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losguardo

La cosa e il segno. Su linguaggio, ontologia e Destino*

Davide Grossi intervista Emanuele Severino

Abstract: In this interview we asked Professor Severino, one of the major contemporary Italian philosophers, to investigate aspects of his research regarding the relationship between ontology and philosophy of language. From his theoretical point of view we have investigated some of the central themes of the philosophical speculation suche as the nature of will, the structure of identity and the matter of what is the truth

severino 800x445Introduzione

Emanuele Severino (Brescia, 1929), allievo di Gustavo Bontadini, è uno dei più importanti filosofi del nostro tempo. Accademico dei Lincei, insegna all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue. Tra di esse ricordiamo La struttura originaria (1958), Studi di filosofia della prassi 1963), Essenza del nichilismo (1972), Destino della necessità. Katà to chreòn (1980), Il giogo (1989), Oltre il linguaggio (1992), Tautótēs (1995), La gloria (2001), Oltrepassare (2007), La morte e la terra (2011), Intorno al senso del nulla (2013).

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Buongiorno Professore, Le siamo grati di averci concesso questa intervista. Per noi è un onore avere la possibilità di porgerLe alcune domande relative al rapporto tra linguaggio, ontologia e Destino.

A proposito del contenuto dei Suoi scritti Lei utilizza l’espressione “testimonianza” allo scopo di indicare ciò che non è il prodotto di una volontà o il contenuto di una coscienza. Tuttavia anche la testimonianza è una volontà. In che modo la volontà della testimonianza, pur essendo avvolta dalla fede - dalla volontà di dire e quindi dall’errare -, riesce ad indicare quell’assolutamente altro dall’errore che è il Destino? La verità non può non apparire, perché fintanto che qualcosa appare, appare la sintassi del Destino; ma il modo in cui appare il Destino alla testimonianza è diverso o no dal modo col quale esso appare alla non testimonianza?

Severino: Dunque la domanda contiene molti temi. Cominciamo a dire che il Destino della verità appare ovunque ci sia un ascolto, ovunque ci sia una presenza del mondo laddove intendendo per presenza del mondo non esclusivamente quel che si costituisce solo all’interno di quegli enti che chiamiamo “uomini” o di quell’insieme di enti che chiamiamo “prossimi”.

Allora, l’apparire della verità costituisce anche l’esser uomo in quanto tale, ma non ogni uomo è una testimonianza: non ogni uomo è unito al linguaggio che testimonia questa presenza. Quando dico che anche il più semplice degli esseri è in rapporto alla verità, penso che si debba distinguere questo essere in rapporto tra presenza della verità, che costituisce l’esser uomo d’ogni uomo, e testimonianza della verità, una testimonianza che si faccia capire - che presumibilmente si faccia capire - cosa che è problematico che accada in quei linguaggi che sono non temprati dalla tradizione linguistica. E cioè v’è l’uomo che parla del Destino, del Destino della verità, secondo il linguaggio che si fa capire e che quindi è un linguaggio “tecnico” capace di farsi capire nel contesto della storia del pensiero filosofico, oppure v’è solo un tentativo di testimonianza, e quindi direi una testimonianza fallita. In questa situazione che la testimonianza del Destino sia una condizione necessaria perché tramonti il velo che nasconde la verità al linguaggio - che nasconde il destino alla testimonianza - rimane un problema: rimane un problema se il voler parlare della verità sia una condizione necessaria affinché cada quel velo. E dico cada il velo che nasconde la verità alla testimonianza, perché la verità non può essere un che di nascosto, il Destino della verità non può essere qualcosa che uscendo dall’ombra del nascondimento, del non apparire, ad un certo momento occupi la mente dell’uomo e la riempia. No! Se ciò fosse si dovrebbe dire che quell’occupazione, quell’ente in cui consiste l’occupazione, è un ente che esce dal nulla, e cioè è un impossibile. Quindi per questo parlo di nascondimento alla testimonianza: la verità appare, splende sempre. Non occorre uscire dalla caverna della non verità per vedere finalmente la verità. E però la verità è nascosta alla testimonianza: essa è nascosta, dunque, al linguaggio di quel che chiamiamo prossimo, e non all’apparire.

In questo senso il discorso che tenta di indicare ciò che abbiamo chiamato Destino della Necessità è il tentativo di indicare qualcosa che come tale non è un tentativo. Il linguaggio ha tentato di indicare il non tentativo. Perché il tentativo può riuscire o non riuscire là dove la scelta della parola “Destino” indica quella stabilità che non è soggetta al fallimento, il Destino non è un tentativo anche se esso appare nella dimensione in cui si manifesta ogni tentativo. Ossia ogni volontà, perché ogni tentare è un tentare di realizzare una qualsiasi situazione nel mondo. Il Destino non è un tentativo ma è l’orizzonte all’interno del quale appare ogni tentativo, e ogni volontà, giacché non c’è tentativo senza volontà, e non c’è volontà che non sia volontà di ottenere qualcosa, e dunque volontà di potenza. E la radice della volontà di potenza e ciò che chiamiamo isolamento della terra. Il destino è il non tentativo che include le forme crescenti della volontà di potenza sempre più espandentesi che oggi costituiscono ciò che venne chiamata civiltà della tecnica.

 

Ma il non tentativo appare all’interno del tentativo cioè della volontà di testimoniare il non-tentativo…

Severino: Certo, anche il linguaggio che testimonia il destino, è la volontà che qualcosa sia linguaggio che testimonia il destino. Voler che qualcosa sia parola di una cosa, dove qualcosa è il segno tracciato, voler che un evento sia parola di una certa cosa, è un volere. Chi vuole questo fa diventare l’evento altro da ciò che esso è, lo fa diventare parola. Volere che un certo evento sia segno significa volere che qualcosa sia altro da sé. E difatti l’essere parola è formalmente identico all’esser cosa, all’esser questo evento qui che è fatto diventare parola.

 

Ma in che senso il linguaggio è volontà cioè divenir altro se in esso la relazione tra segno e designato è presente per quel che è, cioè come relazione nella quale il segno allude ad altro da sé senza con ciò farsi identico ad esso?

Severino: La volontà è un far diventar altro. Si vuole proprio in quanto si vuole che qualcosa sia altro. Qui sarebbe necessario che si ricordasse il concetto del divenir altro, quel concetto che è l’evidenza per l’intera cultura occidentale. Il divenir altro come il processo nel cui risultato qualcosa è altro da ciò che essa è, e dove dunque qualcosa è ciò che essa non è. La follia. Questo tema loro lo vedono presente nel tema che la volontà vuole che qualcosa diventi parola, che la volontà voglia che qualcosa diventi parola è un caso eminente della volontà che qualcosa diventi altro. E se la volontà è sempre volontà che qualcosa diventi altro, allora la volontà vuole l’impossibile. L’assurdo, ciò che non può essere. Il linguaggio quando vuole che qualcosa sia altro, isola, si impadronisce del qualcosa e dell›altro, parlare significa voler dominare. Questo parlare che loro sentono è un voler dominare. Anche il linguaggio che testimonia il Destino va in direzione opposta a ciò che il Destino dice, a ciò in cui il Destino consiste. Il linguaggio è partecipe della follia proprio perchè è volontà che qualcosa sia segno, rilievo, spicco.

La parola da ultimo si riferisce alla cosa che di fatto non si presenta quando la cosa non è il Destino, non si presenta a sua volta avvolta da parola.

 

In questo senso il Suo discorso fa riferimento a ciò che sta oltre il linguaggio…

Severino: Siamo già oltre il linguaggio perchè la parola è necessità che da ultimo sia parola di qualcosa, il mondo che appare, e che appare come non a sua volta parola di. Di fatto la parola si arresta ad un mondo che non appare a sua volta come parola. L’oltre il linguaggio ancora più radicale, l’altro della parola è la parola che parla del Destino, perchè il riferimento al Destino non è il riferimento a qualcosa che possa essere segno di altro, se il destino fosse segno di altro il Destino rinvierebbe alla negazione di sé, alla follia. Quindi il linguaggio che parla di tutto ciò che non è Destino cade di fatto su una cosa che non è parola ma che potrebbe in seguito presentarsi in seguito come a sua volta parola. L’unico linguaggio che fa eccezione si riferisce a una cosa, alla struttura del Destino che non può a sua volta presentarsi come parola di, e cioè come interpretazione di, e cioè come segno di, perché il Destino è ciò la cui negazione è autonegazione e il suo rinviare da altro sarebbe negazione di sé. Già per questi ordini di considerazioni siamo oltre il linguaggio. Sentiamo ancora una volta la tesi della svolta linguistica: il pensiero è linguaggio, il linguaggio è storicità, dunque nessun pensiero può liberarsi del carattere effimero della storicità, della storia. Ma ora dovremo dire che anche questa tesi è linguistica. Di contro la tesi: ogni pensiero è linguaggio. Si può replicare: ma allora anche questa tesi è linguaggio.

 

Si tratta dell’obiezione contro lo scettico…

Severino: Sì però io vorrei esortare a non banalizzare la filosofia contemporanea riducendola a semplice scetticismo ingenuo. Il pensiero è linguistico, una forma linguistica, dunque non può essere episteme. Ogni pensiero è linguistico allora anche questa tesi è linguistica. Allora o sottostare a ciò che essa dice e cioè questa tesi è storica e caduca, o non è storica e allora non intendendo essere storica smentisce quello che vuole affermare ponendo una dimensione metastorica, metalinguistica.. Finito qui il discorso? No. Si diffidi da questo tipo di soluzione, perché?

