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consecutiorerum

Le ambivalenze e i paradossi della rivoluzione dei diritti

Una storia filosofica e politica

di Francesco Fistetti

Abstract: The object of this essay is the paradox of the philosophical and political history that emerged from May 1968. The instances of liberation, born under the pressure of that epochal event and aimed at the destruction of the traditional authoritarian morality (divorce, abortion, feminism, LGBT movements, etc.), have been emptied of their original emancipatory content and caught by the abstract logic of the market. For a sort of irony of history, the revolution of subjective rights has been turned upside down in new forms of subjugation and hierarchy. The ambivalence of this historicalpolitical process is reflected in the poststructuralist and postmodernist philosophical constellation of the socalled “French Theory” (Derrida, Foucault, Baudrillard, Deleuze, Lyotard, Barthes), in which the AngloAmerican “studies” (women studies, queer studies, postcolonial studies, etc.) are inscribed in the decades 1980/1990.

Situationist 768x5761. Il ’68 e la traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici

Per sottolineare le ambivalenze e le contraddizioni del maggio ’68, vorrei partire, in questa mia breve riflessione, dalla definizione che dieci anni dopo Edgard Morin avrebbe proposto sulle colonne di “Le Monde” parlando di “eventosfinge” e confermando la chiave interpretativa che insieme a Claude Lefort e Cornelius Castoriadis aveva offerto nel 1968 con la pubblicazione, quasi un instantbook, di La breccia. Per questi autori – sosteneva Morin – “una breccia non richiudibile si era aperta sotto la linea di galleggiamento del nostro ordine sociale”1. Ma il paradosso che vorrei mettere a fuoco è il rovesciamento che nella storia delle società liberaldemocratiche europee si produce delle istanze di emancipazione e di liberazione in forme di assoggettamento e di subordinazione. Il paradosso appare tanto più singolare se guardato dall’angolo visuale del presente storico in cui viviamo, connotato dagli effetti di lunga durata che quella “breccia” non ha mai smesso di provocare negli Stati nazionali modellati dal “secolo socialdemocratico” o dai cosiddetti “trent’anni gloriosi”.

Ma poiché al giorno d’oggi l’Europa è scossa da un’ondata sempre più minacciosa di neonazionalismi, di razzismi e da movimenti che con un’abbreviazione fuorviante vengono designati come populisti, è legittimo interrogarsi se e in che misura quella “breccia” aperta dal ’68 – e che, parafrasando Claude Lefort, qui chiamerò la rivoluzione dei diritti dell’uomo senza determinazione2 – abbia a che fare con il nostro presente. Il corollario di questo processo non solo politico, ma, come tenterò di mostrare, anche intellettuale e filosofico, inaugurato dal ’68, è una grammatica dei diritti che contiene dentro di sé la tendenza alla hubris (come la chiamavano i greci), la tendenza all’illimitazione, la quale genera conseguenze collaterali impreviste che ironicamente andranno nella direzione opposta rispetto a quella desiderata. Tenterò di argomentare una tesi che, pur apparentemente provocatoria, mi sembra che trovi un sostegno, diretto o indiretto, in alcuni autori molto distanti tra loro quanto a impostazione ermeneutica o a tradizioni di ricerca. La tesi può essere così formulata: la tendenza all’illimitazione insita nella grammatica incrementale dei diritti dell’uomo fa sì che le conquiste emancipative, tali cioè da potenziare l’autonomia del soggetto (quell’autonomia che Kant invocava come caratteristica dell’individuo moderno nel suo celebre Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?), si capovolge nel suo contrario. In breve, l’autonomia, disgiunta dalla coscienza della propria vulnerabilità e della propria finitezza, distrugge se stessa, nel senso che si tramuta in chiusura egoistica e, evocando la celebre figura servo/padrone della hegeliana Fenomenologia dello spirito, produce nuove forme di dominio e di gerarchia. L’egemonia del capitalismo globale neoliberale si è costruita attraverso questo processo che ha investito gli Stati nazionali ben prima della crisi finanziaria del 2007/2008 passando attraverso lo smantellamento progressivo di tutti gli istituti della protezione sociale instaurati dal welfare State. La tendenza all’illimitazione, tipica della rivoluzione dei diritti, è andata di pari passo, sul piano antropologico, con l’affermarsi di quello che Lefort ha chiamato l’“uomo senza determinazione”, che noi possiamo interpretare come l’occultamento o la rimozione della finitezza della condizione umana, dei suoi “ancoraggi di affettività” (J. Le Goff), dei suoi limiti naturali, storici, culturali, ecologici. Per comprendere meglio quest’aspetto centrale che è l’effetto perverso della rivoluzione dei diritti soggettivi – e che registra un processo tumultuoso di scioglimento dai legami paternalistici ed autoritari delle società tradizionali mediante l’espansione dei diritti delle donne, dei gay, dei disabili, dei queer, delle minoranze in generale –, occorre risalire alla rivoluzione filosofica che si trova a monte di questo processo. Essa fa tutt’uno con la critica della ragione e del soggetto che attraversa come un fiume carsico il XX secolo, e che dalla Genealogia della morale di Nietzsche – passando attraverso una complessa e intricata storia intellettuale che comprende autori tra loro diversissimi come Mach, Bergson, James, Wittgenstein, ecc. – arriva fino a Heidegger e all’heideggerismo del secondo Novecento3. È superfluo aggiungere che essa si situa nell’alveo della storia del movimento operaio che all’interno dei diversi Stati nazionali europei ha fatto argine, come ha spiegato Karl Polanyi, ad un mercato autoregolato la cui logica tendeva a invadere tutti i mondi vitali4. Sotto questo profilo, bisogna ricordare che per Gramsci questo “contromovimento”, di cui parlava Polanyi, è portatore di una cultura della libertà sociale e politica. “Qual è – egli scrive – la caratteristica del XIX secolo in Europa? Non di essere storia della libertà, ma di essere storia della libertà consapevole di essere tale; nel XIX secolo in Europa esiste una coscienza critica prima non esistente, si fa la storia sapendo quello che si fa, sapendo che la storia è storia della libertà”5. Dunque, la cultura della libertà sociale e politica, di cui il movimento operaio è stato espressione, e a cui Gramsci dà il nome di “filosofia della prassi”, è il tronco storicopolitico su cui si è innestata la rivoluzione dei diritti avviata dal ’68, sebbene, come vedremo, essa abbia perso di vista la connotazione collettiva di quel “contromovimento” indicato da Polanyi, chiudendosi in una dimensione corporativa. Si delinea, così, un nesso organico di interdipendenza tra tre momenti distinti: 1) la storia della libertà autoconsapevole, di cui il movimento operaio è portatore nel corso del Novecento (comprese le rivoluzioni socialiste e anticoloniali); 2) la rivoluzione dei diritti soggettivi promossa dal ’68; e 3) l’onda lunga di quella costellazione filosofica e intellettuale internamente articolata e composta di orientamenti spesso tra loro dissonanti e in conflitto, la cui posta in gioco è propriamente la “distruzione” o, in termini heideggeriani, la Destruktion di ogni concezione razionalistica e cartesiana della ragione e del soggetto. Sono tre momenti che hanno ognuno una temporalità autonoma, un ordine di discorso suo proprio e forme di realizzazione specifiche. Ma, per riprendere ancora un suggerimento di Gramsci, si tratta di sondare la “traducibilità” tra questi tre momenti della storia intellettuale europea. Come è noto, per il Gramsci dei Quaderni filosofia, economia e politica sono “elementi” costitutivi di ogni concezione del mondo, sicché, per coglierne a pieno la portata peculiare, occorre individuare la “convertibilità” di ciascun linguaggio specifico nell’altro o, ciò che è la stessa cosa, di intraprendere un lavoro di “traduzione reciproca”6. Gramsci si avvale di quest’assunto – la “traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici” – nel Quaderno 22, “Americanismo e fordismo”, dove mette in “circolo” questi tre “elementi” costitutivi e pone la questione dell’egemonia della nuova forma del capitalismo a partire dalla formazione di un “nuovo tipo umano, conforme al nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo”7. Ora, che cos’è la rivoluzione dei diritti se non la Weltanschauung che viene elaborata su molteplici registri dalle culture che si collocano, esplicitamente o implicitamente, nella “breccia” del ‘68 e tratteggiano il profilo di un “nuovo tipo umano” che, come vedremo, corrisponderà sempre di più ad un “nuovo tipo di lavoro e di processo produttivo”?

