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Lo stato d’eccezione proclamato dal basso

Marco Scotini intervista Paolo Virno

Vorrei ripartire dal tuo testo Virtuosismo e Rivoluzione apparso nel lontano ‘93 sulla rivista «Luogo Comune» per affrontare quello strano soggetto politico che definiamo disobbedienza. Facendo seguito alla riflessione sulla «disobbedienza civile» di stampo liberale, e molto lontano da questa, proponevi allora un’idea di disobbedienza sociale (o di disobbedienza radicale) che sarebbe diventata una delle parole-chiave per identificare l’azione del movimento globale. Dopo quel tuo intervento (confluito poi nella Grammatica della moltitudine) altri contributi teorici rilevanti non mi sembra ci siano stati.

Per me il problema era quello di pensare a una forma di disobbedienza radicale, tale cioè da andare al nocciolo stesso della forma moderna di Stato. Non si trattava e non si tratta di disobbedire a una legge reputata ingiusta in nome di un’altra legge, di una legge più basilare o di una legge anteriore e più autorevole, come per esempio il dettato costituzionale. Questo naturalmente è possibile ma non è il nostro problema. Il nostro problema è corrodere quello stesso obbligo di obbedienza, ancora vuoto di contenuti, che precede le singole leggi e che sta alla base dell’istituzione dello Stato moderno. Come a dire: lo Stato si forma su un obbligo preventivo a obbedire alle leggi che verranno, quali che esse siano.

È una sorta di obbligo preliminare che si tratta di mettere in questione. In sostanza la domanda fondamentale per ogni riflessione sulle istituzioni politiche è: perché bisogna obbedire? Se si risponde a questa domanda dicendo «perché lo impone la legge» ci si condanna a un regresso all’infinito, nel senso che è fin troppo facile – a quel punto – chiederci: «Perché bisogna obbedire alla legge? alla legge che impone l’obbedienza?» e così via, naturalmente… Su che cosa si può fondare l’obbedienza? Su un’altra legge ancora? Ma non c’è termine a questo pensiero, non c’è un punto d’arrivo.

A suo modo questo è il problema di Hobbes (ma al posto di Hobbes non c’è nessuna difficoltà a leggervi Sarkozy, Blair, Monti), di un Hobbes tra virgolette, un Hobbes che indica in maniera approssimativa la statualità moderna e contemporanea. Egli scioglie questo problema dicendo «bisogna obbedire perché si esce dallo stato di natura». Nel momento in cui si esce dallo stato di natura e si forma una società politica lì occorre giuridicizzare la vita. Cioè giuridicizzare quella vita fatta di desideri, di abitudini, ecc. che esisteva prima e indipendentemente dallo Stato. Stato di natura questo vuol dire: una vita pregiuridica, non una vita animale. Quando la vita prende una forma giuridica, reinterviene quest’obbligo di obbedire che è preliminare alle leggi. Su questo Hobbes è molto chiaro, ci sono delle sue frasi nel De Cive e in altre opere in cui dice che l’obbligo di obbedienza in forza del quale le leggi sono valide precede ogni legge. Più chiaramente di così non si potrebbe dirlo. Allora il problema della disobbedienza da parte dei movimenti è quello di mettere in questione esattamente quest’obbligo preliminare e far riemergere quella vita pregiuridica che, a torto, si chiama stato di natura. «A torto» perché quando si dice stato di natura sembra di opporre la natura alla storia, l’istinto alla cultura in modo fuorviante e sbagliato. Dovremo pensare invece questa vita pregiuridica fatta di abitudini, linguaggio, opere, amicizia, conflitti, che non ha ancora una veste giuridica e alla quale si sottrae quell’obbligo preliminare che è vuoto di contenuto e obbedienza. Questo mi pareva che fosse (in termini ovviamente molto generali, schematici) la questione di allora. Ritengo che la disobbedienza (la disobbedienza dei movimenti, quella radicale) abbia qualcosa a che fare con lo stato d’eccezione. Cioè come se i movimenti, i poveri, gli sfruttati, coloro che non ci stanno, proclamassero una sorta di stato d’eccezione nel momento in cui disobbediscono. È interessante pensare a uno stato d’eccezione proclamato dal basso, anziché nel senso della dottrina politica per cui esso sarebbe una prerogativa del sovrano e dello Stato. Questo stato d’eccezione proclamato dagli oppressi attraverso la disobbedienza in fondo ricorda una pagina di Walter Benjamin che diceva «La tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di eccezione” in cui viviamo è la regola».


