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linterferenza

Osservatorio internazionale: il mondo di Trump

di Alberto Benzoni

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Il Tribunale costituzionale, emanazione del regime conservatore/militare oramai in sella da anni ha sciolto il principale partito di opposizione democratica. Fortemente presente sia nei grandi centri urbani e nelle aree neglette del paese, con 81 seggi in Parlamento su 300.

Motivazione: l’uso, a quanto pare illecito, di fondi a disposizione del presidente del partito per finanziarne la campagna elettorale. Pena accessoria: l’inibizione a svolgere attività politiche per 12 anni comminata al presidente e ai massimi dirigenti.

Reazione dei medesimi: “prendiamo atto di quanto è avvenuto; ma continueremo a lottare per ristabilire la democrazia nel nostro paese; e con mezzi pacifici”.

Reazioni della collettività internazionale; non pervenute.

 

India

Visite di Modi negli Stati Uniti: nessuna sotto Obama ( c’era ancora la faccenda della sua complicità, come presidente di uno stato, in un pogrom in cui erano stati uccisi 2000 musulmani ). Una, con tappeti srotolati e effusioni reciproche con l’avvento di Trump.

Oggi, visita di Trump in India. Ipermediatica, con sfilate, cerimonie, folle oceaniche e ipereffusioni complimentose e reciproche ( nessun negoziato firmato o avviato; ma lo stesso Trump ha annunciato che si apriranno presto e porteranno a risultati “terrific”, leggi strabilianti). In compenso complimenti a gogo; “comuni destini, identità di vedute, esempi per tutto il mondo libero, India simbolo dell’armonica coesistenza di etnie e religioni diverse”; e via discorrendo.

Tutto questo nel corso di una visita il cui epicentro è stata una città di provincia ( anche se con 8 milioni di abitanti) e non la capitale. Magari perché, proprio in occasione della visita di Trump ( e magari come reazione alla medesima…) Delhi era la sede di uno scontro violentissimo e sanguinoso tra indù e musulmani, con la polizia a sostegno dei primi.

Un piccolo neo nel viso splendente descritto da Trump e da Modi ? O la prima fase di una degenerazione definitiva dell’India costruita da Gandhi e da Nehru ? Avremo modo di capirlo; e tra non molto.

 

Iran

In Iran “hanno vinto i conservatori”. Non è stata una sorpresa. Non è stato l’esito di uno scontro drammatico; o macchiato da brogli o violenze. Non è stata la vittoria degli ideologi contro i realisti o degli estremisti contro i moderati. E’ stata la vittoria del potere e di un sistema destinato a perpetuarlo.

Ma, forse, non è stata nemmeno una vittoria. Perché il regime voleva anche il consenso, manifestato da una massiccia partecipazione al voto. E non l’ha avuto. Perché la partecipazione al voto è stata la più bassa nella storia della Repubblica islamica. Poco più del 40% nell’intero paese; 25% a Teheran.

Il non voto, si sa, è una manifestazione tacita in cui la rassegnazione fa premio sulla protesta e, ancor più, sul desiderio di rivolta. Rivolte ce ne saranno, in futuro. Ma saranno endemiche, locali, periferiche, legate essenzialmente ai drammi della vita quotidiana e all’incapacità del regime di risolverli. Nulla che possa rimettere in discussione il regime o la compattezza del paese nel reagire alle sanzioni e agli attacchi provenienti dagli Stati Uniti. Se Trump e i suoi accoliti contavano, con l’assassinio di Soleimani, di indurre il regime alla resa o, magari, di cambiarlo, la loro politica di “massima pressione” avrà un effetto esattamente opposto.

Pure, c’è sicuramente chi ha perso. E sono le grandi folle che manifestarono il loro entusiasmo, poco meno di cinque anni fa. Dopo l’annuncio dell’accordo sul nucleare. Il loro non era solo un sogno di libertà. Ma anche la speranza dei cittadini di un grande paese, culturalmente avanzato, di vederlo finalmente tornare a far parte della “collettività internazionale “, con uguali diritti e doveri e uguale dignità.

Tornare ad essere uguali, rimanendo diversi: era, sia pure in contesti e con protagonisti diversi il sogno dei gorbacioviani e dei protagonisti delle primavere arabe. Abbandonati e traditi, tutti, e alla prima occasione, da quell’occidente da cui speravano di essere sostenuti.

