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iltascabile

Oltre la Françafrique

I colpi di Stato in Africa nel processo di decolonizzazione

di Gabriele Santoro

ènjuhg.jpegNei venti anni successivi all’indipendenza, ottenuta nel 1960, l’Alto Volta (dal 1984 Burkina Faso) vide tre colpi di Stato. Dopo quello del 1980 iniziò l’ascesa del militare e politico rivoluzionario Thomas Noël Isidore Sankara, classe 1949, il Presidente più giovane che l’Africa abbia conosciuto. Nominato Capitano, poi segretario di Stato per l’informazione, si distingueva spesso dalla condotta governativa quando questa avversava il popolo. Conquistavano il suo linguaggio coerente nel tempo con i comportamenti, la creatività, l’energia che sostanziarono un immaginario, quello del riscatto antimperialista dei vinti, che sostenne, seppure in assenza di libere elezioni, la sua scalata al vertice dello Stato.

“Osiamo inventare l’avvenire” sosteneva Sankara e non era semplice farlo nel secondo Paese africano più povero, dove l’aspettativa di vita non raggiungeva i quarant’anni. Non era semplice denunciare il fallimento degli stati postcoloniali, creati in quella regione del continente sotto la forte influenza francese, divenuti delle “democrature” segnate da regimi gerontocratici e prive di alcun contrappeso nei poteri statuali. Uno degli elementi più interessanti della breve e intensa vicenda sankarista fu proprio la messa in discussione del paradigma della Françafrique, perpetuatosi anche dopo il 1960, che è tuttora una questione politica e sociale aperta. Negli ultimi tre anni cinque paesi francofoni hanno vissuto colpi di stato militari: Guinea, Mali, Burkina Faso, Niger e da ultimo il Gabon.

Nel giorno della liberazione del Mali, Charles De Gaulle aveva ammonito: “L’indipendenza reale, l’indipendenza totale non appartiene a nessuno. Non c’è politica possibile senza cooperazione”.

L’intento dietro queste parole era di garantire l’influenza francese dietro un’apparente facciata di sovranità. L’eredità e gli esiti di quei regimi giostrati dall’Europa è uno dei nodi irrisolti in Africa. Nel decennio 1960-1970 le scelte politiche di figure come quella del gollista Jacques Foccart, ufficialmente Segretario generale all’Eliseo agli affari africani e malgasci, noto con il soprannome di “Monsieur Afrique”, determinarono le ombre nelle relazioni complicate tra la Francia e le sue ex colonie.

Fino alla metà degli anni Settanta Foccart costruì e intrattenne relazioni privilegiate e dirette con i Capi di Stato africani che si dimostrarono in grado di difendere gli interessi politici ed economici della Francia, ottenendo in cambio la protezione francese sul proprio potere. Dalla capacità di corrispondere alle attese di Parigi spesso dipendevano le ascese e cadute dei governi postcoloniali. La decolonizzazione non condusse dunque né a una rottura completa né a un distanziamento tra la Francia e le sue ex colonie. Parigi ha cercato di curare una relazione di dipendenza reciproca incarnata nel concetto di Françafrique.

Dalla capacità di corrispondere alle attese di Parigi spesso dipendevano le ascese e cadute dei governi postcoloniali.

Oggi la rivendicazione francese di questo legame privilegiato con il continente africano vive un profondo rigetto ed è materia accesa del dibattito politico. Da una parte la retorica antifrancese è usata dalle attuali élite africane per coprire le proprie crepe, dall’altra è il riconoscimento del tramonto di un’epoca nella quale relazioni economiche e politiche oscure hanno reso le vecchie colonie dei feudi da gestire.