 

2. Heidegger e dintorni

Non discuterò qui il testo del 1985 di Luc Ferry e Alain Renaut, Il 68 pensiero, che a suo tempo fece epoca8, non tanto perché inevitabilmente datato nel confronto serrato che instaura con i due poli di riferimento (il marxismo e l’heideggerismo francesi), quanto perché paradossalmente quello che i due studiosi chiamano “il 68 pensiero” ha modellato dalle fondamenta il mondo e la storia che sono venuti dopo, almeno il mondo e la storia occidentali. Né essi si accorgono che del “’68 pensiero” faceva parte integrante, per gli sviluppi che sarà destinato ad avere nelle controculture giovanili, quel filone dionisiaco rappresentato dalla cultura situazionista e, in particolare, da Guy Debord (La società dello spettacolo esce proprio nel 1967). Si trattava di una forma di marxismo che avrebbe messo l’accento, ricollegandosi a Bataille e a Blanchot, sul “godimento” (jouissance), sul “tutto e subito”, sull’Arte e insieme sulla Politica che culminerà nel cosiddetto Movimento Settantasette9. In altre parole, la rivoluzione dei diritti soggettivi è stato l’esito della rivoluzione antimetafisica della Destruktion, una formula sintetica con cui potremmo riassumere la costellazione intellettuale e filosofica che è diventata via via egemonica nella cultura occidentale e che si è sempre più caratterizzata come critica della metafisica in tutte le sue varianti. Notiamo di passata che un capitolo di questa costellazione intellettuale e filosofica è in Italia Il pensiero debole di G. Vattimo e P. A. Rovatti10, che, a suo modo, faceva eco alla presa d’atto da parte di J.F. Lyotard di La condizione postmoderna (uscito in Francia nel 1979 e tradotto in italiano nel 1983 presso Feltrinelli). Se Lyotard descriveva le mutazioni intervenute nella società capitalistica riassumibili nel “principio della performatività” e nelle forme di vita e di coscienza dei cosiddetti “nuovi soggetti” non più riconducibili ai “grandi racconti” della modernità (tra cui il marxismo nella sua versione dominante allora in Italia), gli autori di Il pensiero debole, e Vattimo in particolare, interpretavano la profonda esigenza di modernizzazione maturata, a partire dal ’68, nella società italiana scontrandosi con la morale patriarcale e autoritaria radicata nei costumi e nella mentalità collettiva. Era quello un capitolo della dissoluzione progressiva di ciò che Heidegger chiama metafisica, secondo cui esiste una verità della “natura umana” e con essa delle “strutture oggettive del mondo”, e che in Italia secondo Vattimo costituisce il monopolio del cattolicesimo dogmatico ed autoritario della Chiesa ufficiale11. Una modalità filosofica questa propugnata da Vattimo che, parafrasando un’espressione di Habermas riferita a Gadamer, potremmo definire un’“urbanizzazione dell’heideggerismo” per indicare una posizione filosofica rivolta a “rifondare, nei limiti e con i mezzi a disposizione, e in modo da non contraddire allo scopo finale, tutte le regole della vita collettiva sul principio della negoziazione e del consenso”12.