Il tutto può essere simboleggiato, nel caso iraniano, da un fatterello ignoto ai più. Dal fatto che oggetto specifico di sanzioni sia il ministro degli esteri Zarif; quello che, assieme a Kerry, si impegnò personalmente sino in fondo per raggiungere l’accordo. Per il potere iraniano ma forse anche per i cittadini di quel paese, un’ingenuità catastrofica; per Trump, la copertura falsa e subdola dei disegni di uno stato criminale (?!).

 

Turchia

Osman Kavala (parliamo della vittima di una recentissima e vergognosa vicenda giudiziaria), oltre a dirigere la grande impresa di famiglia, è un intellettuale, è un filantropo, è un “liberal”, con forti legami culturali con l’occidente e, ahimè, è anche un amico di Soros. Quanto basta per renderlo conosciuto e apprezzato dalle nostre parti; ma anche quanto basta, e avanza, per essere visto come il fumo negli occhi nella Turchia di Erdogan.

I suoi guai cominciano nel 2013, ai tempi della rivolta del Gezi park: una grande isola di verde nel centro di Istanbul, dove Erdogan ( il cui narcisismo mega edilizio è superato soltanto dall’egiziano al Sisi) vuole costruire un grande centro commerciale. Tutto ciò susciterà un’ondata di proteste e la piena esplicita solidarietà degli esponenti della società civile ( in questo caso, senza virgolette) tra cui il Nostro. Per effetto di tutto ciò, gli alberi rimarranno al loro posto; ma il Nostro sarà segnato, in prima fila, nel libro nero del Sultano.

Per passare all’azione si dovrà però attendere il putsch del 2016 e il suo fallimento. Da allora in poi, sarà un generale repulisti all’insegna della resa dei conti. Kavala verrà arrestato e tenuto in carcere per due anni e mezzo senza nemmeno conoscere le prove a suo carico; anche perché fabbricarle richiede tempo. Alla fine verrà processato, debitamente condannato ad anni e anni di carcere, assieme ad altre otto persone

L’accusa è di sovversione. Ed è basata sul fatto che dietro Gezi park si celasse un progetto di questo tipo; e che il Nostro ne fosse stato, per una specie di misteriosa proprietà transitiva, partecipe.

Ma, dopo, accade il miracolo. Accade che tre giudici, tre autentici eroi, cassino la sentenza; e per una serie di ragioni tra cui la mancanza di prove è solo la più clamorosa. Giubilo mondiale ( la Corte europea era più volte intervenuta a suo favore, chiedendone perentoriamente la liberazione). Parenti e amici alla porta del carcere per riportarlo a casa.

Ma, nel frattempo, il Nostro è stato nuovamente arrestato. Questa volta con un’imputazione molto più grave: la complicità nel fallito golpe del 2016. Prove a suo carico: l’essere stato visto al ristorante, proprio in quel giorno, in compagnia di un professore americano, suo amico. Allora e nel periodo successivo, nessuno ci fece caso: ma a ripensarci…

In quanto ai tre giudici, la loro sorte è segnata. Erdogan ha vomitato improperi nei loro confronti. E l’organo di autogoverno della magistratura ( per due terzi nominato dal Parlamento, ergo dal governo) li ha seduta stante radiati ( come aveva fatto con più di tremila loro colleghi); del loro futuro, meglio non parlare.

Gli europei protesteranno, certo. Ma lo faranno per onor di firma. E anche perché sanno che protestare è, in questo caso, del tutto controproducente. In un contesto in cui la Turchia ci tiene sotto costante ricatto.

L’unica sarebbe ricorrere a Trump. Uno che, con la minaccia di sanzioni veramente “terrificanti, ”fece liberare un pastore americano, attivo nel paese per cause non ben precisate e minacciato di processo.

Ma Kavala è un turco. Un liberal. E un amico di Soros. E, quindi, niente da fare.

 

Europa - Impotenza 1

Romano Prodi, nelle ultime elezioni europee, sponsorizzò la coalizione intorno a “più Europa”. Ma proprio negli ultimissimi giorni della campagna elettorale. Era la cautela fatta persona di chi copre le sue scelte al punto di far capire che potevano essere altre o magari non avvenute. Ma era, in questo caso, anche la consapevolezza che il “più Europa” era un obiettivo irrangiungibile e quindi uno slogan senza alcun fondamento.

Questo il giudizio, questa volta chiaro e perentorio, del suo articolo di fondo sul Messaggero. Legato al fatto che i grandi progetti formulati dalla Commissione – a partire dalla lotta contro il cambiamento climatico – richiedono molti soldi; e un mutamento della loro destinazione. Mentre, a livello europeo, non esiste il minimo consenso al riguardo; né oggi né nel futuro prevedibile.

