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goofynomics

Facciamo un referendum sul cancro?

Alberto Bagnai

oo 475919Su Twitter intravedo tracce di un referendum non capisco bene se sull'austerità o sul Fiscal compact, che porrebbe non so bene quale quesito, con non si sa bene quale scopo. La democrazia diretta, per carità, è una bellissima cosa. L'uso che se ne fa ultimamente suscita qualche perplessità, ma non vorrei entrare in un campo che non è il mio. Quanto a questo referendum, i promotori, va da sé, sono illustri o meno illustri ma comunque ottimi colleghi, tutte brave persone, ovviamente, tutte bene intenzionate, si capisce, e, non occorre dirlo, tutte animate dal desiderio di fare qualcosa. Mi spingo oltre (senza chiedere il permesso): sono animati, gli illustri e meno illustri ma sempre ottimi colleghi, da qualcosa di più di un desiderio. Quello che li anima è la smania ideologica di fare qualcosa, il qualcosismo, l'ideologia velleitaria e perdente dalla quale questo blog si è distanziato fin dall'inizio, per due ben precisi motivi che occorre ricordare a chi è appena arrivato: il primo è che la cosa più importante da fare, ora come sempre, è capire, e per capire non occorre scrivere il proprio nome su una qualche lista, occorre viceversa leggere i tanti bravi autori che da decenni ci hanno avvertito del vicolo cieco nel quale ci stavamo mettendo. La seconda è che, per chissà quale motivo, capita che i fanatici del qualcosismo, ancorché tendano a vedersi e presentarsi come persone pure, animate dal nobile e disinteressato movente di fare qualcosa (“qualsiasi cosa!”) pur di “risolvere” la situazione, poi, quando vai a grattare, sotto sotto hanno sempre un interessante network di affiliazioni politicanti cui far riferimento, o hanno ambizioni politiche, sempre tutte legittime in quanto tali, ma non sempre molto condivisibili per il modo nel quale vengono portate avanti.

 

Un esempio fra tutti: mi pare di capire che fra i più illustri promotori di questo nobile referendum sul non si sa bene cosa vi sia uno che dopo aver per anni tuonato contro l’austerità, negando ultra vires il nesso fra questa e l’euro, alle ultime politiche non ha trovato di meglio da fare che candidarsi col partito di Monti (benedetto da Boldrin). Ora dico: ma se vuoi salvare l’euro e le apparenza, almeno candidati con Tsipras, così fai lo stesso il gioco del capitale, ma almeno non vai incontro a sicura perdita, no? No. Perché la politica ha le sue regole. Se uno è nel tenure track, anche una sconfitta fa curriculum. Con il che capisci che quello non solo non difende un ideale (incoerente con i compagni di strada che si è scelto), ma non vuole nemmeno vincere: vuole solo esserci, essere nella compagnia di giro. E ci sarà.
 
Avendo appena postato sul blog di a/simmetrie la versione inglese dell’articolo di Alberto Montero Soler sull’uscita dall’incubo dell’euro, mi sento di condividere rapidamente con voi alcune considerazioni sul perché questo referendum sia, oltre che, come tutti vedono, una colossale presa in giro, anche un drammatico errore politico, e una tessera non trascurabile nel mosaico di scemenze “de sinistra” che stanno contribuendo all’accumulazione di violenza più massiccia nell’intera storia del nostro pur sufficientemente martoriato continente.
 
Perché alla fine ci stancheremo, questo è poco, ma sicuro.
 
Per farlo, però, non chiedetemi di perder tempo a leggere quale sia la proposta. Non ne vale la pena, perché le mie critiche sono a un livello preliminare, riguardano il significato di un’operazione simile, più che i suoi contenuti e le sue modalità di attuazione. Permettetemi invece di farvi leggere come presenta questo significato un amico che stimo, che vi prego di rispettare, e che, se vorrà, potrà intervenire nel dibattito (il quale, però, oggi non può più essere, almeno da parte dei “critici”, confinato nelle segrete stanze. Deve, cioè deve, essere reso pubblico e sottoposto al vaglio dei cittadini).
 