Per scoprire la pesantezza della filosofia contemporanea si deve andare oltre ciò che per lo più la filosofia contemporanea dice di sé. Occorre la capacità di andare nel sottosuolo della filosofia contemporanea. Noi ci riteniamo insoddisfatti della classica replica contro lo scettico perché sembra che essere nella contraddizione sia qualcosa di per sé escluso. Domandiamo invece: perché non si può essere nella contraddizione? Alla critica rivolta allo scettico, lo scettico può replicare dicendo: io sono nella contraddizione, perchè non si può essere nella contraddizione? Lo scettico può riconoscere il proprio essere in contraddizione. Bisogna diffidare più che dello scettico ingenuo del modo ingenuo di considerare uno scettico: non è mai esistito lo scettico che per davvero non credesse nulla. Perché? Perché lo scettico non è quello che non crede nulla, uno scettico che non abbia fede. Senza fede non si vive. Lo scettico non è quel mostro che non ha nessuna fede, lo scettico e la scepsi non consistono nel non avere fede, lo scetticismo autentico è la messa in questione di tutte le fedi. Si confonde invece il non avere fede con la problemazzazione della fede.

 

Lei insiste spesso sulla radicalità del pensiero contemporaneo, il quale possiede una portata di molto superiore al mero relativismo o allo scetticismo ingenuo con il quale sembra invece essere presente nel dibattito filosofico…

Severino: È un errore che si compie, perché molti aspetti della filosofia contemporanea, o molte forme della filosofia contemporanea, ignorano il proprio statuto, e cioè: se la filosofia contemporanea fosse scetticismo, si ridurrebbe ad un ben misero risultato lo sviluppo di duemila anni di storia del pensiero filosofico. Questo non vuol dire che la confutazione dello scettico sia una cosa così semplice come normalmente si crede, confutazione che viene ridotta all’osservazione che lo scettico sostiene la verità dell’inesistenza della verità. A quel punto la scettico potrebbe dire: e allora? Bisogna prolungare la confutazione dello scettico espressa in questi termini obsoleti, termini deboli, alla considerazione della possibilità del contraddirsi, perché è un contraddirsi quello di un’asserzione scettica la quale finisca col sostenere la verità dell’inesistenza della verità, e quindi la confutazione dello scettico dovrebbe poi sfociare nel grande tema del rapporto con la contraddizione. Fermo restando che la confutazione dello scetticismo non è quel gioco da bambini che potrebbe sembrare, ma aggiungendo che, pur non essendo un gioco da bambini, sarebbe lo scetticismo un misero risultato da parte della filosofia contemporanea rispetto agli esordi del pensiero filosofico, allora all’interno della filosofia contemporanea sono distinguibili vari aspetti. Quello che io chiamo il sottosuolo, cioè il sottosuolo di una superficie in cui il pensatore non si rende conto della potenza del proprio sottosuolo.

Chi si rende conto di questa potenza sono quei pochi di cui continuo a parlare: Nietzsche, Leopardi, Gentile. Metto poi punti interrogativi su Heidegger e su Wittgenstein che appartengono alla grande superficie, perché superficie non vuol dire superficialità. Allora: la filosofia contemporanea è una superficie non grande, e purtroppo su questa superficie non grande navigano parecchi cultori del pensiero filosofico che si riducono a dire che Dio è morto e che la verità non esiste, senza sostanzialmente aggiungere altro se non l’accumulazione di episodi in cui si constata che la gente non crede più in Dio, non crede più in una verità assoluta, che sono sì delle considerazioni storico-culturali interessanti, ma che non muovono di un millimetro il discorso filosofico. Prima, dunque, c’è questa superficie ingenua. C’è poi quella grande superficie che esemplificavo con nomi quali Heidegger, Wittgenstein. E c’è il sottosuolo di cui parlavo prima.

Per quanto riguarda la superficie ingenua, ecco, anche lì si possono distinguere atteggiamenti diversi. C’è chi coerentemente considera la democrazia come un mito, e non c’è bisogno d’andare a scomodare i rappresentanti anglosassoni della democrazia - per esempio Rawls o Rorty - per non ricordarsi del nostro Einaudi, che diceva che, certo la democrazia è un mito, ma è un mito preferibile del mito di dare legnate sulla testa, o tagliare la testa a chi non la pensa come noi. È un mito. E lo diceva Einaudi con una consapevolezza filosofica notevole in un economista: essa è un mito il cui contrario non è in sé stesso autocontraddittorio. C’è chi, allora, come un liberale laico quale il nostro presidente Einaudi, applica la democrazia a quello che si dice di tutto - non c’è un sapere assoluto e quindi anche la democrazia è un mito - come allo stesso modo c’è chi, sul piano economico, non considera il capitalismo come una verità eterna ma come un tentativo sottoposto a crisi che non sono patologiche ma fisiologiche - e penso a Keynes - al contrario di coloro, come Smith o la scuola marginalistica, che invece ravvedevano crisi di tipo solamente patologico. Ecco che allora sul piano della superficie “ingenua” ci solo coloro i quali sono coerenti e applicano anche alla democrazia, anche al capitalismo, a tutti i valori, quel carattere di non verità assoluta che il nostro tempo attribuisce a qualsiasi posizione, e poi ci sono coloro che, incoerentemente, hanno ancora fede nella democrazia, nel capitalismo o in altri valori, senza capire il carattere di fede della loro fede.

 

Esistono dunque diverse profondità, diversi strati del discorso filosofico contemporaneo…

Severino: Dunque i livelli che abbiamo distinto sono, mi pare, quattro: la superficie incoerente che - e io non ho fatto nomi - è purtroppo la più affollata, la superficie coerente, e ho fatto il nome di Einaudi e potremmo aggiungere anche Rorty, la profondità della superficie, dove ho fatto nomi quali Heidegger e Wittgenstein, il sottosuolo della filosofia contemporanea, dove ho fatto i nomi di Nietzsche, Leopardi e Gentile.

 

Dove si colloca dal Suo punto di vista la posizione espressa dal cosiddetto neo-realismo?

Severino: Direi a livello della superficie incoerente.

 

Torniamo al tema del rapporto tra filosofia contemporanea, svolta linguistica e superamenteo dell’obiezione portata al Destino dalla svolta linguistica per indagare meglio il legame tra linguaggio e pensiero, tra parola e cosa.

Severino: Il pensiero filosofico contemporaneo non è banalità. Se la filosofia della svolta linguistica intende porre la connessione necessaria tra linguaggio e pensiero, e da questo dedurre l’impossibilità di ogni episteme, allora come abbiamo detto prima la svolta linguistica presuppone ciò che intende negare. Possiamo dar forza alla svolta della filosofia linguistica se si rovesciano i termini: e cioè scendendo nel sottosuolo della stessa filosofia linguistica si ci si ricorda di quel discorso per il quale l’esistenza di ogni immutabile è la distruzione di ogni nulla da cui le cose provengono. È dunque la vanificazione di ogni futuro. Solo se si segue questa direzione si vede la necessità che il divenire esiste se esiste l’immutabile, allora sì che si deve dire che il pensiero non può pensare un immutabile al disopra del divenire e quindi non può sganciarsi dal linguaggio, dove il suo essere unito al linguaggio non è la premessa, come vorrebbero la filosofia della svolta linguistica, ma è la conseguenza ed è così che la filosofia linguistica acquista tutta la forza che gli è consentita. Proprio perché non ci può essere nessun immutabile allora il pensiero è legato a quel linguaggio che non è altro che il luogo più vivo del divenire.

 

Proprio per questo sembrerebbe che la linguisticità del linguaggio comprometta la testimonianza del Destino…

Severino: Ma non il Destino. Quando parliamo del Destino parliamo non di un punto semantico. Hegel nella Logica dice che il significato essere non è divisibile, non contiene altri significati. Il punto semantico è il significato che non è divisibile in altri significati. Il punto semantico è il puro semantema di fronte al quale non si può dire ne che sia vero ne che sia falso, è il puro semantico non apofantico. Il destino è il semantico apofantico, cioè una struttura. La struttura del Destino la richiamiamo quando diciamo: il Destino è l’essere sé dell’essente, cioè il suo non esser altro da sé, cioè il suo non diventare altro, cioè il suo essere eterno. Qui è in discussione il rapporto tra linguaggio e Destino. La sequenza che ho appena pronunciato è una rozza esemplificazione di ciò che chiamiamo la struttura originaria del Destino, è un’indicazione formale. Eterno è ciò che è sempre, ciò che non si imbatte in un tempo che non sia, ciò che non è tempo. Il linguaggio parlando del Destino è inevitabile che vada incontro ad una essenziale incomprensione. Il principio di non contraddizione come tratto fondamentale dell’episteme è immerso nell’allienazione per cui il principio di non contraddizione è contraddittorio e l’apparire è ciò che è impossibile che appaia. Ora il linguaggio che cosa opera portandosi verso l’ascolto del Destino? Opera l’isolamento di ciò di cui i suoi tratti sono indicazioni. Allora se indichiamo in questo modo le forme linguistiche che indicano questa molteplicità di determinazioni in cui consiste la struttura originaria del Destino, ritorna la retoricità, quella dimensione diacronica del linguaggio di cui già avevamo parlato. Dunque è inevitabile che il linguaggio che parla del Destino, poiché non dice tutto in una volta sola, dica man mano ciò che è in una volta sola. Questa sequenza è in una volta sola, che cosa voglia dire in una volta sola è indicato nei miei scritti. Anche lì però il linguaggio non dice tutto insieme ma di volta in volta, “via via”. E questo “via via”, e poi e poi, fa si che le determinazioni del Destino che sono essenzialmente connesse l’una all’altra il linguaggio incominci a testimoniarle, esso parla dell›esser sé dell’essente, e l’essere sé dell’essente è messo in rilievo, allora diventa immagine, gli è conferito un significato, questo conferimento è volontà che vuole che qualcosa sia segno ma in questo modo l’essere sé dell’essente si presenta come qualcosa di isolato dalle altre determinazioni, come qualcosa che non ha bisogno delle altre determinazioni per esibire la propria significanza e la propria verità. Il linguaggio cattura, isola le determinazioni della struttura originaria, le cattura isolandole, la parola cattura, isola le cose ma per quanto riguarda il Destino l’isolamento fa sì che questa intervista ad esempio in quanto linguisticamente espressa, non sia il Destino e quindi sia negabile. Il linguaggio indica ciò che isolato non è ciò che esso è in quanto strutturato con le altre determinazioni. Questo esser sé dell’essente possiamo indicarlo cosi: a=a. L’identità di ogni essente con sé stesso.

