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labottegadelbarbieri

Dietro ed oltre la guerra in Ukraina

di Giorgio Ferrari

Ad un anno esatto dallo scoppio della guerra in Ucraina Giorgio Ferrari scrive un articolo che è la prosecuzione di Comparazione tra due guerre: l’annullamento della dialettica e l’inversione della storia.  Si tratta di un ragionamento su cosa si cela (anche) dietro questa
guerra, ma soprattutto è un ragionamento sull’Occidente, la sua costruzione e i suoi valori

Immagine1 1okjLe argomentazioni svolte precedentemente (Comparazioni tra due guerre - L’annullamento della dialettica e l’inversione della storia)i, per quanto circoscritte ad una analisi comparata tra gli avvenimenti che precedettero la II guerra mondiale e quelli che hanno portato all’attuale guerra in Ucraina, forniscono già un esempio della presunzione e del manicheismo di cui è pervaso il pensiero dominante.

C’è un solo aggressore, la Russia, ed un solo aggredito, l’Ucraina; quest’ultima è la vittima, l’altra è il carnefice. Di più non è consentito dire, pena l’iscrizione tra i seguaci di Putin con tutte le dannazioni conseguenti che in questi mesi sono state utilizzate dalla stragrande maggioranza degli organi di informazione, i quali hanno fornito un’informazione monotonica sullo svolgimento del conflitto con descrizioni raccapriccianti della barbarie russa.

Sono talmente tanti ed estremi i giudizi nei confronti della Russia, che si è superato un punto di non ritorno per cui viene da chiedersi se sarà mai possibile, un domani, ripristinare una qualche relazione con questo paese; se, insomma, non sia questo dell’Occidente, un atteggiamento risolutivo volto a precludere una qualsivoglia soluzione del conflitto che non sia la capitolazione della Russia e/o la sua disgregazione.

 

Lo scontro di civiltà

Il secolo scorso, improvvidamente definito “breve” da Hobsbwan, non sembra avere una fine. L’ultimo suo lascito, quello del 1989, grava ancora sul presente nonostante i numerosi tentativi di esorcizzarlo.

Ci provò Francis Fukuyama nel 1992 col suo famoso libro dove, nel plaudire alla vittoria delle democrazie occidentali sul totalitarismo sovietico, scopriva implicitamente il lato oscuro di quella che lui definiva “fine della storia”, cioè che l’Occidente non sa vivere senza un nemico da combattere, altrimenti rischierebbe di rendere palese la contraddizione insanabile che c’è nei suoi principi fondanti: liberalismo economico e diritti fondamentali della persona.

A correggere Fukuyama ci provò Samuel Huntington con un saggio del 1993 (Lo scontro di civiltà) in cui sosteneva che la storia, in quanto espressione di conflitti, non era affatto finita essendo già evidente l’esistenza di altri nemici dell’Occidente che avrebbero portato a nuove guerre, non più combattute all’insegna della ideologia o dell’economia, ma della religione e della cultura1. In effetti si trattava di una esposizione grossolana (Edward Said la definì “Lo scontro di ignoranza”) di concetti preesistenti che aveva il solo scopo di riproporre l’immagine dell’Occidente contro tutti, con evidente ricorso alla retorica yankee che vede l’America circondata da odiatori, senza mai interrogarsi, peraltro, sul perché di tanto odio. Nella identificazione dei nuovi nemici, tuttavia, si delineava per la prima volta un asse tutto “orientale” incardinato, da un lato, sul fondamentalismo islamico e, dall’altro, sulla crescita impetuosa della Cina2.

L’Oriente, dunque, come fonte di nuove minacce in cui si riproponevano, attraverso lo scontro di civiltà, antiche diffidenze verso i popoli “levantini” (furbi, scaltri e imbroglioni) come gli arabi, assai diffuse fra le borghesie d’Europa dei secoli scorsi3, con l’aggiunta degli infidi cinesi che stavano dimostrando di apprendere in fretta (troppo in fretta!) le regole della concorrenza e del mercato. Non c’era però l’Est, cioè la Russia (all’epoca ritenuta fuori gioco) per quella inveterata discriminazione concettuale che l’Occidente esercita nei confronti di chi vive oltre certe latitudini: non a caso, quando ci si riferisce agli arabi o agli asiatici si parla di paesi del Medio o dell’Estremo Oriente, mentre per coloro che vivono oltre la sponda destra dei fiumi Oder-Neisse, vale ancora la definizione di paesi dell’Est, sottinteso europei, ma di rango inferiore.

A dare corpo ad una tesi, tutto sommato inconsistente, ci pensarono i neocon4 che nella seconda metà degli anni ‘90 dettero vita al PNAC (Project for New American Century) e al NED (National Endowment for democracy) organizzazioni no-profit che praticavano la strategia delle “rivoluzioni a bassa intensità” per rovesciare governi in carica dei paesi dell’Est europeo mediante la creazione di apposite organizzazioni “non violente”. A partire dal 1998 l’attivismo di Otpor! (che vuol dire resistenza) portò alla cacciata di Milosevic e alla destabilizzazione della Serbia; Zubr operò in Bielorussia nel gennaio 2001; Kmara in Georgia nell’ Aprile 2003 e Pora in Ukraina nel giugno 2004, ognuna con il compito di mobilitare la società civile contro i regimi al potere.

Fu un successo per i neocon, che già dal 2001, dopo l’attacco alle torri gemelle, avevano preconizzato l’avvento della IV guerra mondiale (la terza era stata la guerra fredda vinta da Reagan nel 1989). A conclusione di un saggio dal titolo “La IV guerra mondiale: come è cominciata, cosa significa e perché dobbiamo vincerla”, scritto nel settembre del 2004, Norman Podhoretz, considerato un teorico dei neocon, scriveva: “La storia chiama l’America a combattere la battaglia della libertà per dare una vita migliore a milioni e milioni di persone in tutto il mondo. Ed è così dal 1947. Abbiamo trasformato (dopo la II guerra mondiale) in democrazie capitaliste l’impero giapponese e la Germania nazista in soli dieci anni, e dopo la fine della III guerra mondiale un processo analogo è in corso nell’Europa orientale. Perché non dovremmo riuscirci con il mondo arabo?”

Implicita, in questo apologetico richiamo alla guerra, la missione “civilizzatrice” dell’America, chiamata dal destino e dalla storia a scontrarsi con altre civiltà, rappresentate, a questo punto, non solo dalla Cina e dai paesi islamici come indicato da Huntington, ma anche dalla Russia nella quale residuavano, secondo i neocon di matrice trotskista,5 i germi del male.

 

La quarta teoria politica

S’è visto cosa ha prodotto questa civilization di marca statunitense: la destabilizzazione dei Balcani e la frantumazione della Jugoslavia; l’invasione dell’Afghanistan, ignominiosamente conclusasi dopo 20 anni con la fuga degli eserciti occidentali e il ritorno dei Talebani; la destabilizzazione del medio oriente con l’invasione dell’Iraq di Saddam Hussein, motivata da false prove circa l’esistenza di armi di distruzione di massa; la regressione della Libia alla condizione di quando regnava Re Idris, con l’aggravante che le odierne fazioni in lotta per il potere, combattono una guerra ben più sanguinosa di quelle che si svolgevano fra le tribù del Fezzan e i Tebu o i Tuareg, fino a tutti gli anni ‘60 del secolo scorso.

Quanto poi a misurare in termini di libertà le ricadute di questa battaglia condotta dall’America, il bilancio è ancora più negativo se solo si pensa alla condizione delle donne, generalmente regredita ai livelli peggiori in tutti questi paesi, in conseguenza della reislamizzazione voluta da tutti i gruppi fondamentalisti (foraggiati e armati dagli Usa) contro le permissività di un Islam ritenuto troppo tollerante, come era quello esistente in Libia, Iraq, Siria e nello stesso Afghanistan dell’era sovietica.

Con pochissime eccezioni, per lo più di impronta culturale o riferibili a minoranze politiche, nessuno in Occidente (tanto meno in Europa) si è posto il problema di quali nefaste conseguenze emergevano da questa nuova weltanschauung (visione del mondo) che postulava un mondo unipolare eterodiretto dagli Usa, con l’Europa acquiescente, ma tuttavia insofferente di veder “usurpato” il ruolo di paladino dell’Occidente da lei svolto per secoli, al punto da mettere in scena la macabra fine di Gheddafi per poi toccare l’apice della tracotanza con le vignette di Charlie Hebdo e i romanzi di Michel Houellebecq.

Tutto ciò non passa inosservato, tanto meno è gradito, da tutti quegli stati collocati al di fuori dei confini geopolitici dell’Occidente. Non piace all’America latina, da sempre vittima della dottrina Monroe; infastidisce il Sud est asiatico che sta tessendo nuovi rapporti con la Cina, ma soprattutto non piace ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che rivendicano un posto nella gerarchia internazionale in un mondo che si è fatto multipolare.

L’auto-candidatura dei Brics tuttavia, si basava soprattutto sulla loro capacità di incidere nell’economia internazionale e sul fatto di rappresentare il 40% della popolazione mondiale con una presenza diffusa in tutti i continenti, ma difettava di prospettiva globale, di una visione del mondo che sapesse competere con quella dell’Occidente. Visione che, con l’eccezione della Russia, non poteva venire dagli altri membri dei Brics, tradizionalmente estranei, per diversi motivi, a sviluppare una loro weltanschauung, al contrario della Russia che nel secolo scorso ebbe l’arditezza di metterla in pratica sovvertendo l’ordine costituito.

È in Russia infatti che nasce la “Quarta teoria politica” ad opera di Alexander Dugin, anche se in realtà, più che una teoria, essa rappresenta un punto di arrivo di una serie di considerazioni ricavate “per difetto” di teorie politiche precedenti. Come scrive lo stesso Dugin “La Quarta Teoria Politica è concepita come alternativa al post-liberalismo, ma non come una disposizione ideologica in relazione a un’altra. Essa, invece, è come un’idea incorporea opposta alla materia corporea; come possibilità che entra in conflitto con l’attualità, come ciò che deve ancora nascere attaccando ciò che già esiste.” E ciò che già esiste, ciò che costituisce l’attualità del mondo è il post-liberalismo, variamente coniugato, che poi è ciò che resta del XX secolo, quando si consumarono le altre due grandi ideologie: il comunismo e il fascismo. Di qui la “necessità” della Quarta teoria politica.

Premesso che un esame critico esauriente di questa teoria abbisognerebbe di più ampie considerazioni, non c’è dubbio che essa faccia presa sulle incertezze e le angosce che pervadono le società moderne, anche perché Dugin è molto abile nel dipanare il suo ragionamento, cioè dimostrare la fallacia delle teorie precedenti, e per di più non teme accostamenti spregiudicati.

Il fulcro da cui Dugin prende le mosse sta nel rifiuto della post-modernità e della globalizzazione che si presentano, nonostante la vittoria della prima teoria politica (il liberalismo) sulle altre due, come paradossi della modernità: in sostanza se il liberalismo si è servito ideologicamente della modernità per sconfiggere comunismo e fascismo (dimostratisi non all’altezza delle sfide poste dal liberalismo), oggi questo guscio ideologico non serve più e dunque la forma-mondo attualmente dominante (il post-liberalismo), unitamente alla globalizzazione, se ne disfa, lasciando l’essere umano indifeso, disorientato da una realtà dove alla dittatura delle idee, si è sostituita la dittatura delle cose.