Uno dei più onesti fautori di questa farsa mi scrive:
 
“Nei riguardi del referendum tu sottovaluti quanto sarebbe comunque dirompente, se mai si andasse a un voto popolare, che una nazione si esprimesse contro il fiscal compact. Per la CGIL è già un enorme passo in avanti appoggiare una iniziativa del genere. Ma 600 mila firme sono una enormità. Capisco naturalmente le tue perplessità, ma una cosa è essere tiepidi ma dire comunque andate avanti, male non fa, un’altra è andare contro. Ma tu non sei per le mezze misure, io ahimè sì”.

Bene. Inutile dire chi sia, non solo per non violarne la privacy, ma anche perché temo che questo atteggiamento sia condiviso da tutti i fautori, in modalità sostanzialmente analoghe.

Dico “temo”, perché questo atteggiamento è, ahimè, sbagliato, sbagliatissimo.
 
Cerco di sintetizzare il perché in una frase, poi, se il tempo e la voglia ce lo consente, ci addentreremo nei dettagli: la proposta di referendum sull’euro è sbagliata perché da un lato propone una soluzione illusoria, e dall’altro alimenta una pericolosa illusione.
 

La soluzione illusoria

È del tutto illusorio pensare che un allentamento delle regole fiscali possa risolvere in qualche modo i problemi della periferia dell’Eurozona.
 
Intanto, va sempre ricordato che non ci sarebbe bisogno di alcuna modifica dell’attuale assetto istituzionale per godere di un minimo di libertà fiscale, e questo non solo perché, come ha spesso ricordato in Italia Giuseppe Guarino, esistono forti dubbi sulla legittimità del Fiscal compact in quanto fonte normativa, ma anche perché, come ha ricordato Luciano Barra Caracciolo sul blog di a/simmetrie, i Trattati attuali prevedono comunque norme di salvaguardia che, purché si rispettasse la lettera e lo spirito dei Trattati stessi, consentirebbero a paesi in difficoltà di praticare politiche espansive. Quale sia il vantaggio in termini politici di piatire una cosa che ci spetta di diritto ai sensi dei Trattati europei (cioè la possibilità di fare politiche più espansive in caso di crisi) sinceramente continuo a non capirlo. Chi si fa pecora, il lupo se lo mangia. Ma questa saggezza i dispensatori di lezzioncine di saggezza politica pare non l’abbiano interiorizzata.
 
Al di là del pur rilevante quadro normativo e politico-strategico, che denuncia questa operazione come inutile e quindi perdente, la stretta, magari anche gretta, ma comunque irrinunciabile logica economica ci rivela un altro semplicissimo dato di fatto. La reattività dei flussi commerciali (esportazioni e importazioni) alla domanda interna è tale che qualsiasi manovra espansiva attuata in modo non coordinato dai paesi periferici si tradurrebbe in un aumento abnorme delle importazioni nette, determinando una nuova crisi di bilancia dei pagamenti. Questa, cari amici, è una nozione vecchia quanto il mondo, e che quindi i miei illustri o meno illustri colleghi non possono ignorare. Sentite come la mette uno “de passaggio” (e che dove passa fa danni non indifferenti), niente meno che Stanley Fischer:
 
 
ovvero:
 
“Ogni paese che pratica una politica espansiva da solo andrà in deficit con l’estero; se tutti i paesi fanno politica espansiva insieme questo problema verrà evitato”.
 
Ve lo dico in un altro modo. I colleghi che chiedono il referendum sul fiscal compact, alla luce della pura logica economica, che lo capiscano o meno (non poniamo limiti alla Divina Provvidenza), che lo ammettano o meno (non lo ammetteranno mai), vi stanno chiedendo di aiutare la Germania. Eh sì! Perché la struttura delle elasticità al reddito delle importazioni italiane, come è noto in letteratura e come un recente e dettagliato studio condotto da a/simmetrie conferma, è tale per cui il soldino che il governo si trovasse a spendere col permesso di mamma Merkel finirebbe per essere speso in parte non trascurabile nell’acquisto di beni prodotti in Germania (o nei suoi satelliti).
 
