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vocidallestero

Il Piano C, o “Splendori e miserie della sinistra europea”

di Alberto Bagnai

Nel post francese su Goofynomics il prof. Bagnai condivide con i suoi lettori alcuni eventi del suo viaggio tra Rouen e Parigi:  in primo luogo la chiara considerazione espressa al convegno di giuristi tenutosi a Rouen sull’idea di stato federale europeo, e poi l’interessante discussione con un collega sulla lunga serie di errori della “sinistra”, serie che va a culminare col prossimo sinistro errore, il Piano B.  Ecco la traduzione per i diversamente europei

schiele124Al convegno: “Nessuno crede in un’Europa federale!”

Mi trovo a Rouen, città dove sono successe tante cose europee (come in qualsiasi città dell’ Europa, d’altronde), a partire da un certo processo, per arrivare a un certo convegno, che è l’occasione della mia visita.

Due avvenimenti relativamente lontani, ma che hanno in comune una forte presenza di giuristi, e un dibattito molto interessante.

Mi avevano chiamato per descrivere il processo di regionalizzazione in Italia, cosa che ho fatto come ho potuto, con l’aiuto di colleghi membri dell’associazione a/simmetrie, che attualmente presiedo (qui qualcosa di quanto stiamo facendo). Lo scopo del convegno era sostanzialmente quello di confrontare le diverse esperienze di decentramento e di regionalizzazione, vale a dire, in un certo senso, di “federazione” degli enti locali (siano essi Stati, come negli Stati Uniti, regioni, come in Italia, o cantoni, come in Svizzera). Si affrontavano questioni come la posizione degli Stati federati (o delle regioni) in rapporto allo stato federale (o allo stato centrale), la posizione degli Stati federati (o delle regioni) in rapporto alle comunità sub-statali (stati, provincie, unioni di comuni, città metropolitane, capitali, comuni …), ecc. Le asimmetrie economiche svolgono in questo un ruolo importante, sia a livello informativo, che sul piano dei rapporti di forza, o delle regole di funzionamento, e in effetti quasi tutti i relatori nelle loro presentazioni facevano riferimento al concetto di asimmetria.

Dopo due giorni di lavori, una cosa mi sembra ovvia, e, facendo mostra di una certa ingenuità (estote ergo prudentes sicut serpentes et simplices sicut columbae), non rinuncio a farla notare ai miei colleghi:

“Cari colleghi, abbiamo parlato di tutela delle minoranze etniche, quindi spero che vogliate accogliere con indulgenza questa domanda posta dal solo economista qui presente. Abbiamo visto i problemi della regionalizzazione, e possiamo dire che sono in gran parte comuni a tutte le esperienze che abbiamo analizzato: dalla difficoltà di risolvere democraticamente i conflitti tra i diversi livelli di governo, alla difficoltà di adattarsi al fatto (storico ed economico) che le frontiere cambiano, etc. Abbiamo visto, allo stesso tempo, che a questi problemi sempre uguali nel tempo e nello spazio le diverse comunità hanno sempre fornito soluzioni diverse, soprattutto qui e ora, in Europa.

Detto questo, mi pongo una domanda. In quanto economista io assisto alla crisi della zona euro, che rappresenta il più grande successo della professione economica – perché questa professione aveva previsto quello che sarebbe successo. Mi si dice appunto che le difficoltà economiche in realtà erano state previste, ma che sarebbero state risolte andando verso uno Stato federale europeo. Gli Stati Uniti d’Europa ci salveranno. La domanda è dunque: quale modello di federazione interstatale sceglieranno degli stati che hanno adottato dei modelli di federazione sub-statali così differenziati? “

Dovete sapere che questo convegno è stato organizzato da giuristi non solo molto competenti, ma anche molto europeisti (come cerco di esserlo io stesso, e come dimostra la mia ostinazione a volermi esprimere in una lingua che non è la mia lingua madre). Mi aspettavo che questa domanda avrebbe causato qualche disagio, come senz’altro sarebbe accaduto se fosse stata posta in Italia, dove il mantra dei SUE (Stati Uniti d’Europa) in questo momento è sulle prime pagine (e le seconde, le terze, le quarte …) di tutti i giornali. Il loro messaggio è che siamo in crisi perché non abbiamo ceduto abbastanza sovranità all’Europa (senza nemmeno chiedersi non soltanto se questa sarebbe davvero una buona cosa, ma, soprattutto, che cosa sia precisamente questa Europa – da qui la mia domanda). Per i nostri giornalisti, “Europa”, vale a dire i SUE, cioè lo stato federale europeo, è la Terra promessa, è il Paradiso in terra, dove il pastore tedesco (meglio noto come cane lupo – il che la dice lunga!) si coricherà accanto alla pecorella greca (o a quel che ne resta), e insieme sogneranno l’Europa (che al momento è un sogno solo per alcuni, e un incubo per tanti altri).

Niente di tutto questo.

La risposta è immediata, serena, inequivocabile (e anche un po’ paternalistica. Ma d’altronde ero in minoranza…) :

Ma andiamo, caro collega! Nessuno oggi crede che un modello federale possa essere applicato a livello europeo, non sarebbe sostenibile!”

I miei lettori sorrideranno a immaginare che qualcuno abbia potuto pensare di spiegarlo proprio a me!

Ma io, che sono gentile, ho ringraziato, con un sorriso ben noto ai miei lettori, e anche simulando un certo stupore (non volevo privare i miei colleghi del piacere di avermi comunicato, come se si trattasse di qualcosa di nuovo, un concetto che vado ripetendo da cinque anni tutti i giorni a tutte le ore), e me ne sono poi andato al bistrot con un amico economista che i lettori di questo blog conoscono molto bene.