In quel contesto storico, segnato anche dalla Guerra Fredda, Sankara pretese di confrontarsi con pari dignità con l’omologo francese Mitterrand, giunto in visita nel 1986 in Burkina Faso, e il discorso fu duro: “Non abbiamo compreso come banditi quali il guerrigliero angolano Jonas Savimbi e assassini come il presidente sudafricano Pieter Botha abbiano avuto il diritto di attraversare la Francia così bella. L’hanno macchiata con le proprie mani e i piedi grondanti di sangue. E coloro che gliel’hanno permesso porteranno l’intera responsabilità qui e altrove, oggi e per sempre”. Dopo averlo ascoltato, Mitterrand si rivolse a Sankara in modo quasi paternalistico: “Come lui dirò ciò che penso. Trovo alcuni fra i suoi giudizi troppo tranchant, ha la perentorietà di una bella gioventù. Ha il merito di essere un Capo di Stato completamente devoto al proprio popolo e lo ammiro. Qualità importanti, ma è troppo tranchant, si spinge avanti più di quello che sia necessario. Mi permetto di dirlo dall’alto della mia esperienza”, concluse poggiando una mano sulla spalla del presidente burkinabè.

L’anno successivo, il 15 ottobre 1987, Sankara cadde vittima di un agguato di stampo terroristico. Anche andando oltre l’icona e il feticcio del rivoluzionario panafricano amico del popolo, resta il dato che nessuno ha saputo soddisfare le concrete istanze politiche, economiche, sociali poste dal padre della rivoluzione burkinabè o meglio da un intero continente. “La cosa più rilevante, credo, sia di aver condotto il popolo ad avere fiducia in sé stesso – disse Sankara –, a comprendere che, finalmente, bisogna sedersi e scrivere il proprio sviluppo; sedersi e scrivere la propria felicità; l’opportunità di dire ciò che desideriamo. E al contempo sentire intimamente qual è il prezzo che si è disposti a pagare per questa felicità”. Sankara si misurò con sfide politiche, economiche e sociali molto ampie, a cominciare dall’autosufficienza alimentare di un popolo affamato. Tre mesi prima di essere assassinato, in quello che è considerato il discorso testamento, non esitò a evidenziare errori del processo che guidava, proponendo correzioni e cercando di scongiurare derive massimaliste che non mancarono, e il settarismo tribale all’interno delle forze rivoluzionarie.

Perché figure come Sankara continuano ad aleggiare come fantasmi che spaventano il potere anche da morti? Anche le generazioni che non hanno vissuto in prima linea l’insurrezione e il processo politico che portarono l’Alto Volta a divenire Burkina Faso, la terra degli uomini integri, associano Sankara al sogno finora inesaudito di una classe dirigente non corrotta, emancipata dalle forme molteplici assunte dal neocolonialismo. L’ultimo rapporto 2022 Corruption Perceptions Index di Transparency International mostra l’assenza di qualsiasi avanzamento nel contrasto alla corruzione che erode qualsiasi prospettiva di democrazia, sicurezza e sviluppo nell’Africa subsahariana.

Nessuno più di Sankara ha saputo soddisfare le concrete istanze politiche, economiche, sociali poste dall’intero continente africano.

Secondo il filosofo camerunese Achille Mbembe oggi “i golpe appaiono come l’unico modo di provocare un cambiamento, di assicurare una forma di alternanza al vertice dello Stato e di accelerare la transizione generazionale”. L’Africa è il continente in cui si sono concretizzati più colpi di Stato: negli ultimi sei anni di diciotto golpe a livello globale soltanto uno, in Myanmar nel 2021, non è avvenuto in Africa. Il Sudan è il Paese che ha registrato il maggior numero di colpi di Stato: ben diciassette dei quali sei portati a compimento. La Nigeria nel trentennio dall’indipendenza alla presa del potere del Generale Sani Abacha nel 1993 ne ha conosciuti otto. Uno studio dei ricercatori statunitensi Jonathan Powell e Clayton Thyne ne ha identificati oltre duecento in Africa dagli anni Cinquanta.

Nell’ultimo biennio i cosiddetti “cambiamenti di governo anticostituzionali” hanno cominciato di nuovo a intensificarsi: nel 2021 ce ne sono stati sei di cui quattro condotti a termine. L’anno successivo dei cinque che si sono verificati proprio in Burkina Faso due hanno avuto successo. Questa crescita si concentra nella zona della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao), di cui fanno parte Mali, Burkina Faso, Guinea e Niger, dove i processi di democratizzazione hanno mostrato molte fragilità.

