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poliscritture

Felice Cimatti: “Cose. Per una filosofia del reale”

di Donato Salzarulo

Cimatti1.- Questo non è il libro del momento. Non è Spillover. Aspettava di esser letto da più di un anno. Pazientemente in fila, fra tante pile di libri da leggere. Non è del momento ma qualcosa ha a che fare con questo momento. C’è chi vorrebbe dare la parola alle Cose. E il virus cos’è?… Avete notato che ho tirato in ballo “cosa” per cercare di definirlo?…Le cose ci assediano. Sono dappertutto. Usiamo cose (scarpe, pantaloni, occhiali, computer…) e mangiamo cose (pasta, riso, pane…). Noi stessi, in ultima istanza, siamo atomi di cose (acqua, carbonio, azoto, calcio, potassio, fosforo…).

Dare la parola alle cose?!… Come è possibile? Le cose non parlano.

Ci sono scrittori, artisti, poeti che hanno cercato, però, di mettersi dal punto di vista delle cose. In un certo senso di farsi cosa, diventare cosa.

A scuola quasi tutti abbiamo letto quella poesia su Natale di Ungaretti che, avendo tanta stanchezza sulle spalle (era in temporanea licenza dalla guerra), invita i suoi lettori a lasciarlo così «come una / cosa / posata / in un / angolo / e dimenticata». Certo, questa è soltanto una similitudine. Ma la “cosa” è tirata in ballo perché soddisfa il bisogno di solitudine del poeta e il desiderio paradossale di non avere più desideri, voglie, timori. Una pulsione di morte, direbbe forse uno psicanalista, che copre un desiderio di nuova nascita (questa poesia, cielo santo, s’intitola Natale!). Però a me interessa l’uso della parola “cosa” che sembra perdere la sua tradizionale connotazione negativa (come quando diciamo: «non sono mica una cosa!») e si fa, per così dire, oggetto di desiderio.

 

2.- Di tutt’altro tenore e prospettiva è, invece, un racconto di Primo Levi tratto da «Il sistema periodico», un suo libro del 1975. È dedicato a un atomo di carbonio, quando se ne conosceva l’esistenza, ma non esistevano ancora tecniche per “vederlo”. Ciò accadrà pochi anni dopo col microscopio a effetto tunnel. Il suo sviluppo nel 1981 fruttò ai suoi inventori, i fisici Gerard Binning e Heinrich Rohrer, il premio Nobel per la fisica nel 1986.

Su questo racconto richiama l’attenzione Felice Cimatti nella Premessa del suo libro «Le cose. Per una filosofia del reale» (Bollati Boringhieri, 2018, pp. 200, euro 19), le cui pagine sto leggendo e rileggendo molto lentamente in questi giorni di quarantena. Veramente è qualcosa di più di un’attenzione. È partecipazione, condivisione piena dei contenuti di pensiero proposti implicitamente da Levi, tanto da ritenere la propria opera un «omaggio filosofico a questa storia».

Il racconto si intitola «Carbonio». Le citazioni sono contenute nel libro del filosofo.

«Il nostro personaggio giace dunque da centinaia di milioni di anni, legato a tre atomi d’ossigeno e ad uno di calcio, sotto forma di roccia calcarea: ha già una lunghissima storia cosmica alle spalle, ma la ignoreremo. Per lui il tempo non esiste, o esiste solo sotto forma di pigre variazioni di temperatura, giornaliere e stagionali, se, per la fortuna di questo racconto, la sua giacitura non è molto lontana dalla superficie del suolo. La sua esistenza, alla cui monotonia non si può pensare senza orrore, è un’alternanza spietata di caldi e di freddi, e cioè di oscillazioni (sempre di ugual frequenza) un po’ più strette o un po’ più ampie: una prigionia, per lui potenzialmente vivo, degna dell’inferno cattolico. A lui, fino a questo momento, si addice dunque il tempo presente, che è quello della descrizione, anziché uno dei passati, che sono i tempi di chi racconta: è congelato in un eterno presente, appena scalfito dai fremiti moderati dell’agitazione termica.» (pag. 9)

