potrà scattare solo quando assumeranno una veste talmente drammatica da imporre un’azione conseguente, prima ancora che il proletariato ne abbia consapevolezza. L’attuale duplice crisi può essere un primo banco di prova di ciò, e sarà fondamentale seguire il suo evolversi oggettivo e soggettivo (senza farsi film-luce sugli esiti immediati, però). Di qui l’importanza cruciale del tema comunità, tema legato alla condizione dei senza riserve dentro la riproduzione sociale complessiva, e ovviamente del tutto passibile anche di percorsi e esiti controrivoluzionari, sia chiaro.

Dunque, la strutturazione del rapporto di classe che si esprime (anche) nel fenomeno neopopulista è assai differente dal classico rapporto capitale-lavoro intorno al quale si era costruito il riformismo, non solo quello delle organizzazioni riformiste, bensì in primis dello stesso proletariato, con il suo programma, identità, organizzazione, prospettiva, capacità di lotta che procedeva gradualmente dal terreno sindacale a quello politico nel tentativo di “farsi Stato”. All’immediato il proletariato dispone di strumenti infinitamente più fragili, sembra aver dismesso definitivamente le sue armi storiche per imbracciare quelle che il suo nemico punta contro di esso: primato dell’impresa, competizione interna alla classe lavoratrice, nessun conflitto sindacale etc. Ma in realtà gli assetti di questo compromesso sociale sono sempre più traballanti, lo scongelamento dei fronti politico-elettorali non riesce a dar luogo a una rinnovata stabilizzazione sulle basi di un nuovo compromesso sociale. Paradossalmente, questo proletariato non avendo la memoria del suo percorso storico non serba neppure il senso, paralizzante, della propria sconfitta storica, dell’incapacità di superare il rapporto di capitale. Su tutti i piani si dà, e a maggior ragione si darà, una profonda discontinuità (e non a caso il movimento dei Gilets Jaunes è sorto al di fuori della sinistra, intesa in senso lato). Possiamo allora pensare, per il futuro, a forme ibride e molecolari di attivizzazione, trasversalmente al tradizionale terreno sindacale e politico, sull’ampio spettro della vita sociale a coinvolgere strati ampi del proletariato, non predeterminabili. E, su questo terreno, a modalità di politicizzazione quasi immediata del conflitto, sia nei rapporti tra classi sia rispetto allo Stato – come, di nuovo si è visto in forma embrionale coi GJ (ma in certa misura già in Argentina nel 2001) – immediata non perché si darà da subito la lotta contro il capitale, ma perché da subito dovrà raccogliere l’interesse e le simpatie di uno schieramento di classe generale, oltre le specifiche rivendicazioni e condizioni.

Il conflitto sindacale in senso proprio non scomparirà, ma difficilmente sarà come per il passato il vettore della politicizzazione delle masse, stante la frantumazione del lavoratore collettivo a causa della dissociazione tra la forma-impresa, sempre più accentrata e interiorizzata da parte dell’operaio, e il luogo fisico della fabbrica, sempre più disseminato sul territorio e digitalizzato. Del resto, il rischio interclassista, che chiaramente è nelle cose, non è superabile con un arroccamento su qualche forma di “operaismo” o di sindacalismo autonomo, come già il passato ci ha ampiamente dimostrato (v. al riguardo il classico dibattito Bordiga-Gramsci). Dunque, il fatto che stiano saltando le forme democratiche tradizionali di mediazione sociale, non solo sindacali del resto, potenzialmente non costituisce un elemento di debolezza, bensì di forza, non dei neopopulismi in sé, ma della dinamica di classe sottostante. È questo il “secondo tempo” che si può ipotizzare. Dove, a meno di una dissoluzione della lotta di classe in uno scontro fratricida o della completa passivizzazione e frantumazione della società, avremo una ripresa forte, ancorché disseminata, della conflittualità, richieste di “riforme senza sinistra”, di “sovranità” sulla propria vita, con la possibilità di un movimento “generale”, piuttosto che la convergenza di fronti già costituiti, su un terreno immediatamente politico. Probabilmente a iniziare non sarà il proletariato strettamente produttivo, anche se a un certo punto sarà cruciale l’intervento sui gangli della produzione, non più come luogo di contrattazione del prezzo della forza-lavoro e di partecipazione alle sorti dell’impresa, ma come snodo essenziale della riproduzione sociale complessiva che faticosamente cerca di divincolarsi dalla riproduzione del valore. Per questa strada sarà allora inevitabile per ampie masse rimessesi in moto porsi il problema di una proiezione internazionale. Decisivo sarà allora il rapporto tra lotta di classe e posizionamento geopolitico, che qui in Europa, sarà anti-Usa o non sarà, con tutti i rischi e le opportunità del caso. In assenza di ciò, resterà solo l’opzione di soggiacere al montante clima anti-cinese che, a partire dalla centrale statunitense, si sta propagando in tutto l’Occidente.