“La presa del potere da parte dei militari in Mali, Guinea, Burkina Faso e Niger, come gli altri conflitti più o meno sanguinosi nei territori africani già colonizzati dalla Francia, sono il sintomo di trasformazioni profonde che a lungo sono state occultate – prosegue Mbembe -. Sono gli ultimi soprassalti della lunga agonia del modello francese di decolonizzazione. Queste lotte sono essenzialmente mosse da forze endogene. Esse annunciano la fine ineluttabile di un ciclo che dall’indomani della Seconda guerra mondiale è durato quasi un secolo”.

Nelle recriminazioni contro la Francia sono costanti tre critiche: i franchi CFA sono considerati uno strumento di controllo. L’aiuto pubblico per lo sviluppo è opaco: la popolazione non ne percepisce gli effetti e risulta più un finanziamento dei regimi. La presenza di basi militari francesi e l’interventismo militare dell’Eliseo sono valutati in chiave neocolonialista. Nel contesto di un dominio politico privo di bilanciamenti e sistemi d’alternanza democratici, il colpo di Stato è considerato l’unico mezzo per ribaltare forme di potere spesso tribale destinate a restare a vita. Con la democrazia e la riconfigurazione seguita alla fase post Guerra Fredda non si è posto un limite al perpetuarsi di leader a tempo indeterminato. Il popolo celebra i colpi di Stato come delle brevi tregue di speranza di cambiamento che spesso vengono poi disilluse. L’assenza di limiti di mandato caratterizza la caducità di processi democratici minati dalla corruzione.

Il popolo celebra i colpi di Stato come delle brevi tregue di speranza di cambiamento che spesso vengono poi disilluse.

La Carta di Addis Abeba dell’Unione Africana ricorda come i “cambiamenti di governo anticostituzionali” siano cause d’instabilità e violenze. Essi si verificano quando ci sono un colpo di Stato militare contro un governo democraticamente eletto, un intervento di truppe mercenarie o gruppi armati di movimenti ribelli per rovesciare un governo democraticamente eletto; il rifiuto, da parte di un governo in carica, di cedere il potere al partito vincitore a seguito di elezioni libere, eque e regolari.

Ma qual è oggi la lettura sociale di questa recrudescenza della modalità di presa del potere considerata una grave violazione del diritto? Nella rottura dell’ordine istituzionale si annida l’anelito a una trasformazione dello status quo altrimenti considerata impossibile dalla popolazione, che vive in uno stato di frustrazione e rabbia verso l’élite politica e l’incapacità dei governi. Essi rappresentano anche il segno del rigetto dei processi di democratizzazione intrapresi dagli anni Novanta. In Africa il 60% popolazione è sotto i 25 anni e negli ultimi tre decenni la prova delle democrazie è stata tutt’altro che gratificante. I processi elettorali sono spesso caratterizzati da frodi e dal mancato riconoscimento della legittimità di un’alternanza al potere attraverso le urne. Le leggi fondamentali dello Stato vengono piegate agli interessi della casta al potere per evitare qualsiasi forma di ricambio generazionale.

A ciò si aggiunge il contesto d’insicurezza crescente del Sahel, al centro della proliferazione di traffici di esseri umani e armi, dove secondo i dati delle Nazioni Unite la violenza jihadista insieme ai conflitti tra comunità ha prodotto negli ultimi anni oltre 4000 vittime in Mali, Niger e Burkina Faso. I giovani vedono la sfera pubblica sempre più compromessa dagli interessi privati con le multinazionali estere che agiscono senza contrappesi politici e hanno la capacità di condizionamento degli apparati statuali. L’interesse generale si confonde e finisce sullo sfondo con i conflitti definiti “etnici” che sono il paravento di interessi economici per i quali si combatte. L’incapacità di redistribuzione della ricchezza nazionale, che è nelle mani di un’oligarchia, e ora il mancato contrasto del terrorismo jihadista sono due elementi essenziali della destabilizzazione.

