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Con la vittoria di Syriza si apre una nuova fase in Europa

di Alfonso Gianni

MAS varoufakis tsipras APSiamo in molti ad avere sostenuto a più riprese che, in particolare in Europa, è assolutamente necessario che la politica prenda il primato sull’economia. Principio giustissimo. Ma non sufficiente per fare fronte alla nuova situazione che si sta profilando attorno all’affaire greco. Infatti la cattiva politica che domina attualmente in Europa si sta comportando nei confronti della Grecia addirittura peggio dei poco teneri mercati finanziari. Sembra un paradosso, ma non è difficile rendersene conto se seguiamo lo svolgimento degli ultimi eventi.

L’economista Yanis Varoufakis, attualmente ministro delle finanze del nuovo governo greco, rispondeva così - in una intervista rilasciata al Manifesto a fine 2014 – sulle probabilità di vittoria di Syriza nelle elezioni che si sarebbero tenute di lì a un mese: “Non c’è alcun dubbio che le forze dell’establishment faranno di tutto per fermare Syriza, ricorrendo alle più bieche forme di terrorismo psicologico nei confronti dell’elettorato greco. Ma sembra che questa volta tale strategia, già impiegata con successo in passato, sia destinata a fallire”. Così è stato.

 

Il terrorismo psicologico contro la Grecia

Il “terrorismo psicologico” non è stato lieve. Diciamo che si è solo fermato alla soglia del terrorismo vero e proprio. Non si è trattato solo di una campagna di stampa avversa condotta su scala internazionale. Non ci sono state soltanto le dichiarazioni dei vari leader o capi di stato che si sentono le vestali delle politiche di austerità.

Non solo il chiacchieratissimo Commissario europeo Juncker si è abbandonato a dichiarazioni le più inconsulte, quale quella che auspicava che i greci non votassero “in modo sbagliato”, salvo poi riparare in malo modo alla gaffe sostenendo che si riferiva al pericolo di un voto alla formazione neonazista di Alba Dorata. Dal canto suo il ministro delle finanze tedesco, Wolfgang Schauble, aveva dichiarato nel dicembre scorso, con la solita sensibilità democratica che lo contraddistingue, che le nuove elezioni greche non avrebbero cambiato nulla!

Ma, ciò che più conta, prima che si arrivasse alle elezioni si è assistito a un processo forzato di disinvestimento di capitali dal paese ellenico, di fuga dai depositi bancari della Grecia verso lidi più sicuri o almeno ritenuti tali. Le cifre sono eloquenti: oltre 4 miliardi di euro in dicembre e 10 miliardi di euro in gennaio hanno preso il largo. Il governo Samaras non ha mosso un dito per invertire la tendenza. Infatti le menzogne sparse a piene mani sulla ripresa greca non erano altro che un disperato e misero tentativo di riorientare il voto a proprio favore e non certamente quello di drenare la fuga di capitali.

Il comportamento dei mercati finanziari dopo la vittoria di Syriza

Passata la buriana, però, quando cioè Syriza ha vinto nettamente le elezioni in Grecia e, non disponendo per un nonnulla della maggioranza assoluta dei membri del parlamento, si è dovuta alleare per formare il governo con un piccolo partito di destra in posizione fortemente minoritaria, l’atteggiamento dei mercati si è fatto assai meno aggressivo. Al terrorismo di prima non è seguito poi il crollo dei mercati finanziari il giorno dopo il voto di Atene. Anzi. I mercati europei hanno assorbito perfettamente l'onda d'urto degli esiti del voto in Grecia. La Borsa di Atene ha seguito un andamento fortemente altalenante. Subito dopo la chiusura delle urne, vi è stato un calo seguito da un netto rialzo nel corso della stessa giornata. Poi vi è stato un tonfo, dovuto probabilmente alle annunciate misure di politica economica del nuovo governo che non al timore dei possibili contraccolpi delle richieste di ristrutturazione del debito.

