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Non di soli desideri vivono le masse*

Osservazioni e obiezioni a Guido Mazzoni

Ennio Abate

…..Sì col dolce dir m'adeschi,
ch'i' non posso tacere; e voi non gravi
perch'io un poco a ragionar m'inveschi.

(Inferno – Canto XIII)

Pur riconoscendo al saggio di Guido Mazzoni chiarezza di esposizione, capacità di spaziare su un dibattito culturale di grande interesse e descrivere con puntualità una sensibilità oggi diffusa in vasti strati intellettuali, non riesco ad accogliere buona parte della sua analisi e soprattutto  la sua conclusione, che a me  è parsa non una «forma profonda di saggezza», ma politicamente rassegnata e nichilista. Esprimo qui di seguito – spero rispettosamente ma con fermezza – il mio dissenso.

 
1.

È vero che Guido Mazzoni parla di un oggetto specifico (la cosiddetta vita psichica delle masse occidentali).  E che prudentemente mette le mani avanti: «il volto di cui parleremo copre solo una parte del fenomeno: l’aspetto che più spesso si mostra nell’esperienza quotidiana delle masse europee e americane, o delle masse che imitano la forma di vita occidentale». Se però vuole considerarne la «metamorfosi senza precedenti» in un consistente arco di tempo ( l’ultimo quarantennio), come non accennare alle metamorfosi politiche; e dunque alle scelte di quanti hanno avuto il potere di compierle  interferendo pesantemente sulla vita materiale e psichica delle masse.



2.

Come si fa a dire che guardare alle guerre o alle rivoluzioni significhi  pensare gli eventi e l’esperienza degli uomini (masse o singoli) in base a «un’idea eroica e maschile»?  Oggi sarà arduo parlare di rivoluzioni,  ma le guerre le vedono  tutti. Senza che ci sia bisogno d’inforcare occhiali eroici o maschili. Tanto più che le stesse donne partecipano ad esse in modo significativo.


3.

Se il futuro è una specie di schermo vuoto sul quale non si proietta nessun progetto politico, la «proiezione del desidero» cade nel vuoto, la *polis* è venuta meno o è in disfacimento ed è certo che  il passato non ritornerà, non si deve ragionevolmente concludere che è esigenza vitale proprio la costruzione o ricostruzione di un progetto politico?


4.

Perché non viene più in mente che consumismo e spettacolo sono la superficie, distraente e persino affascinante, del capitalismo, ma che il capitalismo non è solo superficie? E che, oggi più che mai, è necessario ragionare sui due livelli: quello dei bisogni e delle necessità materiali (il lavoro che manca) e quello del piacere che evapora nel nulla?


5.

Perché prendere per buono e non sottoporre a verifica (e a critica) questo benedetto «discorso del capitalista» o «nuova forma di Super-Io fondata sulla coazione al piacere»? (Che sia di Lacan o di Recalcati/ Žižek mi pare abbastanza secondario). Davvero  questo « obbligo di godere e di sacrificare tutto in nome del godimento» viene imposto come una specie di magica musica dal pifferaio capitalista in assenza di condizioni materiali, che – diciamo – predispongano all’ascolto e all’obbedienza (coatta) al suo richiamo? E si può affermare, senza cadere nella più vieta ideologia, che le masse vi si assoggettano pienamente? O che, nel corso di questo assoggettamento, non raggiungano mai un minimo di prove della sua falsità e di quanto quel godimento sia per loro impraticabile?


6.

Troverei interessante l’interpretazione lacaniana della globalizzazione come segregazione, se però si avesse la forza  di descrivere tale segregazione sul piano complessivo: sociologico-politico-culturale. Altrimenti  si presenta un’idea inverificata.  E permane l’indecisione: l’omogeneizzazione prevale o no sulla segregazione?


7.

« Oggi è perfettamente lecito anteporre il desiderio ai legami sottoscritti in passato; il peso dei vincoli si è ridotto; il polimorfismo produce conflitti interni molto meno intensi di quanto non accadesse in passato».

