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effimera

Eurafrica. Le origini coloniali dell’Unione Europea

Prefazione

di Étienne Balibar

confronto in africa coloniale tra il coloniale europeo e gli africani o tribu africana engr castelli 1884 illustrazione o incisione d epoca 2dfbxahPubblichiamo la prefazione di Étienne Balibar al libro di Peo Hansen e Stefan Jonsson, Eurafrica le origini coloniali dell’Unione europea. Il libro, pubblicato in inglese, è stato recentemente tradotto in francese, da La Découverte, accompagnato da questo testo di Balibar. Su questo importante volume, Effimera ha pubblicato anche una recensione di Ludovic Lamant. La traduzione è di Salvatore Palidda.

Peo Hansen and Stefan Jonsson, Eurafrica: The Untold History of European Integration and Colonialism, Bloomsbury Publishing PLC, 2015

Peo Hansen et Stefan Jonsson, Eurafrique. Aux origines coloniales de l’Union européenne, préface d’Étienne Balibar, La Découverte, 2022

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Le circostanze in cui, in extremis, scrivo questa prefazione cui tenevo molto, sia per la stima che ho per gli autori, sia per l’importanza della questione che indagano, mi obbligano a essere breve. Ma non mi inducono a rinunciarvi, anzi.

Chiunque sia interessato all’Africa dovrebbe leggere questo libro e anche chiunque sia interessato all’Europa. E quindi chiunque sia interessato al mondo, di cui non c’è dubbio che l’Africa e l’Europa, insieme e separatamente, sono attori imprescindibili. Ma perché “Eurafrica”, questo strano composto (allo stesso tempo vicino eppure molto diverso, genealogicamente, da certi altri di cui si sente molto parlare in questo momento, come “Eurasia”)? Siamo abituati soprattutto forse sotto forma di aggettivo a “relazioni euro-africane”, “partenariato euro-africano”, apparentemente del tutto innocenti, puramente descrittivi.

Ma periodicamente il nome riaffiora, con la sua enfasi e le sue implicite promesse, che forse sono solo l’altra faccia di certe fatalità: cosa significa? Cosa e a chi serve? Quali sono le sue implicazioni? E innanzitutto da dove viene, e come si possono ancora considerare le sue origini come determinanti dei suoi usi? Queste sono le domande che Peo Hansen e Stefan Jonsson si sono proposti di chiarire attraverso un’indagine approfondita nel cuore degli archivi politici e diplomatici, insieme a un’analisi precisa delle circostanze storiche e delle forze che le hanno affrontate. Penso che il loro libro segni una svolta nel modo in cui noi – cittadini europei e soprattutto europei di nazionalità francese – abbiamo “costruito” l’Unione Europea che oggi forma la nostra comunità di destino (attivamente e volentieri per alcuni, passivamente o anche a malincuore per gli altri). E per questo la sua lettura – peraltro perfettamente fruibile nonostante tutta l’erudizione dell’opera – dovrebbe attrarre un vasto pubblico, al di là degli specialisti in scienze politiche e storia del Novecento.

Hansen e Jonsson giustamente insistono sul fatto che la loro indagine consente di rifocalizzare (attraverso un decentramento) la rappresentazione dominante della storia dell’Unione europea. Perché, come dimostrano, il progetto di unità euroafricana, politica ed economica, con le sue successive “geometrie”, ma anche la sua notevole continuità tra il primo dopoguerra e la conclusione del Trattato di Roma, non è stato un aspetto marginale (tanto meno un intralcio, un ostacolo da rimuovere) nella costruzione europea, ma al contrario uno dei suoi aspetti centrali e determinanti. Interessandosi a questo progetto, questo libro rinnova una storiografia che si concentra sulle prospettive di superamento del “nazionalismo” (e delle sue conseguenze omicide) in Europa, e su quelle più o meno convergenti che ne sono la “base materiale”, oppure proiettato in un orizzonte globale (e progressivamente globalizzato) le cui dimensioni principali sono spostamenti di egemonia e scontri fra blocchi, ma troppo spesso ignorando (o almeno minimizzando) la “relazione eurafricana” come fattore “esterno-interno” della costruzione europea. Questo fattore è decisivo. Più precisamente, se non viene presa in considerazione, la relazione degli altri due resta incomprensibile e buona parte delle sue problematiche vengono ignorate. Il libro di Hansen e Jonsson, oltre a affrontare un tabù, ripristina così i contorni di una struttura completa.