Una politica fiscale espansiva in Europa funzionerebbe se e solo se venisse praticata dalla potenza egemone, la Germania, che potrebbe tranquillamente praticarla, visto che nessuno glielo impedisce e che quando ha voluto essa ha sempre infranto le regole europee, come perfino quel simpatico caratterista ci ha ricordato qualche giorno fa. Quello che gli illustri non capiscono è quanto spiegano alcuni Alberti (Montero Soler e Bagnai, certo non Alesina): se questa politica espansiva la Germania non la pratica, un motivo ci sarà, no? E il motivo è che essa politica sarebbe consustanziale a una redistribuzione top-down del reddito che (ma guarda un po’ quant’è strana la vita) i capitalisti tedeschi, essendo ricchi e potenti, e comandando a casa propria (e anche altrui), non vogliono fare!
 
Ha più senso chiedere a chi è più forte di noi di fare una cosa che non vuole fare, o togliergli un’arma che gli consente di tenerci sotto scacco? E quest’arma è l’euro, non l’austerità, perché solo il ritorno a rapporti di cambio flessibili permetterebbe ai paesi del Sud di beneficiare di quella sostituzione delle importazioni dal Nord necessaria in caso di politiche espansive interne per evitare squilibri esteri pericolosi (come facciamo vedere nel nostro studio, studio che è stato portato all’attenzione degli illustri colleghi, senza che nessuno degnasse prenderne atto).
 
Quindi la soluzione è illusoria in una duplice dimensione: politica e tecnica.
 
La dimensione politica è che l’austerità andrebbe allentata dove non esiste una volontà politica per farlo, dato che allentarla significherebbe per le classi dominanti e per l’intero paese perdere la propria posizione di privilegio, cioè al Nord. La dimensione tecnica è che, se il Nord non asseconda con sue politiche espansive quelle del Sud, la violazione di parametri fiscali al Sud servirebbe solo a dare ossigeno alle industrie del Nord (che ne hanno bisogno) e a rimettere il Sud in mano ai creditori esteri (che questa volta starebbero ben attenti a far governare i propri crediti dal diritto britannico, in modo da evitare alla successiva crisi l’applicazione della Lex Monetae).
 
Quindi i simpatici qualcosisti propugnatori del referendum cooperano attivamente, che lo sappiano o meno, non al riscatto, ma alla svendita del nostro paese. Basta saperlo. Ci sarà tempo e modo per ringraziarli dell’aiuto.
 

La pericolosa illusione

Ma il problema non si esaurisce qui. Perché invocando clemenza (cosa politicamente perdente e inaccettabile) sul piano delle regole fiscali, i simpatici colleghi critici e meno critici, montiani e meno montiani, di fatto alimentano il frame all’interno del quale il grande capitale europeo ha gestito finora la crisi (per dirla con Lakoff). In questo frame, in questa cornice di luoghi comuni, il responsabile ultimo della crisi è il settore pubblico. Come sapete, sono stato uno dei primi a chiarire in Italia che il debito pubblico con la crisi c’entrava ben poco. Ci ho aperto questo blog, ma mi ero sommessamente permesso di dirlo anche qualche mese prima. L’attacco al debito pubblico ha ragioni chiaramente ideologiche che ho esposto qui (senza scoprire nulla di nuovo).
 
Ma vedete, così come Lakoff provocatoriamente chiede di “non pensare all’elefante” (dopo di che, ovviamente, ognuno di noi ha stampate in mente proboscide e orecchione flosce, e le porta con sé per un paio d’ore, tatuate nella propria dura madre), allo stesso modo i colleghi de cujus ci stanno chiedendo di “non pensare al debito pubblico”, di abolire l’austerità, perché Keynes ecc. Così facendo, però, non contestano, ma anzi avvalorano, sostanziano, corroborano, se pure subliminalmente, la tesi del grande capitale finanziario, la tesi delle istituzioni private sregolate e criminali che ci hanno messo nei guai, cioè la tesi che il problema sia il debito pubblico, e che però, date le circostanze, in effetti sarebbe opportuno essere un po’ clementi verso quei lazzaroni che l’hanno accumulato.
 