Sicuro? È un fenomeno davvero generale? Non è tale affermazione una generalizzazione di modi di sentire e di comportamenti effettivamente presenti in fasce nonostante tutto ristrette della popolazione, anche se oggi relativamente più ampie rispetto al passato? E quelle tonalità emotive diverse, affioranti ieri nelle opere di Dostoevskij e oggi in quelle di Bret Easton Ellis,  non sono solo la punta – sintomatica quanto si vuole, ma non davvero rappresentativa dell’intera psiche collettiva - di vastissimi e inesplorati iceberg sociali?  Quindi, da non svalutare, ma neppure da sopravvalutare? La presa estetica di queste o di altre opere letterarie può anche assopire lo spirito critico. Può anche distrarre da una esplorazione della realtà,  che, se davvero la realtà èdiventata più mutevole e sfuggente di quanto pensiamo, potrebbe/dovrebbe essere più accanita e senza soste.


8.

Lo stesso discorso guardingo farei per i modelli, comunque idealistici, di famiglia. Ne avevamo parlato , qui su LPLC, in un vecchio post di Buffoni (ora non mi viene in mente quale…).  Ricordo, però, di aver  scritto in un commento che il termine ‘famiglia’ mi pareva un lenzuolo che copriva realtà  quanto mai diverse e male indagate. Le stesse considerazioni penso possano valere per le «pratiche comuni» del divorzio o della separazione o della vita delle persone sole. Anche queste sono lenzuola che, a pensarci bene, coprono non si sa che. Quindi ci andrei piano a trarre conclusioni definitive. Non sempre le metamorfosi sono reali e profonde (e significative)…


9.

«Negli ultimi quattro decenni la catena cronologica si è spezzata con violenza, depotenziando il passato e il futuro. Incisa nel senso comune, la sovranità del presente gira nell’etere nel nostro tempo come topos delle arti di massa».

Appunto (e ancora…): «gira nell’etere», ma nella realtà? L’etere coincide con la realtà? Che la catena cronologica si sia spezzata è un « topos delle arti di massa». E con questo? (Vale quanto detto al punto 7 per  Dostoevskij e Bret Easton Ellis).


10.

«Viviamo esistenze liriche, attimali; cerchiamo intensità momentanee; pensieri, progetti, passioni faticano a durare. Occorre aggiungere che l’obsolescenza del passato e del futuro è cominciata molto prima che il neoliberismo rendesse oggettivamente precaria la vita dei molti».

Quando mai la vita dei molti non è stata precaria «oggettivamente»? Non voglio negare che la *middle class* occidentale per un significativo periodo sia stata « protetta, almeno in Europa, dalle armature socialdemocratiche o cristiano-sociali di cui stiamo vedendo la fine», ma le classi proletarie? Si può parlare per loro di «opulenza» anche nei periodi di massimo sviluppo economico?


11.

Concordo indubbiamente su questo punto: «Il modo di produzione contemporaneo scioglie le solidarietà orizzontali e distrugge alcune delle istituzioni che hanno aggregato in corpi solidi le immense masse umane dell’epoca moderna, a cominciare dai raggruppamenti volontari e interni agli Stati: i partiti, i sindacati». Ma trovo sbagliato non collegare a questi processi reali « la dialettica fra godimento e legge».  Tra mutamenti del modo di produzione, scioglimento (per scelte politiche: ad es. smantellamento del PCI in Italia) delle « solidarietà orizzontali» e « vaporizzazione dei legami molecolari fra le persone» non ci sono forse relazioni? Sarà difficile esplorarle, ma perché rinunciarvi e fermarsi al «piano infraordinario di questa crisi»? Inoltre non è che in questi anni difficili si sono venute costituendo nuove e diverse forme di resistenza e solidarietà, forse non equiparabili a quelle a cui eravamo abituati, ma di certo non indegne di attenzione?


12.