Di gran lunga più acuminata era stata, invece, la critica che Derrida, radicalizzando lo Heidegger della Lettera sull’umanismo (1947), aveva mosso fin dagli inizi degli anni 1970 al concetto di humanitas che abbiamo ereditato dalla storia della metafisica occidentale. Infatti, la storia della metafisica non è altro dalla storia stessa del “pensiero della verità dell’uomo”, in cui teleologia (il telos dell’uomo) ed escatologia (l’eskhaton della storia umana), teologia e ontologia sono intimamente intrecciate13. Se il tardo Heidegger si affaticava ancora a ricercare, al di qua e oltre le determinazioni della metafisica, un’“essenza” dell’uomo – da conquistare attraverso il corrispondere da parte del Dasein alla chiamata dell’Essere –, Derrida da parte sua decretava la fine della verità dell’uomo e, per così dire, l’“improprietà” e la moltiplicazione/disseminazione dell’identità del soggetto. La decostruzione del soggettosostanza della tradizione metafisica è, dunque, l’altra faccia della rivoluzione dei diritti, il cui esito è la nozione di uomo privo di qualsiasi determinazione essenzialistica. Di qui la centralità del rapporto tra diritto e diritti dell’uomo, che innesca una dinamica incrementale, tale da generare paradossi e conflitti, e il cui protagonista è un soggetto, per così dire, senza un “proprio”, senza un’“essenza” o un’“origine” riappropriabili e senza una “destinazione” prestabilita. Come osserva Lefort,

l’idea dell’uomo senza determinazione non si dissocia da quella dell’indeterminabile. I diritti dell’uomo riconducono il diritto a un fondamento che, a dispetto della sua denominazione, è senza figura, si dà come interno a se stesso e, in ciò, si sottrae a ogni potere che pretenderebbe di impadronirsene – religioso o mitico, monarchico o popolare che sia. Essi, dunque, sono in eccesso su ogni formulazione avvenuta: ciò significa anche che la loro formulazione contiene l’esigenza della loro riformulazione o che i diritti acquisiti sono necessariamente chiamati a sostenere nuovi diritti14.

L’idea di un diritto “senza figura”, vale a dire caratterizzato da un universalismo non riconducibile a nessuna ipostasi teologicopolitica e a nessuna essenza sovra o metastorica, e quella di un’eccedenza dei diritti rispetto a qualsiasi pretesa di una loro “incorporazione” o limitazione in termini di classe, di ideologia, di religione, ecc. rinviano alla concezione di una democrazia totalmente priva di fondamento metafisico (grundlos). Su questo terreno, la saldatura tra la radicalizzazione della forma democratica e la dissoluzione di ogni ipostasi metafisica connota congiuntamente, sia pure su registri diversi, l’intera storia della cultura occidentale. Possiamo anche dire che l’“uomo senza determinazione” di Lefort – o, per usare una formula analoga coniata da JeanLuc Nancy, l’“uomo mondializzato”15 – oggi ci appare più chiaramente come l’esito terminale della forma democratica così come è stata metamorfizzata dai processi di “crisi organica” connessi alla globalizzazione – che sono stati anche processi di secolarizzazione e di demitizzazione – seguiti al ’68, e tra questi in primo luogo l’89, cioè il collasso del comunismo sovietico e dei regimi dell’Est. Non è un caso che l’“uomo senza determinazione” dell’universalismo democratico si sia incontrato con quello che Georges Bataille aveva definito come l’“uomo indifferenziato”, prodotto ultimo dell’esperimento sovietico, divenuto, come egli scrisse, “una macchina per sopprimere le differenze”16.

 