Il lettore italiano sarà così gentile da tenere a mente che in un convegno di giuristi europei ed europeisti si considera come un dato di fatto acclarato che l’idea di uno stato federale europeo è una cagata pazzesca.

 

Al bistrot: i cinque errori passati della sinistra

Il mio amico segue da lontano il mio impegno, e lo condivide, in quanto intellettuale di sinistra. Così ci scambiamo le nostre opinioni sulla situazione. “Qui le cose sono cambiate”, mi dice “e la Grecia è stata un punto di svolta, ma non durerà a lungo, e, in più, la cosa ha preso una piega che non mi piace. Si parla di un piano B, non so se tu ne sai qualcosa … “

Mi sovviene una frase di Ennio Flaiano, un grande (e grandemente misconosciuto) intellettuale italiano non di sinistra (Google vi aiuterà): “Io Borges lo leggevo nel ’50, adesso piace anche ai portieri”, e gli rispondo:

“Sì, certo che ne so qualcosa, come puoi immaginare. Io parlavo di piano B un anno fa, prima che la sua utilità diventasse evidente ai sinistrati. Sicuramente saprai che domenica prossima (il 15 novembre) a Parigi ci sarà un grande raduno dei leader della sinistra proprio per presentare questo piano B”.

E il mio collega risponde: “No, veramente non ne sapevo niente! “

«Vedi come comincia bene! Io lo so perché uno di quei leader, Stefano Fassina, che ha appena lasciato il PD, doveva partecipare a un convegno che io organizzo in Italia, e che tratta esattamente il punto che i nostri amici giuristi non ci hanno spiegato, per mancanza di tempo, vale a dire: se uno stato federale non è possibile, come faremo a unire l’Europa, quella stessa Europa che l’euro ha così tanto diviso? Ma Stefano mi ha dato buca per incontrarsi con Mélenchon, Lafontaine, e Varoufakis. Con quest’ultimo si rischia l’armata Brancaleone, ma speriamo bene… “

E il mio collega:

“Ma, vedi, quello che non mi soddisfa dell’approccio “Piano B” è che in fondo tutta questa storia non fa che avvalorare il piano A come vero obiettivo. È una strategia molto debole politicamente perché il discorso, nella sua essenza, è che bisogna minacciare la Germania con un piano B perché ci conceda delle condizioni che ci permettano di sopravvivere nello status quo. Quindi il vero obiettivo politico di questo approccio è il piano A.”

E io: «Ascolta, io ho scritto due libri per spiegarlo agli italiani, e d’altronde Stefano è uscito dal PD dopo averlo letto. Ha detto di aver capito, grazie al tuo umile servitore, che nell’euro nessuna sinistra è possibile.

Ma resta sempre un po’ indietro.

Nell’aprile 2014, intervenendo al mio convegno sul piano B, non era del tutto convinto della necessità di quest’ultimo. Eppure, prima delle elezioni europee parlare di piano B poteva avere un senso: il senso era mostrare agli elettori che al di fuori dell’euro non ci sarebbe necessariamente stata la catastrofe, che si sarebbe potuta gestire tecnicamente l’uscita, se ci fosse stata una maggioranza politica disposta a farlo. Ma Stefano non era d’accordo, parlava di iperinflazione, allora (e ho dimostrato su ottime riviste scientifiche come questa sia una sciocchezza; senza andare così lontano, basti ricordare che da allora la valuta italiana, che malauguratamente si trova a essere l’euro, ha svalutato di quasi il 30% nei confronti del dollaro, senza che si sia verificato altro che deflazione, che è, come tu e Stefano sapete bene, il contrario dell’inflazione)!

La Grecia ha fatto la differenza, ma a mio parere non era necessario attendere il massacro di un intero popolo per cambiare idea, perché questo massacro era prevedibile, tanto che io l’avevo previsto, dopo aver spiegato le ragioni del mio scetticismo.

Hai ragione, la logica della minaccia è una logica idiota, tanto più che si minaccia qualcuno perché ci permetta di rimanere in un sistema in cui non abbiamo alcuna possibilità di sopravvivenza! Questa non è politica. Dubito d’altronde che qualcuno che non ha il coraggio di dirmi che mi ha dato buca, abbia il coraggio di minacciare la Merkel in una maniera credibile. È vero che ho un brutto carattere (questo post ne è la prova), ma mi considero meno temibile della Merkel. In realtà, questo è solo l’ultimo (per ora) di una lunga serie di errori politici che la sinistra italiana “di sinistra” ha commesso. Te ne faccio una piccola lista, perché questi errori non sono privi di interesse e rilevanza generale. La sintesi è molto veloce. I miei amici della sinistra “di sinistra” hanno sbagliato cinque volte: aspettando Hollande, aspettando Schulz, aspettando Renzi, aspettando Tsipras, e aspettando il disastro greco. E ogni volta li avevo avvertiti che si trattava di un errore, come ti mostrerò.

 

Aspettando Hollande…

In primo luogo, i nostri amici “di sinistra” si sono illusi nel 2012 che l’elezione del compagno Hollande avrebbe cambiato la situazione in Europa, costringendo la Merkel ad abbandonare l’austerità. Era una stupidaggine, e subito dopo le elezioni ne avevo spiegato il perché (ma sarei stato compreso solo molto più tardi).