Nel romanzo Gli interpreti del Premio Nobel per la letteratura Wole Soyinka, apparso nel 1965, i personaggi esplorano la distanza tra le alte promesse dell’indipendenza e la disillusione per le conquiste mancate. Dopo quasi sessant’anni che cosa è cambiato? “Questo romanzo getta uno sguardo sulla mia generazione – dice Soyinka -. Dopo aver studiato all’estero ci sentivamo invincibili, pronti a guidare la rinascita come avanguardia responsabile del riposizionamento dell’Africa nel mondo. Volevamo essere i liberatori del continente dal Sudafrica alla Rhodesia. Al potere invece a livello politico, culturale ed economico si instaurò una classe dirigente in larga parte corrotta, che ha messo i propri piedi sulle orme lasciate dalle vecchie potenze colonizzatrici. E non abbiamo finito di pagare il conto della disillusione”.

In Africa il 60% popolazione è sotto i 25 anni e negli ultimi tre decenni la prova delle democrazie è stata tutt’altro che gratificante.

La storia del Gabon, dove Il 30 agosto si è consumato l’ultimo colpo di Stato africano, è simbolico del tradimento raccontato da Soyinka. I militari hanno destituito Ali Bongo Ondimba, figlio di Omar Bongo, morto nel 2009, nel momento della vittoria elettorale con il 64,27% dei voti. Il Comandante in capo della guardia repubblicana gabonese Brice Oligui Nguema si è messo alla testa della transizione che ha interrotto la successione di un potere dinastico lungo oltre cinquant’anni.

Nel 1965 Bongo, emblema della Françafrique, aveva raggiunto la presidenza con il sostegno e l’indicazione stessa di “Monsieur Afrique” Foccart. Questa dinastia è il simbolo del saccheggio sistematico delle ricchezze dello Stato. Il Gabon, uno dei principali esportatori di petrolio in Africa, è tra i più diseguali al mondo: un terzo dei suoi 2,3 milioni abitanti sopravvive in una condizione di povertà. Ora l’orizzonte è quello di organizzare elezioni libere entro il 2025. Sylvia Valentin, moglie del presidente Bongo e figlia di un magnate delle assicurazioni vicino a Giscard d’Estaing e Mitterrand, è sotto accusa per un imponente sistema di corruzione franco gabonese, che restituisce l’immagine predatoria di regimi dispotici che con accordi internazionali, soprattutto per lo sfruttamento delle materie prime, condizionano lo sviluppo e la prosperità in Africa.

Lo scrittore Alain Mabanckou, classe 1966, posa uno sguardo critico e appassionato sulla natia Repubblica del Congo, sull’Africa, decostruendo i principi coloniali della francofonia. Dalla sua creazione, che risale al 1530, è stato il primo scrittore africano al quale è stata assegnata una cattedra al Collège de France. Il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, Le cicogne sono immortali (traduzione di Marco Lapenna) racconta una data fondamentale: il 18 marzo 1977 quando fu assassinato il presidente congolese Marien Ngouabi. Ed è una lettura molto interessante per comprendere la complessità delle contraddizioni africane.

Questo crimine è letto e interpretato dal bambino Michel, il narratore con tratti autobiografici, nell’universo familiare con la madre Pauline, il padre Roger e il cane. La madre sente quasi l’impulso a vendicarsi, perché quella morte segna anche la sua esistenza. L’eclettico, ironico e geniale Mabanckou rilegge la storia, ci riporta nel clima della Guerra fredda nello scenario africano e restituisce la disillusione della decolonizzazione. Ma soprattutto interroga in profondità i rapporti tra l’Europa e l’Africa.

I regimi dispotici con accordi internazionali, soprattutto per lo sfruttamento delle materie prime, condizionano lo sviluppo e la prosperità in Africa.

Mabanckou dedica ogni libro a sua madre: “Le società africane poggiano sulle spalle delle donne. Sottovalutiamo spesso questo dato chiave. Della mia infanzia custodisco il ricordo vivido della presenza materna, dell’indipendenza di mia madre, delle sue inquietudini riguardo il mio futuro. Pauline, una donna che non sapeva leggere, è la scrittrice dei miei romanzi. Credo che l’Africa sia così mal governata anche perché non valorizziamo le preziose risorse femminili. E soprattutto concepiamo il potere ancora come un territorio riservato agli uomini”.