In questo passaggio lo sviluppo tecnologico ha sostituito l’Essere ed ha aperto la strada al nulla della società postmoderna che Dugin, recuperando Heidegger, colloca nel “nichilismo occidentale” che a sua volta marca la modernità portatrice di anti-valori, come il “pensiero calcolatore”, o di vere e proprie apnee esistenziali, come l’alienazione, invano sorretti dalla permissività che si veniva offrendo all’individuo attraverso l’uso apparentemente illimitato di cose messe a disposizione dal progresso scientifico e tecnologico.

Sembrerebbe qui che Dugin recuperi in qualche modo “la contraddizione” marxiana esistente fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali da queste determinati, ma non è così. Nell’illustrare la quarta teoria politica egli si tiene alla larga da Marx, evita di incrociarne l’innovazione analitica sia dal punto di vista filosofico che politico, preferendo criticare il marxismo per aver contribuito alla perdita delle radici esistenziali e spirituali dell’uomo (ontologiche e teologiche), piuttosto che riferirsi alla sua condizione materiale nella società liberista (che è anche e soprattutto capitalista), analisi che il marxismo ha condotto in modo ineguagliabile, come lo stesso Dugin riconosce. Ciò lo conduce a cercare moventi per la sua teoria estremamente “fattuali”, legati all’attualità o, quando serve, al recupero della tradizione in funzione anti-moderna, e quindi ad aggirare il confronto sul piano strettamente filosofico e a privilegiare quello metafisico. Come lui stesso scrive: “Dobbiamo fare riferimento ai fondamenti filosofici della storia e compiere uno sforzo metafisico per risolvere i problemi attuali: la crisi economica globale, il contrasto al mondo unipolare, nonché la conservazione e il rafforzamento della sovranità, e così via.”

Non si creda, tuttavia, che il suo sia un “racconto” ideologico nel senso deteriore del termine. Tutt’altro: la sua prosa è raffinata, estremamente dotta e, sopratutto, abile nel cogliere ciò che di “valido” c’era nel comunismo e nel fascismo al fine di contrastare la post-modernità: “La seconda e la terza teoria politica devono essere riconsiderate, selezionando in esse ciò che deve essere scartato e ciò che ha valore in sé.” Dunque un uso della storia e della teoria decisamente strumentale per i fini della Quarta teoria politica, al limite della decenza concettuale quando condanna, senza distinguerli, l’antifascismo e l’anticomunismo; anche se -precisa Dugin – i nuovi principi e le nuove strategie su cui questa teoria si fonda devono essere ancora sviluppati, né si può pensare che la sfida alla post-modernità possa essere assunta da un solo paese (il modello sovietico ci ha provato ed è crollato) onde per cui l’affermazione del concetto di multipolarità è il primo obiettivo da conseguire. Attenzione però a ritenere, come fanno anche i più accorti osservatori occidentali (vedi Limes), che multipolarità alluda tout court alla proposizione di un euroasianismo da contrapporre all’occidentalismo dominante, in ciò traducendo, banalmente, le relazioni privilegiate che intercorrono oggi tra Russia e Cina. L’euroasianismo per Dugin non è altro che un episteme, ovvero un insieme di conoscenze che non ha fondamenti filosofici o politici comuni e non potrebbe essere altrimenti, non solo perché storicamente Russia e Cina si sono più scontrate che incontrate, ma perché la Quarta teoria politica è inequivocabilmente ancorata alla cultura europea, ma distante e avversa all’Occidente moderno che Dugin descrive così in una intervista rilasciata appena dopo l’inizio della guerra in Ucraina:” L’Occidente moderno, dove trionfano i Rothschild, Soros, Schwab, Bill Gates e Zuckerberg, è la cosa più disgustosa della storia del mondo. Non è più l’Occidente della cultura mediterranea greco-romana, né il Medioevo cristiano, e nemmeno il ventesimo secolo violento e contraddittorio. È un cimitero di rifiuti tossici della civiltà, è anti-civilizzazione.”

Da questo punto di vista la Quarta teoria politica non manca di fornire strumenti per distinguere ciò che è cultura da ciò che si intende per civiltà, ma come per il concetto di universalismo (la cui critica, come vedremo, non è all’altezza di quella sviluppata da Samir Amin), trattasi di usum Delphini di temi di grande rilevanza politica, oltre che storica, in quanto introdotti per corroborare la tesi della battaglia contro la post-modernità che i russi e la Russia stanno combattendo da tempo.

Qui c’è una allusione forte al ruolo e ai rapporti problematici che la Russia ha sempre avuto con l’Occidente: “Le menti russe più brillanti hanno visto chiaramente che l’Occidente si stava muovendo verso l’abisso. Ora, guardando a dove l’economia neoliberista e la cultura postmoderna hanno condotto il mondo, possiamo essere certi che questa intuizione, che ha spinto generazioni di russi a cercare alternative, fosse completamente giustificata” e nell’intervista sopra citata, Dugin rafforza questa sottolineatura “russa”, arrivando a dire:” La Russia sta creando un campo di resistenza globale. La sua vittoria sarebbe una vittoria per tutte le forze alternative, sia di destra che di sinistra, e per tutti i popoli. Stiamo, come sempre, iniziando i processi più difficili e pericolosi.”

Quest’ultima frasein particolare – Stiamo, come sempre, iniziando i processi più difficili e pericolosi – deve essere suonata come una terribile minaccia alle orecchie delle borghesie occidentali, massimamente a quelle europee, perché, oltre all’evidente richiamo all’ottobre rosso, evoca tutta la dirompente forza politica e culturale di cui è stata portatrice l’eterodossia russa.

 

La bestia nera dell’Occidente

E’ difficile immaginare qualcosa di più ingiurioso e sprezzante dei giudizi e degli epiteti che sono stati indirizzati dall’inizio della guerra in Ucraina a Vladimir Putin e, attraverso di lui, all’intera Russia; neanche quando i carri armati sovietici invasero le strade di Budapest e Praga si giunse a tanta scompostezza di giudizi e di atteggiamenti anti russi.

Quando negli ambienti della cultura e dello sport, per esempio, si arriva ad annullare i concerti di Tchaikovsky o Rachmaninov, ad impedire le esibizioni di concertisti perché russi e a professori italiani di tenere lezioni su Dostoevskij; quando si espellono gli atleti russi dalle competizioni e si toglie la bandiera russa ad una damista6 mentre gioca la sua partita con una avversaria polacca, vuol dire che si è andati oltre le manifestazioni di “sdegno” che possono accadere in simili circostanze. C’è un tratto, in questi comportamenti, di profonda ostilità verso tutto ciò che è russo; c’è del livore, tanto più inaspettato, in quanto proviene da istituzioni che si vorrebbero (e che si dichiarano) scevre da pregiudizi, quasi che gli odierni russi, oltre che della guerra all’Ucraina, fossero chiamati a rispondere di precedenti colpe; una nemesi storica insomma, per tutto ciò che di imperdonabile avrebbe commesso la Russia agli occhi del moderno Occidente.

La rivoluzione del 1917 è senza dubbio la madre di tutte le colpe che si addebitano alla Russia e nonostante il suo leader attuale, l’esecrato Putin, abbia fatto di tutto per relegarla nell’oblio, essa pesa ancora nell’immaginario collettivo delle borghesie europee: eppure non fu la prima, né la più efferata che si svolse entro i confini del vecchio continente.

Quando Shakespeare fa dire al prode Harry Percy (Hotspur) “Se noi viviamo, viviamo per calpestare i re”,7 non sa quale potente argomento consegna alla storia delle rivoluzioni, tanto meno immagina che cento anni dopo la prima testa di re ad essere mozzata sarebbe stata quella di Carlo I sovrano d’Inghilterra. Cromwell, tuttavia, non fu così feroce verso la nobiltà inglese (lo fu molto di più verso i seguaci della monarchia irlandesi e scozzesi) quanto lo furono Robespierre e i giacobini nei confronti di quella francese, che di morti eccellenti ne conta forse di più di quelli della rivoluzione russa. Non è dunque lo spargimento di sangue o l’imposizione della violenza che fa la differenza con l’ottobre rosso, quanto il fatto che le rivoluzioni precedenti avevano fatto salvo il principio della inaccessibilità al potere per le classi subalterne, predisponendo, nel contempo, quel ricambio fondamentale tra aristocrazia e borghesia assolutamente indispensabile alle magnifiche sorti del capitalismo in divenire. Questo andamento, che i comunardi avevano tentato di deviare nel 1871 risultandone sterminati senza alcuna pietà, si arresta irrimediabilmente nel 1917 quando i “cafoni”, quelli che Ignazio Silone diceva venir molto dopo i cani delle guardie del principe8 riescono a riscattare la propria dignità di esseri umani con un atto senza precedenti, tanto che Lenin, conversando con Gorkj, poté esprimersi con queste parole: “Ci siamo assunti il compito gigantesco di far alzare in piedi il popolo, di dire al mondo tutta la verità sulla vita; proprio noi indichiamo ai popoli l’unica strada che può condurli verso una vita umana, emancipandoli dalla schiavitù, dalla miseria, dall’umiliazione.”9E negli anni a venire del secolo scorso non furono pochi i popoli, a cominciare dai cinesi, che intrapresero questo cammino: ma il peccato originale è rimasto comunque intestato ai russi e per quanto lontano e dimenticato, non c’è battesimo che possa, ancora oggi, cancellarlo agli occhi delle borghesie europee, nonostante gli sforzi di Putin, che nel 2008 ha persino riabilitato i Romanov riconoscendo loro di essere stati vittime della repressione politica del comunismo.

Tuttavia ci dev’essere dell’altro che, implicitamente, si addebita alla Russia se oggi le elites europee le si scagliano contro con una veemenza che non risparmia nulla di ciò che storicamente e culturalmente ha rappresentato questo paese.

La frase di Herzen10 secondo cui la storia della Russia inizia nel 1812 è quanto mai utile al fine di comprendere i controversi rapporti che si svilupparono tra l’Occidente europeo e la Russia. Nei secoli precedenti infatti essa era stata attraversata da contrasti di ogni genere (etnici, religiosi) e da guerre sia interne che esterne (Svezia e Polonia) che ne avevano fatto una sterminata “terra di confine” tra Oriente ed Occidente dove l’idea di “progresso” era recepita, di volta in volta, o come dannazione o come viatico per l’emancipazione. Se con il regno di Pietro il grande la modernizzazione della Russia sembra coincidere con la sua occidentalizzazione (peraltro segnata da guerre e repressioni sanguinose) essa, agli occhi del mondo, non è ancora una nazione, ma una immensa espressione geografica in cui i “russi” stentano ancora ad identificarsi (e ad essere riconosciuti) come tali: lo stesso Voltaire, parlando della biografia che stava scrivendo su Pietro il grande ebbe a dire “Niente di più noioso per un parigino di certi dettagli sulla Russia”.11

Eppure i costumi e le idee occidentali, segnatamente quelle derivanti dall’illuminismo, erano molto diffuse in Russia e particolarmente apprezzate dalla nascente borghesia russa di fine ‘700, ma dopo la rivoluzione francese l’”illuminata” Caterina proibì la vendita dell’Encyclopedie e ruppe le relazioni diplomatiche con la Francia.