 

Aspettando la socialdemocrazia tedesca …

In secondo luogo, si sono illusi nel 2013 che le elezioni tedesche avrebbero cambiato la situazione, e cioè, che la vittoria del compagno Schulz avrebbe condotto i tedeschi sulla via della socialdemocrazia, e quindi della solidarietà tra proletari europei. Ma anche questa era una stupidaggine, per una ragione che avevo spiegato prima, nel mio libro del 2012 (pag. 250), e che ora è evidente a tutti. Era un’idiozia pensare che una svolta a “sinistra” della politica tedesca, anche se si fosse verificata (cosa in realtà difficile), avrebbe potuto cambiare qualcosa, perché la classe politica tedesca tutta intera, durante la crisi, aveva mentito ai suoi elettori, scaricando la responsabilità della crisi soltanto sui popoli del Sud, con un razzismo che non lasciava molte speranze e che era in contrasto con quanto i dati (e il vice-presidente della BCE) ci dicevano (in particolare, che la crisi era una crisi di debito privato dovuta al comportamento molto “imprudente” delle banche del Nord). Una volta mentito, i politici dovevano essere coerenti, perché se un partito, di qualsiasi colore, si fosse risolto a dire che un atteggiamento più cooperativo sarebbe stato auspicabile, i membri del partito contrario avrebbero potuto distruggerlo dicendo “Vedete questi traditori che ci chiedono di essere gentili con questi maiali, questi PIGS, questa gente pigra che con i suoi vizi ha messo in pericolo il nostro stile di vita virtuoso!” E questo è esattamente quanto è successo, come era ineluttabile, quando il compagno Schulz ha rimproverato il compagno Tsipras, con un rancore al quale avremmo preferito non assistere, e proprio nel momento in cui il “cattivo” Schäuble stava proponendo alla Grecia un’uscita assistita (che non ha potuto essere realizzata a causa dell’opposizione degli Stati Uniti).

 

Aspettando Renzi …

In terzo luogo, si sono illusi che l’Italia avrebbe potuto cambiare la situazione durante il semestre di presidenza dell’Unione europea. In ogni caso è ciò che mi disse Fassina quando ci vedemmo in uno studio televisivo il 14 novembre 2013. Ma tutti in Italia, e Stefano meglio di tanti altri, sanno che la campagna elettorale di Renzi è stata sostenuta da Algebris, la stessa Algebris di cui abbiamo appreso con grande sorpresa (non mia: di altri !) che, insieme a poche altre grandi banche, influenza le decisioni della BCE. È difficile, non trovi?, che due burattini tirati dallo stesso filo vadano in direzioni opposte! In effetti Renzi fece un discorso di apertura del semestre molto coraggioso, spingendosi sino ad accusare la Germania di aver violato le regole per prima (che è un dato di fatto). Ma subito dopo le banche, per interposta persona della Merkel, gli hanno detto “a cuccia!” (anzi: “Sitz! Platz!”) e Renzi si è messo a cuccia, com’era prevedibile (è ben addestrato).

La fine dell’austerità era rinviata.

 

Aspettando Tsipras …

In quarto luogo, si sono illusi che la Grecia avrebbe potuto cambiare la situazione, perché l’audace Simon Bolivar dei Balcani, Tsipras, avrebbe fatto spostare a sinistra l’asse della politica europea! Un’idiozia maggiore delle precedenti, e c’è voluto tutto il mio interminato amore dell’umanità per ascoltarli mentre ripetevano le loro sciocchezze, durante gli innumerevoli seminari e incontri più o meno pubblici, senza sbattere loro in faccia quanto fossero illusi. L’ingenuità era duplice, in questo caso. Ai nostri amici sinistrati sfuggivano due dettagli. Il primo è che un paese non irrilevante, dotato di force de frappe (la vostra simpatica forza di dissuasione nucleare), e di un’importanza politica ed economica ben superiore, come, appunto, la Francia, non era riuscito a piegare la Germania. Come si poteva sperare che la Grecia, un paese piccolo, debitore, indebolito dalla crisi più degli altri, potesse riuscirci? Il secondo dettaglio è che Tsipras si diceva contrario all’austerità, ma favorevole all’euro. Con questo, si rendeva complice delle politiche omicide della BCE, cosa che tutti hanno potuto vedere più tardi, e io avevo visto prima (sì, lo so, non è elegante: ma lo ribadisco a beneficio di chi crede che l’economia non sia una scienza…).

La ragione è molto semplice, ma vale sempre la pena ripeterla: quando si verifica una situazione di squilibrio negli scambi tra due paesi, e quindi un paese diventa debitore di un altro, ci sono solo due soluzioni. La prima è la svalutazione del debitore/rivalutazione del creditore, che viene chiamata “svalutazione esterna”, vale a dire, aggiustamento del valore della moneta nei rapporti con l’estero (cioè del suo valore sui mercati dei cambi). Questa svalutazione ha due effetti: (i) i beni del debitore diventano più vantaggiosi per il resto del mondo e quindi le sue esportazioni decollano, cosa che consente al debitore di trovare risorse per pagare i suoi debiti; (ii) inoltre, una parte di questi debiti può essere rimborsata in valuta “debole” (la svalutazione equivale così ad un “haircut”). L’altra soluzione è la svalutazione interna, vale a dire l’austerità: attraverso tagli di spesa pubblica e aumenti delle tasse si distrugge il reddito dei cittadini, i quali in questo modo consumeranno di meno, e quindi importeranno di meno (il che riduce la necessità di reperire risorse finanziarie per pagare le importazioni); allo stesso tempo, l’austerità fa aumentare drammaticamente la disoccupazione, il che esercita una pressione sui salari (al ribasso, ovviamente!), il che, in linea di principio, dovrebbe rendere i prodotti nazionali molto più vantaggiosi per i consumatori esteri, il che, in linea di principio, dovrebbe far decollare le esportazioni, il che, in linea di principio, dovrebbe consentire ai paesi debitori di trovare le risorse per pagare i propri debiti. In linea di principio, perché in realtà, dato che tutti i paesi adottano contemporaneamente le stesse politiche, tutti i consumatori di tutti i paesi hanno meno soldi in tasca, e quindi nessuno può spendere per sostenere la ripresa dell’economia.