Primo Levi si sforza d’immaginare per quest’atomo di carbonio una strana vita che non è quella nostra, biologica, anche se s’intreccia con essa in molti modi. È un piccone in mano ad un uomo, infatti, a staccarlo con un colpo e ad avviarlo verso un forno a calce, «precipitandolo nel mondo delle cose che mutano». Abbarbicato a due atomi di ossigeno esce dal camino e prende la via dell’aria. Dopo aver viaggiato col vento per otto anni, incappa in un filare di viti ed ha la fortuna di entrare, grazie al sole, in una foglia. Qui, separato dal suo ossigeno e combinato con idrogeno e fosforo, viene inserito nella catena della vita.

Col lento passo dei succhi vegetali risale dalla foglia al picciolo, dal picciolo al tralcio, dal tralcio al tronco e di qui discende in un grappolo quasi maturo. L’atomo diventa vino e finisce nel fegato del suo bevitore come alimento di riserva per uno sforzo improvviso. Quando l’uomo lo fa, l’atomo corre in una fibrilla muscolare a spaccarsi in due molecole d’acido lattico; qualche minuto dopo l’ossigeno, procurato dai polmoni, lo ossida e, come molecola d’anidride carbonica, ritorna di nuovo nell’aria, ancora alla mercé del vento.

Questa volta Eolo lo porta in un tronco di cedro del Libano. Dopo vent’anni se lo mangia un tarlo che s’impupa e si trasforma in farfalla. Lui è là, in uno dei mille occhi dell’insetto. Questo, fecondato, depone le uova e muore. Ora il piccolo cadavere giace nel sottobosco, ma la corazza di chitina resiste a lungo, quasi indistruttibile.

«La neve e il sole ritornano sopra di lei senza intaccarla: è sepolta dalle foglie morte e dal terriccio, è diventato una spoglia, una “cosa”, ma la morte degli atomi, a differenza dalla nostra, non è mai irrevocabile. Ecco al lavoro gli onnipresenti, gli instancabili ed invisibili becchini del sottobosco, i microrganismi dell’humus. La corazza, coi suoi occhi ormai ciechi, è lentamente disintegrata, e l’ex bevitore, ex cedro, ex tarlo ha nuovamente preso il volo.» (pag. 12)

Ultima tappa: finisce in un bicchiere di latte; bevuto e digerito, bussa alla porta di una cellula nervosa; questa cellula è parte del cervello dello scrittore e l’atomo partecipa al suo scrivere, fino ad aiutarlo a mettere un temporaneo punto alla storia.

 

3.- Le chiavi di lettura di questo racconto sono molteplici. La più semplice: siccome lo scrittore era un chimico, ci vuol far capire che il carbonio è un elemento essenziale alla vita. È l’unico atomo presente in tutte le molecole organiche. Ha una sua particolare plasticità e versatilità chimica: infatti transita facilmente tra i vari “regni”: da quello minerale a quello vegetale a quello animale. In un uomo di 70 chili, circa 14 sono di carbonio…

Però, proprio in questi giorni, mezza umanità è chiusa in casa (per chi ce l’ha) e parecchi rischiano di lasciarci le penne per un virus che non sappiamo in quale “regno” collocare. Roberto Burioni l’ha paragonato a una nano bistecca. Cioè a del materiale organico che diventa attivo se lo mangiamo.

Il fatto è questo: non sappiamo se abbiamo a che fare con un organismo vivente, non vivente o vivente-non vivente. Come a Cartesio a noi piacerebbero le idee chiare e distinte. Ecco, caro Cartesio, non sempre è possibile. Primo Levi col suo racconto vuol farci capire proprio questo: non è facile definire i confini della “vita”; forse anche un atomo di carbonio può avere la sua storia e la sua “vita” che non coincide con quella biologica, ma è, comunque, una qualche vita.