In questo contesto storico si delinea quella interpretazione della storia russa (il cui eco risuona, non di rado, ancora oggi) che vede contrapporsi occidentalisti e slavisti sulla effettiva natura della Russia (europea o slava?) come se ciò fosse la causa e non l’effetto di una incompleta formazione delle classi che vedeva la borghesia, “occidentalista e progressista”, profittare senza ritegno dello spregevole retaggio della servitù della gleba, come fa il Consigliere Cicikov, protagonista delle Anime morte di Gogol. Di converso non è lo “slavismo” a far decidere l’imperatrice Caterina (tutt’ora dipinta sui libri di storia come un despota illuminato) di rompere le relazioni con la Francia giacobina, ma l’imperativo del potere costituito che le viene, oltre che per investitura, dalla sua appartenenza di classe.

Lo scarto tra la Russia e l’Occidente non sta nella presunta forza dello slavismo ma in ciò che, alle soglie dell’800, ancora le difettava, certamente in termini di formazioni delle classi, ma prima ancora di una identità nazionale e di una cultura e letteratura popolare (nel senso attribuitogli da Belinskij)12 che non si presentasse come derivazione di quella occidentale, pur in presenza di una intelligencija russa che in quella fase riteneva assolutamente necessario diffondere i valori dell’Occidente.

Col 1812, invasione napoleonica, si compie il primo passaggio epocale per la Russia che nella resistenza popolare alla Grande Armata trova i presupposti della sua identità nazionale e dell’inizio di una nuova storia dove la letteratura (e i letterati) avranno un ruolo preminente ed eterodosso rispetto alla cultura occidentale.

È in questo secolo che si consuma, non senza contrasti, lo stacco culturale – prima ancora che politico- con i valori fondanti del moderno Occidente (il senso della cristianità, il razionalismo della modernità, l’etica hegeliana) secondo una via di fuga che ne anticipa le tendenze e ne contesta, talvolta, l’essenza stessa

È dei russi l’introduzione del realismo in letteratura, il tratteggio non idealistico dei personaggi, di cui invece si predilige descrivere la verità di esseri umani, soggetti alle debolezze ed incoscienti del significato della loro esistenza: così si presentano l’Oneghin di Puskin, annoiato esponente dell’alta società, e lo “spregiudicato” Peciorin di Lermontov. Un eroe negativo, quest’ultimo, e non un antieroe che fatalmente sarebbe stato ricompreso nell’antiretorica della modernità. No, Peciorin anticipa di un secolo le controtendenze delle avanguardie novecentesche in termini di amoralità ed indifferenza verso i canoni dominanti dell’espressione letteraria. Come scrive Belinskij “Ciò non poteva accadere che attraverso l’esclusivo rivolgimento dell’arte alla realtà, al di fuori di ogni ideale”, impresa che Belinskij riconosce massimamente a Gogol (ucraino di nascita, ma inscindibile dalla storia letteraria della Russia) anche se poi, prima della morte dello scrittore, capovolse il suo giudizio.

Come fu accolta in Occidente questa Novelle vague ante litteram? Con diffidenza e fastidio, spesso manifestamente legate all’opinione che le elites culturali avevano dei russi: Victor Hugo disprezzava in blocco gli scrittori russi, particolarmente Tolstoj; per Schiller l’animale che più raffigurava il popolo russo era il maiale; Heine, che pure era un intellettuale contro corrente, data la sua appartenenza alla superiore scuola tedesca, non li riteneva degni di nota. Nessuno insomma che desse credito al ribollire della società russa, dalla letteratura alle tensioni di carattere politico (si pensi al movimento decabrista che anticipa nei tempi – non nelle forme – i moti rivoluzionari del 1848): del resto lo stesso Marx non avrebbe scommesso un copeco sulla possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia!

Più tardi (e dopo Dostojevskij) ci furono gli apprezzamenti di Proust e di Freud; ma il primo nel manifestarli attraverso le parole dell’io narrante de “La prigioniera”, non riesce a nascondere l’edonistica curiosità del suo ceto per il tema ricorrente della morte che perseguita i personaggi di Dostoevskij, come a dire: perché farli morire quando potrebbero tranquillamente vivere altrimenti i loro drammi? Quanto a Freud la sua è una ammirazione piena dell’opera dello scrittore, anche se poi definirà Dostoevskij un “istero-epilettico”. 13

Fu Joseph Conrad tuttavia, con un vero e proprio romanzo (Con gli occhi dell’occidente), ad esprimere il maggior grado di ostilità verso tutto ciò che rappresentava la Russia. Qui non c’è scampo alcuno per i protagonisti russi, descritti, ora come esaltati assassini, ora come abietti individui pronti al tradimento e all’inganno. Anche mettendo in conto le sue origini polacche e il suo conservatorismo, l’odio di Conrad per i russi (compresi Tolstoj e Dostoevskij) diviene in questo libro, emblematicamente, l’odio dell’Occidente che giudica tutto ciò che è russo con gli occhi della sua presunta superiorità morale, spirituale e culturale che, nel mentre perdona “l’orrore” delle aberrazioni del colonialismo occidentale attribuendole all’imperfezione umana di Kurz, protagonista di Cuore di tenebra, condanna senza appello le idee e gli uomini che avevano dato vita alla rivoluzione del 1905 in Russia.

 

La critica ignorata del Grande Inquisitore

Della “parabola” del Grande Inquisitore14 si è sempre celebrata la grandezza del Cristo che, dopo aver ascoltato in silenzio tutte le colpe addebitategli, sorride al suo accusatore e nell’atto di congedarsi da lui lo bacia sulla bocca. Un atto di grandissimo amore come solo il Cristo, tornato sulla Terra 1500 anni dopo la sua morte per conoscere quale fosse lo stato della condizione umana, può fare senza doversi né giustificare né ripetere: il verbo suo diffuso tra i mortali e tutte le sue opere terrene fino all’estremo sacrificio della morte, sono una testimonianza eterna che non ha bisogno di repliche. Per questo Cristo tace di fronte al suo inquisitore, così come 1500 anni prima aveva taciuto di fronte alle domande incalzanti di Pilato che gli chiedeva: che cos’è la Verità?

Questa è, senza dubbio, l’interpretazione più bella (e più diffusa) dell’artificio letterario concepito da Dostoevskij per celebrare la grandezza di Cristo, ma è anche una interpretazione di comodo perché col riferirsi alla ben nota religiosità dell’autore, si evitano gli interrogativi filosofici che emergono dalle accuse che il protagonista (il Grande Inquisitore) rivolge al Cristo redivivo.

Non tragga in inganno il fatto che l’incontro tra Cristo e l’Inquisitore avvenga a Siviglia e non in un luogo immaginario: la scelta della Spagna, patria della più feroce inquisizione, serve esclusivamente ad imprimere maggiore drammaticità all’incontro e non a indicare una particolare sottolineatura delle aberrazioni della Chiesa spagnola. Ne è prova il fatto che mai, nel suo lungo monologo, l’Inquisitore vi faccia riferimento, nemmeno per giustificarsi; anzi, nel formulare le sue accuse egli parla a nome di tutta la chiesa romana rivendicandone l’operato millenario in difesa dell’umanità, cosa che Cristo, questa è l’accusa fondamentale, aveva rifiutato di fare preferendo dare agli uomini la libertà di sbagliare con la promessa del pane celeste, invece di assicuragli il pane su questa terra. Siamo stati noi (la Chiesa), dice l’Inquisitore rivolgendosi a Cristo, a rimediare al tuo errore che avrebbe salvato solo i forti di spirito i quali, per quanto numerosi tu li abbia immaginati, sono assai meno della sterminata massa di deboli che non sanno come affrontare le necessità della vita terrena. Chi se ne sarebbe curato? Noi abbiamo pensato a loro, ci siamo presi sulle spalle il fardello della loro libertà e del loro governo che seguiteremo ad esercitare in tuo nome, ingannandoli ancora per tutto il tempo che sarà necessario.

Gli uomini, osserva l’Inquisitore, sono dominati da coloro che dominano le loro coscienze e nelle cui mani si trova il pane che a loro necessita e noi li convinceremo che diventeranno liberi solo quando rinunceranno alla loro libertà per noi. Se non avessimo rettificato il tuo credo fondendolo con quelli del mistero, del miracolo e dell’autorità, gli uomini non avrebbero trovato pace ai loro tormenti. Noi ci siamo fatti Cesari per portare a termine la nostra opera che è quella di unificare il genere umano nella pace e nella prosperità, cosa che tu hai rifiutato a suo tempo: perché dunque torni a disturbarci?

Dostoevskij mette in bocca queste parole al Grande inquisitore perché ciò gli è richiesto dalla costruzione letteraria del racconto, ma a parlare non è più lui, bensì l’essenza del potere che si è spogliato di qualsiasi veste e si esprime come potrebbe fare un capo di governo, un banchiere o un capitano d’industria, vale a dire oltre la dimensione temporale del potere della Chiesa che, una volta venuta a patti coi Cesari dell’antichità, condivideva, già nell’800, la gestione dell’umanità col figlio prediletto della modernità – l’illuminismo – secondo una logica di totale assoggettamento ad un unico pensiero dominante, come si coglie inequivocabilmente nella parte finale del discorso dell’Inquisitore: “Si, noi li costringeremo a lavorare, ma nelle ore di riposo organizzeremo la loro vita come un gioco di bimbi con canzoncine, cori, danze innocenti. Oh, noi permetteremo persino che essi commettano peccato – sono creature così deboli e fragili – e loro ci ameranno come dei bambini per il fatto che noi permetteremo loro di peccare. Noi diremo loro che qualsiasi peccato sarà espiato a patto che venga compiuto con il nostro permesso; e noi permetteremo loro di peccare perché li amiamo e ci accolleremo la punizione per questi loro peccati. Ci accolleremo la punizione e loro ci adoreranno come i benefattori che hanno assunto su di sé il peso dei loro peccati davanti a Dio. E non avranno nessun segreto per noi. Noi permetteremo – o vieteremo – loro di vivere con mogli e amanti, di avere o non avere figli – tutto secondo la loro docilità – e loro ubbidiranno con gioia e allegria. Anche i segreti più tormentosi della loro coscienza, tutto, tutto essi ci riferiranno e noi troveremo una soluzione per tutto e loro confideranno nella nostra soluzione con gioia, poiché essa libererà loro dal grande assillo e dalle tremende pene che adesso patiscono per giungere ad una decisione libera, personale.”