Trovo generico tutto il discorso sul tema della « diffusione anarchica del diritto alla parola». A meno di non specificare *quali parole* vennero pronunciate, su cosa e perché in quegli anni straordinari di mobilitazione delle masse (o, a esser cauti, di “minoranze di massa”). Si dica una cosa semplice: che  quelle che pronunciarono i “rivoluzionari”, che ancora facevano riferimento alla tradizione illuminista e marxista, furono soffocate da quelle gridate  dagli “individualisti” (di tipo nuovo o vecchio), i quali, per soddisfare i loro bisogni (e desideri), finirono per accettare di restare all’interno del capitalismo.  Ma si dica pure che quelle parole dei rivoluzionari – dei vinti di allora - oggi seppellite e dimenticate, svelerebbero di che *lagrime grondi e di che sangue* questo «trionfo» della vita capitalistica che abbiamo davanti agli occhi. Oggi, però, è di moda osservare il Sessantotto con lo «sguardo conservatore» di Pasolini. Come mai? Forse perché permette di saltare la scomoda e arida valutazione degli aspetti politici di quella stagione e rimanda più facilmente e senza intoppi ad altre interpretazioni altrettanto di moda: Lacan, Lasch, Bauman, Houellebecq. Si rimuove così il problema del « lato politico del Sessantotto» ( e del ’69…) uscito sconfitto; e del perché lo sia stato. E si enfatizza oltre misura « la rivoluzione di costume interna al capitalismo». Che è – scusate la malignità o il “risentimento” da vinto - come dire: lasciamo perdere  gli sconfitti e le loro ragioni (buone o cattive che fossero) e occupiamoci dei vincitori, che ci hanno regalato una bella «rivoluzione di costume». Sarà «interna al capitalismo», ma basta non pensarci. Tanto « il primo [il Sessantotto, il passato] non esiste più, la seconda [la cosiddetta «rivoluzione di costume»] dà forma all’atmosfera morale del nostro tempo». Teniamocela buona, godiamocela. E che importa se «la modernità capitalista crea le condizioni per liberare il desiderio generando schizofrenia».  Va bene  il consumismo al posto del comunismo (o come surrogato “cetomedista” del comunismo).  Certo queste sono le posizioni di Deleuze e Guattari, riprese da Hardt e Negri e non quelle di Mazzoni. Ma che egli parli di «crisi delle grandi favole» e neppure più di crisi della Grandi Narrazioni fa capire bene dove batte il *corazon*.

 
13.

Non  si capisce perché, alla deriva politica  dilagata dopo lo scontro degli anni Settanta, la tradizione di destra  risponderebbe «sottraendo potere alle masse» e la  sinistra no, ma – poveretta! – smarrirebbe soltanto «la capacità di aggregazione che aveva fatto la forza dei suoi partiti». Il discorso mi sembra giustificatorio.  Perché non dice che la sinistra, quando ha capito che le riforme entrate nel suo programma non passavano, ha finito per fare cose simile a quelle che Mazzoni attribuisce alla destra. Ha, cioè, sottratto «potere alle masse». Cosa ha comportato, infatti, la scomparsa delle sezioni dei suoi partiti  presenti sul territorio, se non una riduzione  di quel “controllo dal basso”, del resto molto mitizzato? E non si è affidata a  élites tecnocratiche ( i vari D’Alema, Prodi, ecc.) che hanno liquidato le vecchie burocrazie dei partiti di massa? Sono queste scelte che hanno preparato o prodotto «i cinque soggetti collettivi della politica contemporanea: le maggioranze silenziose, le oligarchie tecnocratiche che governano per conto delle maggioranze silenziose, le aggregazioni populistiche momentanee generate da capipopolo, i movimenti antisistemici di sinistra e di destra e, in mezzo, i relitti dei partiti di massa moderni». Si potevano  fare scelte diverse? Lascio aperto il problema.


14.

Quanto al *ceto medio* d’oggi, che in Italia, dopo gli anni Settanta, sarebbe l’erede (bastardo? “pezzente”?) della *middle class* o della piccola borghesia d’una volta, non so quanto lo si possa definire una classe. ( O andrebbe chiarito preventivamente cosa  s’intende oggi per ‘classe’…). Perché le sue disomogeneità interne sono forti ( e prudentemente alcuni studiosi vedono  il *ceto medio* come un concetto-contenitore tutto da indagare …).  Che  questa “classe”, però, possa essere definita solo per la sua propensione a partecipare al consumo, agli spettacoli, agli appuntamenti elettorali mi pare un mantenersi alla superficie del fenomeno. E l’abbandono ormai consolidato della «sociologia di derivazione marxista» permette da una parte di farne la caricatura (ah, quella «venatura di disprezzo»!) e dall’altra di accontentarsi di quest’astrazione indeterminata che è il concetto di «uomo occidentale comune» o dei paragoni “idealtipizzati” tra borghesia primo Novecento e *middle class* d’oggi (Weber + sociologia americana). A me pare che così si lasciano fuori troppe cose dei rapporti sociali concreti, materiali, che questo uomo occidentale comune istaura con gli altri; e si è indotti a privilegiare più del dovuto gli aspetti etici  o “vitalistici”.