3. Una nuova koiné culturale: la French Theory

Affermare che la “breccia” del ’68 abbia dato vita alla rivoluzione dei diritti dell’“uomo senza determinazione” significa che il mondo da essa inaugurato – e che è il mondo in cui oggi viviamo è stato, in larga parte, il prodotto convergente da un lato della Destruktion innescata sul piano della coscienza riflessa dalla critica antimetafisica della ragione e del soggetto, e dall’altro della riconfigurazione della razionalità e della soggettività da parte del mercato o, meglio, delle trasformazioni via via intervenute nel capitalismo globalizzato. Nell’utilizzare il concetto di Destruktion, è evidente il riferimento in primo luogo a Heidegger di Essere e tempo che ridefinisce il soggetto come Dasein e come esserenelmondo, ma anche al tardo Heidegger che, alla luce della Storia dell’Essere, interpreta la Modernità come Tecnica (la Machenschaft nel lessico heideggeriano)17, cioè come il culmine della storia della metafisica occidentale che ha obliato la differenza tra essere ed ente (la Seinsfrage). La rivoluzione dei diritti soggettivi ha la sua matrice filosofica nella variegata costellazione intellettuale che il concetto di Destruktion irriga lungo tutto il Novecento: a cominciare dalla nozione di decostruzione di Jacques Derrida o dal metodo criticogenealogico di Michel Foucault, e, nel solco di questi ultimi, di quella che è stata denominata French Theory, un impasto di poststrutturalismo e di postmodernismo che negli anni 1980/1990 si è imposta come una koiné teorica e culturale nei dipartimenti umanistici delle università americane. Su questa scia, sorgevano nuove problematiche di ricerca ed inediti campi di sapere, il continente sterminato degli Studies, che di fatto erano una risposta, per così dire, accademica alla crisi del marxismo occidentale18. La proliferazione degli Studies – dai Gender Studies ai Subaltern Studies, ai Postcolonial Studies, ai Women Studies, ecc. –, che storicamente erano stati preceduti dai Cultural Studies della Scuola di Birminghan, può essere considerata il sintomo più vistoso della crisi della sinistra e del marxismo occidentali, o, per dirla con Gramsci, come il segno di una divaricazione profonda tra riflessione teorica e prassi politica, tra economia e politica, o tra intellettuali e popolo19. D’altronde, un filosofo come Richard Rorty denunciava la sconnessione tra teoria e politica non solo nei poststrutturalisti francesi come Derrida, Foucault o Lyotard, ma anche nei loro epigoni americani che all’analisi delle patologie del presente in vista della lotta alle diseguaglianze e alla sofferenza sociale anteponevano la critica culturale della razionalità occidentale, come se esistesse un punto archimedico su cui appoggiarsi per uscire dal suo universo categoriale20. Nella difesa appassionata dei valori del liberalismo e dell’Aufklärung – valori che egli intendeva “deteorizzare”, cioè sgravare di tutte le incrostazioni metafisiche che si portavano dietro –, il suo obiettivo polemico era la feticizzazione della critica culturale su cui gli intellettuali americani, affascinati da Lyotard, Derrida e Foucault, concentravano le loro energie. In questo modo essi dimenticavano la grande lezione del pragmatista J. Dewey che, pur ammettendo che la democrazia liberale e lo Stato sociale di diritto sono istituzioni che non corrispondono alla “natura umana” né sono dotati di criteri di giustificazione metastorici, promuovono, se mobilitate dalla partecipazione delle classi lavoratrici, un progresso sociale (e morale) capace di eliminare progressivamente la sofferenza sociale e di cambiare ragionevolmente le nostre credenze a favore della solidarietà21. In ciò Rorty – sia pure con un’intonazione più vicina a Habermas della Teoria dell’agire comunicativo (1981) – condivideva la convinzione di ascendenza derridiana secondo cui non c’è nessun noi metafisico nel senso di un soggetto o di una coscienza transstorica che informerebbe il processo sociale e umano, alla ricerca di un Sé autentico. “Il solo ‘noi’ – egli scriveva – di cui abbiamo bisogno è un ‘noi’ situato e temporale. ‘Noi’ significa ad es.: ‘Noi altri intellettuali socialdemocratici del XX secolo’. Infatti, dal momento che si rinuncia alla ricerca metafisica del ‘vero Sé’ per l’uomo, si può parlare di un io contingente e storico”22. È evidente che la critica della “ricerca metafisica del ‘vero Sé’” si riferisce all’ermeneutica del soggetto di Foucault, in particolare ai testi della sua Storia della sessualità pubblicati in quegli anni (1976/1984). Tuttavia, Rorty non si rende conto che le ricerche foucaultiane sull’“ermeneutica del soggetto” – come pure, con declinazioni filosofiche differenti, la critica antimetafisica del soggetto e della ragione da parte di Lyotard, Derrida e Vattimo – incrociano, in una circolarità dialettica tra storia degli intellettuali e storia della società, il passaggio di fase che ha il suo centro focale nella rivoluzione dei diritti, e che con una felice espressione di Nancy Fraser possiamo indicare come il passaggio dalle politiche della “redistribuzione” alle politiche del “riconoscimento”. Contestualmente a questo trend che coincideva con l’esaurimento del ciclo socialdemocratico, prendeva piede l’affermazione sempre più impetuosa di un capitalismo finanziario globalizzato che ha più che mai bisogno della figura dell’“uomo senza determinazione”, vale a dire di un soggetto come figura rinnovata dell’homo oeconomicus, non più semplice partner dello scambio tra capitale e forzalavoro, ma accorto calcolatore delle sue risorse cognitive ed emotive, un vero e proprio imprenditore di se stesso, “che in quanto tale è il proprio capitale, il produttore di sé e la fonte dei [propri] redditi”23.

 

4. L’esplosione delle domande di riconoscimento e il nuovo spirito del capitalismo

Il paradosso che questo passaggio di fase segnala consiste nel fatto che il soggetto proteso alla “cura di sé” – che mira ad un’autorelazione positiva con se stesso e al riconoscimento delle sue capacità morali e del suo ruolo sociale da parte degli altri –, su cui in quegli anni batte l’accento Foucault, è proprio quel soggetto di cui si occuperà la teoria del capitale umano dei neoliberali americani (Th. Schultz, G. Becker, ecc.) e che sarà al centro della rinascita del neoliberalismo di un von Hayek. Si tratta di un “nuovo spirito del capitalismo”, secondo la definizione di Boltanski e Chiapello, che, bisognoso di una forzalavoro flessibile e polivalente, tende ad incorporare le istanze emancipative di una soggettività che, sull’onda della rivoluzione dei diritti, non è più disposta a rinunciare alla propria identità culturale o di genere: in una parola, a quell’atteggiamento antropologico che Foucault designava come “cura di sé”24. A questo proposito, non è un caso che due dei principali protagonisti del dibattito filosofico contemporaneo come Axel Honneth e Nancy Fraser, i quali hanno dato vita ad un’importante “controversia politicofilosofica” sui rapporti tra redistribuzione e riconoscimento nel quadro delle odierne società capitalistiche25, convergano su un aspetto essenziale riguardante il tema della nuova soggettività legata alla rivoluzione dei diritti. Honneth ha osservato che le esigenze di autorealizzazione individuale, maturate in Occidente a partire dagli anni 1960/1970, tali da aver indotto studiosi come U. Beck e A. Giddens a segnalare l’emergenza di una fase nuova, postmoderna, di individualismo riflessivo26, sono state via via assimilate dalle organizzazioni chiave della società capitalistica al fine di aumentarne l’efficienza e la base di legittimazione. Abbiamo assistito, dunque, al paradosso che conquiste culturali che hanno ampliato la gamma delle chances di vita degli individui e le possibilità di scelta del proprio stile di comportamento (la foucaultiana “estetica dell’esistenza”) si sono rovesciate in una forza produttiva dell’economia capitalistica. Esse, potremmo dire, sono state riassorbite e riadattate dalla logica della mercatizzazione. Sicché, continua Honneth:

Con le trasformazioni istituzionali che hanno interessato il capitalismo occidentale negli ultimi vent’anni, l’aspirazione praticovitale ad un ideale di autorealizzazione si è evoluta in ideologia e forza produttiva di un sistema economico deregolato: le esigenze che i soggetti si erano formati in precedenza, iniziando a interpretare la loro vita come un processo sperimentale della scopertadisé, si ripercuotono ora in modo diffuso su questi stessi soggetti come pretese esterne, di modo che essi, nascostamente o apertamente, vengono sollecitati a tenere sempre aperti i loro fini e le loro decisioni biografiche27.

Honneth vede bene che da questo capovolgimento dell’ideale di autenticità in “costrizione” sono nate “forme di dolore e di malessere sociale finora sconosciute”28. Le quali – bisognerebbe aggiungere – hanno alimentato, segnatamente dopo la crisi economico-finanziaria del 2007/2008, la rivolta populista contro le élites politiche degli Stati liberaldemocratici e, più in generale, contro il modello socialdemocratico europeo, rivelatosi non in grado di affrontare la rivoluzione capitalistica in atto, che spostava progressivamente il baricentro delle istituzioni dalla protezione sociale alla rimercatizzazione di tutti i mondi vitali. Analogamente, Fraser, ponendo ancora una volta l’accento sull’urgenza di costruire un paradigma “unificato” di giustizia, tale da tenere insieme le istanze della “redistribuzione” e quelle del “riconoscimento”, invita la femministe a “pensare in grande”, a stare in guardia nei confronti dell’“attacco neoliberale che strumentalizza le nostre migliori idee” e, quindi, a “curvare l’arco dell’incombente grande trasformazione in direzione della giustizia – e non solo in riferimento al genere”29. Come vedremo tra poco, è degno di interesse questo riferimento di Fraser alla categoria hegeliana dell’“astuzia della ragione”, che lei utilizza per descrivere le “liaisons dangerereuses” che un certo femminismo ha stretto, spesso senza avvedersene, con il neoliberalismo, soprattutto quando ha identificato l’emancipazione solo con la liberazione dal dominio patriarcale, mentre il “nuovo spirito del capitalismo” se ne appropriava in direzione della flessibilità della forzalavoro e di una differenziazione dei ruoli differencefriendly30. Honneth e Fraser , dunque, seppure da prospettive teoriche tra loro differenti, confermano un fenomeno culturale che caratterizza l’intera storia degli intellettuali occidentali a partire dagli anni 1960/1970 del secolo scorso, vale a dire la convinzione sempre più diffusa nelle scienze sociali e nella filosofia politica, fino a diventare egemone nelle istituzioni e nelle élites di governo, secondo cui il modello utilitaristico dell’homo oeconomicus, in base al quale l’essere umano è per natura un calcolatore razionale proteso a massimizzare il proprio interesse, va generalizzato a tutti i campi del sapere (matrimonio, amore, religione, istruzione, salute, felicità individuale e collettiva, ecc.). Non solo la teoria dell’azionale razionale (RAT) nella versione di Gary Becker o Friedrich von Hayek, ma anche l’“individualismo metodologico” di R. Boudon, l’“analisi strategica” di M. Crozier e l’“economia generale della pratica” di P. Bourdieu sono tutte declinazioni del modello utilitaristico, come fin dagli inizi degli anni 1980 denunciavano – una delle pochissime eccezioni – gli studiosi francesi del MAUSS31. Guardato sotto questa luce, l’“uomo senza determinazione” di Lefort appare coincidente o sovrapponibile con l’homo oeconomicus, in questo caso con una soggettività che ha sciolto tutti i legami con l’alterità – con l’altro e con la natura – e che, chiuso nella propria “introspezione”, si ritira dallo spazio pubblicopolitico e dal mondo comune per obbedire solo al principio di utilità (o freudianamente al principio del piacere): un esito che in Vita activa era stato lucidamente diagnosticato da Hannah Arendt. Questa svolta economicistica ed utilitaristica nelle scienze umane e sociali ha, per così dire, prima incubato la rivoluzione neoconservatrice di Thatcher e di Reagan negli anni 1980 e poi, con l’esaurimento del ciclo socialdemocratico dopo l’89, ha aperto la strada ai populismi del XXI secolo. Ma in che senso possiamo affermare che essa incrocia la rivoluzione filosofica della decostruzione – o della Destruktion – che ha luogo, in quello stesso giro di anni, come critica del soggetto autocentrato e della ragione monologica occidentale?