In effetti l’annuncio del blocco- seppure non definitivo - della privatizzazione del Pireo e del porto di Salonicco  (emblema di un piano di privatizzazioni più generale da fermare) ; del rientro al lavoro delle donne della pulizia del Ministero delle Finanze e degli addetti si servizi ausiliari delle scuole (licenziati dai precedenti governi e perciò emblematici); del ripristino della tredicesima per i pensionati al di sotto dei 700 euro; quello del salario minimo ai livelli antecedenti la crisi e dei contratti collettivi di lavoro; del rilancio degli investimenti pubblici, sono un boccone indigesto per stomaci guastati dall'austerity.

Al tonfo della Borsa sono però seguiti immediatamente diversi rimbalzi, proprio alla vigilia dei primi incontri in programma tra Tsipras e i presidenti del Parlamento europeo, Martin Schulz, e dell'Eurogruppo, l'impronunciabile Jeroen Dijsselbloem. E ancora più dopo, quando Alexis Tsipras, accompagnato da Yanis Varoufakis, ha iniziato il rapido e densissimo giro di incontri nelle varie capitali europee, che in un primo tempo pareva non avere avuto un esito negativo.

La decisione della Bce

In realtà i capi di governo incontrati da Tsipras e da Varoufakis hanno nascosto le loro reali intenzioni. Finché hanno potuto, cioè fino a quando la Bce, la sera del 4 febbraio, ha reso noto che avrebbe chiuso i canali di credito alla Grecia. A questo punto Renzi – e non è stato il solo – ha smesso di giocare con le cravatte e si è subito allineato alla decisione della Banca centrale europea considerandola giusta e opportuna. Confermando così, se ce fosse bisogno, quanto fosse inconsistente il suo piano di ammorbidimento nei confronti della Merkel rispetto al tema del debito sovrano, al quale l’Italia - viste le dimensioni del suo, secondo solo a quello della Grecia nell’eurozona - sarebbe vitalmente interessata.

La Merkel e ancor più Schauble hanno invece continuato imperterriti durante tutto questo periodo a lanciare segnali di assoluta intransigenza. Motivati probabilmente dalla preoccupazione di non lasciare ulteriori spazi elettorali alle posizioni ultranazionaliste della nuova baldanzosa destra interna che si raccoglie attorno alla “Alleanza per la Germania”.

La crisi interna al pensiero mainstream

Al contrario anche nel pensiero mainstream si fanno sempre più forti i dubbi e le critiche alla politica di austerity fin qui praticata dalla Ue sotto la spinta preponderante della Germania. Qualche autorevolissimo giornalista economico si domanda persino se non è proprio grazie alla svolta determinatasi nel paese greco che si salverà l'Euro e l'Europa. L’isolamento politico e diplomatico di cui soffrirebbe la Grecia è più un’invenzione propagandistica che una realtà.

Del resto non possono restare senza influenza sul dibattito, sia accademico che politico, che si svolge in Europa, le misure annunciate da Obama in merito all’incrudimento del prelievo fiscale sui più ricchi, all’inasprimento delle tasse di successione e dei capital gains, per ridistribuire la ricchezza verso il basso della scala sociale, in particolare in direzione delle cosiddette classi medie che percentualmente sono state le più colpite dalla crisi economica. Certamente i repubblicani statunitensi faranno muro contro i provvedimenti annunciati da Obama, compresi gli accenni su una sorta di riedizione del new deal roosveltiano in chiave moderna. Ma intanto l’impatto del loro annuncio sull’opinione pubblica americana ha fatto risalire i gradimenti per il Presidente dopo la sua sconfitta nelle elezioni di medio termine; preparano la strada a una possibile, per quanto difficile, nuova vittoria democratica alle prossime presidenziali e hanno accresciuto la popolarità alquanto appannatasi di Obama a livello mondiale. I tedeschi, che cominciano a sentire su di loro le conseguenze di una crisi che le loro politiche hanno attivamente contribuito a peggiorare, non possono non tenerne conto.