Qual è lo scopo di questa restituzione? Ovviamente, come indica molto chiaramente il sottotitolo del libro, si mettono in luce le origini coloniali dell’Unione Europea (erede delle precedenti organizzazioni comunitarie, ma “fondata” dal trattato del 1957, che suggella l’unione dei sei membri fondatori, preludio a successivi ampliamenti e impegni nel dibattito sull’intensificazione “politica” della comunità degli interessi economici). Si tratta dunque di cosa, nell’Unione così com’è oggi, continui a portare il segno del colonialismo, dell'”eredità” della colonizzazione, e delle procedure per il suo ‘superamento’” (che può essere una forma di conservazione, seguendo la famosa regola posta da Tomasi di Lampedusa in bocca al suo eroe, il principe Salina de Il Gattopardo: tutto deve cambiare affinché tutto si perpetui). Domanda, quindi, di “postcolonialità”, per usare il termine volutamente ambiguo coniato da Achille Mbembe nel suo libro del 2000 di cui dà il titolo (De la postcolonie), e che da allora è diventato un concetto universale che controlla una parte intera della nostra comprensione della storia contemporanea e della geografia che la sottende.

Questa indagine del problema si svolge su due piani complementari, e tiene conto di una precisa periodizzazione, che riflette vincoli politici e geopolitici legati a “svolte” decisive. I due piani sono, da un lato, quello dei progetti di organizzazione e istituzionalizzazione dell’unità tra i “gruppi” europei e africani (quindi colonizzatori e colonizzati), attivi dal primo dopoguerra (in particolare nell’opera di Richard Coudenhove-Kalergi, promotore di Paneuropa nel 1923 e possibile inventore dell’espressione stessa di Eurafrica) fino all’indomani della Seconda guerra mondiale (in particolare nei piani di Jean Monnet e di altri “padri fondatori” dell’unità europea); dall’altro quella delle trattative, il più delle volte aspramente contestate, che, attraverso successi e fallimenti (come quella della Comunità Europea di Difesa nel 1952), sfociano nella Comunità Economica Europea, e i cui protagonisti sono i politici incaricati della post-diplomazia europea di guerra (Schuman, Spaak, Adenauer, Mollet e altri), dietro la quale incombono sia il nuovo “egemone” statunitense che i portatori dei grandi interessi della colonia.

Quanto alla periodizzazione, essa oscilla intorno a due eventi successivi che, non esiteremo a dire, “cambiano la faccia del mondo” e di conseguenza costringono l’idea di Eurafrica ad essere completamente ripensata: da un lato la Seconda Guerra Mondiale, compresi i grandi imperi che avevano diviso l’Africa dalla fine dell’Ottocento (vale a dire essenzialmente Gran Bretagna e Francia, e in secondo luogo Belgio e Portogallo, essendo la Germania già esclusa dalla “spartizione” su cui aveva tuttavia presieduto fin dal la fine della prima guerra mondiale), tale idea di Eurafrica ne esce indebolita e, soprattutto, confrontata con un movimento antimperialista ormai irresistibile; dall’altro, il disastroso fallimento della spedizione franco-britannica nel 1956, dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez, da parte del governo rivoluzionario del colonnello Nasser, che suona come la manifestazione del potere dei “non allineati” e che, per la Francia, è accoppiata a una correlazione con la guerra di indipendenza algerina.

Sullo sfondo di questi drammatici eventi, ciò che emerge chiaramente in tutta l’indagine condotta da Hansen e Jonsson è che l’idea di Eurafrica ha sempre compreso sia una dimensione offensiva, presentandosi come un progetto di estensione e intensificazione della colonizzazione, a cui la “messa in comune” delle capacità di investimento europee (malgrado le violente rivalità che vi si oppongono) conferirebbe una dinamica superiore, sia una dimensione difensiva, ossessionata dai progressi della decolonizzazione, in particolare dopo le grandi emancipazioni dei popoli dell’Asia, consentendo l'”associazione” dei popoli europei e africani di presentarsi come una “rifondazione” della loro interdipendenza. L’involucro ideologico comune a queste due dimensioni, il cui equilibrio varia a seconda dei portavoce che le adotta, del luogo da cui parlano, degli interessi di cui sono portatrici, essendo ovviamente costituito da un discorso di progresso, di sviluppo e di civiltà, il cui “vettore” sarebbe sempre unilateralmente diretto da Nord a Sud, attraverso il Mediterraneo “originale”, e che di conseguenza non si affranca mai da un razzismo sistemico di cui è impregnata tutta l’idea di Eurafrica.