E’ un fatto che i libri di Dostoevskij non furono ben accolti subito in Russia, tanto meno in Occidente, ma se infine se ne riconobbe l’importanza, tra cui quella di aver introdotto in letteratura il “romanzo filosofico”, riguardo ai contenuti dei Fratelli Karamazov” si è sempre preferito sottolineare aspetti come la pulsione al parricidio, l’espiazione o i controversi rapporti tra fratelli, tutti ambiti che possono ancora risultare “coerenti” con i canoni della cultura occidentale: ma non c’è stata critica che abbia mai avuto il coraggio di sottolineare il significato del monologo del Grande Inquisitore, che è e resta una critica senza precedenti alla struttura stessa dell’Occidente, ai suoi valori, alle sue glorie, al suo apparire come un inesauribile inganno per l’uomo. E questo l’Occidente non lo ha mai perdonato.

Pressappoco un secolo dopo, a rinnovare lo “sgarbo” verso i valori dell’Occidente, ci pensò Yuri Gagarin “Cosmonauta sovietico, figlio del proletariato, figlio della scienza, che assaltò il cielo e volò tra le stelle”15 che per il solo fatto di essere russo e di essere stato il primo uomo nello spazio (seguito a due anni di distanza da Valentina Tereskova, anch’essa russa e prima donna nello spazio) aveva incrinato l’immagine di superiorità dell’Occidente. Ma Gagarin mentre era in volo, nel suo genuino realismo di russo – non l’artefatto realismo socialista – ebbe l’indelicatezza di dire “Da quassù la terra è bellissima, senza frontiere, né confini” che già di per sé metteva in discussione i concetti di nazione e nazionalità tanto cari all’Occidente, ma poi, una volta a terra, aggiunse:” Sono stato lassù e non ho trovato nulla. Nulla: non c’è dio nel cielo, né angeli, né marziani. Noi siamo soli.”16 Una imperdonabile sfrontatezza che dopo l’inizio della guerra in Ucraina ha provocato più di un attacco alla sua memoria.

Sì, l’Occidente europeo e poi anche americano, non tollera che si metta in discussione il suo primato in nessun campo. La sua civiltà si “è fatta da sola” ed è la migliore al mondo per cui tutti gli altri popoli le sono debitori e se mai è successo o succederà che altre culture la sopravanzino in qualcosa, sarà sempre discrezione dell’Occidente riconoscerne il valore, con tutti, meno che verso la Russia, la Bête Noire, a cui persino nella comunicazione corrente o nella cultura pop è riservato solo spregio, diffidenza e oblio.

Per i media europei quelli che da noi sono chiamati rispettosamente imprenditori o manager, in Russia sono, spregiativamente, oligarchi, mentre gli uomini politici, che da noi si omaggiano del titolo di onorevoli, in Russia diventano ineluttabilmente degli autocrati.

Quanto alla cultura pop gli esempi non mancano. Basta pensare che il titolo di “concerto del secolo” è universalmente riconosciuto a quello tenuto il 13 luglio 1985 in contemporanea tra il Wembley stadium di Londra e il John F. Kennedy Stadium di Philadelphia (Live Aid) da una schiera di rockstar a beneficio dell’Etiopia, colpita da una tremenda carestia.

Esattamente 43 anni prima, il 9 agosto del 1942, nella città di Leningrado, si teneva un concerto dove fu suonata la VII sinfonia di Dmitry Shostakovich, nota anche come sinfonia di Leningrado. Shostakovich cominciò a comporla nel 1941 mentre prestava servizio a Leningrado come pompiere. La sua esecuzione nella città assediata e bombardata dalle truppe naziste da oltre 500 giorni, dove i morti fra i civili furono centinaia di migliaia, fu considerato un atto unico nella storia della musica e dette un impulso enorme alla resistenza di tutto il popolo russo, tanto da far dire a David Ojstrach (tra i più famosi violisti del ‘900) che “La musica di Shostakovich suonava come un’affermazione profetica sul fascismo, come una generalizzazione poetica dei sentimenti patriottici del popolo, la loro fede nel trionfo dell’umanesimo.” Ma di questo concerto non c’è più memoria nei media occidentali, nel mentre che si celebrano come “impegnate” in senso pacifista, canzoni come Russians, di Sting, del 1985 – recentemente riproposta dall’autore in appoggio “ai coraggiosi ucraini che combattono contro questa brutale tirannia” - dove il ritornello dice: “Spero che anche i russi amino i loro bambini” come a dire che la cosa non è così scontata come per noi occidentali. Appena un anno prima, 1984, un cantautore come Lucio Dalla cantava “Se io fossi un angelo” dove c’è una strofa che recita così: “ E’ chiaro che volerei – Zingaro libero- Tutto il mondo Girerei- Andrei in AfghanistanE più giù in Sud Africa- A parlare con L’America– E se non mi abbattono- Anche coi russi parlerei” dove emergono due aspetti: uno è la condiscendenza dell’autore che si dichiara disposto persino a parlare con i russi; l’altra è che si dà per scontato che i russi, a differenza di tutti gli altri popoli menzionati, ti sparano senza nemmeno farti aprire bocca.

Sono ancora e soltanto gli occhi dell’Occidente di cui scriveva Conrad a giudicare tutto ciò che è russo.

 

Fuori dall’occidente?

Quando Alberto Asor Rosa scriveva, nel 1992 dopo la Guerra del Golfo, Il nuovo ordine sarà tempestoso e terribile e la guerra ne sarà un elemento fondante e continuo”17 aveva visto giusto, ma non aveva considerato il tutto.

Nella sua riflessione sull’Occidente si avverte, in primo luogo, il timore per le conseguenze che l’unicità del potere Usa su scala mondiale porterà con sé. È sbagliato pensare, dice Asor Rosa, che “l’Unum imperium, unus rex, fondi un principio di pace”; al contrario, egli avverte, “scorreranno fiumi di sangue, non si avrà pietà per nessuno” quasi a voler riassumere in un flash le tremende profezie dell’Apocalissi di Giovanni che costituiscono la trama parallela del suo libro. Ma non è tanto per l’orrore della violenza con cui, secondo Giovanni, il Bene sconfiggerà il Male che Asor Rosa “rilegge” l’Apocalissi, quanto per il fatto che la battaglia risolutiva descritta da Giovanni, sarà l’ultima a cui il genere umano assisterà, dal momento che l’inveramento della civitas dei (la Gerusalemme celeste che scende sulla terra) “cancella la storia umana e la risolve in quella divina”. È la fine di tutte le fini (dell’umanità, della storia) si potrebbe dire, che se da un lato rivela il portato escatologico del messaggio cristiano secondo Giovanni (cioè che il trionfo del Bene celeste è legato alla scomparsa dell’umanità), dall’altro porta a riflettere sulla implacabile minaccia costituita dalla vittoria esclusiva dell’Occidente sul resto del mondo, nella raffigurazione che se ne aveva, all’epoca, attraverso la guerra del Golfo.

L’analisi di Asor Rosa è assai densa di rimandi e riflessioni filosofiche che attraversano il tema principale del libro, vale a dire come porsi di fronte alla rappresentazione che l’Occidente dava di sé in quel momento storico collocato a ridosso della caduta del socialismo. Da un punto di vista etico e filosofico, l’Occidente di Asor Rosa precede le altre culture anche (e forse) soprattutto nell’avvicinarsi al nulla, avendo bruciato a tappe forzate il suo bagaglio ideologico, religioso e razziale. Un percorso di “devalorizzazione” dunque che Asor Rosa vede – positivamente – come baluardo ad un eventuale resipiscenza di tipo fideistico-religioso, ma nel contempo esso porta alla perdita di senso generale dell’esistenza umana (L’umanità viene dal nulla e non va in nessun luogo), di cui il nichilismo rappresenta sul piano teorico la più efficace rivelazione. E datosi che “rivelazione” è sinonimo di Apocalissi, ecco che secondo lui “il nichilismo è l’autentica Apocalisse dell’Occidente”.

Come rapportarsi a tutto ciò? Quali eventuali rimedi sono ancora nelle nostre disponibilità di occidentali? Se fosse il titolo del libro a guidarci – Fuori dall’Occidente – rimarremmo delusi perché il testo non vi corrisponde, se non in modo interlocutorio.

Non fa sconti Asor Rosa all’avanzare del dominio occidentale sul mondo. Il nuovo ordine, da lui definito tempestoso e terribile, ci allontanerà dalla pace: “ Il mondo si separerà e contrapporrà sempre di più sostituendo ai principi universali la difesa dell’identità di ciascuno contro quelle di tutti gli altri. All’unum imperium, unus rex -fondato su di una invincibile supremazia economica e tecnologica, la quale costituisce il moderno principio di autorità- verrà accompagnandosi una disgregazione e separazione sempre più accentuata dei singoli individui, il marasma generalizzato dei poteri.” Ciò avverrà, peraltro, in costanza di condizioni di vita caratterizzate da povertà, emarginazione e degrado largamente diffuse tra la popolazione mondiale che, secondo Asor Rosa, testimoniano di una svolta evidente nella espressione della morale comune ormai frutto di disvalori, o meglio, dell’emergere di convenienze latenti e mai definitivamente espulse dal corpo sociale, al punto che: “Gli stessi concetti di civiltà e di barbarie saranno messi in gioco e continuamente ribaltati”. Due i fattori che, secondo lui, soprintendono a questo processo: da un lato l’affermarsi di un principio di indifferenza generale verso i mali del mondo, inestricabilmente connesso al conseguimento del consenso da parte delle elites dominanti (La massima applicazione possibile del principio di indifferenza, coincide con la massima realizzazione possibile del consenso); dall’altro la definitiva rimozione del principio di contraddizione che aveva marcato tutta la storia dell’occidente (Il male principale dell’Occidente è l’essersi mangiato totalmente il proprio principio di contraddizione).

Date queste considerazioni, parrebbe scontato che l’autore, in ossequio al titolo del suo libro, giungesse a concludere che occorre abbandonare l’Occidente, ma non è così perché, postosi di fronte all’interrogativo di come uscire dall’Occidente, Asor Rosa risponde con un ragionamento al limite del sofisma: “Il fatto stesso che io mi ponga questa domanda, – dice – che senta l’urgenza di farlo, e che sia in grado di farlo, è occidentale. Se fossi già fuori dall’Occidente -me ne rendo conto benissimo- o non me la porrei affatto, o non sarei in condizioni di farlo.”

Secondo lui dunque non c’è scampo all’essere implacabilmente “occidentali” ma, al tempo stesso si può essere “presuntuosamente” coscienti di non esserlo. Conclusione questa che solo gli intellettuali di rango possono permettersi, dato che proprio nelle società occidentali è demandato loro di occuparsi delle umane miserie (materiali e spirituali) con quel misto di misericordia e di (come potrebbe mancare!) “consapevole” riconoscimento dei propri errori, che però si risolve immancabilmente in un giudizio salvifico per sé e per la società cui appartengono.

Al termine di questa “coscienziosa” riflessione occidentale sull’Occidente, Asor Rosa lascia tuttavia aperto uno spiraglio:” Se l’Occidente potesse “vedersi” – dice – anche una sola volta, nella sua indifferenza gelida e disperata, nel suo tetro grigiore di potenza esclusiva e soddisfatta, si aprirebbe probabilmente una crepa in quella corazza, che è anche un carcere. Il compito fondamentale in questo momento non è dunque “fare politica”, ma costringere l’Occidente a vedersi.” Ma attraverso quali occhi? Questo è l’interrogativo inevaso anche da Asor Rosa; la parte mancante di una riflessione sull’Occidente che non sia fatta, come quella di Conrad sulla Russia, proprio con gli occhi dell’Occidente.