Le interessanti posizioni del Fondo monetario internazionale

Per dimostrare che non si tratta di episodi o dichiarazioni isolate, per quanto autorevoli, ma proprio di una crisi interna al pensiero neoliberista e rigorista dominante, in particolare in Europa, vale la pena di riportare qualche opinione espressa dallo stesso Fondo Monetario Internazionale in un rapporto che risale a qualche mese fa e di cui ha recentemente dato parziale notizia anche la stampa italiana (come la Repubblica del 10 febbraio). Il Fmi giudica che l’intero “piano di salvataggio” messo a punto dalla Troika – quello che Tsipras ha rifiutato di completare – sia segnato da “errori evidenti”. Gli effetti calcolati di tale piano erano sopravvalutati da un evidente ottimismo del tutto fuori luogo, mentre venivano del tutto trascurati i disastrosi effetti sociali dovuti all’impoverimento della popolazione e al totale smantellamento di ogni forma di protezione sociale e di welfare. Non solo, ma il Fmi – cosa che anche questa rivista ha più volte sostenuto – afferma che “per Atene e per i contribuenti europei sarebbe stato meglio ristrutturare il debito nel 2010”. Il ritardo con cui la questione viene posta, peraltro con la ferma opposizione della Germania, non ha fatto altro che permettere “ai creditori privati, in buona parte società finanziarie del Vecchio continente, di liberarsi dei crediti e girarli a istituzioni pubbliche”, operando cioè quella pubblicizzazione “selvaggia” del debito in mano ai privati che è tipica dei processi che abbiamo incontrato in questi anni di crisi non solo in Grecia. Più d’uno lo aveva fatto notare fin dall’inizio, anche dall’interno del Fmi, ma il fatale errore contenuto nella famigerata formula Reinhart-Rogoff, solo tardivamente disvelato, l’aveva messo a tacere.

Il vero significato dei precedenti salvataggi della Grecia

I precedenti interventi degli organi europei più che salvare la Grecia si sono preoccupati di salvare le banche esposte con quel paese. Ma di quanto erano sbagliati i “calcoli” della Troika? Mica di poco. Dal 2010 a oggi la Grecia ha perso il 25% del Pil contro il 3% previsto dagli economisti della Ue, del Bce e dello stesso Fmi (la Troika, appunto); la disoccupazione è arrivata al 25% anziché fermarsi al 13%; il debito che avrebbe dovuto non sorpassare il 154% veleggia al 175%. Dei 240 miliardi di prestiti agevolati alla Grecia, solo 20 hanno raggiunto l’economia reale, gli altri sono stati utilizzati a pagare rimborsi e interessi ai creditori (149 miliardi) o a ricapitalizzare le banche (48,2 miliardi). Il “salvataggio” del 2010 è quindi servito a tenere la Grecia nell’euro, per permettere alle banche con rilevanti esposizioni sul fronte greco di mettersi al sicuro. In ogni caso l’intervento nei confronti della Grecia è stato proporzionalmente di misura ridicola se si considera che nel 2013 la Ue aveva stanziato 3.165 miliardi di euro per salvare le banche dalle conseguenze della crisi innescata dall’ormai storico fallimento della Lehman Brothers.

Il programma di Salonicco

Il programma di governo annunciato da Alexis Tsipras a Salonicco (che pubblichiamo in appendice a questo articolo) il 15 settembre del 2014, non è affatto un libro dei sogni, ma avrebbe più di una possibilità di innestare un processo reale che potrebbe anche renderlo realizzabile per la sua grande parte. Questa possibilità non dipende solo dall’abilità politica di Tsipras e del nuovo gruppo dirigente greco; dal consenso che questo saprà conquistare e allargare tra la popolazione di quel paese; dalla attiva solidarietà internazionale che si sta creando nei confronti dell’esperimento greco in particolare nel contesto europeo, ma soprattutto al sopravvento di altri fattori positivi in Europa, come potrebbe avvenire in particolare grazie a una grande affermazione della sinistra nelle elezioni spagnole del prossimo autunno, capace di modificare realmente i rapporti di forza sullo scacchiere della Unione europea. Insomma, la tanto attesa “spallata spagnola”.