Una cosa è scontata: non si daranno rotture politiche geopolitiche a freddo. Se e quando queste arriveranno, non sarà per semplice e lineare radicalizzazione delle tendenze oggi in atto, ma per ridislocazione complessiva dei termini dello scontro. L’intreccio oggi confuso tra spinte nazionaliste, tendenze alla frantumazione anche statuale, flebili segnali di mobilitazioni classiste dovrà rompersi. La crisi generale è sempre apocalissi, rivelazione.

 

ILC: La prospettiva che delinei come esito possibile della fase attuale è quella di una crisi della riproduzione sociale. Sfortunatamente, il concetto di riproduzione è un altro di quelli su cui regna un'immensa confusione. Per tenerci al campo semantico che ci è più familiare, di volta in volta può indicare la produzione della popolazione, la riproduzione della forza-lavoro, il processo di riproduzione del capitale (produzione+circolazione), e perfino la riproduzione delle condizioni generali di quest'ultimo (rapporto alla natura). Potresti quindi specificare maggiormente cosa intendi per riproduzione sociale (e sua crisi)? Pensi davvero che questa prospettiva rappresenti una discontinuità rispetto al passato?

RS: Anche il tema della riproduzione sociale è in qualche modo un lascito politico del Sessantotto come specifico passaggio della ristrutturazione del rapporto di classe. Sia nel senso dell’allargamento dell’orizzonte anticapitalistico dalla lotta allo sfruttamento alla sollevazione contro ogni forma di alienazione, sia per la capacità che il capitale ha messo in campo di sussumere e rovesciare le istanze dei movimenti di lotta. Per questo duplice ordine di problemi, siamo di fronte a un tema chiaramente scivoloso. Con la crisi definitiva del movimento operaio quello che sembrava un “complemento” alla questione centrale della lotta contro il lavoro salariato nella produzione, si è dapprima separato e poi definitivamente autonomizzato da essa. Così è stato per la questione della emancipazione/liberazione della donna nei movimenti femminili e femministi; così per la questione ecologica nei movimenti ambientalisti (il tema “biopolitico” della popolazione interseca per ovvi motivi entrambi) etc. Nessuna coalizione “arcobaleno” è mai riuscita, né può riuscire, a fondere insieme questi terreni di lotta presi ognuno per sé, perché il cemento unificante potrebbe essere esclusivamente l’antagonismo al capitalismo nel suo insieme e la trasformazione delle singole specificità nel crogiolo del superamento della società di classe. Né si tratta della “colpa” di qualcuno – cosa che spesso e volentieri dimenticano i critici del Sessantotto come mera modernizzazione condotta da ceti medi “complici” della ristrutturazione capitalistica – perché la frantumazione delle rivendicazioni sociali nei mille rivoli dell’identitarismo postmodernista è solo l’altra faccia del farsi totale del capitale e della crisi irreversibile del “programma” operaio di (auto)gestione delle forze produttive.