Difendendo l’euro Tsipras ha escluso il primo meccanismo (la svalutazione “esterna”). Quindi, non essendoci alternative, era a favore del secondo, la svalutazione interna, vale a dire l’austerità, anche se diceva il contrario. E in effetti, anche se i media (finanziati dalle grandi banche) ne hanno fatto un eroe triste, una specie di Don Chisciotte, non è stato possibile nascondere che durante tutto il corso della crisi era stato teleguidato dagli Stati Uniti. Questi ultimi volevano la Grecia nella NATO, e quindi nell’euro. Era infatti chiaro che l’intransigenza tedesca avrebbe costretto Tsipras a rivolgersi alla Russia per le sue esigenze finanziarie immediate, laddove fosse uscito dall’euro. Bisognava essere molto ma molto superficiali per aspettarsi qualcosa da questo piccolo borghese telecomandato, che avrà, a guiderdone della sua obbedienza, un posto in una delle prossime Commissioni Europee (sono pronto a scommetterci, ma tu non accetterai!).

 

Aspettando la catastrofe greca …

Ma non è tutto! C’è stato ancora un errore, il quinto, e sempre sulla Grecia. Dopo aver creduto che la Grecia avrebbe potuto cambiare la situazione, i nostri amici ormai definitivamente sinistrati si sono illusi che la sua tragica fine avrebbe potuto raggiungere lo stesso obiettivo. Più esattamente, quando già sapevano che l’euro non poteva funzionare, e lo dicevano, e comprendevano che per i nostri fratelli greci non c’era speranza, hanno atteso cinicamente l’inevitabile catastrofe, sperando che potesse smuovere le coscienze. Ma ancora una volta era facile prevedere che non sarebbe successo niente. Anzi, al contrario! Gli altri popoli europei avrebbero dovuto chiedersi “perché la Merkel si impiccia delle decisioni di un governo sovrano che non è il suo?”, ma la loro reazione ha oscillato tra due estremi: da una parte l’abominevole razzismo degli imbecilli che pensavano “questi greci se lo sono meritato!” (tra l’altro, il mio articolo in cui spiegavo che le cose stavano diversamente è stato premiato come miglior articolo del 2015 alla “Festa della Rete” italiana); dall’altra parte, gli idioti rassegnati, che si ripetono: “L’euro è una buona cosa, se anche i greci che ne vengono massacrati non vogliono rinunciarci! “

Eppure l’avevo detto, nel mio libro del 2012 (a p. 262), che se non ci fossimo opposti all’euro, non ci sarebbero stati limiti a quello che ci avrebbero potuto imporre.”

Quello che non avevo previsto, perché non posso prevedere tutto, era che non ci sarebbero stati limiti a ciò che avremo accettato.

 

Al bistrot: il prossimo sinistro errore della “sinistra”

“Anche il Piano B è un errore …”

E il mio collega: “Sì. Ci vorrebbe un piano C, come “Ce ne andiamo!”. Non si entra nella logica della minaccia, e semplicemente si comincia a ragionare su come sciogliere l’Unione, presentando agli elettori l’uscita, e non la permanenza grazie alla minaccia, come obiettivo politico primario”.

E io: “Sono pienamente d’accordo, tanto che l’ho detto pubblicamente! A un giornalista che in uno studio televisivo mi domandava “Che cosa farebbe se fosse ministro delle finanze?” tanto per cominciare ho dato una rapidissima lezione di diritto costituzionale (è il primo ministro, non il ministro delle Finanze, che definisce la politica del governo), e poi ho detto che in Consiglio dei Ministri avrei proposto (e proporrò, all’occorrenza) una cosa molto semplice: di comunicare ai nostri partner che per quanto riguarda l’Italia l’esperienza dell’euro è finita, e che si conterebbe sul loro buon senso per adottare una soluzione cooperativa. Nello stesso momento, si applicherebbero le misure tecniche descritte da Sapir, Bootle, e molti altri (si trova tutto nei miei libri e in quelli di Jacques, ovviamente). Ci sono stati più di cinquanta scioglimenti di unioni monetarie nel dopoguerra e quelli che ne sono usciti generalmente si sono trovati meglio. Il da farsi è noto.

Sono quindi convinto come te che se prima delle elezioni europee un piano B avrebbe potuto avere un senso, ora è il piano C che dobbiamo proporre come obiettivo politico (e vedo che in Italia i partiti comunisti cominciano a esserne consapevoli, se non altro per il fatto che non possono più fare a meno di ascoltarmi: potrai apprezzare il fatto che la mia prima domanda a questi compagni è stata : “Che cosa posso dirvi che non sappiate già ?”).

Al contrario, il Piano B proposto dalla pseudo-sinistra europea presenta molti problemi e prepara un’altra catastrofe politica delle forze progressiste.