14.

« Dare l’illusione del paradiso in terra è l’obiettivo del consumismo»? Sì, ma non sarebbe il caso di domandarsi perché farsi illudere? O se davvero la «gente comune»  caschi in tale illusione per sua scelta o perché subisce pressioni ben più “convincenti” da apparati di potere, della cui potenza sospetta, ma che, in assenza di un “Partito Anti-illusione”, non è più in grado né di guardare in faccia né di contrastare?


15.

«Come replicare a Corona? Perché la ricerca del godimento dovrebbe essere trascesa da qualcosa?».

Ma perché si dovrebbe replicare proprio a Corona! È Lui il Verbo con cui confrontarsi? Qui si svela uno dei paradossi dell’intero discorso di Mazzoni. Infatti, non è la «ricerca del godimento» che «dovrebbe essere trascesa».  Tale ricerca, in sé naturale e in astratto del tutto legittima, deve fare i conti con una realtà che la nega alla maggioranza dei viventi. L’unica cosa da “trascendere” sarebbe l’ideologia di  un tal personaggio-simbolo della miseria godereccia che lui e il suo ambiente sociale riescono a imporre grazie ai media come modello alle masse.


16.

«Se cinquant’anni fa la cultura umanistica tendeva a rifiutare senza indugio il consumo, il godimento, lo spettacolo, oggi il discorso apocalittico appare invecchiato»…

Mi chiederei cosa rende possibile oggi questa equiparazione assurda tra cultura umanistica e discorso apocalittico e, dunque, ancora una caricatura, stavolta della cultura umanistica, che è stata storicamente antidoto alle visioni religioso-apocalittiche. Il rifiuto da parte della cultura umanistica (marxista) è stato rivolto alle forme  alienanti della «vita capitalistica». Non al consumo in sé (e che fai, non mangi più?). Non al godimento in sé (quando realmente possibile e non illusorio). Non allo spettacolo in sé ( e che fai, chiudi gli occhi?).
 

17.

«C’è un elemento generazionale in questo. La critica senza appello è stata la prima reazione degli intellettuali alla società di massa, la risposta di un’élite che stava diventando una forza del passato, se è vero che la visione della rovina del mondo, della civiltà, è sempre una forma idealisticamente gonfiata del tramonto di una classe».

Oggi per cancellare un qualsiasi discorso seriamente storico-politico si ricorre al mantra dell’«elemento generazionale». Ma ogni nuova generazione, anche se non se ne avvede subito, s’immette nella traccia storica lasciata dalle generazioni precedenti. Ha in parte problemi diversi da quelle, ma alcuni di fondo e irrisolti (come vivere o sopravvivere? chi comanda e come e perché comanda?) sono gli stessi delle generazioni  precedenti. Anche se le risposte che quelle diedero non bastano più.  E cosa sarebbe poi questa «critica senza appello» alla «società di massa» da parte degli intellettuali che ci hanno preceduto? La critica umanistica degli intellettuali  marxisti  ed anche di alcuni settori della stessa cultura liberale radicale è stata rivolta all’ordinamento capitalistico dei rapporti sociali e non alla «società di massa» in sé. E mirava a costruire un’altra società (socialista, comunista) e non alla «rovina del mondo». Oggi quella critica è stata sconfitta assieme alla classe che avrebbe dovuto farla propria, ma questo non vuol dire che le sue buone ragioni, oggi inoperanti o impraticabili, non potrebbero tornare utili ad un eventuale nuovo soggetto capace di riprendere quel progetto o di costruirne un altro.


18.

«la mia generazione ha constatato che ogni epoca crea nuovi valori legittimi e nuovi spazi di senso»…

Ma legittimi per chi? Sensati per chi? Opera forse in un vuoto pneumatico? Nulla gli è arrivato da quelle precedenti?
 