Tante minoranze (ma anche maggioranze) di blocco, questo sì. Tra Commissione e Parlamento europeo: la prima disposta al massimo a salire all’!% del Pil europeo dall’attuale 1.07 ( livelli assolutamente miserevoli) e il Parlamento europeo disposto a bocciare qualsiasi proposta che vada sotto all’1.3%. Tra paesi contributori netti e paesi recipienti netti: i primi non disposti a coprire il vuoto lasciato dalla Gran Bretagna ( dell’ordine di 60/70 miliardi di euro) , i secondi non disposti a concorrervi con lo 0.1% in più del loro pil). Tra i paesi fruitori dei due terzi della spesa comunitaria in virtù della politica di coesione sociale ( leggi paesi dell’est e, in misura minore, mezzogiorno) e del sostegno all’agricoltura ( vedi, in primo luogo Francia) e quellli che vorrebbero rimetterla in discussione. Minoranze di blocco destinate a riproporsi automaticamente, quando verranno in discussione le scelte di politica economica, le competenze del centro, per tacere delle questioni di politica estera e di difesa,

Ma non si arriverà a discuterne. Perché il più Europa, anzi l’Europa che c’è si sono fermati al primo ostacolo. Sciogliendo la riunione con un nulla di fatto. E rinviando la prossima “sine die”.

 

Europa - Impotenza 2

Alla fine della Conferenza di Monaco sulla sicurezza, politici ed esperti europei erano atterriti. Perché si erano sentiti oggetto di un brutale ultimatum, recepito con un gelido silenzio. “O rompete qui e ora con Huawei” ( questo il succo del discorso di Pompeo) “o rimetteremo in discussione l’Alleanza atlantica”. Ma ad atterrirli non era solo il discorso; ma il contesto generale in cui era stato pronunciato. Solo qualche mese fa queste intemerate sarebbero state accolte con un alzata di spalle. Certo, Trump era quello che era; ma era anche un errore passeggero, un’anomalia momentanea che lo “stato profondo” e il suo stesso partito avrebbero, prima o poi, rimesso in riga, provvedendo, in ogni caso, gli elettori a non rinnovargli il mandato.

Oggi, il quadro è completamente mutato. Oggi, politici ed esperti europei, hanno scoperto che Trump non è addomesticabile, che vincerà le prossime elezioni, diventando da errore, protagonista di una nuova “era”, segnata dal disordine e dall’arbitrio e minaccia esistenziale per un’Europa per ora incapace di reagire e perciò votata alla scelta, comunque perdente, tra subalternità e rivolta.

Il resto , per ora, è silenzio.

 

Macron - Impotenza di un riformista

Macron e i suoi sostenitori sono oggi molto preoccupati. Per l’esito delle prossime elezioni municipali segnate dalla resistenza forte dei vecchi amministratori e dall’irrompere su larga scala dei Verdi. Privando cosi il suo movimento di quel radicamento locale, in Francia assolutamente necessario. Per l’esito della battaglia sulla riforma del sistema pensionistico dove l’alternativa è tra il prolungarsi all’infinito di una discussione tanto più caotica e acrimoniosa perché mai veramente aperta; o il ricorso, politicamente disastroso, alla chiusura anticipata del dibattito ( con il ricorso all’art.49.3 della Costituzione). Macron spinge fortemente in quest’ultima direzione. Ma, semplicemente, perchè vuole un qualche risultato da esibire prima delle municipali. Il primo ministro e buona parte del gruppo parlamentare oppongono resistenza: perché la scelta sarebbe elettoralmente disastrosa e comporterebbe la rottura con la componente riformista del sindacato. Si deciderà nei prossimi giorni.

L’ultima e forse più grande preoccupazione riguarda, infine, l’esito delle prossime elezioni presidenziali. Mancano ancora due anni. Ma, almeno a giudizio degli esperti, oggi come oggi, è certa la prima posizione della Le Pen mentre la seconda – quella che dà acceso al ballottaggio – è contendibile dai Verdi.

Non a caso il Nostro, come il suo modello, il generale De Gaulle, è destinato a rivolgere sempre più la sua attenzione alla scena internazionale, quasi a compensare le difficoltà incontrate sul piano interno; salvo a confrontarsi con l’identico sbarramento.