Vediamo in dettaglio.

 

Il Piano B individua nel Piano A il vero obiettivo politico

In primo luogo, come dicevi tu, nel momento stesso in cui si parla di Piano B si consacra come obiettivo primario il Piano A, cioè la permanenza nell’unione monetaria: l’alfabeto ha una sua logica! Rientra così dalla porta (essendo uscito dalla finestra) il discorso assolutamente fuorviante (e che Fassina sembrava aver anche lui abbandonato) secondo il quale “un’altra Europa” sarebbe possibile, con il suo nefasto corollario: quello secondo il quale “questa Europa” non possiamo cambiarla che dall’interno, minacciando, da una posizione di debolezza, i paesi più forti (sono i danni della perniciosa ideologia del questismo). Ma (mi ripeto) questa logica, l’idea che possa esistere un ‘Europa con l’euro e senza l’austerità, è sbagliata. Questo è esattamente l’errore (se è stato un errore), che ha portato Tsipras al fallimento (se si trattava di un fallimento, e non di un successo, sotto forma di una poltrona a Bruxelles). È chiaro che quando si parla di piano B quel che viene proposto come auspicabile all’elettore è il Piano A (“un’altra Europa”). Per definizione, il Piano B è una scappatoia, è l’uscita di emergenza, di cui si è finalmente compresa la necessità, ma che in tutta evidenza si ritiene preferibile non usare, perché è così bello rimanere seduti nel teatro europeo, a godersi lo spettacolo della deflazione …

Mi ripeto: è una cosa completamente idiota.

Non solo il debole non dovrebbe cercar di minacciare il forte (la Grecia insegna), ma più in generale, nell’euro, che è in re ipsa

È dunque per ottenere il privilegio di essere alla mercé della BCE che bisogna minacciare la Germania con un Piano B?

È ridicolo.

Il nemico della democrazia è l’indipendenza della Banca centrale. Ma a “sinistra” nessuno se ne preoccupa, anche se questo tema, che è stato il tema centrale del mio libro del 2012, è ora riconosciuto da economisti assolutamente ortodossi come Summers : “si è andati di gran lunga troppo oltre per quello che riguarda la neutralità monetaria, l’indipendenza della banca centrale e i pericoli della discrezionalità.” Un’osservazione solo in apparenza anodina.

 

L'”uscita da sinistra” inficia il Piano B come opzione politica (ed è quindi suicida)

In secondo luogo, la scoperta da parte della “sinistra” della natura radicalmente antidemocratica dell’euro, della quale ho appena spiegato le basi e che ho denunciato in Italia, buon ultimo, sin dal 2011, è tardiva, e il suo tentativo di scusarsene è suicida.

Tutti i politici di “sinistra” che parleranno di Piano B nelle prossime settimane (e prima del prossimo “Sitz! Platz!”) hanno attivamente sostenuto nel recente passato il regime antidemocratico che ci opprime del quale ti consiglio questo libro imprescindibile).

Solo per darti tre esempi: (i) durante un direttivo del Partito Comunista, che ebbe luogo il 12 dicembre 1978, Luciano Barca, un importante leader del partito, disse a proposito del sistema monetario europeo – il precursore dell’euro : « Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e recessione antioperaia »; (ii) quello stesso giorno, nel suo discorso alla Camera dei Deputati, un altro leader comunista di fama, Luigi Spaventa, diceva che il Sistema monetario europeo rischiava di « configurarsi come un’area di bassa pressione e di deflazione, nella quale la stabilità del cambio viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito », e questo a causa del fatto che « non sembra mutato l’obiettivo di fondo della politica economica tedesca: evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accettare di promuovere uno sviluppo più rapido della domanda interna» (iii) il giorno successivo, nella sua dichiarazione di voto contro l’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo, Giorgio Napolitano, che di recente è stato per due volte presidente della Repubblica, che ha promosso l’instaurazione dei governi tecnici che hanno perseguito la stabilità dell’euro “a spese dello sviluppo dell’occupazione e del reddito” (cito il suo amico), diceva che l’idea che l’Italia «potrebbe evitare sviluppi catastrofici solo con l’intervento di un vincolo esterno nella forma di un rigoroso meccanismo di cambio» fa “un grave torto a tutte le forze democratiche italiane”.

Era tutto chiaro, e sapevano tutto: che il vincolo monetario metteva in pericolo la democrazia; che questo vincolo non serviva a impedire all’Italia di svalutare, ma alla Germania di rivalutare (vale a dire, di avere una moneta coerente con la forza della sua economia); che questo vincolo era uno strumento di lotta di classe, perché avrebbe portato a una deflazione salariale (la svalutazione interna, di cui abbiamo parlato), vale a dire, avrebbe danneggiato gli interessi dei lavoratori, dei dipendenti, della classe sociale che il partito comunista, e i suoi eredi, in quanto partiti di sinistra, avrebbero dovuto rappresentare e difendere.

Sapevano.

Quindi hanno tradito.

Non sono solo arrivati tardi: sono dei traditori, e questo non può più essere nascosto (in ogni caso, in Italia non è più possibile nasconderlo).