Dunque, i molteplici significati ricordati dalla domanda non restano spaiati, ma neanche, a questa altezza del rapporto di capitale, possono essere “ridotti” a uno solo. Come l’essere aristotelico, non siamo di fronte né ad una univocità riduzionistica né ad una eterogeneità originaria, bensì a un intreccio polivoco di rapporti e ambiti tenuto insieme da un filo unitario. Che è la riproduzione complessiva del capitale come nexus rerum della società specificatamente capitalistica, adeguata al suo concetto, per dirla à la Hegel. Nesso che oggi è sì produzione e circolazione insieme, ma fondamentalmente come circolazione di valori “fittizi” (e lasciamo perdere se la scelta del termine da parte di Marx non è stato dei più felici…). Ora, la riproduzione sociale specificamente capitalistica, chiamiamola riproduzione sistemica, per tutto un lungo corso di sviluppo del capitale ha, pur tra crisi e distruzioni, garantito e anzi ampliato la riproduzione sociale uomo-natura, realizzando le capacità creative umane, ovviamente a costo della loro proletarizzazione (qui la radice profonda del riformismo nella e della classe proletaria). Al contempo, e quasi come contrappasso, ha pervaso di sé a tal punto il ricambio organico umanità- natura e la riproduzione materiale e simbolica non solo della forza-lavoro, ma della specie, che risulta pressoché impossibile, allo stato, per il novantanove per cento degli esseri umani anche solo pensare a dissociare completamente la seconda dalla prima. E però oggi è sotto gli occhi di tutti la disconnessione tra la riproduzione sistemica e quella sociale-naturale. O meglio: questa disconnessione è l’arcano che sta dietro le ripetute catastrofi finanziarie, economiche, ecologiche, sociali etc. ma, come la forma merce, si manifesta “per quello che è”, ovvero in vesti cosali, naturalizzate e apparentemente insuperabili, perché effettivamente il MPC oggi è un meccanismo che va molto oltre le possibilità sia di governo da parte della stessa borghesia, che ne viene completamente risucchiata e stordita, che di condizionamento da parte del proletariato. Di qui il senso di impotenza, e sordo rancore, che pervade la società in una sua parte crescente, unitamente alla paura di un salto nel vuoto nel caso si tirasse troppo la corda (anche da parte dei proletari, come si è visto nelle vicende greche di qualche anno fa allorché la mobilitazione sociale si è fermata di fronte allo “strappo”, in quel caso, nei confronti dell’euro). C’è dunque un’effettiva discontinuità rispetto al passato, che traspare sia in senso estensivo con la dimensione quasi immediatamente globale (ma pur sempre “diseguale”) che assumono le difficoltà dell’accumulazione, sia in senso intensivo, qualitativo. Non ha senso, è ovvio, parlare di crisi finale o ultima – questo lo abbiamo imparato anche a nostre spese – ma certamente la rimessa in moto dell’accumulazione non potrà limitarsi ad una ristrutturazione del rapporto di classe come è stato negli anni Settanta, bensì richiederà una ben maggiore distruzione di risorse che, però, rischia di superare ampiamente quella dei due conflitti mondiali.

Ancora un’osservazione. Il punto per una teoria della crisi (e della rivoluzione) all’altezza dell’attuale fase storica non è più solo lo sfruttamento nella produzione quanto la riproduzione sociale complessiva sussunta al valore. Questa è la condizione, ma solo la condizione, attenzione, della possibilità che il proletariato superi la propria collocazione di classe per il capitale. Ma, detto ciò, si tratta di evitare tre possibili fraintendimenti. Primo, è fondamentale non far volatilizzare le differenti articolazioni del valore dentro una notte in cui tutte le vacche sono nere, non perdere cioè la distinzione concettuale tra lavoro produttivo di valore e non – al di là delle difficoltà di rinvenirne riscontri fenomenologici ed empirici chiari e precisi – e al tempo stesso tener conto delle variegate forme di trasferimento del valore (che è al cuore dell’odierno imperialismo come sistema mondiale il cui perno è diventato il prelievo, sub forma “finanza”, operato sui flussi internazionalizzati del valore). Secondo, la sussunzione è un processo interminabile, costitutivamente ibrido, che riguarda sia il lavoro sia la necessità per il capitale di trarre risorse, trasformabili in forma monetaria grazie al sistema complessivo del credito, da attività umane non (ancora?) organizzate nella forma impresa (reinterpretando così le produzioni precapitalistiche della Luxemburg, ma anche il “lavoro universale” della scienza con lo sviluppo del general intellect etc.), così come dai free gifts della natura. Questa necessità è tanto maggiore con l’approssimarsi del capitale ai limiti (non in senso assoluto, però) alla valorizzazione del capitale esistente tracciati da Marx nei Grundrisse (Il capitale è la contraddizione in movimento, esso spinge a ridurre il tempo di lavoro al minimo, mentre, dall’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte di ricchezza). In termini filosofici, il capitale è il cattivo infinito di hegeliana memoria (il che, detto tra parentesi, esclude già in sede teorica il suo “crollo” automatico). Terzo, e di conseguenza, di riproduzione sociale “autonoma” più o meno spontanea che il capitale “catturerebbe” dall’esterno – come nelle letture polanyiana e, più vicine a noi, post-operaiste, benecomuniste, dell’ecologia politica, che andavano per la maggiore nel movimento no global oggi non se ne parla neppure. La riproduzione umana si è “socializzata” con e attraverso il capitale, a costo di immani violenze di ogni tipo: piaccia o non piaccia di qui si è passati. Una sfera proletaria relativamente autonoma dai meccanismi capitalistici si è data prima, non può darsi dopo, il pieno sviluppo del capitale con il passaggio alla sussunzione reale (il che, tra l’altro, spiega perché il proletariato sia stato rivoluzionario agli inizi del suo percorso per poi inserirsi sempre di più dentro il capitale). Quanto di pre-capitalistico, cioè “autonomo”, può ancora darsi – come sogno di un’umanità riconciliata con se stessa e con la natura, come “utopia concreta” – è recuperabile solo contro e oltre (non dentro e contro) il capitalismo.