 

5. Distruzione della metafisica occidentale e “astuzia della ragione”

Abbozzare una risposta a questa domanda ci riporta alla premessa iniziale della nostra argomentazione, cioè che la grammatica dei diritti soggettivi, lasciata a se stessa, rovescia l’emancipazione in nuove forme di subordinazione. Probabilmente non sarebbe del tutto sbagliato impiegare la categoria hegeliana dell’“astuzia della ragione”, proposta da Nancy Fraser per descrivere le conseguenze impreviste prodotte dall’esplosione delle domande di riconoscimento innescate dalla “breccia” del ‘68, anche per comprendere meglio i rapporti che la rivoluzione dei diritti intrattiene con quella variegata costellazione filosofica e intellettuale che, come abbiamo accennato, si trova alle sue spalle. Non c’è dubbio che non può essere assolutamente sottovalutato l’immenso lavoro critico che questa costellazione filosofica e intellettuale ha compiuto nei confronti della razionalità occidentale smascherandone le fallacie, le contraddizioni e perfino le menzogne che l’hanno accompagnata nel corso della sua evoluzione. Sotto questo profilo, la decostruzione di Derrida, il metodo genealogico di Foucault, l’intreccio di logos e dominio descritto da Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’illuminismo, pur appartenendo a tradizioni teoriche diverse, si inscrivono tutti nel solco di quella Destruktion della metafisica occidentale che a muovere dalla seconda metà del Novecento contribuisce a modificare radicalmente l’immagine della modernità. Se Adorno e Horkheimer mostravano l’intrico di mito e illuminismo come costitutivo della ragione moderna, raggiungendo, sotto molti aspetti, la critica di Heidegger alla Tecnica come Megamacchina (la Machenschaft nel linguaggio heideggeriano), Derrida, da parte sua, ma con lui tutto il continente degli Studies inaugurato dalla French Theory, hanno via via sottoposto al vaglio della critica l’intero edificio delle categorie attraverso cui la modernità si è costruita lungo la sua storia spesso in funzione autocelebrativa. Le categorie del weberiano “razionalismo occidentale” – sia quelle politiche (Stato, popolo, cittadinanza, obbligazione politica, ecc.), sia quelle economiche (modernizzazione, grande industria, mercato, ecc.), sia quelle culturali (riconducibili ad un umanismo spesso retorico e foglia di fico di malcelate volontà di potenza e di interessi latenti) – sono state smontate dall’interno e mostrate nella loro parzialità e determinatezza storica. È superfluo richiamare molti dei testi dell’ultimo Derrida – ispirato dall’etica del volto di E. Levinas – sulla logica degli Staticanaglia, sul feticcio della sovranità, sulla mercatizzazione dell’università, sulla democrazia avvenire, e soprattutto sull’imperativo dell’ospitalità nell’epoca delle migrazioni. Il decentramento dell’autocoscienza dell’Occidente e, di conseguenza, la relativizzazione delle sue categorie ermeneutiche costituiscono l’eredità più preziosa di questa costellazione filosofica, che è confluita negli studi sulla condizione postcoloniale fioriti a ridosso del crollo degli imperi coloniali europei nel secondo dopoguerra. Due nomi per tutti: Edward Said di Orientalismo (1977) e Paul Gilroy di After Empire: Melancholia or Convivial Culture? (2004)32. Tuttavia, questa eredità della costellazione filosofica della Destruktion resta intrappolata nelle maglie di un approccio puramente “negativo”, che insiste in termini molto spesso compiaciuti sul gesto critico e polemico, senza mai intraprendere la strada di una ridefinizione “positiva” delle categorie prese di mira. In questo modo, il gesto critico resta fine a se stesso fino a somigliare a quella che Marx e Engels nella Sacra famiglia chiamavano con sarcasmo la “critica critica”, cioè un atteggiamento che disprezza tutto ciò che ha a che fare con l’esperienza “reale”, “sensibile”, “vivente” o, come potremmo dire, con il mondo della vita quotidiana. Su questa strada, la critica postmetafisica della ragione e del soggetto ha alimentato un’ermeneutica del sospetto generalizzato e un pensiero negativo non meno dogmatico di quello contro cui si rivolge. Sicché non c’è da meravigliarsi che, ad un certo punto, esso sia diventato, per usare una felice espressione di Frédéric Vandenberghe, un “Nuovo Consenso Ortodosso”33. E che questo “Nuovo Consenso Ortodosso” si riveli, alla fine, come la faccia simmetricamente rovesciata dell’“uomo senza determinazione” e dell’homo oeconomicus esaltati dalla svolta economicistica ed utilitaristica degli anni 1970/1980, non desta più alcuno stupore.

 