La risposta corretta e “di sinistra”, a questo ritardo con contorno di tradimento, sarebbe l’autocritica, sarebbe chiedere scusa, ammettere quanto meno di aver cambiato idea, e spiegare perché. Il tradimento si può perdonare: il mondo era molto diverso all’epoca, e si potrebbe dire che un sistema economico messo in atto quando l’inflazione era una minaccia, non ha più senso ora che siamo tutti minacciati dalla deflazione (vedi Summers sopra). Ma il ritardo è molto più grave, perché ha aperto grandi spazi politici a destra, come avevo previsto nel mese di agosto 2011 su “Il Manifesto” (che è una sorta di “Libération”). “le politiche di destra, nel lungo periodo, avvantaggiano solo la destra,” scrivevo. Disoccupazione e deflazione salariale, nel mio mondo, non sono politiche di sinistra. La loro conseguenza (prevedibile e prevista) è stata dare impulso alle forze di destra: il Front National in Francia, la Lega Nord a casa nostra. Ne è scaturito un altro ritardo, perché per molto tempo, dicendo quello che ora i politici di pseudo-sinistra stanno cominciando a dire, vale a dire che l’euro è pericoloso per la democrazia, ci si esponeva all’emarginazione, in Italia come (soprattutto) in Francia. In tal modo, la sinistra si faceva dettare la propria agenda politica dalla destra: non era saggio dire che l’acqua bagna, se lo dicevano la Le Pen o Salvini. Un atteggiamento subalterno e conformista che ha causato molti problemi e continua a provocarli. Perché, una volta arrivati a riconoscere la necessità di una opzione di uscita, per scusarsi di non aver ascoltato chi come me, o Jacques in Francia, ne parlano da molti anni, i politici e alcuni economisti di sinistra non hanno trovato niente di meglio che dire che la “loro” uscita sarebbe migliore di quella degli altri, perché sarebbe una “uscita a sinistra”. Questa storia è iniziata in Italia due anni fa (con risvolti francamente comici), e inizia ora in Francia, perché è arrivato per Mélenchon il bisogno di rifarsi una verginità.

Ma questa storia è una completa idiozia.

Come hanno detto molto bene Marino Badiale e Fabrizio Tringali in Italia, nel momento stesso in cui si ammette che l’uscita apre delle alternative (a sinistra o a destra), si dichiara che stando nell’euro non ci sono alternative: questo è quello che Fassina ora sembra comprendere (nessuna sinistra dentro l’euro, dice). Ma se ciò è vero, allora la logica del Piano A/Piano B si rivela sbagliata, perché si afferma che il piano A è intrinsecamente di destra, dato che nel mondo del piano A non c’è spazio per la democrazia!

Questo, naturalmente, se si ha a cuore la democrazia.

 

L'”uscita a sinistra” porta la sinistra a dare dei messaggi politici fuorvianti

È chiaro ed evidente che l’uscita dall’euro, come qualsiasi situazione in cui sono in gioco i rapporti di forza tra le classi sociali, può essere gestita in diversi modi. Ma questo è banale. Nel mio libro del 2012 spiego, come Jacques Sapir aveva fatto prima di me, e citando fra i tanti altri il suo lavoro, che questa uscita dovrebbe essere accompagnata da misure di protezione del reddito da lavoro dipendente, ecc. In effetti, bisognerebbe che la sinistra reimparasse a distinguere differenza fra contraddizione principale e contraddizioni secondarie. Dopo aver accettato una subalternità di fatto nei confronti della destra sulla contraddizione principale (subalternità che si sarebbe potuta evitare prendendo una posizione chiara tre o quattro anni fa), gli attuali tentativi di “differenziazione” della “sinistra” sulle contraddizioni secondarie fanno più male che bene.

Ad esempio, il collega italiano più impegnato sul fronte dell’uscita a sinistra ha sostenuto, per mettere in guardia contro i pericoli di un’uscita gestita male, la tesi secondo cui la fine dell’euro causerebbe (tramite inflazione) una perdita di potere d’acquisto dei dipendenti.

Questo è esattamente lo stesso argomento di qualsiasi banchiere centrale. La domanda che ci si dovrebbe porre è quindi: “Questo terrorismo sull’inflazione è giustificato? E perché a sinistra si portano avanti, al nobile scopo di proteggere i lavoratori, gli argomenti che sono propri di quella notoria congrega di filantropi che è la City, il mondo dell’alta finanza?”