Credo, inoltre, che un approccio incentrato sulla crisi della riproduzione sociale, pur con tutte le ambiguità possibili, aiuterebbe forse a sviluppare un’analisi delle classi all’altezza dell’oggi. Una “sociologia marxista” in grado di dar conto, da un lato, della trasformazione profonda del lavoro salariato (formalmente e realmente sussunto), dall’altro dell’importanza di quelle attività umane attratte dal capitale nel suo circuito complessivo, a vario titolo, ma non ancora salarializzate e però in via di lavorizzazione e iperindustrializzazione (utilizzo qui il linguaggio del “secondo” Alquati) che possono preludere o meno alla loro sussunzione ma che di per sé non sono già produzione di valore. E però sono dimensioni importanti, ai livelli più “concreti” della società del capitale, per la configurazione delle composizioni di classe e della lotta di classe, per la politica, insomma per il fondamentale problema di come può costituirsi una soggettività antagonistica al capitale. Infine, ma è solo un’ipotesi, se il capitalismo è produzione per la riproduzione, sarebbe interessante pensare al comunismo come riproduzione per la riproduzione?

 

ILC: Un’ultima domanda, per concludere. Come sai, per noi il concetto di comunizzazione riveste una certa importanza. Non si tratta di uno slogan o un'etichetta politica, ma di un concetto “problematico”, che delimita un insieme di riflessioni e di dibattiti molto variegato e ancora in divenire. Non ci sono garanzie che ne venga fuori qualcosa di davvero memorabile. Ma l'interrogativo soggiacente ci sembra legittimo e necessario: ci si può ancora adagiare sulle proiezioni con cui si è pensato il passaggio dal capitalismo al comunismo nel passato, all'interno delle varie correnti del movimento operaio? Per restare in ambito marxista, si pensi alla Critica del Programma di Gotha di Marx: un testo a dir poco sommario, ad uso confidenziale (quantomeno nelle intenzioni del suo autore), ma considerato per lungo tempo come il vademecum della transizione. La Critica del Programma di Gotha, ma anche Stato e Rivoluzione di Lenin, sono senza dubbio varianti radicali di una concezione della transizione generalmente molto più soft (nazionalizzazioni etc.). Ciononostante, non vediamo come si possa aderire oggi, in tutta serietà, allo schema dei “buoni di lavoro” (altrove criticati di Marx), alla distinzione tra fase inferiore e fase superiore del comunismo etc. Questo rigetto può essere argomentato in molti modi. Ad esempio, ci si dovrebbe chiedere se i famosi buoni di lavoro siano il miglior mezzo per sopprimere “il tempo di lavoro come unica fonte e misura della ricchezza” (Grundrisse); oppure se il sistema di contabilità in ore di lavoro che questi buoni presupporrebbero, non si strutturerebbe in una temibile macchina burocratica che, una volta posta in essere, da un lato tenderebbe alla propria riproduzione, dall'altro farebbe riapparire un problema di disciplina del lavoro la cui unica soluzione sarebbe poliziesca. Ma c'è una considerazione preliminare e più profonda che ci preme fare. I processi macro- storici reali non si svolgono conformemente ad un piano, non sono il risultato di un'opera di ingegneria sociale. Ciò varrebbe a maggior ragione per un ipotetico superamento del modo di produzione capitalistico, che sarebbe un processo inaudito, per forza di cose caotico: un marasma mondiale. Certo, se ne possono anticipare teoricamente alcune modalità, alcune forme sociali, alcune pratiche. Ma all'interno di simili processi non può esistere qualcosa come un'azione finalistica