In anticipo su Asor Rosa, sia nei tempi che nei modi, anche Sartre affrontò la medesima questione. Si era, è giusto ricordarlo, in un momento in cui l’Occidente e particolarmente l’Europa, era sotto attacco da parte di un intero continente, l’Africa, da essa dominato e saccheggiato per secoli. L’apice di questo scontro era rappresentato dalla guerra in Algeria, ma la ribellione covava in Tanzania, Mozambico, Angola, Congo, ed in tutta l’Africa centrale con rivolte e massacri sanguinosi. Accanto ai leader che guidavano materialmente queste rivolte – tra i più noti Amilcar Cabral, Julius Nierere, Patrice Lumumba, Samora Machel – spicca la figura di Frantz Fanon, autore del libro “I dannati della terra”, di cui Sartre scrisse la prefazione.

Il libro di Fanon18, pubblicato nel 1961, è sì un libro che tratta di colonialismo (un’intera parte è intitolata “Guerra coloniale e disturbi mentali”), ma è soprattutto un manifesto politico rivolto ai colonizzati di tutto il mondo. La sua pubblicazione fu, letteralmente, uno scandalo che Sartre cercò, da par suo, di far assurgere a condanna senza appello per l’Europa intera.

In Algeria, in Angola – scrive Sartre – si massacrano a vista gli europei. È il momento del boomerang, il terzo tempo della violenza: essa ritorna su di noi, ci percuote e, mica più delle altre volte, noi non capiamo che è la nostra. I liberali restano storditi: riconoscono che non eravamo abbastanza gentili con gli indigeni, che sarebbe stato più giusto e più prudente accordar loro certi diritti nei limiti del possibile […] La Sinistra Metropolitana sta a disagio: conosce la vera sorte degli indigeni, l’oppressione senza quartiere di cui sono oggetto, non condanna la loro rivolta, sapendo che abbiamo fatto di tutto per provocarla. E tuttavia, pensa, ci sono dei limiti: quei guerrilleros dovrebbero avere a cuore di mostrarsi cavallereschi, sarebbe il miglior mezzo di provare che sono uomini. Vale a dire che per le anime belle dell’epoca (rappresentate dalla sinistra francese, qui definita Sinistra Metropolitana)19, se gli africani volevano essere considerati uomini e non bestie (che era l’appellativo ricorrente a loro riservato), dovevano comportarsi in modo cavalleresco nei confronti dei loro sfruttatori, i quali erano pur sempre i rappresentanti della civiltà e dei valori dell’Occidente. Rappresentanti che sotto l’insegna di un umanesimo razzista, predicavano e pretendevano (dagli africani) rispetto e non violenza dopo averli, per secoli, negati alle popolazioni indigene; ed è a costoro che Sartre riserva l’invettiva più feroce: “Occorre affrontare intanto questo spettacolo inaspettato: lo streap-tease del nostro umanesimo. Eccolo qui tutto nudo, non bello: non era che un’ideologia bugiarda, la squisita giustificazione del saccheggio; le sue tenerezze e il suo preziosismo garantivano le nostre aggressioni. Bella figura, i non violenti: né vittime né carnefici! Andiamo! Se non siete vittime, quando il governo che avete plebiscitato, quando l’esercito in cui i vostri fratelli più giovani han prestato servizio e, senza esitazione né rimorso, si sono accinti ad un genocidio, siete indubbiamente carnefici.”

In cosa si differenzia l’atteggiamento di Sartre rispetto a quello di Asor Rosa? Preliminarmente va detto che il testo di Sartre preso a riferimento (la prefazione al libro di Fanon) risente della particolare situazione politica esistente nella Francia del 1961, lacerata dalla guerra d’Algeria, in cui Sartre ebbe un ruolo di primo piano20. Ciò premesso quello che è palese in lui è l’assoluta mancanza di rispetto per quei “valori occidentali” che invece tormentano Asor Rosa. Quella di Sartre è una presa di posizione che non ha radici lontane da chiamare in causa, ma solo l’implacabile necessità di affondare il coltello nelle contraddizioni del presente: “Nell’Europa di oggi, tutta stordita dai colpi che le sono inferti, in Francia, in Belgio, in Inghilterra, la minima distrazione del pensiero è una complicità delittuosa con il colonialismo”. Mentre Asor Rosa sente (e fa sentire nel suo libro) il peso della storia dell’Occidente, Sartre se ne libera senza alcun rimpianto: “Un tempo il nostro continente aveva altre Tavole di salvezza: il Partenone, Chartres, i Diritti dell’Uomo, la svastica. Si sa adesso quello che valgono: e non si pretende più di salvarci dal naufragio se non col sentimento molto cristiano della nostra consapevolezza. E’ la fine, come vedete. L’Europa fa acqua da tutte le parti. Che è dunque successo? Questo, molto semplicemente, che eravamo i soggetti della storia e che ne siamo adesso gli oggetti […] Guardiamoci, se ne abbiamo il coraggio, e vediamo quel che avviene di noi.”

Questo richiamo a “guardarsi” che in Sartre è dominato dall’impellenza della guerra in Algeria, è presente anche in Asor Rosa (costringere l’Occidente a vedersi), ma mentre per quest’ultimo rappresenta la condizione necessaria per restare nell’Occidente, per Sarte si tratta di prendere atto della sua fine, scegliendo di schierarsi dalla parte di quelli che si ribellano al suo dominio perché è da questi, in ultima istanza, che secondo lui ci verrà la spinta a fare nuovamente la storia dell’uomo.

Le cose non sono andate propriamente così, dato che né il colonialismo si può dire definitivamente sconfitto, né si è riusciti a “vedersi” e a vedere il mondo con occhi diversi da quelli dell’Occidente. Anzi, la guerra in corso in Ukraina testimonia l’esatto contrario: lungi dall’ammettere di aver contribuito a provocarla, l’Occidente pretende di legittimarla in nome dell’universalità dei suoi valori e dell’esclusività del suo passato. Era già successo con la guerra dei Balcani e con le due guerre del Golfo e continuerà a succedere a meno che, guardandoci finalmente con altri occhi, riusciremo a vedere -almeno qui, nella vecchia in Europa – che questa teoria della storia universale, questo progetto politico globale su cui si fonda il primato dell’Occidente, è frutto di una costruzione ideologica che non ha precedenti.

 

Con gli occhi dell’altro

Di questo parla abbondantemente Samir Amin nel suo libro “Eurocentrismo: critica di una ideologia”.

Il processo descritto da Amin avvolge tutti gli aspetti dell’ideologia dominante, dallo sviluppo del capitalismo alla sua interazione con il cristianesimo, dal settorialismo religioso all’universalismo dei suoi valori etico-sociali. L’idea di Europa che ne viene fuori, è in realtà frutto di continue rimozioni e inglobamenti arbitrari che, nel tempo, hanno teso a creare una visione globale e coerente della società e della storia, secolarizzando il concetto di Occidente come se fosse sempre esistito: “Il culturalismo dominante ha quindi inventato un “sempre Occidente”, unico e singolare fin dall’inizio. Questa costruzione, arbitraria e mitica, imponeva contemporaneamente la costruzione altrettanto artificiale degli “altri” (gli “Orienti”, o “l’Oriente”) su basi altrettanto mitiche, ma necessarie per affermare la preminenza dei fattori di continuità su cui operare. La tesi culturalista eurocentrica si fonda su un noto ceppo di “caratteri occidentali” – l’antica Grecia, Roma, l’Europa cristiana, prima feudale e poi capitalista – che costituisce una delle idee correnti più popolari. I libri di scuola elementare e l’opinione generale contano qui tanto – e anche di più – delle tesi accademiche che cercano di giustificare la parentela della cultura e della civiltà europea in questione. Questa costruzione, come quella dell’antitesi che le si oppone (“l’Oriente”): (i) strappa l’antica Grecia dall’ambiente reale entro cui era dispiegata, che è appunto “l’Oriente”, per annettere arbitrariamente l’ellenismo all’europeità; (ii) non prende le distanze da un’espressione razzista delle basi fondamentali su cui sarebbe stata costruita l’unità culturale europea in questione; (iii) esalta il cristianesimo, anch’esso arbitrariamente annesso all’europeità e interpretato come il principale fattore di permanenza dell’unità culturale europea, secondo una visione idealista, non scientifica del fenomeno religioso (che è la visione con cui la religione si afferma, il modo in cui vede se stessa); (iv) in modo perfettamente simmetrico, l’Oriente immediato e gli Orientali più lontani, vengono costruiti su basi in parte razziste e in parte fondate su una visione immutabile delle religioni.” (Amin)

Il recupero dell’ellenismo è quanto mai efficace a chiarire quest’opera di arbitraria costruzione del pensiero occidentale, dato che esso avvenne solo col Rinascimento europeo; vale a dire più di mille e cinquecento anni dopo che il meglio della cultura ellenica – filosofia, scultura, architettura – si era espresso, mentre per tutto il medio evo restò ignorato (se non occultato) dal cristianesimo dominante, il cui unico oppositore – non solo religioso – era rappresentato dal mondo arabo-islamico. “Il mito dell’antenato greco ha svolto una funzione essenziale nella costruzione eurocentrica. È un argomento emotivo costruito artificialmente per evadere la vera domanda (perché il capitalismo è apparso in Europa prima degli altri?) sostituendola, nella panoplia delle false risposte, con l’idea che l’eredità greca predisponesse alla razionalità. In questo mito, la Grecia sarebbe la madre della filosofia razionale, mentre “l’Oriente” non sarebbe mai riuscito ad andare oltre la metafisica. In questo spirito, la presentazione della storia del cosiddetto pensiero o filosofia occidentale (che quindi presuppone altri pensieri e filosofie essenzialmente differenti, che si chiameranno orientali) si apre sempre con il capitolo sulla Grecia antica, sul quale si pone l’accento la varietà e il conflitto delle scuole, l’apertura di un pensiero libero da costrizioni religiose, l’umanesimo, il trionfo della ragione (il vero miracolo!) senza riferimento “all’Oriente” – il cui contributo al pensiero ellenico si presume nullo. […] La filosofia arabo-islamica è trattata come se non avesse altra funzione che quella di trasmettere l’eredità greca al Rinascimento. L’Islam, inoltre, in questa visione dominante, non sarebbe andato oltre l’eredità ellenica e, quando avrebbe tentato di farlo, l’avrebbe fatto male. Questa prima costruzione, le cui origini risalgono al Rinascimento, assolveva una funzione ideologica essenziale nella formazione dell’uomo borghese onesto e affrancato dal pregiudizio religioso del medioevo. Alla Sorbona, come a Cambridge, le generazioni che si sono succedute come prototipi della élite borghese si sono nutrite di questo rispetto per Pericle, riprodotto anche nei libri delle scuole elementari.” (Amin)

Storicamente dunque la costruzione dell’eurocentrismo -in quanto perno della concezione occidentale del mondo – si afferma col Rinascimento (Amin arriva persino a individuarne l’anno, 1492, coincidente con la scoperta dell’America) non tanto per il contenuto filosofico-umanistico di cui era portatore, quanto per la consapevolezza, da parte degli stati europei, di aver raggiunto uno sviluppo economico e militare tale da consentir loro di procedere alla conquista del mondo. “Diventano quindi consapevoli di una superiorità in qualche modo assoluta, -dice Amin – anche se l’effettiva sottomissione degli altri popoli richiederà ancora tempo. Disegnano le prime vere mappe del pianeta. Conoscono tutti i popoli che lo abitano e sono gli unici ad avere questo vantaggio. Sanno che anche se un tale impero ha ancora i mezzi militari per difendersi, loro, europei, saranno in grado di sviluppare mezzi più potenti. L’eurocentrismo si è cristallizzato in questa nuova coscienza, da allora, non prima.”