L’intreccio con la situazione in Ucraina

Naturalmente vi sono altri aspetti che si delineano nello scacchiere europeo e che questo articolo non può, per evidenti ragioni di spazio, sviluppare appieno, ma che è necessario almeno accennare per rendere conto della estrema complessità della situazione nella quale stiamo entrando, gravida di ulteriori rischi non solo sul terreno economico e sociale. Mi riferisco ovviamente al precipitare della situazione della guerra civile etero diretta in Ucraina. Qui gli interessi geopolitici della Merkel la invitano e la sospingono alla moderazione, a differenza dell’establishment americano, disponibile a dotare il governo di Kiev di armi “letali”. Da qui il rifiuto tedesco di nuovi armamenti alle sfiancate forze ucraine e l’insistenza nella trattativa con Putin. D’altro canto le recenti dichiarazioni di Obama contro l’impossibilità di costringere le nazioni alla fame per pagare il debito possono anche essere lette – e molti lo hanno fatto – come un tentativo di evitare che, per necessità più che per scelta, il nuovo governo greco sia sospinto verso la ricerca di un sostegno economico diretto da parte della Russia. In ogni caso per quanto riguarda l’Europa viene impietosamente messa a nudo sia l’assenza di una politica internazionale (questa viene fatta dalla Germania secondo i suoi specifici interessi economici e geopolitici), sia di una politica economica che non sia il perpetuarsi delle diseguaglianze, delle sforacchiate dottrine neoliberiste e ancora una volta degli interessi del neomercantilismo tedesco.

La difficile trattativa sul debito messa in atto dal governo greco

Per mettere in moto un processo di cambiamento del proprio paese e con esso dell’Europa, il governo greco ha assolutamente bisogno di guadagnare quel tempo necessario che gli permetta di allontanare la pressione sul pagamento del debito e in particolare di potere rifiutare il programma della Troika senza essere privato della liquidità necessaria a pagare stipendi e pensioni, oltre che finanziare il loro annunciato aumento. Yanis Varoufakis, questa volta nelle vesti di ministro delle finanze, aveva annunciato dopo l’incontro con Renzi, la sua road map per permettere al governo greco, a partire da fine febbraio, quando renderà noto nei dettagli un suo piano dettagliato, di costruire un’intesa da attuare da giugno in poi. Serve “un accordo ponte” aveva ribadito in quei giorni Alexis Tsipras. Nel solito alternarsi di ottimismo e pessimismo, come sempre avviene nelle trattative, specie se si svolgono a livello internazionale in cui entrano in campo diversi soggetti e fattori, in un primo tempo i governanti greci parevano protendere verso il primo.

La ragione non era solamente quella che è sempre bene mostrarsi non battuti fin dall’inizio. Probabilmente essa si fondava su precedenti storici che erano stati richiamati in incontri precedenti. Di solito si cita la ormai celebre conferenza di Londra del 1953 ove venne condonato gran parte del debito contratto direttamente con altri stati dalla Germania, dal momento che agli Usa e all’Occidente serviva che la sua ricostruzione funzionasse da baluardo contro il comunismo sovietico. Ma è forse ancora più utile citare un precedente più lontano. Franklin Delano Roosvelt negli anni '30, quatto quatto, perché gli elettori non se ne accorgessero, concesse una dilazione fino al 1991 sul pagamento dei debiti che la Gran Bretagna doveva agli Usa. Infatti sulla stampa internazionale nelle scorse settimane era trapelata l’ipotesi che qualche cosa del genere si stesse già prevedendo anche per la Grecia. I viaggi effettuati nella City da parte di esponenti di Syriza non sarebbero stati solo propaganda. Atene avrebbe potuto, in base a questa ipotesi, finire di pagare il debito restante nel 2057 e non dovrebbe versare un euro fino al 2020.

Dopo il 4 febbraio, giorno del pesante monito lanciato da Draghi a nome della Bce, di questa ipotesi non si è più saputo nulla. E’ cresciuta l’intransigenza tedesca; la pretesa di portare avanti ad ogni costo quanto già prestabilito dalla Troika - rifiutato apertamente da Tsipras sull’onda di un inequivocabile pronunciamento elettorale - e l’insistenza sul fatto che i greci precisassero meglio il loro “piano” prima di concedere qualsivoglia dilazione temporale, con la fin troppo evidente intenzione di potere dimostrare che quel piano non esiste.