 

L’identità però non è un punto, e se è una struttura è una molteplicità, perché questa molteplicità non può dispiegarsi nel tempo, nella discorsività?

Severino: Certo, l’identità non è un noema, “a” che è «a», non è il semplice essere «a», c’è differenza tra il dire «cane» e dire «il cane è il cane». L’identità dell’essente non è - uso la terminologia di Aristotele - semplice noema. L’identità, che è il corrispettivo dell’alienazione dell’episteme di ciò che chiamiamo esser sé dell’essente nella struttura del Destino, non è un semplice noema. Per parlare di a=a è necessario lasciarsi alle spalle il semplice a, ma lasciarlo alle spalle vuol dire avere un “a” e un altro “a”. Sì, noi diciamo che è lo stesso, ma non è così assolutamente lo stesso da essere soltanto a, allora nel momento in cui noi stiamo dicendo “a è a” noi stiamo dicendo che “a è non a”. Questo insieme di considerazioni confrontato al linguaggio che dice «l’essente è l’essente» fa apparire questa determinazione essenziale del Destino come non verità. Il linguaggio deve mettersi in moto per far vedere come ciò nonostante, l’essente sia essente. Ma deve mettersi in moto o sviluppando un ulteriore contenuto linguistico che non è contemplato in quella che avevo chiamato rozza esemplificazione. Un ulteriore sviluppo linguistico che mostra quella determinazione X per la quale accade che certamente l’essente sia essente nonostante questa apparenza per la quale l’identità è insieme la non identità. Il linguaggio, qualsiasi cosa dica, dice l’assurdo.

 

Lei sostiene che il contenuto non può essere isolato dalla forma linguistica perché il contenuto della parola resta linguisticamente avvolto. Come si perviene dunque alla cosa?

Severino: La cosa distinta dal linguaggio appare in forma di parola, ma in forma di parola appare appunto la cosa, sì che da ultimo deve apparire un significato che non sia a sua volta parola di, perché altrimenti non apparirebbe un mondo. Quindi ecco i due termini della sequenza: noi diciamo “Questa lampada è accesa”, anche quando si distingue questo insieme di fonemi da questa lampada nel suo essere accesa, questa lampada nel suo essere accesa stà dinanzi come un significare che si presenta all’interno di parole che si interpretano come parole della lingua italiana. D’altra parte questo rinvio della parola alla cosa che è a sua volta parola non è infinito. Da ultimo è necessario che il rinvio non differisca all’infinito ciò che appare. Appare dunque una cosa che di fatto è solo cosa ma a sua volta potrebbe apparire come parola e interpretazione di.

 

Dunque da un lato è posta la necessità che il contenuto della parola appaia all’interno della dimensione linguistica come relazione, dall’altro che tale dimensione non esaurisca/non possa esaurire il significato della cosa in un rimando infinito.

Severino: Torniamo sul primo aspetto: la parola intesa come segno, riferendosi alla cosa, intesa come designato, incontra la cosa avvolta a sua volta nel segno. Potrebbe sembrare che questa tesi - che abbiamo introdotto in relazione all’obiezione che la filosofia del linguaggio può rivolgere al Destino - sia riduttiva perché tutti noi o abbiamo esperienza, o ci siamo sentiti dire di esperienze relative all’indicibile, o all’affettività, all’erotica, al mistico. Anche se non ne siamo convinti però campeggia nella nostra cultura la tesi che esistono situazioni di rilevante importanza e che tuttavia non stanno nella parola, sono così dirompenti quanto la loro potenza che non si lasciano ridurre alla parola. Ma forse ispezionando la nostra esperienza possiamo riuscire a cogliere situazioni in cui la parola tace, che cosa pensiamo di fronte a ciò che viene chiamato il bello naturale, sembra che dapprima le parole tacciano e che poi, dopo che lo spettacolo si è mostrato intervengano per apprezzarlo, valutarlo. Queste esperienze sembrano smentire quanto dicevamo a proposito del fatto che la parola, riferendosi alla cosa, la trova avvolta da capo nella parola. Tutte queste esperienze che ho richiamato sembrano smentire questo concetto.

 

Anche la musica sembra collocarsi entro questo orizzonte…

Severino: Sì, una tradizione ormai consolidata vede la musica come ciò che sta al di là della parola. Nel secolo XIX la polemica tra Wagner e Nietzsche da una parte, Eduard Hanslick dall’altra è la polemica relativamente alla significatività del linguaggio musicale. Si tratta di un linguaggio ma che cosa dice? La tesi di Hanslick dice che ogni musica cosiddetta descrittiva non è musica. Che cosa rappresenta un pezzo sinfonico? La tesi di questo autore è che la musica sta al di là del significato quale espresso in parola. Prima di Hanslick nei taccuini di Beethoven c’è una frase singolare che anticipa la sua tesi: dove finisce il linguaggio incomincia la musica. Cito queste cose perché non ci siamo dimenticati della possibilità che appaiano situazioni in cui qualcosa appare non nella parola. Ma Lei potrebbe dirmi “ma che senso ha allora il discorso precedente, il discorso per il quale il linguaggio riferendosi alla cosa la trova avvolta dalla parola?” Non dimentichiamoci del motivo che ci fa prendere in considerazione le filosofie del linguaggio, la grande obiezione che non può essere trascurata relativamente all’apparire della stabilità assoluta del Destino, ecco, che cosa intendevamo dire prima, forse è bene precisarlo: che lasciando aperta la possibilità di situazioni come quelle così accennate ora, lasciando aperta questa possibilità il linguaggio che si interroga circa il rapporto di parola e cosa, e a maggior ragione il linguaggio che parla del Destino, non può sottostare alla persuasione che il contenuto appaia nella sua purezza. Quindi quando abbiamo introdotto il tema non intendevamo senz’altro escludere la possibilità di situazioni il cui contenuto dell’apparire non sia avvolto dalla parola, possiamo lasciare da parte in questa sede questo problema perché ci porterebbe lontano. Ma è fuori discussione che il linguaggio che si interroga sul rapporto tra parola cosa e a maggior ragione il linguaggio che testimonia il Destino, non possa sottostare al teorema per il quale il contenuto della parola, per esempio “questa è una lampada” è cosa. Il contenuto della sequenza linguistica «questa è una lampada» che cos’è? È questa lampada nel suo essere una delle lampade possibili. Ma questo che intendiamo distinguere dal linguaggio che lo esprime, questo che appare come una delle possibili lampade, e dunque appare nella forma della lingua italiana, dicevo, questo è il primo architrave di cui si deve sondare la consistenza ma dicendo questo non è che parlando di questa lampada il linguaggio intenda parlare delle parole che parlano di questa lampada. Giacché altro è parlare del linguaggio che esprime questo esser lampada, altro è parlare di questa lampada, cioè non ci stiamo dimenticando della distinzione tra linguaggio e metalinguaggio. Il linguaggio può parlare del linguaggio e dire: la proposizione che si riferisce a questa lampada è una proposizione della lingua italiana. Ecco, tutto quello che ho detto è un meta linguaggio rispetto al livello costituito dalle proposizioni che parlano di questa lampada. Certamente sussiste questa distinzione, ma noi stiamo dicendo a prescindere da questa distinzione - cioè quella tra linguaggio che parla della cosa e linguaggio che parla del linguaggio, tra parola che parla della cosa e parola che parla della parola - quando la parola ha come contenuto la cosa, la cosa si presenta daccapo nella forma di una parola che può essere o parola della lingua italiana o di un’altra lingua, insomma la cosa si presenta sempre in una forma linguistica.

 

Quella che ha appena enunciato è una delle tesi centrali di Oltre il linguaggio dove si afferma appunto che anche il significato della parola appare in forma linguistica, Le vorremmo dunque chiedere se è possibile rilevare l’auto-contraddittorietà di tutte le tesi che pretendano affermare l’apparire di una dimensione non linguistica dell’essente a partire dalla dimensione linguistica che avvolge l’essente.

Severino: Io non credo che la filosofia contemporanea, e precisamente la filosofia del linguaggio, abbia mostrato la necessità del nesso che riunisce parola e significato, linguaggio e pensiero. Credo invece che abbia preso atto, enfatizzandola, della situazione in cui attualmente il pensiero si trova: una situazione in cui il pensiero pensa la cosa in quanto configurantesi come parola all’interno della parola, il che è una situazione, è un fatto. Non esiste una fondazione della necessità “linguaggio-essere”.

In questa prospettiva, allora, che la parola, riferendosi alla cosa, si riferisca da capo ad una parola - secondo un differimento che ha di fatto un termine - è una situazione, appunto, di fatto, la quale fattualità non esclude la possibilità dell’apparire di un mondo in cui il linguaggio sia lasciato alle spalle. Non a caso il libro che anche lei ha citato è intitolato Oltre il linguaggio, poiché si riferisce alla dimensione del destino nel suo oltrepassare l’isolamento della terra, al quale isolamento appartiene il linguaggio, ché il linguaggio - ed anche il linguaggio che parla del destino - è una volontà di far diventar altro gli essenti, e in quanto tale appartiene all’alienazione. Quindi, se lei mi chiedeva se il discorso proposto in Oltre il linguaggio implica una confutazione di una concezione che sostenga la possibilità di un puro apparire dei significati, allora rispondo no.

 

La cosa dunque è nella forma della parola, ma non è quella forma e non è necessariamente insieme ad essa. Che tipo di relazione lega quindi parola e cosa? Tale relazione è essa stessa relazione parola-cosa?

Severino: La cosa si presenta come relazione daccapo tra parola e cosa, allora la relazione fra la parola e la cosa è una relazione in cui la parola si riferisce a qualcosa che appare esso stesso come relazione di parola e cosa, questo concetto di relazione ci porta al punto che mi pare Le sta a cuore data la Sua insistenza: il linguaggio come relazione. Se si nega la relazione, se si nega che il linguaggio sia relazione della parola alla cosa allora la parola diventa cosa. Questa tendenza a negare la relazione è presente in certe forme della filosofia del linguaggio, stiamo cercando di togliere il terreno sotto i piedi a questo tentativo di starsene al puro segno come indipendentemente dal designato

 

Mettiamo caso però che uno studente le dica: a me la lampada non appare linguisticamente. Come rispondere ad una obiezione di questo tipo? Cosa vuol dire che la lampada appare in forma linguistica? Si tratta di una constatazione fattuale? E che valore ha questo fatto?