Il debito pubblico è un non-problema e quindi se ne dovrebbe non-parlare. Chi invece ne parla, per dirne male, o per dirne bene, sta facendo ovviamente il gioco di chi vuole spostare l’attenzione dalla luna al dito.
 
Se Goldman Sachs fosse quella specie di Spectre in grisaglia che i simpatici complottisti ci descrivono, se io fossi l’Ernst Stavro Blofeld della finanza mondiale, per proteggere la mia posizione di potere investirei un bel po’ di dindi in due cose: in un referendum sull’euro (per i motivi già esposti) e in un referendum sull’austerità: due belle armi di distrazione di massa, e quindi di distruzione di massa della democrazia, per di più compatibili con il politically correct e con la narrazione che della crisi il capitale ci ha imposto.
 
Ma la brutta notizia, amici cari, è che i complotti non esistono, e quindi nessuno ha speso nulla. Questi due schermi di protezione il grande capitale ha aspettato che si ergessero endogenamente, senza spendere una lira, ed attingendo alla materia prima più preziosa per il potere, ma assolutamente gratuita e disponibile con elasticità infinita: l’imbecillità umana.
 
E fosse solo che porre quesiti in termini di politica fiscale in un contesto giuridico che li rende superflui, in un contesto politico che li rende perdenti, in un contesto economico che li rende assurdi, fosse solo che porre simili quesiti in simili condizioni facesse il gioco del capitale... Ce la potremmo cavare con una battuta: potremmo dire che i qualcosisti non hanno interiorizzato un altro caposaldo della saggezza popolare, quello secondo il quale ci sono situazioni nelle quali se ti muovi fai il gioco del nemico.
 
Ma il problema non si esaurisce mica qui. Perché questo atteggiamento, e la contestuale proposta referendaria, sono politicamente dannose sotto tre ulteriori, gravissimi, sciagurati aspetti, che vale la pena di mettere in evidenza, anche per richiamarli all’attenzione di chi pensa che tanto “male non fa”...
 
Il primo, ovvio, è che nella misura in cui portando il dibattito sul piano fiscale ci si spalma sul frame del capitale finanziario (la colpa è dello Stato) e non si evidenzia il problema (l’assurdità di un sistema monetario centro-periferia che non ha precedenti nella storia umana), si contribuisce attivamente a soffocare il sorgere di quella coscienza di classe che Alberto Montero Soler tanto opportunamente invoca. Ed è proprio lui, se leggete quello che ha scritto, a denunciare il carattere contraddittorio di una sinistra che si appella ancora alle classi popolari, in termini puramente di facciata, ma che deroga dal dibattito, impedendo che queste classi maturino una vera coscienza dei veri problemi. Ricordate Eurodelitto ed eurocastigo? “I nostri non sono ancora pronti”. Ecco: l’atteggiamento sottostante è questo. Anzi, no, non “è questo”: “è ancora questo”, dopo che un’esperienza divulgativa come quella di questo blog ha fatto capire ai fini politici e colleghi “de sinistra” (attirandosi il loro sterile e grottesco odio), che “er popolo”, si je parli, te capisce, anche quando parli in linguaggio aulico ed accademico.
 
Perché, come spiega Edgar Allan Poe, la paura è una grande didatta.
 
Additando dei falsi scopi (l’austerità invece dell’euro, il colpo di tosse invece del batterio), la sinistra partitica soffoca il maturare di una coscienza di classe e così continua ad alimentare il bacino elettorale della destra partitica (per favore: ho aggiunto l’aggettivo partitica perché non mi rompiate i coglioni col fatto che oggi non c’è più destra e sinistra e non ci sono le mezze stagioni, chiaro? Chiaro? Sicuri che è chiaro? Bene...), alimentare, dicevo, il bacino elettorale della destra partitica, il che sarebbe anche fisiologico (per quando da me non desiderato, se pure esattamente previsto), ma soprattutto a porre le basi per una colossale, travolgente, devastante esplosione di violenza.
 