Cimatti, il filosofo, infatti, si domanda:

«Per quale ragione, in effetti, l’unica vita che conosciamo dovrebbe costituire il paradigma per tutte le possibili vite nell’universo? Quella che Levi ci sta implicitamente proponendo è una nuova ontologia, allo stesso tempo scientifica e mistica, non più basata sulla distinzione fra vita e non vita. In questa ontologia, centrata sulla cosa, prima di tutte le “nostre” distinzioni, ci sono solo possibilità di combinazioni» (pag. 9)

In questa ontologia “vita” significa soltanto “modo d’esistenza”: in quali forme si presenta il carbonio, come si combina, come prende parte agli accadimenti del mondo…Le cose non hanno la preoccupazione di distinguersi tra di loro. Questo lo facciamo noi: prima distinguendoci dalle cose, che vorremmo sempre a nostra completa disposizione (salvo svegliarsi una mattina contagiato da una cosa-non cosa che chiamiamo virus), poi riducendo a cose un bel po’ di persone (ricordate il pensiero di Aristotele sugli schiavi? Per lui erano “cose”), e, infine, riducendo a cosa il nostro corpo perché destinato a morire e a scomporsi, mentre l’anima, la ragione quella sì che rimane immortale.

Insomma, le cose ci riguardano perché non sembrano confinate in un regno a parte.

«Il mondo, questo mondo di cui parla Levi, non è un mondo di cose, è piuttosto un mondo democriteo di relazioni, urti, scontri, carezze fra le cose. L’atomo di carbonio è quello che gli succede; la sua identità, quella identità che tanto ci appassiona e preoccupa, non è altro che tutto quello a cui in qualche modo partecipa.» (pag. 10)

Prima era pietra, poi aria e vento, successivamente foglia, grappolo d’uva, bevitore; quindi di nuovo aria, vento, tronco di cedro, tarlo, farfalla…in sempre nuove combinazioni, trasformazioni, relazioni. Si desidera ciò che ci manca. Ma l’atomo di carbonio non ha desideri simili. La sua storia è sempre piena, è un divenire continuo, un incessante approdare a nuovi corpi, condizioni, concatenazioni.

 

4.- Da questo racconto di Levi, Cimatti sembra trarre ispirazione per una nuova “filosofia del reale”, una nuova ontologia centrata su concetti come “relazioni”, “eventi”, “campo”. Nel primo capitolo lo fa confrontandosi, innanzitutto, con gli esponenti del “realismo speculativo” (Meillassoux, Brassier. Bogost, Bryant, Harmann, ecc.), filosofi che vorrebbero superare giustamente l’orizzonte umanistico e dare al mondo e alle cose tutto lo spazio che meritano; però, vorrebbero farlo senza la nostra ingombrante presenza. Come è possibile?

«Il sogno del realista è che le cose parlino da sole, senza la nostra mediazione. Ma questo, lo sappiamo, non è un sogno, è una illusione. Le cose, se le lasciamo stare, non parlano, anzi, una primissima definizione della cosa potrebbe proprio essere: la cosa è ciò che non parla, né di sé né di altro. La cosa è radicalmente muta.» (pag. 18).

Vedere qualcosa come qualcosa è già un’operazione concettuale.

Il mondo esiste fuori di noi e senza di noi. Esisteva prima della nostra comparsa sulla superficie terrestre ed esisterà anche quando non ci saremo più. Ma quando si pongono problemi di “realismo” o di “antirealismo”, questi si pongono soltanto all’interno della condizione umana e della sua soggettività. «Un gatto non è realista perché non è nemmeno antirealista. Il gatto esce a cercare il topo, e tutta la faccenda finisce qui.» (pag. 20). Considerare invece le sfere della soggettività e dell’oggettività come indipendenti l’una dell’altra – sogno dei realisti – è impossibile. Tra le due sfere vi è correlazione.