Severino: In linea di principio è possibile una coscienza - e la coscienza può anche essere uno studente che si alza perché le sorprese del prossimo sono infinite - in cui l’isolamento della terra sia oltrepassato e quindi la lampada appaia nel suo puro significare non mediato dal linguaggio. Così come se uno si alzasse a lezione e dicesse “io qui vedo tre elefanti”, non posso escludere la presenza di un mondo che abbia questo contenuto. Che cosa però è possibile escludere? É possibile escludere la negazione della struttura intersoggettiva, e cioè è possibile escludere il contenuto di un linguaggio il quale neghi il Destino, e la struttura che è la struttura intersoggettiva. Il Destino, che è sintesi tra persintassi e iposintassi - tra sfondo e varianti - in quanto sfondo non può essere negato, nel senso che la negazione è un autonegazione, ma non si esclude la possibilità di ascolti dell’essere in cui le varianti siano diverse da quelle che attualmente appaiono in cui, per esempio, mentre io non vedo elefanti in questa stanza, una coscienza si esprima con un linguaggio che dica “qui ci sono elefanti”. Purché questa coscienza non intenda dire alla coscienza attuale che non vede elefanti: anche tu stai vedendo elefanti.

Questo ci porta su un terreno molto importante, quello per il quale il discorso che stiamo facendo non è semplicemente fenomenologico - perché la fenomenologia dice “esiste ciò che si mostra”. Il discorso che stiamo facendo è un discorso che deduce la necessità che qualcosa si mostri. Quando dice, per esempio, che la verità è un contenuto persintattico, e cioè non c’è apparire che non sia apparire della verità, questo è affermato non, per così dire, per constatazione, bensì per deduzione.

 

Però la necessità che la parola indichi da ultimo un contenuto che non sia parola è data dalla constatazione fattuale che un mondo appare sebbene tale contenuto non si presenti mai separatamente dalla forma…

Severino: Il discorso sulla lampada non è la lampada, il linguaggio che parla della lampada non è la lampada però innanzitutto, per lo meno all›interno di ciò che chiamiamo Destino, la lampada appare come distinta dalla parola, si presenta come questo suo essere una delle possibili lampade, e quindi si presenta daccapo nella forma della parola. Nell›atto in cui distinguiamo in modo tale che ci sia oltre il linguaggio, questa cosa non toccata dal linguaggio da un lato rileviamo che questo dialogo dell›anima con se stessa è una lingua e non è puro pensiero, questo dialogo è un pensiero in forma di lingua, dall›altro lato rileviamo che la cosa si presenta daccapo all›interno di una forma linguistica. Che non è da identificare con la storicità del suo carattere linguistico. Dobbiamo a questo punto parlare di nesso generico e nesso specifico. Si tratta di prendere in considerazione una sorta di prolungamento di quello che Lei domandava, perché a questo punto si potrebbe dire che allora anche questa cosa, cioè quella lampada che si presenta sotto forma di parola, in una forma che è diversa da quella originaria che nomina la lampada, perchè quella originaria è un volume sonoro laddove la lampada che parla è un linguaggio silenzioso, guardiamo quella lampada lì, ci sforziamo di considerarla al di là del linguaggio ma essa è li nel suo parlare come essere questa lampada qui, una tra le possibili. Quindi questa lampada qui è così parlante ma con un linguaggio che a differenza di quello sonoro che è il mio in questo momento, è silenzioso. A questo punto ci si può chiedere se anche la cosa è daccapo una cosa che si presenta in forma di parola e cosi via. Dicendo che la cosa indicata dalla parola si presenta essa stessa in forma linguistica, sembra che si accenni ad un progressus in indefinitum dove l’intenzionalità della parola procede senza alcun limite. Questo è quanto non si può affermare.

 

Perché è fenomenologicamente evidente che un mondo appare.

Severino: Sì, un mondo appare. E sull’innegabilità di questo tratto posso far riferimento a quanto ho scritto ne La Struttura Originaria, tuttavia qui possiamo dire che se la parola si riferisse all’infinito ad altro, un mondo non apparirebbe, cioè il contenuto della parola sarebbe differito all’infinito. Questo cosa significa? Che anche l’interpretazione, per esempio l’interpretazione di questa lampada, è interpretazione, anche l’interpretazione può avere come contenuto un interpretato, per esempio noi diciamo: questa è una lampada perché è connessa ad un sistema elettrico. Ma il sistema elettrico di questo edificio è esso stesso interpretazione. Quindi questa lampada interpretata è a sua volta un interpretante che si riferisce al sistema elettrico ecc. però ad un certo momento qualcosa è di necessità, perchè un mondo appare. Qualcosa sta dinanzi e qualcosa non starebbe dinanzi se il contenuto della parola fosse all’infinito parola. E che qualcosa stia dinnanzi è innegabile. Non appare questo differimento infinito del mondo, della cosa. La parola parla del Destino. Allora da ultimo di fatto appare la cosa che in quanto è un “da ultimo” non è a sua volta parola, cioè la cosa appare come pura cosa. Da ultimo di fatto appaiono le cose, delle cose alcune è possibile che siano a loro volta parola, ma ciò che più conta in questo discorso è il Destino. E quella cosa che a sua volta non può esser parola, cioè riferimento e cioè indicazione di altro. Perché se il Destino fosse il segno che indica qualche cosa d’altro da sé, se indicasse l’altro da sé non indicherebbe lo stante. Ma indica lo stante. Di fatto lintenzionalità della parola si ferma alla cosa. Di fatto per quanto riguarda quelle cose che non essendo il Destino, sono per altro il contenuto dell’apparire in quanto l’apparire è un tratto del Destino. L’apparire del mondo è incontestabile in quanto tratto del Destino.

 

Vorrei tornare sull’argomento per cui si rileva la contraddittorietà dell’assunzione trascendentale del segno…

Severino: Quando il linguaggio è inteso come ciò che può prescindere dal suo essere relazione, e quindi quando il linguaggio è identificato con la pura dimensione del segno allora non essendoci alto oltre il segno, il segno non è più segno ma cosa. Se si elimina il designato allora il segno diventa proprio quella dimensione intuitiva, di evidenza intuitiva, diventa la presenza del segno quella coscienza pura da cui le filosofie del linguaggio intendono prendere le distanze. Ci si ritrova dunque ad affermare che il segno non è il segno. Teniamo presente la polemica della filosofia contemporanea contro la coscienza pura, polemica che si esprime con l’indicazione di diversi condizionamenti della coscienza pura; tra cui il condizionamento linguistico. Qui stiamo dicendo: se il linguaggio non è inteso come relazione e ci illude di far coincidere il linguaggio con il sistema di segni allora questo sistema di segni diventa il mondo, un mondo che certamente non soddisfa le nostre esigenze umane ma diventa l’ insieme delle cose, diventa l’insieme di ciò che è il contenuto di una coscienza che si riferisce a ciò che sta in vista puro nel proprio significato, e che è l’equivalente di quella coscienza pura, autonoma da cui le filosofie del linguaggio vuol prenderle distante. Significa sostituire a quel mondo di immagini suoni colori sapori rispetto al quale le filosofie del linguaggio pongono un punto interrogativo relativamente alla pretesa che esso costituisca il contenuto della coscienza pura, significa sostituire a quel mondo ricco, un mondo impoverito costituito da un insieme di segni, ma segni come forme visibili, o forme udibili, niente linguaggio senza relazione, quando Wittgenstein dice che il significato di una parola è il suo uso, che dato dal suo uso, non è che neghi il linguaggio come relazione, dice che la relazione in cui consiste linguaggio è guidata dall’uso secondo il quale la parola è presente nel linguaggio. Allora stiamo dicendo: da un lato che il linguaggio è relazione, dall’altro lato stiamo dicendo quello che dicevamo prima e cioè: la cosa cui la parola si riferisce è in quel linguaggio che intende riferirsi al rapporto tra parola cosa e soprattutto intende parlare del Destino, in quel linguaggio la cosa si presenta da capo come relazione, e cioè come relazione di parole e di cosa. Il linguaggio nomina questa lampada, e non ci può essere linguaggio senza la relazione, quindi senza la differenza tra parola e cosa, dall’altro lato la cosa cui la parola si riferisce si presenta - e qui adesso dovrei aggiungere un’espressione avverbiale che adesso tocchiamo - come essa stessa relazione, questa lampada si presenta come relazione di parola e di cosa, perchè questa lampada si presenta a sua volta come il suo essere una delle lampade, dove il suo significare è significante all’interno della lingua italiana. Ho detto prima che ho messo un avverbio, risentiamo ora quello che ho detto con l’avverbio: la parola si riferisce alla cosa la parola si riferisce alla cosa, - stiamo aspettando l’avverbio -, ma la cosa si presenta “di fatto” come a sua volta relazione di parola e cosa. Di fatto - come le verità di Leibniz - è qualcosa che c’è ma potrebbe non esserci, appare ma potrebbe anche non apparire. È una verità effettuale cioè è una situazione. P indica la parola e si riferisce ad una cosa che è questa lampada ma nel suo significare all’interno della parola, che certamente va distinta dalla parola che parla di questa lampada, e che tuttavia è una parola, si presenta questa lampada all’interno del suo essere a sua volta presente all’interno della parola - ecco l’avverbio - stiamo dicendo questa implicazione è di fatto, e poi abbiamo detto che è una situazione, cosa vuoi dire questo? Non è una necessità, non appare come una necessità, quando questa lampada appare nel suo essere significante all’interno della lingua italiana, questa connessione tra il suo apparire, tra l’apparire di ciò che essa è, o tra l’apparire del suo significare e la forma linguistica del suo significare, è un fatto. Non appare la necessità della connessione che unisce questa lampada alla forma linguistica in cui essa si presenta.