Le sfumature necessarie con cui deve essere accompagnata un’elaborazione di questi temi si troveranno più avanti, ma vorrei ora evidenziare (tra gli altri che meritano attenzione) tre punti strategici che – forse per il modo in cui è costruita la mia stessa memoria storica di questo periodo e dei miei stessi impegni – mi ha particolarmente colpito.

La prima riguarda l’intensità della contraddizione francese al centro di questa storia, e i conflitti di interesse che essa traduce (di cui è molto chiaro che, anche spostati su nuovi terreni, sono più che mai all’opera nell’odierna politica francese o movimenti politico-militari).

In verità, il libro di Hansen e Jonsson può essere affrontato secondo una doppia chiave di lettura, soprattutto dal momento in cui si concentra sui successivi progressi nella costruzione istituzionale dell’Europa, di cui la Gran Bretagna è spettatore più che attore: come la storia dell’Eurafrica che “raddoppia” l’Europa, e come la storia della “Françafrique” che insieme si “alloggia” nelle pieghe della prima (o concepisce la seconda come propria estensione) e le si oppone (in quanto rimane un autonomo progetto, anche quando ridotto alla difensiva), o cerca di soggiogarlo. È chiaro che, più volte, i vertici politici dell’imperialismo francese, membri delle formazioni politiche partecipanti all’alleanza di fatto tra socialdemocrazia e “blocco borghese”, hanno cercato di trovare in Europa l’appoggio diplomatico, finanziario e anche (indiretto) dei militari senza i quali diventava sempre più difficile “mantenere” e “potenziare” il loro impero (compresa l’Algeria), e tuttavia vietare ai loro concorrenti di esercitarvi una sovranità condivisa con la Francia. Senza dubbio da questo punto di vista, nonostante alcune sorprendenti continuità (nel Sahara), il ritorno al potere del generale de Gaulle nel 1958, nelle condizioni che conosciamo, portò a cambiamenti strategici ma nessuna rottura fondamentale (come dimostra il rinnovamento dell’alleanza personale dei politici francesi con il cancelliere tedesco Adenauer, il cui intenso e duraturo coinvolgimento a favore di Eurafrica è una delle rivelazioni di questo libro), ma ciò richiederebbe una discussione speciale che esula dall’ambito dello studio. Al massimo, troviamo i prodromi nell’evocazione del programme de Brazzaville[1].

Il secondo punto strategico che mi colpisce particolarmente è l’insistenza del problema demografico e l’ossessione per le migrazioni. Ovviamente, il fatto che stiamo leggendo questo in un momento in cui la tragedia degli annegamenti di massa e della “guerra ai migranti” tra Africa ed Europa peggiora ogni giorno di più, e in cui la teoria della cosiddetta “Grande Sostituzione” sembra penetrare sempre di più e più paesi e forze politiche, ha molto a che fare con questo. Ma soprattutto ciò che catturerà l’attenzione del lettore è il capovolgimento di prospettive tipicamente “postcoloniali” a cui stiamo assistendo: fino all’indomani della seconda guerra mondiale e ai lavori preparatori per lo stesso Trattato di Roma, che ha ossessionato gli ideologi e i leader politici europei, è il declino demografico dell’Europa a cui lo sviluppo comune dell’Africa potrebbe offrire uno sbocco (mentre vi investiamo, mandiamo manodopera qualificata, quindi “civile”, che si stabilisce in Africa). Significativamente, questa prospettiva viene invocata per neutralizzare i conflitti intraeuropei legati alle migrazioni (ad esempio, in Francia, i “rischi” per l’occupazione e per la pace sociale che sarebbero legati all’afflusso di migranti italiani scacciati dal sottosviluppo del Mezzogiorno e altre regioni della Penisola). Ma fa anche parte delle preoccupazioni espresse dai leader politici africani che sono addirittura favorevoli alla prospettiva generale del “co-sviluppo” (come Senghor) e che vogliono tutelare il lavoro dei cittadini africani. Ovviamente, oggi, l’Europa istituzionale e buona parte della sua classe politica rinnova questa ossessione nell’altra direzione: un’associazione euroafricana deve proteggere “noi” dall’afflusso di migranti e rifugiati, mentre l’opinione pubblica africana vede nella violenza esercitata nei confronti dei migranti di origine africana e più in generale nel trattamento discriminatorio a cui è sottoposta la diaspora africana in Europa (e in particolare in Francia) uno dei segni più evidenti del perdurare del colonialismo[2].