19.

«una serie di pratiche e discorsi che Adorno avrebbe liquidato come semplici forme di consumo alienato o di entertainment adolescenziale hanno creato il paesaggio estetico del nostro tempo, nella musica rock e nella moda, nel design e nella televisione, nel cinema di serie B e nello sport».

Beh, un «paesaggio estetico» equivale a una superficie o no?  Davvero Adorno sbagliò a indagarla? Sotto  tale paesaggio cosa c’è? Non ci saranno le solite catene? Perché non spingere più l’occhietto a fondo proprio come aveva fatto lui?
 

20.

«Più in generale, oggi ogni tentativo di limitare la ricerca di godimento, magari attribuendo a un’élite il compito di indicare alle masse la via per conquistare la vita autentica, appare stridente e intollerabile, e suona moralistico oltre che inefficace».

Ma la «ricerca di godimento» non è un’élite virtuosa o “moralistica” che la impedisce. La impediscono di fatto i rapporti sociali capitalistici. Ed, infatti, mancando oggi delle élites capaci di studiarne  sia le costanti che le metamorfosi, le masse che partono speranzose alla «ricerca di godimento» e si ritrovano per lo più col classico pugno di mosche in mano.


21.


«Negli ultimi decenni l’unica forma di opposizione effettuale al discorso del capitalista è stato il fondamentalismo islamico; l’opposizione legata ai movimenti antisistemici si è rivelata minore e velleitaria.»

«Non esiste alcuna alternativa reale al capitalismo e al discorso del capitalista, alcuna controforza politica organizzata. Le forme di assoggettamento contemporanee non consentono la nascita di una forza politica alternativa allo stato di cose presente; l’unico salto storico che riusciamo a immaginare è legato a un cedimento strutturale del sistema, non alla lotta fra due modelli politici, due forme di società, due modelli di mondo.»


Ecco, qui siamo al succo politico dell’intero discorso psichico-letterario-estetico di Mazzoni, riassumibile in una domanda che egli ha lasciato sottintesa: Mica vogliamo diventare fondamentalisti islamici? Collocato al posto giusto lo spauracchio “terroristico”, la mente “generazionale” arriva alla conclusione nichilista:

«Non esiste alcuna alternativa reale al capitalismo e al discorso del capitalista, alcuna controforza politica organizzata. Non esiste alcuna alternativa reale al capitalismo e al discorso del capitalista, alcuna controforza politica organizzata.».

Ed è vero che non esiste. Ma perché escludere che possa venir fuori? O non indagare di più le sia pur debolissime « alternative politiche alla forma di vita attuale»? E perché  bisognerebbe *credere*: a «un’origine cui tornare» o ad « un principio da conservare o restaurare»? Oppure orientarsi a pensare (apocalitticamente) a «una crisi di sistema» (la solita solfa “crollista” che ha annebbiato tante menti ribelli anarco-socialiste!), ad un «collasso totale o locale», al « disordine», alla «pura entropia»? Perché non contrastare la parte di se stessi che spinge in questa direzione? Perché *naufragar* (dolcemente?) nella «condizione post-utopica» o dire (chi l’impone?) che la lunga durata della storia «non ci riguarda»? E allora gli astronomi che studiano le stelle cosa sono? Dei pazzi? Perché *intombarsi* - a me pare tremendo – nella «vita quotidiana» come se davvero essa fosse «il regno del politeismo morbido, del buon senso, del progressismo o del conservatorismo medi» per tutti? Quale «forma profonda di saggezza» può essere mai «l’adattamento, il compromesso, la consuetudine, la superficie che è tipico di ogni senso comune»? Insomma, perché accogliere la visione del mondo che da sempre allieta i dominatori e conferma i dominati sui reciproci differenti destini: di conservazione del potere per i primi; di rassegnazione alla subordinazione per i secondi,  sia pur sinceramente sofferta («Lo dico andando contro una parte di me stesso e a malincuore»)?

*In risposta a "I desideri e le masse. Una riflessione sul presente" di Guido Mazzoni pubblicato su LE PAROLE E LE COSE (qui e qui).

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