Questo processo ha due momenti fondamentali: l’espropriazione manu militari da parte degli stati centrali europei (dopo 700 anni di dominazione araba in Spagna e 200 anni in Sicilia) della summa di conoscenze sviluppatesi in seno alla civiltà arabo-islamica e, in parte, italiana (l’Italia dei comuni e delle repubbliche marinare) che Amin chiama “sistema Mediterraneo”; il conseguente trasferimento dei centri del potere economico e militare nelle regioni europee del Nord atlantico con l’emarginazione del vecchio centro mediterraneo.

Per tutto questo periodo l’universalismo, inteso come odierno vessillo della superiorità occidentale, non è maggiormente presente nella “coscienza europea” (ancora in formazione) di quanto lo sia in quella araba, se non in una forma metafisica, ovvero religiosa, come dimostrano le crociate dove cristiani e musulmani si credono egualmente detentori di una religione superiore, a cui però nessuno dei due contendenti (i cristiani-europei certamente meno dei musulmani-arabi), può far corrispondere un sistema di valori etico-sociali che possa dirsi universale. L’universalismo resta quindi latente, un’aspirazione incompiuta, fino a quando -col Rinascimento – la nascente società europea riesce ad imporre i suoi valori sul mondo allora conosciuto.

Questo è l’embrione dell’eurocentrismo che oggi conosciamo, il quale per successive lacerazioni ed integrazioni, mai pacifiche, diviene un progetto politico globale capace persino di coniare una teoria della storia universale. Fondamentale, da questo punto di vista, l’avvento del capitalismo con la sua accumulazione originaria (non a caso affermatasi “a tratti di sangue e di fuoco” come scrive Marx), ma ciò secondo Amin, non è determinante per affermare la superiorità europea, anche perché, verosimilmente, gli europei del Rinascimento non sapevano che stavano “costruendo” il capitalismo. No, la superiorità valoriale degli europei si afferma innanzitutto come appartenenza di fede (cristiana) e come discendenza dall’antenato greco, appena riscoperto dal Rinascimento. Per usare le parole di Amin: ”L’eurocentrismo nel suo insieme c’è già. In altre parole, l’apparizione della dimensione eurocentrica dell’ideologia del mondo moderno precede la cristallizzazione delle altre dimensioni che definiscono il capitalismo.”

È un passo spiazzante per noi occidentali tutti, perché nonostante la versatilità intellettuale di cui disponiamo, e pur mettendo in conto tutta la nostra “consapevolezza” (cristiana o materialista che sia) per gli errori commessi, ci troviamo di fronte ad un pregiudizio storico – la costruzione dell’eurocentrismo e dell’idea stessa di Occidente – che anticipa, sul piano dei valori, le forme e i modi con cui il capitalismo assurgerà poi a sistema-mondo. Detto in altri termini è il pregiudizio eurocentrico, il suo cristallizzarsi come insieme di valori eterni e superiori, che fa del modo di produzione capitalistico l’elemento principe di una teoria sociale potenzialmente universale che, prima ancora di essere concepita come tale, non poteva che nascere in Europa, ovvero nella “culla” dell’Occidente.

Non saprei dire, a questo punto, se “lo sguardo dell’altro” (quello di Amin) possa essere posto all’origine del “nostro” occidentale senso di colpa per aver rimosso, pur avendone sentore, questo pregiudizio storico che, nel migliore dei casi, saremmo tentati di risolvere in base alle riflessioni di Asor Rosa secondo cui si può (e si deve) uscire dal capitalismo, ma non si può uscire dall’Occidente. Certo è che Amin non si esime dal fare, anche su questo aspetto, una riflessione critica che coinvolge la storia stessa del marxismo: L’ideologia moderna non è stata costruita nell’etere astratto del modo di produzione capitalista puro. La stessa consapevolezza della natura capitalista di questo mondo moderno è relativamente tarda, poiché è stata prodotta dal movimento operaio e socialista proprio attraverso la critica all’organizzazione sociale nel XIX secolo, culminata nella sua espressione marxista. Quando è emersa questa critica, l’ideologia moderna, che aveva già alle spalle tre secoli di storia (dal Rinascimento all’Illuminismo), si è ridefinita come un’ideologia propriamente europea, razionalista e laica, postulando una nuova dimensione universalistica. La critica socialista, lungi dal costringere questa ideologia a misurare meglio la sua reale portata storica e il suo contenuto sociale, al contrario ha indotto l’ideologia borghese, dal diciannovesimo secolo in poi, a rafforzare le sue proposte culturaliste, anche in risposta alle domande dei suoi avversari sociali. La dimensione eurocentrica dell’ideologia dominante ha così assunto maggiore rilievo.”

In senso storico dunque, Amin sembra insinuare che la critica marxista, concentrata com’era sulla denuncia delle contraddizioni strutturali della società capitalista, abbia sottovalutato il portato ideologico-culturale che la sorreggeva (l’eurocentrismo), rivelatosi, sul piano dell’universalismo, assai più dinamico e convincente di quanto fosse l’universalismo di matrice marxista.

Ecco che di nuovo torna il tema della costruzione ideologica dell’Occidente, specie nella modernità post-illuministica dell’800, quando la filosofia europea – assolutamente dominante – disegna i connotati della nuova società: “La filosofia europea dell’Illuminismo ha definito il quadro essenziale dell’ideologia del mondo capitalista europeo. Questa filosofia si basa su una tradizione di materialismo meccanicistico che afferma una serie di concatenazioni causali inequivocabili. Il principale tra questi è che la scienza e la tecnologia determinano con il loro progresso (autonomo) quello di tutti i settori della vita sociale; il progresso tecnico impone la trasformazione delle relazioni sociali. La lotta di classe è rimossa dalla storia: al suo posto subentra un determinismo meccanico che si impone come forza esterna, come legge di natura. Questo crudo materialismo, che spesso si crede contrario all’idealismo, è in realtà solo il suo fratello gemello: sono due facce della stessa medaglia. Sia che si dica che Dio (la Provvidenza) guida l’umanità sulla via del progresso o che sia la scienza a svolgere questa funzione, il risultato non cambia: l’uomo cosciente, non alienato, le classi sociali, spariscono dal mondo. […] A poco a poco si costituisce un nuovo funzionamento del mondo delle idee e del loro rapporto con la società reale. L’autonomia della società civile è la prima caratteristica del nuovo mondo moderno, basato sulla separazione tra vita economica (a sua volta offuscata dalla generalizzazione dei rapporti di mercato) e potere politico. Tale è la differenza qualitativa tra il nuovo modo capitalista e tutte le formazioni precapitalistiche. Questa autonomia della società civile è alla base sia del concetto di vita politica autonoma (e quindi di democrazia moderna) sia di quello di possibile scienza sociale. La società sembra, per la prima volta, essere governata da leggi esterne alla volontà degli uomini, anche dei suoi Re. Questa banalità si impone immediatamente a livello delle relazioni economiche e dell’evoluzione che esse comandano. Da allora in poi, l’eventuale scoperta di queste leggi sociali non è più, come lo era stata fino a Ibn Khaldoun e Montesquieu, il prodotto di una semplice curiosità, ma diventa un’emergenza necessaria per la “gestione del capitalismo”. (Amin)

La sottolineatura che Amin fa della società civile (prima caratteristica del mondo moderno) è quanto mai utile a comprendere il processo di costruzione ideologica dell’eurocentrismo. Basta pensare che la stessa Costituzione europea, introducendo il principio della democrazia partecipativa (Titolo VI, Artt. I-47; I-50) riconosce alla società civile e alle sue associazioni il ruolo di interlocutore delle istituzioni.

Questo sommo riconoscimento testimonia ancora una volta dell’esclusività europea, non solo perché il concetto di società civile non gode della stessa importanza in altre regioni occidentali (Nord America) e risulta praticamente assente nel resto del mondo, ma soprattutto perché la sua definizione è frutto di una lunga serie di riflessioni tutte interne al pensiero europeo.

Già nella tradizione giusnaturalistica (Locke, Russeau) la società civile è vista come l’antitesi della società naturale e si costituisce nel momento in cui gli individui decidono di uscire da questo “stato di natura” dandosi di comune accordo delle regole. C’è qui in embrione l’idea di stato in quanto società “artificiale” che si eleva al di sopra dei rapporti naturali, ma nel momento in cui questa concezione pre-moderna cederà il posto alla concezione dello stato come entità separata, la connotazione di società civile sarà modificata. Successivamente Hegel, per quanto abbia lavorato a lungo alla sistemazione della filosofia pratica (cioè l’etica), non riuscirà a concepire la società civile se non come categoria residua dove comprendere tutto ciò che non poteva essere rappresentato nei due aspetti fondanti della società –la famiglia e lo Stato- dibattuti fin dai tempi di Aristotele. La conclusione, parziale e controversa, fu quella di concepire la società civile come momento giuridico amministrativo delle relazioni fra gli uomini, mentre lo Stato vero e proprio avrebbe rappresentato il momento etico-politico con cui il cittadino si sarebbe dovuto identificare intimamente e totalmente. Allo Stato, dunque, il compito di far applicare le leggi, dirimere i conflitti di interesse e imporre il diritto, alla società civile il compito di provvedere all’educazione, l’assistenza ai poveri, la ripartizione del lavoro.

Sarà Marx a riconsiderare quest’interpretazione, da cui in ogni caso trasse spunto, sotto il profilo di interdipendenza della società civile dallo Stato o sistema politico determinato, riconducendo l’analisi della società civile nell’ambito dell’economia politica proprio in quanto le istituzioni politiche si basano sui rapporti materiali dell’esistenza, dai quali prende origine la società civile.

“Lo Stato moderno ha come base naturale la società civile (che è il luogo dei rapporti economici, n.d.r.), l’uomo della società civile, cioè l’uomo indipendente, unito all’altro uomo solo con il legame dell’interesse privato e della necessità naturale e incosciente” (Marx – Engels, La sacra famiglia).

Ma la società civile di Marx -nelle condizioni date dalla modernità- è il frutto dell’emancipazione politica della borghesia liberatasi dai vincoli dello Stato assoluto per imporre i propri interessi di classe, per cui la società civile non può non intendersi che come una delle manifestazioni della società borghese.