La risposta è che il terrorismo è ingiustificato, e per questo porto tre argomenti: (i) la recente svalutazione dell’euro non ha portato alcuna inflazione in Italia (né in Europa). Una perdita di potere d’acquisto dei lavoratori c’è stata, ma l’ha portata la deflazione, per ragioni che Keynes spiegava nel Trattato sulla Riforma Monetaria e che ho sintetizzato qui (in breve: se i prezzi scendono, è necessario che anche i salari diminuiscano, perché altrimenti l’imprenditore vede ridursi i suoi margini di profitto, e licenzierà i lavoratori. Quindi il lavoratore in deflazione perde potere d’acquisto perché o gli viene tagliato il salario, o resta a spasso: questo è ciò che sta accadendo dappertutto) ; (ii) nella storia dei paesi occidentali non abbiamo mai assistito a una riduzione dei salari reali paragonabile all’entità della svalutazione nominale (lo faccio vedere qui); (iii) il lavoro scientifico con cui il collega pensa di dimostrare che una svalutazione influisce negativamente sulla distribuzione del reddito, e quindi l’uscita dall’euro sarebbe pericolosa, ha diverse carenze metodologiche, tra le altre: (a) prende in considerazione il tasso di cambio bilaterale con il dollaro, anche nei casi in cui, come in diverse crisi dei paesi europei nello SME, il tasso di cambio più rilevante per gli squilibri era quello del marco (ovvero, in altri termini, il paese in crisi commerciava più con la Germania che con gli Stati Uniti); (b) non si pone minimamente la questione di ciò che accade nei paesi che hanno rivalutato. Sul primo punto, se invece del tasso di cambio bilaterale consideriamo quello effettivo (cioè una media dei tassi di cambio coi principali partner commerciali), la distribuzione del reddito, come per magia, non dipende più dal tasso di cambio (il che è perfettamente coerente con la letteratura sulle determinanti della quota dei salari sul reddito, dove il tasso di cambio non è quasi mai preso in considerazione). Sul secondo punto, bisogna pensare che se una svalutazione danneggia i lavoratori, allora una rivalutazione dovrebbe favorirli. Ma non è affatto così. Se includiamo nel campione del nostro amico di sinistra i paesi che hanno rivalutato in corrispondenza delle svalutazioni degli altri paesi considerati, ancora una volta i risultati diventano statisticamente evanescenti, e non è difficile comprenderne la ragione. L’ho mostrato qui in relazione alla crisi dello SME: vediamo bene come durante questa crisi la quota salari fosse diminuita ovunque. Non vi è alcun collegamento meccanico tra svalutazione e quota salari (o salari reali, vale a dire il potere d’acquisto distribuito ai lavoratori). I lavoratori hanno perso sia dove la valuta si indeboliva, sia dove si rafforzava, come in Germania. Un mistero? No. Logica elementare, materiale da libro del secondo anno. Può sembrare paradossale, lo sembrerebbe se non lo osservassimo coi nostri occhi, ma quello che distrugge la quota salari non è la debolezza, bensì la forza, la sopravvalutazione del cambio. È scritto nel manuale di Acocella: la politica del cambio forte è uno strumento di disciplina dei salari (motivo per il quale la Banca d’Italia, inizialmente riluttante, ha accettato di farsi esautorare, essendo, come ogni banca centrale, coraggiosamente schierata a difesa degli interessi dei grandi capitalisti). Disciplina che significa ricatto: “abbiamo perso competitività, caro lavoratore, quindi o ti fai tagliare il salario, o chiudiamo e resti a spasso”. Quando la Germania ha rivalutato (siamo abituati a dire che l’Italia ha svalutato, ma le due cose coincidono), è toccato ai lavoratori tedeschi sentirsi cantare questa canzoncina, che i nostri sentivano da cinque anni (i cinque anni dello Sme “credibile”, dell’impegno preso ad agganciare il cambio della lira a quello “forte” della Germania).

Questa è storia, sono dati.

Perché allora, da sinistra, si fa esattamente lo stesso terrorismo che fanno le banche centrali che provengono (si presume) dalla direzione opposta? Ma ve l’ho appena detto: nel disperato e (ig)nobile intento di darsi una vernice di sinistra, per dire che “noi abbiamo l’uscita buona, quella a sinistra, non fidatevi di quella degli altri, è pericolosa” (anche se, come la mia o quella di Jacques, prevede l’indicizzazione dei salari: ma naturalmente basta mentire per nascondere questi dettagli!). Questo atteggiamento presenta un rischio politico evidente, che in Italia è stato decisivo (in senso negativo): facendo del terrorismo sull’inflazione, i colleghi che in Italia sostengono l’uscita a sinistra hanno impedito una serena riflessione da parte dei sindacati. In questo modo hanno assunto su di sé una (altra) responsabilità politica enorme, perché hanno confermato i sindacati nell’idea molto malsana (e suicida) che il miglior amico del lavoratore sia una Banca centrale indipendente che controlla l’inflazione!

Dovrebbe pertanto essere chiaro come il desiderio di rifarsi una verginità “di sinistra” porti molti di quelli che sono stati in silenzio fino ad ora, in gran parte per ragioni di opportunismo, ad emettere messaggi politici altamente fuorvianti. È una cosa che andrebbe evitata, perché non si può pensare ad una soluzione democratica della crisi che non passi per il coinvolgimento dei sindacati, e non si può pensare di coinvolgere i sindacati se si danno loro false indicazioni sulla dinamica dell’inflazione.

 

Il Piano B abbinato con un’uscita a sinistra obbliga la sinistra a rivolgersi a degli incompetenti

È un fatto che, mentre alcuni economisti hanno cominciato a prendere sul serio l’opzione di un’uscita dall’euro cinque anni fa (o anche prima), studiando la non esigua letteratura scientifica sul tema, facendo e confrontando simulazioni di scenari, altri non hanno ancora cominciato a farlo, e quindi in questo campo sono (ancora) tragicamente incompetenti. Qui ho dato un esempio di questa incompetenza, e abbiamo visto a che cosa ha portato. Ora, non è colpa degli economisti che hanno studiato questo argomento se finora la sinistra non si è degnata di ascoltarli. Il caso della Francia è esemplare. Jacques è un economista di formazione marxista. Tutti i suoi lavori rispecchiano questo orientamento ideologico e metodologico. Ma ha avuto l’ardire di mettere la sinistra di fronte al proprio ritardo, e quindi ora è persona non grata. Continuare a non ascoltare ora gli economisti che tanto hanno fatto per aprire un dibattito a sinistra, e non ascoltarli per rivolgersi a degli inesperti, con il pretesto che i competenti sono stati ascoltati dalla destra (e quindi non sono utilizzabili per l’uscita a sinistra) sarebbe un altro tragico errore. I comunisti italiani, come ti ho dimostrato, non sono caduti in questo tranello (o non troppo), ma ciò potrebbe dipendere dal fatto che la storia della uscita “a sinistra” in Italia è ormai un po’ datata, e comincia ad annoiare tutti. Non a caso, durante l’ultimo show di un “uscista da sinistra” in un convegno di comunisti, un giovane (dettaglio non irrilevante, l’età!) si è girato, mi ha guardato con aria un po’ nauseata, e mi ha detto: “Insomma, questo qui sta dicendo che o si sta con l’euro o si sta con Salvini!”