 

A prima vista questo sembrerebbe contraddire il Destino…

Severino: Certo, si potrebbe dire: non è possibile dire questo se si afferma l’eternità di ogni essente. Ora il rapporto fattuale tra questa lampada e il suo significare all’interno daccapo di una forma linguistica, questo rapporto è esso stesso un essente, che questa lampada appaia all’interno della forma linguistica, questa relazione, è essa stessa un essente. Allora si potrebbe dire: se tu dici che il Destino è innanzitutto l’affermazione dell’eternità dell’essente in quanto essente, allora anche l’essente in cui consiste questa relazione è un eterno, e se è un eterno allora nessuno dei due termini può sciogliersi dalla sua relazione con l’altro, e se nessuno dei due termini può così sciogliersi allora questa relazione non è un che di fattuale o effettuale, o situazionale, questa connessione è necessaria. Ma non vediamo la necessita che connette questa lampada qui, con i suoi colori, con il suo essere insieme alle parole che sto pronunciando, non vediamo la necessità che collega questa lampada e il suo apparire in quella forma linguistica che in questo momento è una forma della lingua italiana, non appare questa necessità. Possiamo smentire questa necessità? Certamente no, ma stiamo dicendo un qualcosa di ulteriore, e cioè che se prescindiamo dalla necessità generica, che afferma l’eternità di ogni essente, la necessità specifica di questa relazione non appare. Facciamo un altro esempio: se tutto è eterno allora anche questa striscia di Sole che arriva fino alle Sue scarpe, e che viene dalla finestra, è un eterno. Allora la finestra non può essere separata da questa striscia di Sole e dal suo toccare le Sue scarpe, questo è un essente eterno. Indubbiamente la relazione finestra Sole scarpe è un essente eterno come è un essente eterno il rapporto tra questa lampada e la forma linguistica in cui essa appare, però, - e il però indica la distinzione tra necessità generica e necessità specifica - tutto è eterno per quanto sappiamo del Destino, ma questa è la necessità che conviene ad ogni essente e in quanto conviene ad ogni essente la chiamiamo generica, o trascendentale, però non appare ancora il motivo specifico perchè qui ora, hic et nunc, questa finestra insieme a questo Sole e a queste scarpe, sono necessariamente connesse, eppure è noto che siano genericamente connesse, ma oltre alla connessione generica è necessario che ci sia la connessione specifica. Cioè questa finestra è tale che essa è connessa a questa striscia di Sole. Ma questa connessione specifica non appare. Stiamo dicendo che nel rapporto tra cosa e parola secondo cui si costituisce la cosa a cui la parola si riferisce, in questo rapporto, essendo un essente, questo rapporto è necessario in senso generico, ma questo rapporto non appare secondo la necessità specifica che unisce ogni essente ad ogni altro. Quello per il quale è impossibile in eterno che questo risuonare della voce sia senza quel libro sul tavolo. Ma questa connessione necessaria è una connessione generica che ancora non esprime il motivo per cui questo risuonare della voce, in quanto è questo, implica quel libro in quanto è quello.

 

A questo punto vorrei insistere punto che mi pare stiamo in qualche modo eludendo, quello relativo alla natura della relazione tra parola e cosa. Mi pare infatti che le considerazioni appena svolte ammettano un significato più o meno condiviso del concetto di parola, ma poi ne estendano la portata. Che cos’è allora una parola? E in che senso parla di un linguaggio silenzioso delle cose?

Severino: Non direi infatti che si tratta qui di introdurre categorie nuove rispetto a quelle che vengono attribuite al concetto di parola, però è opportuno a questo punto menzionare un’articolazione che fa leva sul carattere non veritativo del rapporto tra parola e cosa. Prendiamo il Cratilo di Platone, dove compaiono le tesi contrapposte di Ermogene e Cratilo. Per il primo nulla impedisce che quelle cose che sono dette rotonde siano chiamate rette e viceversa. Le parole sarebbero dunque semplicemente segni convenzionali. La tesi di Cratilo è invece diversa, la sua tesi è che le parole sono naturalmente le parole delle cose, non c’è uso convenzionale della parola. La parola è vera in quanto è un tratto della cosa, questa tesi ripropone un modo di pensare che si presenta all’inizio del pensiero filosofico, si pensi ai framenti di Eraclito. Ora per noi si tratta di mostrare in che senso sia possibile mettere in discussione entrambe questa posizioni. Quello che da parte nostra ci accingiamo a mettere in rilievo infatti non è l’accettazione della tesi di Cratilo anche se ci può essere il sospetto di una vicinanza.

 

Potrebbe approfondire questo tema?

Severino: Dunque abbiamo usato sin qui l’espressione: la parola come segno, o la parola come immagine della cosa. Ora il concetto di immagine e anche più ampio del concetto di immagine identificata alla parola. La parola è un’immagine, ma non ogni immagine è una parola. Per esempio noi parliamo degli aspetti delle cose, la finestra; noi diciamo che appare una finestra ma propriamente appare una certa configurazione che viene interpretata come capacità della finestra di assolvere certe funzioni. La capacità della finestra di costituire un varco attraverso cui possa entrare l’aria, ci si possa buttare fuori. Ma questa è un’interpretazione. La parola è un’immagine ma non ogni immagine è una parola. O potremmo dire: l’aspetto di una cosa è la parola che è più vicina alla cosa. La parola di una cosa è l’aspetto che è più lontano dalla cosa. Cioè appare l’albero, quando diciamo l’albero intendiamo riferire l’aspetto che in questo momento è verdeggiante, ha una vita viva radicata nella terra, allora quel verdeggiare sullo sfondo azzurro è l’aspetto di ciò che noi intendiamo come albero, ma aspetto che cosa vuol dire: il suo farsi vedere, il suo segnalarsi rispetto a una contemplazione, l’aspetto dell’albero è il segno dell’albero, l’albero si segnala attraverso il suo aspetto. L’aspetto è un segno ma un segno così prossimo alla vita vegetativa che affonda le sue radici nel terreno, cosa che ora non appare così come appare il verdeggiare dell’albero. L’aspetto dell’albero è un segno che è così prossimo a questa vita vegetale che addirittura noi possiamo pensare che sia una proprietà di questa vita vegetale, l’aspetto è un segno che appartiene alla cosa di cui è segno. L’aspetto dell’albero è un segno dell’albero, un presentarsi dell’albero in quanto vita vegetativa che è così prossimo a questa vita vegetativa che noi diciamo che quel verdeggiare appartiene a quella vita vegetativa. L’aspetto è un segno di ciò di cui è aspetto. Il suono “albero”, la parola albero è un aspetto dell’albero ma è un aspetto che a differenza del verdeggiare può essere perfino considerato come tale che rispetto a questo aspetto il verdeggiare sia indipendente, indifferente. Allora intendiamo dire che l’ampiezza del linguaggio è superiore a quella che comunemente pensiamo quando intendiamo il linguaggio come l’espressione, il linguaggio è molto più ampio. Anche il verdeggiare che dicevamo è l’aspetto della vita vegetativa che peraltro non appare così come appare il verdeggiare, anche l’aspetto di quell’albero è un segno e cioè è una parola che parla di quell’albero, allora daccapo: la parola propriamente detta è un aspetto dell’albero come vita vegetativa, è un aspetto che però viene considerato perlopiù come ciò che lascia indipendente da sé ciò di cui

aspetto, è un aspetto che viene quasi sempre ritenuto esterno a ciò di cui è aspetto. Il verdeggiare dell’albero è una parola, cioè un segno dell’albero, che tuttavia viene ritenuto perlopiù così prossimo alla vita vegetativa da esserne appunto pensato come aspetto della vita vegetativa. Il linguaggio a questo punto si estende tanto quanto si estende l’interpretazione. Ogni cosa del mondo in quanto interpretata, e non ogni cosa è interpretata, ogni cosa del mondo è linguaggio ma non lo diciamo semplicemente noi, ma se diamo credito al resoconto storico, allora l’uomo primitivo parla con gli alberi, con le nubi, con gli uccelli, cioè tratta tutte le cose come aspetti di un significato ulteriore, ultimo e così tutto diventa linguaggio. E questa prospettiva del primitivo ha alla sua base quanto stiamo dicendo che cioè effettivamente ogni aspetto è una parola vicina a ciò di cui è aspetto, e ogni parola in senso prioprio è un aspetto lontano di ciò di cui è aspetto.

 

Si pone a questo punto il problema del rapporto tra storicità, linguaggio e interpretazione. Rapporto che ci conduce inevitabilmente a fare riferimento alla tesi centrale che caratterizza la Sua impostazione del problema del linguaggio dalla quale pur siamo partiti: quella relativa al nesso linguaggio-volontà.

Severino: La storicità è interpretazione all’interno della quale appare qualcosa appunto come storicità. Appare la relazione parola-cosa e appare la linguisticità del pensiero. Che il linguaggio sia iscritto in quelle categorie storiche che ci consentono di dire che la lingua che parliamo è la nostra lingua materna, questo, dicevamo, questo è il contenuto di un’interpretazione. A questo punto dobbiamo intendere cosa sia un segno. Abbiamo parlato di parola usando una nozione ancora comune ma che cosa è propriamente la parola? Spesso si dice che la parola e il linguaggio è ciò che sta al posto di ciò che la parola indica e che non è attualmente presente quando la parola è usata. Parliamo ad esempio della Francia e le parole che usiamo stanno al posto dei contenuti che essi indicano. Questo stare al posto, fare le veci di. Eppure questo concetto di parola come “lo stare al posto di” della cosa, è ancora un concetto inadeguato della parola perché già abbiamo messo in rilievo che c’è parola anche quando la cosa è presente. Anzi la direzione di fondo del discorso è partita proprio dalla constatazione della parola che è forma di ciò che si presenta, della cosa che si presenta. Ciò che è, si manifesta nel dialogo interiore dell’animo con se stessa è d’altra parte avvolto di parola, è qui la parola non è ciò che sta al posto di qualcosa che non è attualmente presente, la parola avvolge anche ciò che è attualmente presente. D’altra parte questo non significa che la parola non sia mai qualcosa che stia al posto di, stiamo invece dicendo che quella definizione di parola come ciò che sta al posto di è un’indicazione parziale della parola. Quando si parla comunque, sia quando ciò di cui si parla è assente, sia quando è presente, parliamo della Francia o di questa stanza, comunque la parola assegna uno spicco a ciò di cui essa parla. Lo pone in rilievo. Gli dà una visibilità, una percepibilità superiore a quella posseduta dalle cose di cui non si parla. Il linguaggio mette in risalto. Se vogliamo partire dal concetto di linguaggio come indicazione, o immagine, ecco l’immagine delle cose con la propria presenza dà alle cose quello spicco, quel risalto di cui dicevo. Le solleva al disopra del non detto. Dopo aver introdotto questo concetto di dar spicco, di dare rilievo, ancora il senso di questi termini rimane avvolto nella sua problematicità, quella problematicità per la quale la parola come tale non indica il proprio essere un nesso necessario con ciò di cui essa è parola.