Indubbiamente più confacente all’idea corrente di società civile quest’analisi di Marx, ma non ancora del tutto esauriente riguardo al perché della rilevanza assegnata a questa neo definita superpotenza mondiale.

Uno spunto ulteriore ci viene da Gramsci e dalla sua attenzione all’iniziativa che le classi dominanti rivolgono alla sfera ideologica o sovrastrutturale.

Nell’ambito della sua analisi sul ruolo degli intellettuali nella società, Gramsci approfondisce il concetto di società civile fino a concepirlo come momento privilegiato in cui si manifesta l’egemonia delle classi dominanti. L’ambito della società civile non è solo la base materiale (dunque struttura) dei rapporti economici su cui si fonda la società di classe, ma è anche il momento in cui la classe dominante sviluppa la formazione del consenso e dunque luogo di sperimentazione- affermazione dell’ideologia (sovrastruttura). Di più Gramsci arriva a definire che, oltre il dominio diretto esercitato attraverso il governo giuridico della società, il ruolo egemone della borghesia si esplica su due livelli: quello della “società politica” con tutte le sue articolazioni “pubbliche”, e quello della “società civile” costituita dall’insieme di organismi comunemente detti “privati” (oggi si direbbe non governativi).

L’elemento di novità che Gramsci inserisce in quest’analisi è quello per cui la società civile non è solo il luogo dove si formano le relazioni economiche (Marx), ma è anche momento etico-politico in cui la classe dominante ricerca -attraverso l’etica- la formazione del consenso e dunque esercita la sua egemonia.

Queste considerazioni, ricondotte nel solco tracciato da Amin, ne rafforzano la tesi proprio perché la concezione della società civile è, non solo, squisitamente europea, ma decisamente finalizzata alla costruzione della “euroeità”, al suo secolarizzarsi come sistema di valori sempre esistito.

Illuminante quanto scrive Amin in proposito: “Il secolarismo è la diretta conseguenza di questo potenziamento della società civile, dal momento che intere aree della vita sociale sono ora concepibili indipendentemente l’una dall’altra. E ciò in ultima analisi risponde alla esigenza di una ideologia dominante che, per essere tale, deve affermarsi come fondata su “verità eterne” con una vocazione trans-storica. L’ideologia dominante del nuovo mondo adempie quindi a tre funzioni complementari indissolubilmente legate. In primo luogo, oscura la natura essenziale del modo di produzione capitalistico. Anzi, sostituisce la lucida consapevolezza dell’alienazione economista su cui si basa la riproduzione della società capitalista con il discorso di una razionalità strumentale trans-storica. In secondo luogo, distorce la visione della genesi del capitalismo, rifiutando di considerarla fondata sulla ricerca delle leggi generali dell’evoluzione della società umana, per sostituirla a una doppia costruzione mitica (l’Occidente e gli “Orienti” n.d.r.). Si arriva così alla conclusione che il miracolo del capitalismo non può che essere europeo. In terzo luogo, rifiuta di collegare le caratteristiche fondamentali del capitalismo realmente esistente (cioè la polarizzazione centro/periferia che gli è immanente) al processo di riproduzione di questo sistema nella sua dimensione globalizzata. L’ideologia dominante legittima quindi sia il capitalismo come sistema sociale sia la disuguaglianza globale che lo accompagna. L’ideologia europea si costruirà gradualmente, dal Rinascimento all’Illuminismo del XVIII secolo e del XIX secolo, intorno all’invenzione delle verità eterne che questa legittimazione richiede. Il mito cristianofilo, quello dell’antenato greco, artificiosa costruzione antitetica dell’orientalismo, definiscono il nuovo culturalismo europeo ed eurocentrico, condannandolo irrimediabilmente a convivere con la sua anima dannata: il razzismo ineliminabile.”

 

Per non lasciarsi la guerra alle spalle

Questa guerra in Ukraina non è come le altre che, in tempi recenti, l’hanno preceduta anche se è evidente la loro consequenzialità. Anzi, è proprio questo l’aspetto più inquietante che la sottende: la reiterazione di una logica di dominio, la sua vocazione predatoria, il suo giustificarsi in base ad una ragione che si pretende universale.

Ma stavolta è più grave perché l’Occidente – la Nato, gli Usa, l’Europa – ha perduto ogni freno inibitorio e non ammette più alcun limite alla sua espansione economica e militare, né a quella politico-culturale “essendosi mangiato totalmente il proprio principio di contraddizione” (Asor Rosa).

Non per nulla, all’indomani della seconda guerra del Golfo, Amin scriveva: L’aggressione militare non si fermerà ai paesi che ne sono oggi le vittime dirette. Il controllo militare del pianeta punta direttamente alla Russia, alla Cina, all’India e all’Iran, assoggettando questi paesi al ricatto permanente di interventi militari condotti a partire dalle basi militari che gli Stati Uniti installano in Medio Oriente e in Asia Centrale. […] L’establishment di Washington non cela le sue intenzioni: ha orrore dei ‘paesi grandi’ che un giorno o l’altro potrebbero resistergli, ed è deciso a impedire con ogni mezzo – incluso quello militare – che questi arrivino a svilupparsi abbastanza da sfidarlo”. Ed è proprio quello che è successo: negli ultimi 20 anni le spese militari Usa hanno superato di tre volte quelle di tutti gli altri paesi Nato e di quindici volte quelle della Russia, ciononostante sul banco degli imputati sono finiti i soliti sospetti.

Dall’”impero del male” di Ronald Reagan all’”asse del male” di G.W. Bush, gli Usa hanno declinato innumerevoli capi di imputazione a carico di Urss, Iraq, Iran, Corea del Nord, Libia, fino a comprendervi, oggi, la Russia post-sovietica e la Cina del dopo Mao. È una rotta di sangue che va da Occidente ad Oriente, da Washington a Pechino, nella cui scia si accodano tutte le vecchie capitali europee, anche quelle dell’Est Europa, le quali, pur di ottenere il crisma dell’europeità, si prodigano più delle altre ad alimentare i venti di guerra.

Tutti, indistintamente, vogliono le ricchezze delle terre d’Oriente, petrolio, gas, minerali e, più di ogni altra cosa, le Terre Rare, definite “la linfa vitale del XXI secolo”, senza le quali non si dà nessuna transizione energetica.

È un passaggio di fase epocale in cui – non mi stancherò mai di dirlo – la questione della transizione energetica rappresenta il catalizzatore di una crisi del capitalismo che volge inesorabilmente alla guerra e che trova la sua legittimazione nel pregiudizio storico della superiorità dell’Occidente e nel suo costrutto universalistico. Questa è la radice del problema che, per le riflessioni fatte in precedenza, può essere affrontata in due modi: alla maniera russa o secondo il punto di vista dei dannati della Terra.

S’è visto di cosa si compone la maniera russa: una revanche di proporzioni storiche nei confronti dell’Occidente che trova i suoi fondamenti teorici nelle tesi di Alexander Dugin che, non a caso, era il vero destinatario dell’attentato (Agosto 2022) in cui fu uccisa sua figlia. Nell’intervista già citata, oltre a “rimpiangere” l’Occidente che fu, Dugin fa capire quale sia la posta in gioco dell’attuale guerra in Ucraina: "Questa:“Questa non è una guerra con l’Ucraina. È un confronto con il globalismo come fenomeno planetario integrale. È un confronto a tutti i livelli – geopolitico e ideologico. Cosa significa per la Russia rompere con l’Occidente? È la salvezza. E l’Europa deve rompere con l’Occidente, e anche gli Stati Uniti devono seguire coloro che rifiutano il globalismo. E allora tutti capiranno il significato della moderna guerra in Ucraina. La sua vittoria sarebbe una vittoria per tutte le forze alternative, sia di destra che di sinistra, e per tutti i popoli. Il problema è che l’élite liberale globale insiste disperatamente nel curare tutti i disastri e le crisi derivanti dal liberalismo con più liberalismo, ma la crisi di cui stiamo parlando, è proprio la crisi di questo sistema geopolitico/ideologico unipolare. […]. Penso che ci stiamo avvicinando al momento della vera multipolarità ed è proprio ciò che le élite politiche liberali unipolari globaliste non desiderano. Cercano di trovare modi per evitare questa necessità. Nessuno tra loro potrebbe accettare la multipolarità perché sarebbe la fine del loro dominio ideologico, economico, politico, culturale “.

La multipolarità dunque, come punto di caduta di tutto l’architrave della “Quarta teoria politica” che Putin ha esplicitato nei modi a lui consoni. Ma che bandiera è quella della multipolarità? Che seguito raccoglie in giro per il mondo?

A giudicare da quanto ha scritto Pino Arlacchi21 c’è molto su cui riflettere: “Dopo aver condannato senza esitazione la violazione della sovranità dell’Ucraina in sede Onu, quasi il 90% degli Stati membri hanno rifiutato di schierarsi con la Nato in una crociata antirussa. Gli unici a porre la questione in termini apocalittici – di lotta tra valori supremi e tra civiltà e barbarie – sono rimasti perciò i Paesi dell’Alleanza atlantica e pochi altri. Al di fuori dei soci Nato e dei tradizionali partner americani in Asia orientale, nessun Paese ha accettato di inviare aiuti militari all’Ucraina, o di imporre sanzioni alla Russia. Parlo delle nazioni dell’Africa, del Centro e del Sudamerica, del Centro e del Sud dell’Asia. Come notano sconfortati Gfoeller e Rundell su Newsweek, “l’87% della popolazione del mondo ha declinato di seguirci” (15.09.22). La guerra in corso è una questione limitata a tre attori: l’Occidente atlantico, la Russia e l’Ucraina. Il resto del pianeta, è rimasto a guardare, e perfino i governi satelliti degli Usa hanno respinto le pressioni di Biden verso la punizione della Russia”. […] Il mondo è multipolare da più di trent’anni. Nel 1989 non è caduto solo il comunismo sovietico. Il tentativo di dividerlo nuovamente in due campi – liberal-democrazie pro-Usa contro tirannie pro-Cina e pro-Russia – è una operazione politica votata alla sconfitta. Perché si sono capovolti i rapporti di forza: gli Usa detengono solo il 4,2% della popolazione mondiale e solo il 16% del Pil globale, contro il 50% del 1950. Il Pil dei Brics (Cina, Brasile, Russia, India e Sudafrica) supera ormai quello dei G7. La cui popolazione è solo il 6% di quella globale, contro il 41% dei Brics. Secondo i dati 2022 del Fondo monetario internazionale, i Paesi “emergenti e in via di sviluppo” producono ormai il 58% del Pil planetario misurato in termini di potere di acquisto, contro il 30% dei G7.”

Il mondo è già multipolare, ma non lo si vuole riconoscere; i paesi emergenti e in via di sviluppo producono più ricchezza di quelli ricchi e sviluppati, eppure a decidere le sorti dell’umanità è ancora il 6% della popolazione mondiale: ce n’è di che appassionarsi alle tesi di Dugin e di schierarsi in favore, non di Putin, ma di questo sommovimento che la Russia sta provocando!