Infine, mi colpisce un terzo punto che insiste in maniera in qualche sorta “spettrale”: è il fatto che il progetto Eurafrique ha come antitesi e – dal punto di vista colonialista – per doppio minacciante – lo sviluppo del panafricanismo, cioè di un progetto di unificazione politica ed economica dell’Africa che non solo è indipendente dai piani e progetti di sviluppo elaborati dalle potenze coloniali, ma presuppone una rottura storica nella continuità dei rapporti di sfruttamento.

Questo è ovviamente ciò che tutta la politica francese, prima e dopo la creazione, infine abortita dell’Unione francese, aveva cercato di evitare cercando il sostegno dell’Europa.

Sarebbe stato forse interessante dire qualcosa in più su questo punto (anche se è opportuno attenersi all'”oggetto” ben definito di questo libro), in particolare per il rapporto con due domande che la focalizzazione sulle tappe dell’Europa costruzione istituzionale può portare a marginalizzare: da un lato, la presenza intermittente dell’Africa anglofona nel discorso di Eurafrica, e quindi le relazioni “orizzontali” tra paesi africani che sono appartenuti rispettivamente agli imperi britannico, francese e belga, dall’altro il ruolo svolto nell’evoluzione degli equilibri di potere tra i popoli dalla lotta organizzata contro il “comunismo” non solo dall’Europa, ma dall’America, al di là dell’episodio di Suez, e sfociata, come sappiamo, in una sanguinosa repressione delle “rivoluzioni africane” e la sistematica eliminazione dei loro leader. Da questo punto di vista, accanto alle variazioni molto interessanti nell’atteggiamento dei leader dell’Unione francese (come Houphouët-Boigny e Senghor, che simboleggiano i due lati della “dipendenza nell’indipendenza”), dobbiamo collocare l’alleanza di Nkrumah, Sékou Touré e i movimenti antimperialisti degli anni ’50 e ’60 per avere un’idea completa degli atteggiamenti africani nei confronti di Eurafrica. Il libro è certamente scritto da un punto di vista “eurocentrico” a causa del rovescio o del lato nascosto che vuole svelare per la costruzione europea, ma richiede abbastanza naturalmente questa controparte.

Il che mi porta ad alcune brevi osservazioni di attualità per concludere. Un’opera della storia non deve “prefigurare il futuro” e questa è incentrata su una sequenza ben definita – ovviamente decisiva – che si collega al nostro presente solo attraverso diversi non trascurabili cambiamenti di scenario. L’Europa di cui siamo cittadini è e non è quella del Trattato di Roma, ma l’Africa contemporanea è forse ancora più profondamente trasformata nella sua cultura, nella sua demografia, nella sua vita politica, nonostante le stigmate della colonizzazione che porta su di sé e che la influenzano sia internamente che esternamente. Tuttavia, la notevole persistenza del tema dell’Eurafrica, nonostante la sua profonda ambiguità o meglio a causa di tale ambiguità, sembra indicare che l’alternativa da cui dipende il suo futuro (e il nostro) non è, a quanto pare, tra il rinnovamento perpetuo della colonizzazione e di quella che il compianto Samir Amin aveva chiamato la “disconnessione” (è vero che con questo intendeva non un isolamento dell’Africa, ma piuttosto una migrazione dei suoi popoli e società da un “sistema” alternativo dominato dal Nord a un “sistema” alternativo autorganizzato dal Sud)[3]. Serve un’“Eurafrica alternativa”, e anche radicalmente capovolta, capace di rivoluzionare l’economia delle relazioni internazionali (e, oltre, delle relazioni dell’umanità con il suo ambiente). Ma questo può essere pensato solo a due condizioni (almeno), che sono storicamente legate. La prima è che l’Africa sviluppi in piena libertà associazioni multilaterali con tutte le parti del mondo, come la sua storia la invita a fare, esattamente allo stesso modo in cui l’Europa è stata storicamente costituita e rinnovata da associazioni e relazioni multilaterali con il Sud (Africa), l’Ovest (America) e l’Est (Asia). Possiamo pensare che questo sia ciò che sta accadendo proprio in questo momento, contro l’idea e le pratiche di esclusività che sono una delle tracce più persistenti dello spirito coloniale. Il che significa anche che “noi”, gli europei, dovremmo imparare dall’Africa e attraversare l’Africa quando si tratta di scambi con altri continenti. E così facendo si tocca la seconda condizione, da cui di fatto tutto dipende: l’eradicazione del razzismo, onnipresente nei discorsi che questo libro ha messo in scena, dall'”orrore nero” sino all’insopportabile paternalistico (e interessato) “piano di sviluppo”, in un modo che sa di oscenità. In questo senso, il libro di Hansen e Jonsson non chiude il futuro, ma mostra che quest’ultimo, per chiudere veramente il passato, ha bisogno di una vera rivoluzione culturale.