 

Si spalanca a questo punto il tema della volontà, dal quale pur siamo partiti a proposito della volontà della testimonianza…

Severino: Noi abbiamo parlato fin dall’inizio della parola ma quando ne parlavamo davamo per scontati alcuni elementi. Ora che questo sia parola è un voluto, cioè diciamo che non c›è nulla in questo evento ottico che indichi il suo essere segno di quella certa cosa che è uomo per esempio. E allora in che cosa consiste il suo essere segno? Diciamo: nella volontà che sia segno. È innanzitutto la volontà che vuole che qualcosa sia segno. Tutto è stato voluto come segno. È la tesi convenzionalistica di Ermogene? Neppure: il linguaggio non è a disposizione dell’uomo come dei gettoni che possono essere usati in un modo o in un altro. Che qualcosa sia segno, il qualcosa è l’evento ottico alfa e l’evento ottico beta, che qualcosa sia parola non è un’evidenza incontrovertibile, e nemmeno una verità incontrovertibile; e la volontà che vuole che qualcosa sia segno e parola. Ma non si tratta della tesi convenzionalistica perché qui non stiamo parlando di una pluralità di soggetti che decidono di usare certe cose, certe parole in un certo modo. Non stiamo dicendo che il linguaggio è disposizione dell’uomo. Stiamo dicendo certamente che l’uomo è gettato in questa volontà che qualcosa sia segno, non stabilisce che qualcosa sia segno e le regole complesse del linguaggio. Si trova certamente ad essere nel linguaggio. Quindi l’obiezione heideggeriana non tocca questo discorso, perché non si sta dicendo: che da principio c’è una sorta di consorteria dove gli uomini decidono che uso fare delle parole bensì che originariamente ci si trova nel linguaggio però in che cosa ci si trova: ci si trova gettati nella volontà che qualcosa sia segno. Questo secondo aspetto, isolato dal primo, potrebbe far pensare alla convergenza di quanto stiamo dicendo con la tesi convenzionalistica. Ma è la sua sintesi con il primo ad escludere questa intrepretazione. Dico che è la volontà che vuole che qualcosa sia esser uomo e essere linguaggio, perche crediamo forse noi che l’esser uomo inteso come l’unità presente all’interno di una molteplicità di individui sia una evidenza? O lo stesso essere uomo ha un carattere tanto enigmatico quanto il contnuto della parola Dio? La volontà interpretante è il luogo in cui ci si trova originariamente, quindi non un luogo manipolato dalle decisioni umane ma la dimensione in cui ci si trova ad essere e noi in quanto essenti ci troviamo ad essere, però ci troviamo ad essere nel volere, nella volontà che qualcosa sia segno.

 

 

Severino: Diciamo intanto che non si può dare per evidente che sia io a pensare, perchè dicendo questo noi coinvolgiamo quella categoria di causalità, un nesso necessario che non può essere subito affermato, bisogna vederne il fondamento. Quando si dice “Quest’uomo pensa” non si ha a che fare con un a=a ma con un a=b. Quest’uomo è pensiero. Se si vuole affermare un nesso necessario tra questo “chi” e l’apparire bisogna esibire un fondamento, una necessità, se questo fondamento non viene esibito allora l’apparire non è l’apparire a un “chi”, a qualcuno. Analogamente lei chiede: La volontà di chi? Ma il “chi” appare solo all’interno di una interpretazione, se io mi riferisco a me stesso così come mi riferisco, cioè a un me stesso in rapporto ad una società diacronicamente costituitasi, allora anche io sono oggetto di una interpretazione. Non posso dire che io sia un privilegiato rispetto alla coscienza altrui mentre io sono una evidenza assoluta. Allora la volontà di chi? Ma di nessun chi. Perchè è all’interno della volontà che appare qualcosa come un “chi” e che è appunto un interpretato. 

 

Ci piacerebbe insistere ancora su queste tematiche ma Le abbiamo già rubato molto tempo e vorremmo rivolgerle alcune domande relative ad altri aspetti del Suo discorso.

Attualmente il ruolo assunto dalla filosofia nell’ambito degli studi accademici sembra dipendere dalla scienze. All’interno del mondo anglo-sassone che ormai rappresenta il paradigma dominante, la filosofia è considerata una disciplina utile ad acquisire abilità logico-argomentative meramente formali. Essa è fatta valere come tecnica o più in generale come strumento indirizzato all’ampliamento della capacità di calcolo. D’altro canto la filosofia si configura fin dalla sua nascita come rimedio contro l’irruzione della morte e dell’angoscia, sembra quindi che essa si configuri sin dalle origini come mezzo rivolto a un fine. Dunque la filosofia è destinata a sottomettersi alla tecnica?

Severino: Se dovessimo tentare una scansione di questo rapporto storico tra filosofia e tecnica dovremmo dire che innanzitutto si pensa alla verità della filosofia, all’ episteme per raggiungere veramente la felicità. Lo scopo è la felicità. Questo momento, a mio avviso, è straordinariamente indicato da Eschilo: si vuole la verità per essere felici, per raggiungere la vera felicità. Ma il pensiero filosofico si rende ben presto conto che se la verità è un mezzo per raggiungere un fine –la felicità - che le è esterno, allora il fine guida il mezzo. Ma se il fine è esterno al mezzo, se la felicità è esterna alla verità, allora la non-verità guida la verità: quella felicità che guida la verità è una non verità e quindi la verità, che dovrebbe esser mezzo per raggiungere la felicità fallirebbe nel suo intento perché si costituirebbe come un che guidato dalla non verità, e quindi come inficiata dalla non verità dello scopo verso cui la verità è orientata. E allora ecco che viene alla luce quel formidabile teorema platonico-aristotelico per cui il vero sapere non ha alcuno scopo al di fuori di sé: esso è lo scopo, e la felicità, che prima era lo scopo della verità - e qui sarebbe interessante un riferimento ai testi di Eschilo - diventa la condizione perché la verità sia contemplata, e da qui tutta quella tematica aristotelica per la quale la polis deve organizzarsi in modo da rendere possibile quella felicità autentica che non è più qualche cosa di distinto dalla verità, ma è la contemplazione stessa della verità. Allora la parola felicità si scandisce in due tempi: la felicità che significa la buona vita, la vita felice che rende possibile la contemplazione della verità, e la felicità in senso pieno che è definita dalla contemplazione della verità. Questo è un primo rovesciamento: prima c’è la felicità come scopo e la verità come mezzo, poi la verità diventa scopo e la felicità - intesa nel secondo di quei due sensi che ho indicato- diventa mezzo. Soprattutto in quel teorema aristotelico per cui la polis deve garantire la felicità del filosofo, la felicità in cui consiste il filosofare.

Il secondo rovesciamento riguarda la prima parte della sua domanda. Lei, mi pare, ha cominciato a dire che la filosofia è oggi considerata come ancella della tecnica, ed in effetti questo è il clima dominante: se la filosofia vuol fare qualcosa di serio deve tener conto dei risultati del sapere scientifico e contribuire all’ampliamento degli orizzonti di tale sapere con quelle sortite, che hanno un certo aspetto di accidentalità, con le quali - per così dire - le pattuglie della filosofia vanno in avanscoperta e ritornano nel fortilizio della scienza più o meno malandate ma con qualche notizia che consente alla compattezza del forte scientifico di compiere la spedizione vera e propria che occupa nuovi territori con la serietà che è propria della scienza. Ecco, questo è, più o meno, il modo in cui oggi viene considerata la filosofia. Il che non è il modo autentico, e possiamo indicare il motivo di questa non autenticità: la scienza oggi non è più concepibile separatamente dalla tecnica. La distinzione tra scienza e tecnica v’era quando la scienza contemplava la verità, cioè ancora nel clima epistemico in cui la scienza contemplava, appunto la verità, e la tecnica la applicava. Ma tramontato quel clima dell’episteme della verità la scienza autentica è divenuta quella che, nella competizione di teorie tra loro rivali, riesce ad ottenere una trasformazione del mondo più adeguata agli scopi che l’uomo si propone, e questo concetto di verità come maggior potenza e come adeguazione degli scopi è proprio la definizione della tecnica. La scienza è allora oggi, in quanto non più episteme, nell’essenza tecnica. Ora, il rapporto della filosofia alla tecnica non è ancillare come sembrerebbe in quel quadro, di cui abbiamo parlato all’inizio, con le metafore sul fortilizio scientifico e delle pattuglie che vanno in avanscoperta: non è questa la situazione. Perché? La filosofia del nostro tempo mostra alla tecnica, la quale - si capisce - deve porsi in condizione di saper ascoltare questa condizione, il senso di un mondo che, visto nella sua configurazione autentica, consente alla tecnica di sprigionare la totalità di potenza che le può competere. Cioè la filosofia, in questo secondo quadro che tento di prospettare, non è una semplice riflessione epistemologica sulla scienza rispetto alla quale il concreto lavoratore scientifico può restare indifferente: la filosofia del nostro tempo tira le conseguenze del passo iniziale compiuto dal pensiero greco, e le tira, appunto come avevo cominciato a dire prima, mostrando l’impossibilità d’ogni episteme e mostrando l’impossibilità di ogni contenuto eterno d’ogni episteme, di ogni struttura immutabile, di ogni ordinamento immutabile, di ogni dio. La morte di dio è una conseguenza necessaria del primo passo greco -e quel passo sarà da mettere in discussione- e poi, compiuto quel passo, allora la conseguenza inevitabile è la necessità di un mondo in cui, non esistendo nessuna verità assoluta, nessun dio immutabile, non esiste più alcun limite assoluto all’agire dell’uomo e dunque a quella forma suprema dell’agire dell’uomo che è la tecnica.