Il correlazionalismo, posizione fatta propria da Cimatti, «è del tutto compatibile con l’oggettività della conoscenza, e la reale e autonoma esistenza delle cose. Quello che il correlazionalismo sostiene è che il modo di stare al mondo di ogni vivente è commisurato al suo apparato sensoriale e cognitivo (i suoi “occhiali” naturali, per capirci). Quindi le cose del mondo, che sono del mondo e non del soggetto che le percepisce, sono contemporaneamente le cose del mondo così come le può percepire e pensare un animale umano.» (pag. 21).

 

5.-Mettersi dalla parte del mondo e della natura in tempi di crisi ecologica (e di pandemia) è un’esigenza quanto mai sentita ed urgente, ma non lo possiamo fare al di fuori di questa correlazione. I “realisti speculativi” che vorrebbero sfuggire totalmente a questo intreccio inseparabile di oggetto-soggetto-oggetto, non prestando la necessaria attenzione al tema fondamentale del linguaggio, rimangono prigionieri dell’orizzonte umanistico che vorrebbero superare. Non si toglie, infatti, centralità all’uomo se si diventa propugnatori di una “ontologia cosale” che non tiene conto delle “metafisiche influenti” (credenze, concetti, frammenti di conoscenza, intuizioni) che il linguaggio inevitabilmente porta con sé, essendo una delle forme fondamentali della soggettività umana. E, fino a prova contraria, i “realisti speculativi”, quando scrivono i loro pensieri e le loro dichiarazioni filosofiche, sono uomini e donne come tutti noi.

Le parole insieme ai sensi sono un po’ i nostri “occhiali” naturali. Per noi le cose diventano importanti se gli diamo un nome. Si pensi tanto per fare un esempio al nostro odioso Coronavirus di questi giorni. Il SARS-CoV-2 probabilmente era ospitato nei corpi dei pipistrelli (o di qualche altro animale) anche prima; ma solo quando ha compiuto il “salto di specie” sono partite le operazioni conoscitive per isolarlo, identificarlo e dargli un nome. Vedere è già un fare, costruire una relazione. La scienza, in fondo, fa con metodi e strumenti raffinati, ciò che ognuno di noi fa più o meno rozzamente quando compiamo le nostre operazioni conoscitive.

Tutto giusto. Nel momento in cui sappiamo che è il SARS-CoV-2 a minare i nostri polmoni, la comunità degli scienziati e i vari laboratori in funzione potranno lavorare alla messa a punto di un vaccino e di eventuali terapie antivirali per combatterlo e neutralizzarlo.

Qualcuno, se riflette filosoficamente su questa vicenda, potrà mai pensare che gli scienziati, dando una sigla al Coronavirus, conoscendo e studiando le sue proprietà, lo abbiano inventato?…Ovvio che no. Conoscere una cosa non significa crearla. I realisti hanno ragione: la gnoseologia è altra cosa dall’ontologia. Ma si può fare l’una senza l’altra? Cimatti crede di no. I realisti, invece, pensano che si possa fare.

 

6. – Pagina dopo pagina, la strada che prende il pensiero di Cimatti appare, a questo punto, abbastanza chiara. Ad un’”ontologia delle cose” sostenuta dai realisti speculativi contrappone un’”ontologia delle relazioni”. Il mondo non è una collezione di cose, separate da noi. Se continuiamo a pensare che l’essere umano con la sua soggettività è in qualche modo separato dal mondo nella sua oggettività, non riusciremo ad uscire dalla riproposizione di un umanesimo che continua a mettere al centro l’uomo come signore, se non dell’universo, del pianeta Terra.

Non è secondario il modo di pensare il mondo e la nostra posizione al suo interno. Noi ne siamo parte allo stesso titolo di un albero, una rondine, una nuvola o un pericoloso coronavirus. Non possiamo considerare Natura solo ciò che ci appare bello o ci torna utile. L’utilità non è la nostra unica relazione possibile. Il mondo non è un insieme di cose, è un tessuto unitario, continuo, stratificato di relazioni dinamiche. Il cambiamento è la sua materia prima.