Le più recenti proposte del governo greco

Ma non è così. Né Tsipras né Varoufakis sono rimasti fermi. Le loro posizioni sono tutt’altro che intransigenti, ma assai dialoganti e aperte a una vera trattativa. Non c’è bisogno di ripetere che l’intenzione è fermamente quella di rimanere nell’euro e che casomai sarebbe proprio l’intransigenza tedesca a sospingere la Grecia fuori dall’Eurozona. Proprio per evitarlo il ministro delle finanze greco ha affinato le sue proposte anche rispetto al programma di Salonicco. Ovviamente moderandone diversi aspetti, come inevitabile e giusto fare in una trattativa.

Non viene richiesto il taglio vero e proprio del debito ma un intervento ( uno “swap”) sulla porzione di debito in mano al Fondo europeo di stabilità finanziaria (poi comunemente detto Fondo salva stati, Efsf nell’acronimo inglese) e alla Bce emettendo nuovi titoli di stato. I titoli in mano all’Efsf verrebbero sostituiti con bond indicizzati al tasso di crescita del Pil, mentre quelli in mano alla Bce diventerebbero delle “obbligazioni perpetue”, ovvero titoli senza interessi continuatamente in bilancio alla Banca centrale. Il che, secondo autorevoli centri studi europei, come Bruegel, ridurrebbe del 15% del Pil la spesa greca per interessi sul debito accumulato. Inoltre i greci avrebbero accettato di mantenere non solo in pareggio il bilancio, ma con un avanzo primario – al netto del pagamento degli interessi sul debito – ma limitato all’1 – 1,5 per cento, in luogo del 3 per cento previsto dall’infausto Memorandum.

In cambio i greci chiedono non solo tempo, ma ovviamente anche prestiti, seppur limitati, per tirare avanti, che invece per ora sono negati. Ma la richiesta greca ha un fondamento oggettivo difficilmente contestabile. La Bce e le varie banche centrali hanno realizzato consistenti profitti acquistando bond greci nel loro peggiore periodo e quindi al prezzo più basso. Si calcola che tali profitti non siano inferiori a 1,9 miliardi di euro che peraltro l’ Eurogruppo decise già di “girare” alla Grecia nel 2012, senza però averlo mai ancora fatto.

Come si vede le richieste greche sono tutt’altro che smodate. Tuttavia non sono riuscite finora a smuovere l’intransigenza tedesca. Ecco perché Tsipras sta preparando un piano con l’Ocse che gli permetta ulteriori margini di trattativa. In particolare si parla di un’accettazione da parte greca di una parte del Memorandum, sostituendo la restante con riforme concordate, ma non subite, con la stessa Ocse. Come si vede una proposta estrema, oltre la quale il governo greco difficilmente può andare senza deludere il proprio elettorato.

Sullo sfondo della difficile trattativa si intravede anche la possibilità per la Grecia di accedere a qualche disponibilità già avanzata dalla Russia in tema di prestiti, nonché dalla Cina, interessata tra le altre cose all’acquisto del porto del Pireo, operazione finora fermata dal nuovo governo. La prima prospettiva si intreccia in queste drammatiche giornate proprio con l’evoluzione o l’involuzione della vicenda ucraina. L’aggravarsi di un conflitto diretto tra la Russia e gli Usa, per ora sul suolo ucraino, sarebbe un avvenimento di portata tale da rendere imprevedibile qualunque evolversi della situazione greca e della stessa Unione europea.

Le condizioni per l’affermazione del programma di Syriza e i suoi possibili effetti

Mentre si chiude la nostra rivista non sono noti gli esiti delle riunioni informali dei ministri delle finanze di metà febbraio. Forse la cosa più probabile è che quegli incontri non siano risolutivi, ma possono segnare gli umori del barometro economico-politico in un senso o nell’altro. Si ha nettamente l’impressione che si voglia portare la Grecia sull’orlo del baratro per costringerla a rinunciare forzosamente alle proprie richieste. Ma non è detto che proprio tutti i paesi interessati siano in linea con una simile tattica ricattatoria patrocinata in particolare da Schauble, perché più d’uno si rende conto che, a furia di tirare, la corda può spezzarsi e il collasso greco può provocare un contagio ancora peggiore di quanto potrebbe accadere se la Grecia in qualche modo la spuntasse e diventasse un esempio positivo anche per altri paesi. La situazione è quindi di grande incertezza, ma quanto fin qui descritto ci permette avanzare qualche breve considerazione.