6. Riproblematizzare la questione del soggetto

Sulla scorta di queste considerazioni, si può comprendere meglio il punto cieco entro cui la rivoluzione dei diritti e l’esplosione delle domande di riconoscimento restano imprigionati. Esso appare più evidente se lo situa nel quadro dell’esaurimento del paradigma socialdemocratico che si accentua con l’ingresso nel XXI secolo e sempre di più a partire dalla crisi finanziaria 2007/2008. In conclusione, accennerò solo a due questioni su cui misurare quest’ultimo tema, che peraltro ci conduce immediatamente nel cuore del presente e ne svela alcuni tratti essenziali. In primo luogo, su che cosa si arena la politica riformistica delle socialdemocrazie europee? Utilizzando le categorie di Fraser, diremo che vengono meno i margini per continuare ad attuare il grande progetto filosoficopolitico della redistribuzione, i cui parametri fondamentali erano: “a) l’ampliamento del mercato interno attraverso forme di redistruzione diretta o indiretta del reddito, a favore deigruppi sociali meno avvantaggiati; b) inserimento del movimento operaio nei processi di decisione politica, con la conseguente estensione, formale e materiale, dell’insieme delle libertà civili”34. Il paradigma socialdemocratico s’inceppa via via che diventa egemonico un nuovo modello di sviluppo capitalistico, di tipo postfordista, in cui predominano gli aspetti finanziari e speculativi. Questa gigantesca metamorfosi del capitalismo globale segnala che la soluzione che per Polanyi aveva rappresentato una sorta di addomesticamento (di “embeddedness”) della “bestia selvaggia” dell’economia capitalistica grazie al “contromovimento” messo in atto dalle lotte delle classi operaie e popolari, non è stata più in grado di garantire protezione sociale. Viene meno allora il cardine delle politiche socialdemocratiche, fondato sulla “clausola antisacrificale” che J. Rawls aveva posto al centro della sua Teoria della giustizia (1971), e che attraverso l’enunciazione di un principio condiviso di equità postulava la necessità di una correzione delle diseguaglianze sociali e politiche. Ma il paradigma socialdemocratico subordinava la correzione delle diseguaglianze alla credenza (dimostratasi illusoria) in uno sviluppo illimitato delle forze produttive, che ha portato le sinistre di governo ad inseguire sul loro stesso terreno le oligarchie finanziarie tagliando i salari, ridimensionando il settore pubblico e affidando al mercato la quasi totalità dei servizi collettivi e dei beni comuni. Questo vero e proprio mito della crescita – che identifica lo sviluppo con l’inesauribilità delle risorse materiali e con gli indicatori della ricchezza monetaria – contiene al suo interno la dinamica dell’illimitazione, poiché non conosce nessun limite sulla strada del proprio dispiegamento, se è vero che esso ha provocato immani disastri ambientali fino a mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’uomo sulla terra. È un processo ben noto che ha registrato il trionfo delle politiche neoliberiste fondate sull’utopia di edificare una società integralmente di mercato. Il problema inedito che sorge dalla presa d’atto della finitezza del pianeta e dall’esigenza di una cultura postneoliberale è quello di costruire forme nuove di redistribuzione e di riconoscimento fondate, più che sulla ricchezza monetaria, su quello che Amartya Sen qualifica come Sviluppo Umano, e tali da inserire nei processi decisionali gli “esclusi” – vale a dire, le masse di coloro che sono stati precarizzati, misconosciuti nella loro attività professionale o lasciati ai margini della società. È il grande tema di una democrazia postsviluppista. In questa prospettiva, le domande di riconoscimento dei gruppi sociali o culturali, comunque formulate, non possono andare disgiunte dalle richieste di redistribuzione che sono alla base dell’esercizio della cittadinanza politica (affonda qui le sue radici la questione del reddito minimo), come non possono andare disgiunte da forme di vita sobrie o conviviali, tendenzialmente demercificate, tali da ripensare il problema dei limiti dello sviluppo. Ma è anche il grande tema di una democrazia che rimetta al centro una rinnovata considerazione del soggetto, sottratto al pensiero negativo della Destruktion e restituito al suo radicamento in un territorio, in una tradizione, in contesti valoriali storicamente determinati. È stata Simone Weil che ci ha ricordato che il bisogno di radicamento “è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana”, perché “mediante la partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice”35. Il bisogno di avere un luogo è, dunque un bisogno insopprimibile, che non va scambiato con la riappropriazione di un “proprio” metafisicamente inteso (di un’origine o di un’essenza), come è avvenuto con i comunitarismi e i fontamentalismi identitari dei nostri giorni. Qui la critica di Derrida e degli esponenti degli Studies è un punto di non ritorno, ma essa non può rimuovere il fatto che i soggetti sono, per dirla con Charles Taylor, dei “valutatori forti” (o degli “animali che si autointerpretano”), perché vivono in uno “spazio morale”, storicamente e culturalmente stratificato, entro il quale formano la propria identità, comprendono la propria posizione nel mondo e strutturano le proprie relazioni con gli altri36. Ecco perché la sinistra globalista (da A. Negri a G. Agamben) che ritiene di oltrepassare il paradigma socialdemocratico ignorando il bisogno di radicamento, finisce per riproporre la figura dell’”uomo senza determinazione”, poiché rimuove la dialettica tra globale e locale, nazionale e internazionale, Stato nazionale e ordine mondiale37. Il mondo della globalizzazione è ancora il vichiano “mondo delle nazioni”, in cui la sfida più grande è quella della convivenza, quella, cioè, di costruire forme di vita collettiva in cui, come avvertiva Marcel Mauss, sia possibile “contrapporsi senza massacrarsi”. Sapendo bene che “le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno saputo rendere stabili i loro rapporti: donare, ricevere e, infine, ricambiare”38.