Quanto sarebbe più facile e costruttivo dire: “Scusate il ritardo, mi era entrata una bruschetta in un occhio, il gomito mi faceva contatto con l’alluce, ma ora lavoriamo insieme!”

E invece no.

 

L’uscita a sinistra con il piano B scredita la sinistra

C’è un altro effetto da considerare. Quando si parla di piano B, come si è detto, si avvalora il piano A, cioè si legittima indirettamente l’idea che l’ipotesi migliore sarebbe restare in Europa (ovviamente, un'”altra” Europa, quella più pacifica ottenuta con le minacce). Ma quando si parla di uscita a sinistra, si afferma che solo la sinistra sarebbe in grado di gestire correttamente il crollo di quel sistema che essa stessa avrebbe difeso fino alla sua fine. Si pone la questione (ed è Alfredo D’Attorre che se l’è posta) di come farebbe la sinistra a dire: “Bene, compagni, finora vi abbiamo detto che l’euro era buono, ma ora che è crollato – il che dimostra che avevamo torto – siamo ancora noi che, per diritto divino, vi guideremo verso la soluzione!”. Questo ragionamento non regge. Se si avvalora il piano A, vale a dire l’Europa (direttamente o indirettamente), quando questo piano fallirà (cioè il progetto “europeo” fallirà) sarà difficile che gli elettori possano riporre fiducia in coloro che l’hanno difeso contro ogni evidenza. Ci sono effetti di memoria che in politica è difficile evitare.

 

Che cosa bisognerebbe fare?

Invece di farneticare di Piano B e uscita “a sinistra” (di cui, nel frattempo, la destra sembra essersi appropriata) bisognerebbe agire come dicevo ai compagni romani:

(i) parlare chiaro, e dire che l’euro e l’Unione europea sono un progetto imperialista, antistorico, antidemocratico (la Grecia dovrebbe bastare come esempio) e in contrasto con gli interessi dei lavoratori (e perciò con una società più equa e sostenibile per tutti), e quindi sono il nemico politico, un nemico politico che non può essere riformato, ma solo combattuto;

(ii) chiedere scusa per gli errori di valutazione commessi e per il tempo perduto;

(iii) chiedere ai “padri nobili” che si sono esposti di più nella difesa di questo abominevole progetto di fare un passo indietro.

La sfida per la sinistra è di riuscire a parlare non solo a se stessa, ma di espandere la propria base elettorale. Non potrà mai raggiungere questo obiettivo se non si libera di personaggi impresentabili che hanno rivendicato come un successo il sostegno dato a un progetto di cui ben si sapeva (e loro stessi ne erano ben consapevoli) che l’obiettivo era la deflazione dei salari e la distruzione dello stato sociale.

 

Lo faranno?

No! Perché mai dovrebbero ascoltare questa umile Cassandra, se non l’hanno fatto per cinque volte di fila?

E quali saranno le conseguenze di questo ennesimo errore politico? Ma esattamente quelle che abbiamo visto finora. In assenza di un messaggio chiaro, il popolo di sinistra continuerà a sognare un’Europa che non esiste, perché non può esistere (si veda, all’inizio di questo lungo discorso, il parere dei colleghi giuristi).

Ciò ritarderà la formazione di una coscienza di classe. Nel frattempo, la destra guadagnerà ancora più terreno, ed è chiaro che lo utilizzerà a vantaggio proprio e dei suoi mandanti. Farneticando di un’uscita a sinistra, di cui non sa nulla, perché nulla ha fatto in questi anni per prepararla, la sinistra renderà concreto il pericolo di una uscita gestita dalla destra.

Si delineano così scenari molto critici, dai quali non è dato escludere anche una svolta violenta e autoritaria.

Tanto ci sarà costato il tradimento e il silenzio di questa “sinistra” che è rimasta in silenzio quando sapeva tutto, e che oggi parla troppo, quando piuttosto dovrebbe ascoltare !

Ma anch’io ho parlato troppo. Il mio cuore era troppo pesante, bisognava che mi sfogassi, e purtroppo è toccato a voi. Ed ora che vi ho messo a parte di questa lunga discussione con il mio amico, esco. Sono a Parigi, il clima è mite, sono da solo: è già un inizio di soluzione! Mi sembra corretto avvertirvi che uscendo andrò a destra: mi aspettano all’Ile St. Louis, se uscissi a sinistra dovrei fare circa 40 mila chilometri a piedi (e a nuoto) per arrivarci. Tanto per insistere su un punto: uscire “a sinistra” può rivelarsi un terribile spreco di tempo…

Comments

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rapa
Wednesday, 18 November 2015 13:13
@Michele Annunziata, se non vuoi studiare dove vuoi andare? Bah!
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Michele Annunziata
Friday, 13 November 2015 12:53
Per questo la sinistra non vincerà manco con intervento del Padreterno, figuriamoci del barbuto ottocentesco. Non è ipotizzabile un fiume di parole. Se uno non riesce a fare sintesi, ecco, faccia convegni. E lì si tiri quante pippe vuole! E con ste chicchiere riempiamo lo stomaco di gente che manco più gli occhi...Ridicoli!
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