Il sangue dei prossimi morti è in capo a chi propugna false soluzioni ritardando la presa di coscienza dei veri problemi.
 
Il secondo aspetto è che questo atteggiamento attivamente fomenta la violenza intraeuropea, perché avvalora la tesi secondo la quale l’euro sarebbe una bella cosa, fallita per colpa dell’austerità voluta dei tedeschi. Si realizza, attraverso questo referendum, il paradosso che ho più volte denunciato in questo blog, quello secondo il quale chi si atteggia a europeista di fatto per difendere la moneta unica deve chiamare alle armi contro la Germania, sotto forma di “sbattimento di pugni”, di risentimenti vari assortiti per i vari misfatti veri o presunti della Germania (dall’infrazione del patto di stabilità al non aver onorato i debiti di guerra dopo la seconda guerra mondiale), ecc. Poi i populisti e gli antitedeschi saremmo noi, che, se abbandonati in una qualsiasi cittadina di quel nobile e altresì martoriato paese, potremmo amabilmente conversare con chiunque incontrassimo, laddove loro, gli europeisti, morirebbero di fame nella vana ricerca di un ristorante che gli servisse degli spaghetti al dente... 
 
Ma c’è un ulteriore, gravissimo, ma anche beffardo, motivo per il quale i colleghi “de sinistra” sbagliano, e sbagliano di grosso, a proporre soluzioni illusorie. Posso anche capire che se sono molto “de sinistra” il piccolo imprenditore sia vissuto da loro come un nemico, e le sue oscillazioni isocrone, nel freddo di un capannone abbandonato, come il giusto guiderdone della Storia nei riguardi del nemico di classe (capire non è condividere). Posso anche capire che, se invece sono poco “de sinistra”, essi sperino che nei loro tinelli o salotti buoni il vento della crisi non soffierà mai, e che basterà dire “mangino brioche” o “violino i parametri” perché i sanculotti non vengano a cercarli. Insomma: posso capire che da “sinistra” o da “meno sinistra” sia lecito battersene il belino di tanti morti, pur esibendo quella simpatica smania di fare, di essere costruttivi e propositivi che ho chiamato il qualcosismo.
 
Ma di una cosa temo, cari illustri e meno illustri, che vi sarà difficile fottervene, e non mi riferisco al vostro prossimo. Mi riferisco al fatto che, vedete, voi che avete fatto il percorso, quattro anni fa siete stati sorpassati a sinistra da un keynesianello di provincia (et in Pescara ego); l’anno scorso siete stati sorpassati a sinistra dal vicegovernatore della Bce, che a differenza di voi parla dei veri problemi; e quest’anno, da pochi giorni, siete stati sorpassati a sinistra perfino da quel dipartimento di economia che ha diffuso nel mondo l’ideologia austeriana, prendendosi sonori ceffoni da Krugman sulle colonne del New York Times. Ecco: oggi, mentre voi vi arrampicate sugli specchi per difendere l’euro, Tabby e Zingy prendono saggiamente le distanze. Cosa, anche questa, da me ampiamente prevista nel mio libro. I cambi di regime vengono gestiti dal regime. E così uno come Zingy vi fotterà, cari amici “de sinistra” (fotterà voi, non me, perché io il potere non lo voglio), proponendosi come quello che aveva capito (mentre voi, alla fine di questo breve saggio, credo sia evidente che non avete capito una fava), e come quello contro le élite, alle quali lui appartiene, e voi vorreste tanto appartenere, motivo per il quale continuate a lambire le terga dell’euro.
 
Si può essere più perdenti di così?
 
Direi di no.
 
Ma guardiamo il lato positivo. Con questo referendum avete oggettivamente toccato il fondo. Ora potete solo risalire. La paura, che ha insegnato ai miei lettori la macroeconomia, presto insegnerà a voi la politica.
 
No es que me gusta, pero siento un fresco.

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