Se la tecnica ascolta questo discorso, e ci sono sintomi per cui questo approccio di tecnica e filosofia sta avvenendo, allora la tecnica può sprigionare quella quantità di potenza che non potrebbe sprigionare qualora si mantenesse all’interno dei limiti che la tradizione filosofica le impone assegnandole come scopi i grandi valori della tradizione.

 

Però potrebbe darsi che non la filosofia ma le scienze comportino questa consapevolezza e la amplino, e che dunque ciò che oggi chiamiamo “filosofia” sia destinata a restare per lo più superflua o inascoltata finanche da parte di quella tecnica, che non ne ha più bisogno per accertare la propria potenza.

Severino: Se la filosofia, che finora è stata il fondamento dell’utilità e della praticità - fondamento perché ha stabilito la configurazione dell’ente sulla base della quale soltanto è possibile un dominio e una manipolazione dell’ente stesso, quella configurazione dell’ente per la quale l’ente è oscillante tra l’essere e il niente - essenziale del sapere dell’Occidente, e oramai del pianeta, allora quella domanda vuol dire: è possibile un filosofare che non abbia questo carattere di praticità che normalmente viene invocato come ciò che mancherebbe alla filosofia tradizionale? Noi stiamo invece rovesciando questo discorso: purtroppo la filosofia ha sempre avuto non solo questo carattere di praticità, ma è stata fondamento di questo carattere. E allora la domanda può significare: è possibile un filosofare al di fuori di quella pragmaticità che coincide con la fede nichilistica nell’annientamento e nella creazione dell’essere? Se allora la coscienza pura significa la coscienza che sa l’eternità di ogni essente, di ogni stato dell’essente, allora la filosofia come coscienza pura è l’unica filosofia possibile. Il filosofare non può che essere il riconoscimento di quell’eternità che include anche l’eternità della volontà di modificare le cose, ché anche la volontà che guida la storia dell’Occidente, in quanto essente, è un eterno, e in quanto eterno appartiene alla natura di tutti gli enti eterni. Quindi, la coscienza dell’eternità di tutte le cose è anche la coscienza dell’eternità del nichilismo della volontà che crede di potere modificare le cose. Ma tutto questo è all’interno della coscienza dell’immodificabiltà di qualsiasi aspetto dell’essente.

 

La filosofia analitica contemporanea appare spesso dominata da un tipo di presupposto direi ingenuamente realistico, sembra cioè che essa non sia all’altezza del pensiero contemporaneo. Secondo lei questo atteggiamento è il risultato di fattori contingenti (ignoranza, superficialità, dogmatismo, malafede) ed è dunque destinata a lasciare il posto ad una consapevolezza maggiore, oppure ha radici negli stessi esiti della filosofia contemporanea? In che senso i nuovi realismi che si stanno affermando sono eredi del pensiero contemporaneo di cui abbiamo appena parlato?

Severino: Non tutta la filosofia analitica è così malconcia, ma certo ci sono degli esponenti che si trovano nella situazione che Lei ha descritto. Lei mi domanda da cosa è prodotto questo fatto. Direi innanzitutto dalla circostanza che la filosofia analitica si sviluppa in ambiente anglosassone, cioè in un ambiente, in un tessuto sociale, che è persuaso d’avere ormai in mano il senso e le sorti del mondo. Anche recentemente, un importante esponente del parlamento inglese ha detto che al mondo farebbe bene una forte terapia di senso della vita anglosassone: in una situazione di questo tipo è allora chiaro che si è convinti di non essere neppure culturalmente debitori al prossimo. In secondo luogo essa si mantiene in quei parametri culturali che sono più vicini al sapere scientifico, perché questo lo dobbiamo dire: se ci sono delle notevoli eccezioni del pensiero scientifico, per esempio la fisica quantistica, dove il realismo ingenuo è tutt’altro che una verità incontrovertibile e anzi è fortemente discusso – e un discorso analogo lo potremmo fare per la teoria della relatività - tuttavia nel suo insieme il sapere scientifico, sia delle scienze fisico-matematiche sia delle scienze biologiche, muove dall’assunto che la fuori c’è una realtà esterna che manda i propri messaggi ad una struttura percepente, recettiva, che reagisce in certi modi, producendo quel mondo di fenomeni che è il mondo che noi diciamo di vivere. È indubbio che l’ignoranza filosofica di un certo gruppo di filosofi analitici – ma salviamo Putnam, Searle oppure Rorty - si può allora spiegare sia per il clima culturale di egemonia del mondo anglosassone, ma anche per il sostegno di quelle forme scientifiche di tipo fisico-biologico, che sono sostanzialmente attestate all’interno di una concezione realista.

Certo che capita molte volte di vedere che, in questo clima culturale, si scopra l’acqua calda, e si lavori molto e spesso con molta fatica, per cercare di risolvere problemi che stanno al centro dello sviluppo moderno della filosofia europea.

 

L’idealismo è in grado di mostrare la contraddittorietà del concetto di cosa in sé, è un argomento che Lei cita spesso. L’altro dal pensiero in quanto posto, diviene per ciò conosciuto e quindi reintrodotto all’interno del pensiero. La filosofia idealistica è dunque il superamento delle posizioni ingenuamente realistiche. Ma la tesi che mostra incontrovertibilmente l’impossibilità di pensare l’altro dal pensiero è equivalente a quella che afferma l’impossibilità dell’altro dal pensiero? Non vi è uno scarto tra le due? Voglio dire: non resta il problema di escludere la possibilità che altro sia dato e dunque che il pensiero abbia limite?

Severino: Provo a rispondere a quello che ho capito, poi recuperiamo la domanda. Mi pare di leggere, in questa domanda, una cosa di questo genere: non possiamo attestarci sulle posizioni del realismo ingenuo ma l’idealismo, che è stato il principale operatore dell’eliminazione del realismo ingenuo, non ha a sua volta il compito di render conto del proprio fondo teorico? Con l’idealismo si giunge allo scopo del pensiero filosofico, o comunque è un punto di non ritorno, o anche l’idealismo deve compiere qualche operazione di chiarificazione?

 

Provo a riformulare: l’idealismo mostrerebbe la contraddittorietà del concetto di limite del pensiero, ma questa tesi non pare equivalente alla tesi che afferma l’impossibilità di una ulteriorità rispetto alla dimensione del pensiero/apparire. Essa afferma soltanto che il pensiero non può pensare il proprio limite: il pensiero non può infatti attestare il proprio limite senza con questo oltrepassarlo, neppure però può escludere di possedere limite. Oppure l’attestazione circa l’impossibilità di ogni attestazione dell’altro attesta anche l’inesistenza dell’altro in quanto tale (dove resterebbe tutta da indagare la natura di questa inesistenza, la quale forse, non è altro che il non-poter-attestare)?

Severino: Vediamo anche qui se ho capito. L’idealismo mostra la contraddittorietà di una cosa in sé che sia originariamente presupposta al pensiero: si parte cioè da una situazione in cui c’è un di là e un al di qua che deve muoversi per raggiungere quell’al di là. Allora, in relazione di quell’al di là l’eliminazione della cosa in sé è definitiva perché il concetto di cosa in sé è in quanto concetto di cosa non concettuale, non concepibile,

contraddittoria. Bene. Però quando per esempio parla Hegel - oppure Gentile - egli non dice che già tutto è noto: Hegel non sostiene l’onniscienza -in senso rigoroso- dell’uomo, ma l’ampliamento del sapere. Gentile, a sua volta, quando parla dell’ignoto -e ne parla per esempio nel Sistema di logica- non intende dire che non esista l’ignoto, e che quindi, anche qui, ci sia una forma di onniscienza, ma intende dire che anche l’ignoto sta dinnanzi nel suo essere noto come ignoto. Sicché se è impossibile il tragitto che conduce dal pensare a una cosa in sé originariamente presupposta come altro, se quindi questo tragitto è impossibile perché quella cosa in sé non può esistere, è invece possibile all’interno del pensare -dell’apparire-il determinarsi progressivo di quella dimensione dell’ignoto che, per ora, è presente prevalentemente nel suo carattere di essere ignoto. É possibile, dunque, un determinarsi dell’ignoto. Gentile non si impegna in questa determinazione perché si accontenta di stabilire che il più ignoto degli ignoti è pur sempre manifesto, però, se vogliamo fare un qualche passo oltre Gentile, è allora utile - permettetemi - richiamare quel mio testo chiamato La Gloria dove si mostra la necessità che la totalità, già da sempre esistente - eterna, si faccia indefinitamente avanti concretando quelle dimensioni che per ora potremmo chiamare dimensioni ignote.

 

Il Destino d’altronde non può essere sorpreso ché altrimenti non sarebbe Destino. Se però esso non riesce a escludere la possibilità che l’assolutamente altro irrompa e contraddica il Destino? Voglio dire: se il discorso è in grado di escludere la possibilità per sé della cosa in sé come limite o ulteriorità del pensiero come potrà escludere la possibilità dell’esistenza in sé della cosa in sé? Detto altrimenti: nel Suo discorso, attraverso la confutazione idealistica della cosa in sé, è indicata l’impossibilità che l’altro dal pensiero sia posto ma non è posta l’impossibilità dell’altro in quanto tale, bensì soltanto della sua posizione. Sicché non è esclusa l’esistenza dell’altro. Essa sembrerebbe quindi possibile come ciò che non può essere posto ma neppure escluso. Non è forse questo il limite del pensiero, di non poter sapere il proprio limite?