Il suo è, in definitiva, il dramma del riformista. Il suo è per definizione un compito difficile: un mutamento a danno di qualcuno ( o di molti, come nel nostro caso) nell’immediato ma a vantaggio della generalità dei cittadini solo in un futuro incerto. E reso più difficile, sempre nel caso nostro, dal fatto che, a differenza di De Gaulle, il Nostro non dispone né del pieno di un chiaro mandato popolare né del vuoto determinato dal crollo del vecchio ordine ma, tutt’al più, della crisi simultanea dei due maggiori partiti e dell’investitura delle èlites del paese.

Non a caso, allora, il Nostro intende dedicare la seconda metà del suo mandato alla riflessione, alla pacificazione e all’ascolto. Se non è un passo indietro o addirittura una rinuncia, poco ci manca.

 

Jonhson - La fine di una bella amicizia?

Altro che “let Brexit be done”. Perché, esattamente come avevano previsto i laburisti, la Brexit non è affatto “done”. Mentre si è aperto un confronto duro e senza possibilità di compromesso tra la Ue e il premier britannico: quest’ultimo deciso a costruire un rapporto che gli consenta la massima libertà di movimento, nuovi trattati di commercio, diritti dei lavoratori, ambiente, welfare, fisco, da rimettere in discussione in una prospettiva di dumping generalizzato, con l’Europa unita nell’opporvisi in ogni modo.

Ciò posto, e nella momentanea impossibilità di imitare Trump all’ingrosso si tenta di imitarlo al dettaglio.

Nello specifico, nei rapporti con i media e nel caso Assange.

Il Nostro non ama i giornalisti; o meglio quelli che lo contestano e gli fanno domande cui non è in grado di rispondere con una battuta. Di qui il suo odio per la Bbc. Che si traduce, già da ora, non essendo in grado di mutarne a capoccia i vertici, nella proposta di abolire il canone. Per gli inglesi sarebbe una vera e propria profanazione; ma tant’è.

Lo “scandalo Assange” nasce nella prima metà del mandato di Obama. E, stranamente, non suscita, allora, né particolare scandalo né particolare emozione. Dopo tutto i segreti emersi dalle decine di migliaia di documenti portati alla luce sono segreti di Pulcinella; e il giornalista ha fatto, dopo tutto, il suo mestiere; senza mettere in pericolo sicurezze nazionali o le fonti delle sue informazioni.

Il clima comincia a cambiare, guarda caso, con l’arrivo di Trump. Pressioni sul presidente dell’’Ecuador che, anche in odio al suo predecessore, è pronto ad ottemperare. Fuori Assange dall’ambasciata londinese. E suo immediato arresto con una condizione carceraria che ne danneggerà gravemente la salute. Con la relativa richiesta di estradizione prima, ma solo per qualche tempo, degli svedesi, poi dagli americani, pronti ad addebitargli reati punibili con 175 anni di carcere. Il tutto nel silenzio generale francamente imbarazzante. E nel consenso/assenso del governo inglese. Ma ci sono due piccoli dettagli che rischiano di far fallire un piano così ben congegnato. Il primo è che Assange sta veramente male. Il secondo è che le fattispecie di reato, così come prospettate dagli Stati uniti, non sono riconosciute dalla legge inglese; salvo che per l’accusa di “pirataggio informatico”. Passibile, questa, di appena quattro anni di reclusione.

Forse c’è ancora un giudice a Berlino.

 

Ecuador - Del buon uso della lotta alla corruzione

Siamo alla vigilia di nuove elezioni presidenziali. E l’ex presidente Correa intende ripresentarsi. E, data l’impopolarità dell’attuale presidente, Lenin (ma ora Donald) Moreno, con buone possibilità di successo. Ecco, allora, l’immancabile inchiesta per corruzione, l’immancabile collegamento con una grande azienda pubblica vicina al vecchio potere, l’immancabile giudice pronto a gestire la faccenda per portarla alla necessaria conclusione, l’immancabile condanna e l’immancabile vittoria di Moreno, in mancanza di avversari credibili.

A me questa vicenda me ne ricorda un’altra e abbastanza recente. E a voi ?

Comments

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Carlo
Sunday, 08 March 2020 11:50
Che articolo strano, partenza interessante ma poi sembra girare a vuoto: perché aspettarsi qualcosa di buono dalla UE a livello internazionale a supporto delle ingiustizie quando la UE è uno dei protagonisti di quelle ingiustizie? Perché sorprendersi dei litigi tra nazioni europee che non vogliono mettere risorse in un bilancio europeo quando la base della UE è la competizione tra stati europei in un contesto di dumping fiscale a favore esclusivo del Capitale?
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