Mabanckou ha lasciato per la prima volta il Congo nel 1989, quando il paese era funestato da due guerre civili per le materie prime. È tornato dopo ventitré anni e ora manca da circa cinque: “La libertà della mia scrittura crea problemi al potere. Le cicogne sono immortali è un romanzo che mi ha permesso di guardare diversamente alla storia del continente africano. È un pantheon di eroi africani assassinati dalla politica, ma che hanno lasciato una traccia indelebile”.

La radio sembra essere un personaggio centrale nel romanzo: “Era la nostra unica finestra sul mondo, soprattutto le frequenze di Voice of America. Al contempo l’informazione internazionale è sempre stata un mezzo di distrazione di massa per coprire quella nazionale. Un colonizzatore sa imporre la propria narrazione. Il 20 marzo 1977, due giorni dopo l’assassinio di Ngouabi, trascorremmo la giornata attaccati alla radio per avere notizie. Non ascoltammo una parola su di lui. In piena emergenza nazionale, ci raccontarono la prima elezione di Jacques Chirac a sindaco di Parigi. Al tramonto avevamo imparato tutta la sua biografia, pure quante sigarette fumava. Mia madre, con l’ironia che la contraddistingueva, ci chiese se fosse congolese e se l’avessero ucciso”.

A proposito di presidenti francesi, Mabanckou ha fronteggiato il Presidente Emmanuel Macron dopo l’invito a lavorare per cambiare l’Organizzazione Internazionale della Francofonia: “Provengo da un paese che ha sognato a lungo la libertà. Una Repubblica che è governata da trentadue anni dallo stesso presidente, Sassou Nguesso, con il beneplacito della Francia. La proposta era irricevibile, poiché la lingua francese corrisponde ancora a logiche di assoggettamento politico. Con questa premessa trovo paradossale che mi si domandi di lavorare al rinnovamento della francofonia, nella cui organizzazione generale siedono despoti. Resta il mio impegno culturale: da sedici anni insegno la lingua e la letteratura francese nelle università americane”.

L’informazione internazionale è sempre stata un mezzo di distrazione di massa per coprire quella nazionale. Un colonizzatore sa imporre la propria narrazione.

Che cos’è la francofonia? “È la continuazione della politica estera della Francia attraverso una via indiretta nelle antiche colonie -risponde Mabanckou -. Ciò che rivendico è il mio accento: un congolese che scrive nella lingua di Voltaire. Nel diciannovesimo secolo il geografo Onésime Reclus concepì la francofonia con un orizzonte colonialista. Il rimprovero alla francofonia ‘istituzionale’ è di non aver mai puntato il dito sui regimi autocratici in Africa. Al presidente Macron ho scritto di avere il coraggio di voltare pagina, affinché la lingua francese custodisca il diritto più nobile: la libertà”.

L’identità linguistica rivela l’influenza di vecchi e nuovi colonizzatori: “Le tracce della colonizzazione sono ben riconoscibili dagli edifici, dai nomi delle strade. È la nostra storia, e non vorrei che fosse banalmente rimossa. Richiede invece comprensione e analisi, al fine di cogliere come le vecchie potenze coloniali siano tuttora presenti nel continente. Lottiamo affinché la storia dell’Africa sia scritta e studiata dagli africani”.

Secondo Mabanckou non esistono davvero modelli di società e sviluppo economico importabili in Africa. Scordiamoci dunque d’imporre dall’alto un modello all’Africa, che non è un paese solo: “Abbiamo perso molti eroi, per la paura di tornare all’essenziale: società libere e autonome. Sankara, Lumumba o Nkrumah mantengono la forza dirompente dell’esempio. L’Africa ha bisogno di riappropriarsi della conoscenza delle proprie radici e della trasparenza nella gestione economica”.


Gabriele Santoro è giornalista professionista dal 2010. Ha lavorato per Adnkronos, gli esteri di Rainews24 e Il Tirreno a Cecina. Dal 2009 collabora con Il Messaggero; prima con il sito web del quotidiano, poi dal dicembre del 2011 con le pagine di Cultura&Spettacoli. Ha scritto e scrive per Minima&moralia, Il Venerdì di Repubblica e l'Osservatorio Balcani - Caucaso.

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