trasparente a se stessa, la realizzazione integrale e concertata di un programma preordinato. In ogni caso, non alla scala del processo complessivo – interazione e risultato di un'infinità di processi “sottosistemici”. Ci possiamo augurare che nel comunismo la capacità di fare collettivamente la storia in modo cosciente – ovvero la capacità di far corrispondere i risultati complessivi dei propri atti ai fini prestabiliti – possa esistere, anzi: possiamo augurarci che il comunismo non sia altro che questo. Ma il superamento del modo di produzione capitalistico, per quanto possa e debba sforzarsi di essere rapido, è il processo di acquisizione di questa capacità: è il processo di unificazione di teoria e prassi, non presuppone già questa unità – nemmeno fra i militanti o quelli che una volta si sarebbero chiamate le “avanguardie organizzate”. Pensare di imprimere un determinato orientamento a taluni processi particolari è un conto. Ma pensare di poter governare, praticamente e fin da subito, il processo complessivo è un'utopia in senso deteriore. Questo ragionamento può sembrare molto astratto e filosofico, e in parte lo è. Ma – per trasferirlo nella realtà storica – non è un caso se i ripetuti tentativi delle organizzazioni nazionali del movimento operaio per fondersi in un'organizzazione internazionale, cioè per passare dal piano “sottosistemico” a quello propriamente “sistemico”, abbiano sempre fatto fiasco. Al di là dei fattori contingenti, l'articolazione fra i due piani ci sembra per lo meno enigmatica, perché il secondo esiste solo teoricamente (come relazione), mentre il primo esiste realmente. Così come il capitale sociale totale è un'astrazione – necessaria, ma comunque un'astrazione – mentre i capitali singoli esistono realmente. Diversamente da coloro che intendono la comunizzazione come l'idea che l'instaurazione del comunismo sia magicamente realizzabile in uno schiocco di dita (sia per accoglierla sia per criticarla), noi pensiamo che questa nozione debba aiutarci a comprendere il passaggio al comunismo nel suo carattere veramente storico-processuale, ciò che implica accettare l'inevitabile componente d'improvvisazione che vi è inerente. Come diceva Napoleone: on s'engage et puis on voit. Da qui, una certa insistenza su ciò che il proletariato, almeno in certe sue frange, sarà “storicamente costretto a fare”, poste determinate circostanze e condizioni che possiamo ipotizzare. Evidentemente il discorso fatto fin qui non esaurisce nemmeno un centesimo di tutto quello che ci sarebbe da dire su comunizzazione e dintorni... ma ci piacerebbe sapere come ti situi rispetto a questo insieme di interrogativi e di riflessioni.

RS: Non posso che essere d’accordo, in generale, con queste riflessioni, che sono comunque solo l’inizio di una rielaborazione della questione della “transizione”, e del comunismo… svincolato dall’ingombrante tutela del socialismo. Tenuto conto del fatto che le insufficienze e inadeguatezze delle riflessioni e dei tentativi rivoluzionari “socialisti” che ci hanno preceduto, e che hanno nel bene nel male avuto efficacia storica effettiva sul corso dei rapporti di classe dei passati centocinquant’anni, vanno considerate per quello che sono state: legate, appunto, a tentativi all’altezza di un rapporto di capitale non pienamente dispiegato. (Il che non vuol dire sposare una lettura deterministica assoluta, il nostro è sempre un bilancio ex post delle possibilità oggettive che, tra quelle sul campo, si sono affermate, quasi sempre ibridandosi con le opzioni non realizzate).