«L’ontologia che si sceglie – scrive Cimatti – non è indifferente sul piano etico. Il punto in questione, allora, è un’ontologia relazionale, un’ontologia in cui chi parla del mondo è un ente mondano esattamente allo stesso titolo di una cavalletta o una sera di pioggia.» (pag.35)

Tutti sono “modi di esistenza” del mondo, un concetto questo che, come abbiamo visto col racconto di Levi, un po’ sostituisce e un po’ amplia quello di “vita”.

Quanto al concetto di “natura”, Cimatti condivide l’impostazione di Alfred North Whitead e si fa guidare nelle sue riflessioni da un libro che mi piacerebbe leggere intitolato «Il concetto della natura». Ad esergo del primo capitolo riporta una citazione estremamente importante e quanto mai orientativa nella situazione attuale:

«Ammetto che la visione della natura da me sostenuta non è semplice. La natura vi appare come un sistema complesso i cui fattori riusciamo a distinguere solo torbidamente. Ma, io domando, non è proprio questa la verità? Non dobbiamo diffidare della baldanzosa sicurezza con cui ogni età si vanta di avere finalmente trovati i concetti ultimi, che permettono di esprimere in formule quanto accade? Il compito della scienza sta nel cercare le spiegazioni più semplici dei fatti complessi; ma è facile cadere nell’errore di credere che i fatti stessi siano semplici, poiché la semplicità è la meta della nostra ricerca. Il motto di ogni filosofo della natura dovrebbe essere: “Cerca la semplicità e diffida di essa”.» (pag.17)

Ecco la differenza fra uno scienziato (biologo, virologo, fisico…) e un filosofo della natura. Costui sa che compito dello scienziato è “cercare le spiegazioni più semplici dei fatti complessi”, ma trovata la “semplicità” non si può compiere l’errore di pensare che i fatti siano semplici; meno che meno che la “natura” sia semplice. Tutt’al contrario. La natura è “un sistema complesso i cui fattori riusciamo a distinguere solo torbidamente”. Ricordiamoci di questa citazione, quando pretendiamo dagli scienziati bacchette magiche o chissà cos’altro. No alla “dittatura dell’ignoranza”, ma anche no alle semplificazioni, al credere che tutto possa essere riposto nelle mani del più onesto e competente esperto. I filosofi dovrebbero parlare di più in questi giorni e, salvo poche voci, li vedo balbettare sulla debolezza e fragilità umana come se avessimo avuto bisogno del Coronavirus per scoprirlo e ricordarcelo. Siamo immersi da anni in una crisi ecologica e planetaria che richiede nuove risorse di pensiero per affrontarla.

 

7.- Per mettere a punto la sua “ontologia relazionale”, oltre a Whitead, Cimatti ricorre al pensiero di Henry Bergson per il concetto di “evento” (o “durata”) e alla fisica per il concetto di “campo”.

Il mondo è caratterizzato, come si diceva sopra, dalla continuità dei processi, dal suo flusso ininterrotto e stratificato, dalla sua “evoluzione creatrice”. La “durata” è una porzione qualunque di questa continuità. L’”evento”, altro nome della durata, è il semplice «fatto che qualcosa avviene». Per intenderci ciò che sta accadendo è un evento (abbastanza traumatico e tragico), di durata non ancora ben definibile, ma è soltanto una porzione di questa continuità del mondo-natura. I poeti vorrebbero che la primavera partecipasse al nostro dolore e, magari, magnolie, forsizie, margherite ed occhi della madonna si mettessero a piangere con noi i nostri morti, ma nulla da fare “il mondo continua” e quasi ci fa rabbia questa indifferenza ai nostri drammi. Per scrivere versi simili, però, i poeti devono spostare gli sguardi dalle file delle bare, viste in televisione, o degli scafandri di medici e infermieri impegnati a fronteggiare la minaccia, al prato o al parchetto intravisto dalla finestra. Sguardi richiamati dalla magnolia appunto che ci domanda ammirazione o dal cespuglio di forsizie che col suo giallo solare vorrebbe illuminare i nostri occhi. Eventi che accadono, relazioni, durate più o meno lunghe o brevi nel flusso stratificato del mondo.