Indubbiamente l’allusione al fatto che i russi stiano “come sempre, iniziando i processi più difficili e pericolosi” (Dugin), è forte e va raccolta, ma sarebbe un errore assimilarla allo spirito di cui fu portatore il 1917 perché, a differenza della bandiera rossa che parlava di liberazione dell’uomo dallo sfruttamento e dalla soggezione, quella del multipolarismo parla di geopolitica degli stati, del cambiamento necessario negli assetti del mondo, ma senza alcuna critica al modello di società –capitalistica – che li determina.

Sarebbe come fare un passo di lato quando invece tutto, nella situazione corrente, sta ad indicare che bisogna farlo in avanti, ben oltre il recinto in cui anche lo spregiudicato Dugin, ritiene doversi collocare una corretta visione del mondo: quello di un Occidente cristiano e greco-romano, sia pure riproposto attraverso la logica stringente di una “educazione siberiana”.

Per questo occorre tenere conto dello “sguardo dell’altro”, se si vuole distruggere questa idea di Occidente insieme al suo pregiudizio e al suo incrollabile narcisismo. Lo sguardo di Amin senza dubbio, ma più ancora quello di Frantz Fanon e dei dannati della Terra a cui lui rivolse memorabili parole che oggi, più che a loro, sembrano rivolte a noi, europei e marxisti, impantanati come siamo tra vecchie certezze e nuove inevitabili sfide: «Su, compagni, è meglio decidere fin da ora di cambiare sponda. La grande notte nella quale fummo immersi, dobbiamo scuoterla e venirne fuori. Il giorno nuovo che già si leva deve trovarci fermi, preparati e risoluti. Dobbiamo lasciar stare i nostri sogni, abbandonare le vecchie credenze e le amicizie prima della vita. Non perdiamo tempo in sterili litanie o in mimetismi stomachevoli.

Lasciamo quest’Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli delle sue stesse strade, a tutti gli angoli del mondo. […]

L’Europa si è rifiutata ad ogni umiltà, ad ogni modestia, ma anche ad ogni sollecitudine, ad ogni tenerezza. Non si è mostrata parsimoniosa se non con l’uomo, gretta, carnivora, omicida se non con l’uomo. […]

Le realizzazioni europee, la tecnica europea, lo stile europeo, devono cessare di tentarci e di squilibrarci. Quando io cerco l’uomo nella tecnica e nello stile europeo, vedo un susseguirsi di negazioni dell’uomo, una valanga di assassinii. La condizione umana, i progetti dell’uomo, la collaborazione tra gli uomini per mansioni che aumentano la totalità dell’uomo, son problemi nuovi che esigono vere invenzioni. […] Tutti gli elementi di una soluzione ai grandi problemi dell’umanità sono, in momenti diversi, esistiti nel pensiero dell’Europa. Ma l’azione degli uomini europei non ha realizzato la missione che le spettava e che consisteva nel premere con violenza su quegli elementi, nel modificarne l’ordinamento, l’essere, nel mutarli, infine nel portare il problema dell’uomo a un livello incomparabilmente superiore. Oggi assistiamo ad una stasi dell’Europa. Fuggiamo, compagni, quel movimento immobile in cui la dialettica, a poco a poco, si è mutata in logica dell’equilibrio. Riprendiamo la questione dell’uomo. Riprendiamo la questione della realtà cerebrale, della massa cerebrale di tutta l’umanità di cui occorre moltiplicare le connessioni, diversificare i reticoli e riumanizzare i messaggi. […]

Per l’Europa, per noi stessi e per l’umanità, compagni, bisogna rinnovarsi, sviluppare un pensiero nuovo, tentare di metter su un uomo nuovo.”


Note
i https://www.labottegadelbarbieri.org/comparazioni-tra-due-guerre-lannullamento-della-dialettica-e/
1La mia ipotesi è che la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuroThe clash of civilization – Samuel P. Huntington, 1993
2 “Quei paesi che per ragioni di cultura e di potere non vogliono o non possono entrare a far parte dell’Occidente competono con l’Occidente sviluppando il proprio potere economico, militare e politico. Lo fanno promuovendo il loro sviluppo interno e collaborando con altri paesi non occidentali. La forma più importante di questa cooperazione è la connessione confuciano-islamica che è emersa per sfidare gli interessi, i valori e il potere occidentali.”The clash of civilization – Samuel P. Huntington, 1993
3 “Il levantino non è inferiore perché levantino, e perché ha il muso somaticamente fatto così e così. Ma perché ha l’anima degenere, la quale si raffigura ed esteriorizza anche in un volto e in uno sguardo degeneri». Dalla rivista “La Difesa della razza” 1938-1943
4 Con questo termine si identifica la componente repubblicana che più ha dato impulso alla politica di G.W. Bush. A periodi alterni vi hanno aderito personalità di spicco della politica statunitense come: Elliott Abrams; Richard Armitage: John David Ashcroft; Zbigniew Brzezinski; Douglas Jay Feith; Francis Fukuyama; Newt Gingrich; Robert Kagan; Henry Kissinger; Richard N. Perle; Norman Podhoretz; Karl Rove; Donald H. Rumsfeld.
5 Secondo Michael Lind (figura di spicco dell’establishment Democratico), l’origine dei neocon americani va ricercata anche a sinistra. “Essi sono il prodotto dell’influenza della componente ebreo-americana sul movimento trotskista tra il 1930-1940, metamorfizzatosi in movimento liberista e anti comunista tra gli anni ’50 e ’70 e, più recentemente, in una sorta di dottrina militaristica e imperiale che non ha precedenti nella storia politica e culturale dell’America”. Quanto ad una loro caratterizzazione strutturale, così li definisce l’autorevole Foreign Police in Focus: “Disillusi prima dal socialismo e comunismo e poi dai Neo Democratici (come Mc Govern) che dominavano il Partito Democratico negli anni ’70, i neocon hanno avuto un ruolo fondamentale nel portare la Nuova Destra alla ribalta negli anni ’80. Per la maggior parte i neocon, che sono indifferentemente cattolici od ebrei, non sono dei politici in senso stretto, ma analisti, attivisti ideologici ed esperti in varie discipline che hanno molto contribuito alla creazione di think-thank di destra, gruppi di pressione e fondazioni. Essi hanno un credo profondo nella superiorità morale dell’America e ciò facilita le alleanze con la destra cristiana e altri gruppi conservatori.
6 Qui il video: https://www.ilfoglio.it/cultura/2021/05/05/news/la-damista-senza-bandiera-2325578/
7 William Shakespeare -Enrico IV, parte prima, atto V, scena II – traduzione di G. Baldini, Rizzoli Milano, 1963
8 Fontamara, Ignazio Silone 1949. Michele, uno dei protagonisti del romanzo, richiesto da un forestiero su quale fosse l’idea di gerarchia sociale che aveva la gente del luogo, così risponde: “In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire che è finito.”
9 Citazione ripresa da “I senzapatria” di Dario Paccino
10 Alexander Herzen, scrittore e filosofo russo
11 Citazione ripresa da “Storia della Russia moderna” di Lionel Kochan – Einaudi 1968
12 Vissarion Grigor’evič Belinskij, il più grande critico letterario russo autore, tra l’altro, di “Uno sguardo alla letteratura russa nell’anno 1847”
13 Vedi nota 11
14 I fratelli Karamazov di Fjodor Dostoevskij
15 Da un manifesto apparso sui muri di Roma nel cinquantenario del volo di Gagarin
16 Citazione dal libro Exotropia di Fabio Marchesi Edizioni Tecniche nuove- 2006
17 Alberto Asor Rosa, “Fuori dall’occidente, ovvero ragionamento sull’Apocalissi” - Einaudi, 1992
18 Frantz Fanon, “I dannati della Terra” – Einaudi, 1962
19 Con il termine “sinistra metropolitana” Sartre si riferisce alla sinistra francese che operava sul territorio della Francia, distinguendola da quella che operava nelle colonie come l’Algeria
20 Sartre fu tra i promotori del “manifesto dei 121” uscito nel 1960 e firmato da 121 personalità della politica e della cultura tra cui, oltre a Sarte, Simone de Beauvoir, Andrè Breton, Alain Cluny, Marguerite Duras, Alain Joubert, François Maspéro, Alain Resnais, Alain Robbe Grillet, Simone Signoret, Vercors. Il manifesto si schierava dalla parte degli algerini in lotta per la loro indipendenza e in difesa di tutti quei francesi che si rifiutarono di imbracciare le armi contro gli algerini aiutandoli in tutti modi possibili, essendo per questo incriminati per tradimento, incarcerati o perseguitati politicamente.
21 Pino Arlacchi, “E’ l’occidente ad essere isolato, non la Russia” – Il fatto quotidiano, 2 novembre 2022

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Noi non abbiamo patria
Thursday, 02 March 2023 08:37
Articolo serio, con tanta roba.
Anche se un comunista medio occidentale e europeo, vuoi che declini contro “l’imperialismo su entrambi i fronti” o verso una meno timida posizione contro la NATO e l’invio delle armi all’Ucraina, avrà difficoltà a leggerlo e a digerirlo.

Nonostante condividerà astrattamente lo spirito contro l’eurocentrismo, di cui qui si cerca a descriverne la sua determinazione storica ed il suo movimento fin qui, rifiuterà il confronto. Avrà difficoltà a ragionare, senza pregiudizio, su un movimento storico determinato della relazione tra l’uomo con i suoi strumenti della produzione e con la natura. E di sicuro colto allo stomaco replicherà scansando i temi perchè qui l’autore non incentra il ragionamento su: “e il proletariato europeo”, la “classe operaia europea”, “e noi che ne vogliamo rappresentare le istanze delle sue necessità storiche”, insomma “noi comunisti europei”, ossia europei “che fine facciamo”?

In sostanza rimarrebbe sotto sotto il pregiudizio antropologico di fondo che dall’Europa si muove la storia, sia attraverso la forza storica di un modo di produzione che trae linfa dalle nuove necessità che si originano a cavallo del “Rinascimento”, sia attraverso i fallimentari tentativi di realizzare un modello alternativo al capitalismo secondo i canoni del socialismo “europeo” - nei confronti del quale anche la Cina tutto sommato si è ispirata.

Si sorriderebbe di fronte a Fanon, ma per respingerne il messaggio. Fanon: tutto sommato l’innominabile per l’Occidente Europeo tutto.

Articolo che fa pensare.
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Noi non abbiamo patria
Thursday, 02 March 2023 08:05
tanta roba. Eppure un comunista di Occidente e dell’Europa ne mal sopporterà la lettura, nonostante a parole si definirà anche esso contro l’eurocentrismo. Dirà ma il proletariato europeo, la classe operaia europea? Ossia dirà “noi” ed “europei” che fine faremmo secondo l’autore dell’articolo? In ogni caso la critica ad un articolo serio, che richiederebbe viceversa un confronto franco, serio e approfondito circa un movimento storico determinato, quello della relazionr degli uomini con i mezzi della produzione e con la natura, finirebbe con una sorta di rinnovato pregiudizio. Si sorriderebbe di fronte la figura di Fanon ma se ne avrebbe una fottuta paura: Fanon l’innominabile.

Bell’articolo, c’è da pensare.
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