Il “programmismo” è stato non il frutto di un errore teorico o di un’insufficiente coscienza rivoluzionaria, ma il prodotto delle dinamiche di autonomizzazione che la classe proletaria aveva sviluppato a partire dalla rivoluzione francese e nelle rivoluzioni nazionali successive. Il Manifesto fu il tentativo teorico-politico più alto corrispondente a quella fase storica, ancora caratterizzata da un capitale in gran parte esterno alla riproduzione sociale, e che dovette imporsi con la violenza. Ovviamente quelle conclusioni, ma anche i presupposti e le dinamiche su cui si fondavano, non risultarono più adeguati una volta che l’incedere del capitale lo resero interno alla riproduzione sociale complessiva. Di qui la nascita e l’affermazione del “marxismo” secondinternazionalista e del riformismo, transitoriamente interrotto dalla crisi della I guerra mondiale e dalla rivoluzione russa, ma poi ripresosi in altra forma tra le due guerre. Sia nella forma democratica del New Deal che in quelle fasciste, chiaramente differenti, il rapporto di capitale entra nella vita stessa dei proletari, in ogni loro momento lavorativo, riproduttivo, di riposo e di svago. La completa realizzazione di questo processo si ha però solo dopo il secondo conflitto imperialistico. Corrispondentemente, la lotta di classe proletaria si trasforma in lotta democratica per l’inclusione, dapprima ancora sulla base di organizzazioni collettive, poi senza di queste. Anche quando la crisi si è rifatta viva, negli anni Settanta, a compensare la caduta dei consumi, oramai principale veicolo di integrazione del proletariato, intervengono le delocalizzazioni che permettono l’importazione di beni essenziali a costi ridotti e il capitale fittizio, con la facilità del credito come accesso a una parte del capitale sociale accumulato e anticipo sul plusvalore futuro. Ovviamente, per il mondo occidentale. Di qui via via l’abbandono dell’organizzazione collettiva a favore di una libertà svincolata da ogni obbligo e impegno, che non sia quello della promozione dell’individuo. La crisi scoppiata dieci anni fa non ha scosso alle fondamenta tutto ciò, anche se ha prodotto dei primi significativi smottamenti.

Oggi potremmo essere ai prodromi di ben più radicali sconvolgimenti, che riaprirebbero in prospettiva la partita dello scontro di classe a partire dalle contraddizioni esplosive connaturate con il rapporto di capitale. In un quadro, ecco il punto, completamente diverso da quello che si è presentato al movimento operaio rivoluzionario del passato. Allora si trattava di guidare, ai fini dello sviluppo di un’umanità ancora costretta alla miseria e in tre quarti del globo legata a condizioni precapitalistiche, l’accumulazione capitalistica. Oggi si tratterebbe di procedere ad una de-accumulazione, sia nel senso di una riproduzione non più vincolata, per darsi, alla produzione di profitto, sia nel senso che molte forze produttive, diventate anti-sociali, andrebbero letteralmente distrutte.

Del resto, su un altro versante, lo svincolamento comunismo/socialismo, uso questo termine un po’ scherzoso per sdrammatizzare il nostro colloquio già assai tosto, sta insieme con l’annoso nodo della rivoluzione come rapporto tra emancipazione proletaria e emancipazione umana: se l’emancipazione umana richiede l’auto-superamento del proletariato, come ripensarla alla luce delle esperienze novecentesche nelle quali ogni passaggio di lotta di classe, come affermazione di sé del proletariato, ha in ultima istanza rafforzato il capitale? È pensabile una classe che arriva a negare se stessa? E se sì in che modo? Questioni che potrebbero in futuro non essere solo più filosofiche

Non aggiungo di più su questioni ben altrimenti complesse. Conto di approfondire quanto prima questi nodi, nei limiti delle mie possibilità, e quindi di confrontarmi più a fondo con la problematica della comunizzazione che – concordo pienamente su questo – va vista in senso storico-processuale (a meno di ricorrere al gesto giovane-hegeliano). Bisogna continuare su un lavoro di raccordo tra passato e futuro, che provi a scavare nei problemi enormi lasciati dal corso precedente del rapporto capitale- proletariato in relazione ad una prospettiva di possibile liberazione umana oggi materialmente possibile. E, insieme, non smettere di captare e leggere non da dogmatici nel presente, in ogni aspetto del presente, non tanto i segnali di una mitica “ripresa” – che del caso si darà al di là delle previsioni e dell’azione di chicchessia – ma le basi oggettive e soggettive su cui potrebbe darsi e, dunque, i problemi vecchi e nuovi che dovrà affrontare.


(Nota di R. S.: Nella stesura di queste risposte devo molto alla discussione con N. C., S. V., E. A.)

Note
1 Il mercato Repo (Repurchase Agreements, cioè contratti di riacquisto) è il mercato finanziario dei pronti conto termine. Si tratta in sostanza di prestiti a breve termine con cui banche, società finanziarie e hedge funds scambiano contante contro titoli di Stato a breve termine (ad esempio Buoni del Tesoro statunitense), impegnandosi a invertire la transazione contro un premio percentuale. Questo mercato ha la doppia funzione di permettere di reperire rapidamente liquidità a soggetti economici che ne hanno un impellente bisogno, e di sostenere il rendimento dei titoli emessi da taluni emettitori pubblici. (ndr)

 

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