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Note 
* Università degli Studi di Bari Aldo Moro (This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)
1  Morin (2018, 89).
2  Cfr. Lefort (1981, cap. I).
3  Cfr. Fistetti (2013).
4  Cfr. Polanyi (2000).
5  Gramsci (1975, 1229).
6  Gramsci (1975, 1492).
7  Gramsci (1975, 2146). 8  Cfr. Ferry, Renaut (1987).
9  Cfr. Cortellessa (2008). Come pure, non va dimenticato che nel 1968 viene pubblicato in Francia Differenza e ripetzione di Gilles Deleuze e nel 1972 esce l’AntiEdipo di G. Deleuze e F. Guattari, due autori eponimi del Movimento Settantasette. Il libro denunciava il carattere normativo e la funzione di normalizzazione del desiderio della psicanalisi freudiana. Che la riflessione di Deleuze e Guattari s’inscriva nella costellazione della Destruktion della ragione e del soggetto, non c’è ombra di dubbio. La “schizoanalisi” si propone di smantellare tutti i dualismi psicanalitici a favore dei movimenti di deterritorializzazione. Essa esalta le interruzioni, le discontinuità, le disgiunzioni, gli oggetti parziali, dal momento che la produzione desiderante è “molteplicità pura”. Nell’altro testo di quattro anni dopo, divenuto anch’esso un classico, Rizoma (1976), in cui al modello del saperealbero o del sapereradice contrappongono il sapere rizomatico, fondato sul principio della molteplicità (“una molteplicità che non ha né soggetto né oggetto, ma solo determinazioni, grandezze, dimensioni che non possono crescere senza che essa cambi natura”), essi affermeranno esplicitamente che il loro principale obiettivo polemico è il pensiero dicotomico. “La logica binaria e le relazioni biunivoche dominano ancora la psicanalisi (…), la linguistica e lo strutturalismo, la stessa informatica” (Deleuze, Guatteri 1977, 3). “Un giorno, forse, il secolo sarà deleuziano”, aveva scritto Foucault nell’Introduzione a Differenza e ripetizione (Foucault 1971).
10  Cfr. Vattimo, Rovatti (1983). 11  Cfr. Vattimo (2005).
12  Vattimo (2005, 82).
13  Cfr. Derrida (1972, 144).
14  Lefort (1981, 6667).
15  Cfr. Nancy (1991).
16  Bataille (1990, 187).
17  La concezione heideggeriana della Modernità come Machenschaft (come Megamacchina) è uno dei leitmotiv della riflessione filosofica di tutto il Novecento, e che ritroviamo in autori che si dichiarano distanti anni luce da Heidegger. Tra gli esempi più eclatanti vi è Günther Anders che, per comprendere l’età contemporanea, ricorre al concetto di “macchina totale”, nel senso che le macchine hanno ormai conquistato completamente il mondo umano, e dove i soggetti non sarebbero altro che “parti di macchine di un’unica gigantesca ‘macchina totale’ per la quale essi sarebbero cresciuti insieme” (Anders 1995, 58). Non è un caso che Anders parli di “totalitarismo tecnico […], accanto al quale quello politico risulta essere solo un fenomeno secondario” (Anders 1995, 65): una tesi che, probabilmente al di là delle intenzioni di Anders, suona toto coelo heideggeriana. Di Megamacchina parla oggi anche Serge Latouche, il teorico della decrescita felice: si veda il libro che reca il titolo di Megamacchina. Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso che, pur ricollegandosi ad autori lontanissimi da Heidegger come I. Illich e J. Ellul, presenta delle consonanze innegabili con il concetto heideggeriano di Machenschaft.
18  Cfr. Cusset (2003); Fistetti (2013, 114119).
19  Cfr. Caillet, Vandenberghe (2016, cap. IV).
20  Cfr. Rorty (1999).
21  Cfr. Rorty (1989).
22  Rorty (1985, 571).
23  Foucault (2005, 186).
24  Cfr. Bolantski, Chiapello (1999).
25  Cfr. Fraser, Honneth (2007).
26  Cfr. Beck (2003); Giddens (1993, capp. 3 e 5).
27  Honneth (2005, 42).
28  Honneth (2005, 42).
29  Fraser (2012).
30  Su questa lettura del femminismo da parte di Fraser cfr. Bernstein (2017).
31  Cfr. Fistetti (2009).
32  Cfr. Fistetti (2017, cap. IV).
33  Cfr. Vandenberghe (2018).
34  Paggi (1989, VII).
35  Weil (1990, 49).
36  Cfr. Taylor (2004).
37  Un orientamento teorico di questo tipo viene espresso da Michael Sandel nella sua critica a quello che definisce “liberalismo procedurale” o liberalismo neutrale. “L’effetto paradossale – egli scrive – è che il liberalismo della neutralità nasce soprattutto dalla intenzione di evitare il rischio dell’autoritarismo, crea di fatto la condizione per una politica autoritaria perché genera una reazione contro le élites liberali che ha preso due forme: il fondamentalismo religioso che riempie il vuoto con il suo moralismo intollerante e il nazionalismo populista di destra, che è un altro modo di vestire una sfera pubblica nuda. È vero esattamente l’opposto della critica che mi si rivolge: l’insistenza su una versione manageriale e moralmente neutrale della sfera pubblica crea un vuoto che viene riempito ora alla maniera di Trump e simili” (Sandel 2017).
38  Mauss (1965, 291).

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faber
Saturday, 15 February 2020 17:53
L'inganno usato è un classico: istigare alla rivoluzione impossibile, nel senso di insostenibile. Così poi, di fronte al fallimento di ciò che tu stesso hai voluto, passerà del tempo prima che ci riprovi. Intanto i confini sono andati in frantumi e la macchina capitalista prospera, sulle macerie delle comunità (dalla famiglia alle comunitò locali).
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faber
Saturday, 15 February 2020 17:41
più che ironia della sorte o paradosso mi sa che i filosofi francesi si sono semplicemente lasciati sedurre dalla filosofia neoliberista insufflata in ogni dove: persino nella dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (singolo! per carità! maschio, bianco e caucasico ... anzi no, meglio se anglo americano - giammai diritti delle comunità o dei popoli)
Comunque una lettura interessante, grazie.
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