Severino: Primo. L’idealismo appartiene al nichilismo, ed è una delle forme più radicali del nichilismo perché il contenuto del pensiero è un contenuto posto. È vero che non si deve confondere l’idealismo con quella pazzia per la quale il pensiero degli individui produce gli oggetti, però il pensiero trascendentale è la condizione senza di cui l’oggettualità sarebbe nulla. Quindi è l’atto del pensiero l’atto che produce l’ente, ma è chiaro che per l’idealismo -soprattutto per Gentile- non v’è prima una forma vuota pensante che poi produce l’essere. No! La forma è originariamente produttrice dell’essere. Ed è in questo che si mostra il carattere essenzialmente nichilistico dell’idealismo.

Secondo. Cosa significa l’assolutamente altro? Quel che chiamiamo filosofia è filosofia perché fonda le proprie affermazioni, e dunque l’assolutamente altro può essere definito come la possibilità di una dimensione che neghi la struttura del Destino. Questo è uno dei significati forti dell’assolutamente altro. Ma la risposta qui è altrettanto forte, perché la struttura è del Destino proprio in quanto è la negazione della possibilità di una qualsiasi dimensione che neghi tale struttura. E qui è l’elenchos, l’elenchos è appunto mostrare come la negazione, in quanto negazione del Destino è autonegazione. Ma l’affermazione, sia pure sotto forma di possibilità di un’assolutamente altro è una forma di negazione della struttura del destino. Allora, come possibilità è esclusa.

 

Desideriamo insistere ancora sul punto precedente ma vorremmo formulare la questione in termini diversi: in Essenza del nichilismo Lei formula la seconda figura dell’elenchos. A tale proposito, viene prospettata l’obiezione che ipotizza la parzialità del PDNC, che cioè una in-determinabile regione dell’essente resti non regolata dal principio. Immaginiamo che tale alterità sia posta nei termini della mera possibilità.

Severino: L’assolutamente altro è l’assolutamente altro o è anche l’assolutamente questo? Chi afferma l’assolutamente altro, tiene fermo l’essere l’assolutamente altro dell’assolutamente altro o è disposto a riconoscere che l’assolutamente altro è questo? Se egli è l’amico dell’assolutamente altro, allora deve tenere fermo l’essere assolutamente altro dell’assolutamente altro e il suo non essere il “questo mondo”, il “questa dimensione”. Quando si riconosce questo - a meno che non si voglia affermare che l’assolutamente altro non è l’assolutamente altro - allora che l’assolutamente altro sia l’assolutamente altro è il suo essere sé stesso. E questo suo esser sé stesso è la presenza di quel questo la cui essenza è il Destino, essendo il Destino proprio l’esser sé dell’essente, quell’esser sé dell’essente che è così trascendentalmente presente da costituire anche l’essere assolutamente altro da parte dell’essere assolutamente altro.

 

Vorremmo ora porgerLe una domanda relativa al tema del divenire. All’interno del Suo discorso è formulato in termini rigorosi il modo con il quale occorre interpretare lo spettacolo del cangiamento ed è contestata la fede nel divenire come divenir altro, ma non è interrogata la persuasione che appaia effettivamente un cangiare degli spettacoli. In che senso il divenire - pur se non nichilisticamente inteso - si costituisce come un’evidenza originaria all’interno del Suo discorso? Lo spettacolo attuale può non coincidere con il tutto solo se il divenire sa tenersi fermo oltre l’interpretazione, cosa che forse è possibile mettere in discussione o no?

Severino: La direzione di questa domanda è allora quella di una tesi che sostiene la coincidenza tra apparire attuale e totalità sempliciter dell’apparire?

 

Sì, e che anche il divenire, che pure appare in qualche modo, sia, in realtà, l’apparire di un positivo significare...

Severino: ...e che l’affermazione del divenire non nichilistico sia una interpretazione.

 

Esatto, perché anche il divenire fenomenologico, come gli altri divenire ontologici, deve richiedere la necessità di un permanente, ché altrimenti lo spettacolo sarebbe un immediato. Il risultato sarebbe un immediato laddove nulla permanesse come identico.

Severino: La domanda contiene davvero molti temi. Proviamo allora a scomporla partendo da qui in fondo. Quando si parla di elenchos - e per lo più noi abbiamo parlato in questo senso di elenchos - della negazione dell’identità, della confutazione dell’esser sé dell’essente, ma si deve parlare di elenchos anche per la negazione dell’apparire dell’essente, e cioè: in base a cosa si esclude la negazione che esista questa sfera di marmo qui sul tavolo? Che inconveniente concettuale c’è nel dire “questa sfera di marmo rosso non esiste”? Se ci ricordiamo della struttura dell’elenchos della negazione dell’identità, allora la struttura è analoga: la negazione che qui sul tavolo ci sia questa sfera di marmo è negazione solo se questa sfera appare, ché se non apparisse non ci troveremmo di fronte ad una negazione del Destino, ma ad una affermazione valida del Destino. Dunque la negazione di un contenuto che appare presuppone necessariamente, per essere negazione di quel contenuto e non di altro, l’apparire di quel contenuto, e cioè presuppone ciò che la negazione nega. Quindi ecco che la negazione si costituisce come negazione solo in quanto essa include ciò che essa nega. Ora, quando si afferma il divenire in senso non nichilistico degli essenti - e per esempio il divenire costituito dal movimento della mia mano - dobbiamo rispondere al perché la negazione di questo divenire è autonegazione. E la risposta è perchè anche qui la negazione di questo divenire è negazione solo in quanto questo divenire appare, giacché se non apparisse non avremmo a che fare con una negazione del divenire in senso non nichilistico. Ed allora anche qui la negazione presuppone, si fonda, su ciò che essa intende negare. È per questo che il senso non nichilistico dell’apparire è un innegabile e non è una interpretazione.

 

Eppure non c’è divenire senza permanente; come è possibile che permanga qualche cosa nell’apparire, quando il cangiamento di una parte dell’apparire comporta il cangiamento di tutto ciò che appare?

Severino: Ecco, questa è la premessa che non va. Perché se il cambiamento di un elemento dell’apparire implicasse il cambiamento di tutto, non potremmo parlare di divenire.

 

Ma com’è può non implicarlo. In Tautótēs Lei afferma che non si può considerare l’identità come astratta dalla parte, ché altrimenti si genererebbe un regressus, e ciò è detto appunto affermando che l’identità trascendentale dell’essente contiene anche se stessa. Se si considerasse allora il cambiamento di una parte, e questo cambiamento di una parte non cambiasse la totalità, allora l’essente sarebbe considerato come isolato dal tutto, e cioè come identico al proprio altro.

Severino: Non vedo contraddizione. La conseguenza di un dire del genere sarebbe che non potrebbe apparire il divenire, perché il divenire appare solo se l’elemento cangiante - innovante - è cangiante solo rispetto a qualche cosa. Ma se il qualche cosa è totalmente cambiato con l’intervento dell’elemento cangiante - se tutto è cambiato - allora non c’è un sopraggiungere su qualcosa, ma c’è l’apparire di qualcosa che non può essere nemmeno presente come diverso da quello che c’era prima, proprio perché se tutto è cambiato non c’è nemmeno il qualcosa che c’era prima.

 

Dunque come è possibile che qualcosa permanga se al mutare del diveniente mutano i nessi?

Severino: Ma allora lei deve impostare la domanda facendo appello a quello che io chiamo “principio di relazione”, e in questo senso io la interpreto così: dato che sin dalla Struttura originaria si sostiene che un significato in un contesto non è quello stesso significato in un contesto diverso, allora il permanere sembra che implichi che un significato si mantenga identico nonostante la variazione del contesto. Ho interpretato in maniera esatta?

 

Esattamente.

Severino: Il modo specifico in cui considero questo problema si trova certo nella Struttura originaria , ma anche negli Studi di filosofia della prassi. Ma questa è un’intervista, e non un saggio teoretico, e dunque permettetemi di rispondere così: l’aporia sorge perché dopo aver detto che il significato in un contesto diverso non è più lo stesso, si ripropone a proposito di questo significato la situazione di isolamento che gli conveniva con l’insorgere dell’aporia. La struttura è analoga a quella in cui si diceva che, se la struttura predicativa è non A=B ma (A=B)=(B=A), non si può prendere il primo A=B, isolandolo dalla sequenza totale, riproponendo a proposito di esso quella considerazione in basa alla quale la vera struttura predicativa non è A=B, ma (A=B)=(B=A). Allora le aporie di questo tipo si generano a causa dell’isolamento in cui la determinazione considerata viene trattenuta e dalla ripetizione di questo isolamento a proposito del risultato che emerge con il risolvimento dell’aporia. Però io con questo ho solo dato una indicazione formale.

 

E dunque si intende astrattamente l’essente dal suo incominciante apparire.

Severino: Incominciamo a dire che il permanente in quanto permane in un contesto diverso deve variare di significato, ma non può totalmente variare - questo è ciò che dicevamo prima - e quindi riconosciamo certamente la variazione del significato permanente, ma neghiamo la totalità della variazione, ché altrimenti non potremmo più parlare di divenire. Si rifiuta allora il teorema secondo il quale un significato in contesti diversi varia, ma dire ciò non significa dire che questo teorema impone la variazione totale del significato, perché la conseguenza, di questa variazione totale, sarebbe il non avere a che fare con l’innegabile divenire, ma con uno spettacolo fisso dove non ci sarebbe permanenza.

 

Sarebbe il caso a questo punto di tornare sull’articolazione concreta della struttura predicativa perché mi pare che l’esito del discorso dipenda dalla struttura della tautologia, ma abbiamo già abusato abbastanza del Suo tempo e quindi La ringraziamo della disponibilità che ci ha voluto concedere.


* Da Lo Sguardo - rivista di filosofia - ISSN: 2036-6558 - N. 15, 2014. In memoria di Emanuele Severino, recentemente scomparso.

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Alfonso
Sunday, 09 February 2020 15:31
Sarebbe opportuno ricordare ai lettori che Severino non è più dal 17 gennaio 2020. Grazie
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