NOTE
[1] La conferenza di Brazzaville fu organizzata durante la 2a guerra mondiale, dal 30 gennaio all’8 febbraio 1944, dal Comitato di Liberazione nazionale francese (CFLN), alfine di determinare il ruolo e l’avvenire dell’Impero coloniale francese. Alla fine di questa conferenza si approva l’abolizione del codice dell’indigenato. Nel corso della conferenza, è adottata la proposta di Félix Éboué, di una politica d’assimilation a favore delle colonie. De Gaulle sottolinea che il legame tra la Francia e le sue colonie è «definitivo» e la dichiarazione finale della conferenza rigetta categoricamente “ogni possibilità d’evoluzione fuori dal blocco francese e ogni costituzione, anche lontana, di autogoverno”. Ricordiamo che anche il Partito Comunista francese fu per “l’Algeria francese”.
[2] Questa preoccupazione è particolarmente insistente (ed è oggetto di «domande» di trasformazione) nel rapporto che Achille Mbembe ha redatto su richiesta del Presidente Macron in vista del «Nuovo Summit Africa-Francia» dell’8 ottobre 2021: Les Nouvelles Relations Afrique-France. Relever ensemble les défis de demain, ottobre 2021, serie dei «Rapporti pubblici» della Repubblica francese (scaricabile sul sito https://www.vie-publique.fr ). Achille Mbembe è stato criticato per aver accettato tale incarico ufficiale, in particolare in un moment in cui le forme militari della presenza francese in Africa diventavano chiaramente insopportabili, e si può aderire as alcune critiche (da cui s’è difeso in particolare sul sito AOC in un articolo intitolato «Afrique-France: la disruption», https://aoc.media/opinion/2021/10/12/afrique-france-la-disruption/ e vedi anche https://blogs.mediapart.fr/christophe-courtin/blog/231021/disruptions-franco-africaines e http://effimera.org/lattuale-questione-neocoloniale-versus-la-riparazione-e-il-perdono-del-colonialismo-di-salvatore-palidda/ ). Tuttavia, nel suo rapporto si trovano dei ricchi materiali per prolungare nel presente certe questioni studiate da Hansen e Jonsson.
[3] Samir Amin, La Déconnexion. Pour sortir du système mondial, La Découverte, Parigi, 1986.
Nota di S.P.: Balibar, come anche gli autori del libro, non dicono molto su un fatto che è stato di cruciale importanza: il cosiddetto fronte del non-allineamento, cioè dei paesi che cercavano uno spazio non succube o persino alternativo alle due superpotenze e al loro sistema bipolare (che nacque a Yalta) fu sistematicamente sabotato e duramente osteggiato da questo sistema – anche con assassini e colpi di stato a non finire direttamente da parte degli USA a ovest, in America Latina e in Asia e a Est nell’URSS ma anche in alcuni paesi indipendenti come l’Algeria da parte sovietica (si ricordi fra altri, l’assassinio di Partice Lumumba e di Thomas Sankara ecc., l’invasione dell’Ungheria, poi della Cecoslovacchia, la messa al bando della Jugoslavia di Tito ecc.), nonché gli omicidi di stato in India e altrove. Il Movimento dei non allineati (NAM) nacque nel 1955 alla conferenza di Bandung, in Indonesia, ospitata dal Sukarno, su iniziativa di Josip Broz Tito (Jugoslavia), Jawaharlal Nehru (India), e Gamal Abd el Nasser (Egitto) capi dei paesi che rifiutavano di schierarsi con le due superpotenze della guerra fredda. Il NAM comprende 120 stati, più altri 17 stati osservatori che si considerano non allineati con, o contro, le principali potenze mondiali, quindi oltre due terzi di tutti gli stati del mondo; dal 2019 il segretario generale è il presidente dell’Azerbaigian. Fra tutti questi 120 stati la grande maggioranza se non tutti sono lungi dal poter essere considerati paesi che lottano con coerenza contro il neocolonialismo senza accettare ricatti e accordi di palese connotazione capitalista-liberista e neanche paesi che proteggono i loro abitanti dal punto di vista dei diritti umani, cioè contro forme di supersfruttamento e neo-schiavitù, in particolare di bambini e donne. Di fatto le classi dominanti di questi paesi sono dei power-broker, nel senso di “mediatori di potere” in tutti i campi per conto del dominante straniero che prevale nella loro area, godendo in questo modo di un ceto benessere e profitto che viene pagato, appunto, dai supersfruttati.

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