L’attuazione del programma con cui Syriza ha vinto le elezioni e quindi la durata del governo di sinistra greco sono legati, come abbiamo visto, da un lato alla capacità di passare la cruna dell’ago imposta dalla intransigenza tedesca sui prestiti necessari per un accordo ponte; dall’altro all’ampliarsi del consenso interno e alla crescita della solidarietà internazionale.

Su queste due ultime questioni i segnali sono più che positivi. All’annuncio negativo della Bce le piazze di Grecia e d’Europa si sono riempite in solidarietà con il popolo greco, chiamando alla mobilitazione cittadini, organizzazioni sindacali e politiche di vecchia e di nuova nascita. Qualcosa che non si vedeva da molto tempo. Non si tratta solo di solidarietà. Si comincia a comprendere che la questione greca riguarda tutti i popoli europei e in particolare quelli che vivono in paesi ove più alto è il debito sovrano. Come il nostro.

Anche in Grecia avviene qualche cosa di inusitato: la popolazione scende in piazza numerosa a sostegno delle posizioni del governo. Una inversione di tendenza rispetto alla frattura fra alto e basso che ha caratterizzato il conflitto sociale nei paesi a capitalismo maturo negli ultimi decenni? Probabilmente no, non ancora: ma un’eccezione significativa e fertile senz’altro sì.

Contemporaneamente è più facile rispondere alla domanda: perché mai infierire contro un paese il cui debito pubblico (323 miliardi di euro) non supera il 3% dell’Eurozona? Finora la risposta che veniva giustamente data è che la Grecia è stata trattata come una cavia: si voleva vedere fino a quanto può resistere un popolo sottoposto all’austerità più spietata. Lo si è visto. Il popolo non si è piegato, non si è gettato nella pura disperazione ed ha ribaltato nettamente il quadro politico che lo opprimeva. Le ragioni di tanto accanimento sono dunque cambiate, anche se non diametralmente. Possono essere riassunte in due. Se la Grecia riesce a superare gli attuali scogli e a implementare un piano per una crescita di nuovo tipo ( il “new deal europeo” richiamato nel programma di Salonicco), diventa evidente che il tema debito può essere più efficacemente affrontato in altra maniera che non quella contenuta nel fiscal compact e nel contempo che il tema controverso dello sviluppo può imboccare altre strade dalla crescita puramente quantitativa degli indicatori economici. Sarebbe quindi una sconfitta storica per il neoliberismo europeo che le sue vestali non vogliono assolutamente permettere.

La seconda ragione riguarda gli assetti democratici non solo della Grecia ma dell’intera Europa. Finora gli organi della governance europea avevano ficcato il naso nelle politiche di governi amici. Come era accaduto e accade per l’Italia, dove la Bce dettò cosa il nostro paese doveva fare quando c’era il governo Berlusconi e poi Monti e Renzi hanno proseguito l’opera. Nel caso della Grecia siamo ad un passo oltre: si tratta di capovolgere l’esito stesso del voto popolare. Una sorta di colpo di stato in bianco, perché nessuno dovrebbe fuoriuscire dalle regole dettate dai Trattati tantomeno con la volontà popolare e la democrazia.

Se invece su entrambi gli aspetti le attuali elites dominanti della Ue dovessero perdere, si verificherebbe un contagio positivo in tutto il Vecchio continente. La posta non è quindi solo la salvezza della Grecia, ma la sopravvivenza, il cambiamento e quindi il futuro della Ue. Per questo lo scontro sarà durissimo. Al di là del suo esito, quello che è certo è che siamo entrati in una nuova fase della storia dell’Europa.

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