Scrive Cimatti:

«Un’ontologia basata sull’”evento” è un’ontologia che fin dall’inizio mi scaraventa dentro il mondo, cosa fra cose, vita fra altre infinite possibilità di vita, senza gerarchie né punti di vista privilegiati. […] Il mondo, come un movimento infinitamente stratificato, è sempre e solo lo stesso mondo, sia quello “vivente” che quello inorganico, differenze che valgono solo per una certa scala di grandezza, ma che svaniscono se si prendono in considerazione relazioni diverse, su scali più grandi o più piccole. In un mondo di questo tipo il posto dell’umano è un posto come qualunque altro.» (pag.36)

Un mondo così è caratterizzato dalla relazione e dalla connettività. “Separazione”, “atomo”, “individuo” sono concetti astratti, nel senso che sono il risultato di processi di astrazione della nostra mente. Processi che ci caratterizzano, che producono riduzioni di complessità, semplicità, individuazione di fattori, variabili più o meno dipendenti; ma che non ci aiutano a capire il mondo.

 

8.- “Campo” è il concetto fisico equivalente a quello biologico di “evento”. Occorre pensare al “campo” in senso letterale: uno spazio di terreno pieno di vita con erbe, fiori, alberi, uccelli, insetti. Il campo riceve luce e calore dal sole, la pioggia lo innaffia, gli organismi viventi gli forniscono il concime. «Il campo, in questo senso elementare, è vivo, vivo della vita di chi ci vive, che a sua volta vive della vita del campo. Il campo, appunto, non è una cosa, nel senso di una entità isolata, e descrivibile come entità autosufficiente» (pag. 39)

Secondo il fisico Carlo Rovelli, citato da Cimatti, il “campo” in fisica non è molto diverso da quello che coltiva un contadino: è «una gigantesca ragnatela invisibile» (pag. 39). Il mondo è questa ragnatela, questo evento che evolve, questa trama spazio-temporale in cui le entità (viventi, non viventi, viventi-non viventi, cose, energia, ecc.), che noi proviamo a pensare separate, si mischiano e confondono. Noi siamo in questa ragnatela. Quindi non il mondo fuori di noi e noi, romanticamente, su una vetta alpina abissale ad osservarlo. Noi siamo immersi nel mondo. Tessiamo relazioni, lavoriamo, vibriamo, camminiamo, amiamo, moriamo. Siamo parte di mondo. Anche un sasso vibra, se lo guardiamo in dettaglio con lo sguardo di uno studioso di meccanica quantistica.

Ecco cosa scrive Rovelli, citato sempre da Cimatti:

«Un sasso è un vibrare di quanti che mantiene la sua struttura per un po’, come un’onda marina mantiene un’identità prima di sciogliersi di nuovo nel mare. Che cos’è un’onda, che cammina sull’acqua senza trasportare con sé nulla se non la propria storia? Un’onda non è un oggetto, nel senso che non è formata da materia che permane. E anche gli atomi del nostro corpo fluiscono via da noi. Noi, come le onde e come tutti gli oggetti, siamo un fluire di eventi, siamo processi che per un breve tempo sono monotoni…»

Come si fa ad ingaggiare guerre in nome di “identità” (le nostre) che hanno durate un po’ più lunghe di quelle delle onde?…Come si fa a pensare che qualcuno (singolo o popolo che sia) possa essere il “signore della Terra”?…Per quel breve tempo in cui siamo “monotoni” (anche in senso musicale) perché continuare con la monotonia delle guerre, della fame, delle disuguaglianze, delle ingiustizie?…Occorre un pensiero all’altezza del mondo, che sia capace di prendersi cura del mondo, custodirlo e conservarlo. Un “mondanesimo” al posto di un umanesimo vecchio o nuovo. Perché, non dimentichiamolo, siamo una piccola parte del mondo.

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