Hai sempre definito la disobbedienza come conditio sine qua non dell’agire politico della moltitudine. Oggi dopo il movimento Occupy e le insurrezioni Nordafricane e del MedioOriente, ti sentiresti ancora di affermare la stessa cosa?


Naturalmente penso di sì. È ben possibile che il termine disobbedienza non sia oggi il termine più adatto, quello più chiaro, perché anche le parole hanno una storia ed è probabile che su questa parola si siano depositati equivoci e incomprensioni. Ma ritengo che alla base di ogni esodo o intrapresa costruttiva della moltitudine ci sia questo momento di distacco dall’obbligo di obbedienza, ci sia questa disobbedienza fondamentale. Si può disobbedire su un punto (ad esempio a proposito dello smantellamento dell’assistenza sanitaria o su qualsiasi altra questione dei nostri giorni) però su quel punto far valere questa sorta di indipendenza dal patto preliminare di obbedienza. Come posso dire? Si può essere radicali proprio perché ci si sente autonomi da un impegno a obbedire alle leggi quali che siano, anche se questa disobbedienza si applica necessariamente all’uno o all’altro obiettivo, sull’uno o sull’altro terreno.


Se ancora recentemente Raffaele Laudani rileggeva la disobbedienza (e la sua storia) in senso destituente, la tua lettura è invece tutta focalizzata sulla sua dimensione costituente.


Penso che la disobbedienza sia il punto di partenza d’una prassi carica d’invenzione e che cambia gli scenari, rimescola le carte del mazzo con cui si sta giocando, addirittura lo cambia. Quindi la disobbedienza non è un atteggiamento liminare, nel senso di un punto d’arrivo – «c’è troppa ingiustizia su questo e dunque non obbedisco alla norma data» – al contrario è un incipit, è l’inizio di un movimento di distacco che consiste nel costruire diverse istituzioni. In fondo la disobbedienza è un punto di rottura con le istituzioni come le abbiamo conosciute dal Seicento in poi, nella forma dello Stato centrale, che è stato giustamente definito come il monopolio della decisione politica. Ecco che la disobbedienza rompe il monopolio dello Stato, ma è sempre un punto di partenza costituente, se vogliamo usare questo termine: costituente di istituzioni non più statali, di una sfera pubblica non più statale. Quindi quest’azione va concepita come carica di opere o grondante di positività, come accade nell’esodo, quello biblico. Si è ripetuto mille volte nella storia politica occidentale che nel disobbedire al faraone ti allontani, e allontanandoti (nel nostro caso naturalmente l’allontanamento non è né fisico né geografico), costruisci forme di vita. Naturalmente anche attraverso contraddizioni, mormorazioni nel deserto e lotte intestine di coloro che hanno intrapreso l’esodo e che tuttavia costruiscono istituzioni non più statali. Ora io credo che queste istituzioni non più statali, queste forme politiche di democrazia che si sottraggono al monopolio della decisione politica, in qualche modo dovrebbero far propri – è questo l’esito costituente della disobbedienza – alcuni aspetti che abbiamo sempre vissuto in negativo, come lo stato d’eccezione. Qual è il succo dello stato d’eccezione? In uno stato d’eccezione – che non sia proclamato dallo Stato, dal sovrano – le regole sono sospese, e si mostra che le regole non sono altro che fatti della vita che si sono per così dire cristallizzati, irrigiditi. Ogni norma ha un’origine empirica, ovvero: era un fatto che a un certo punto diventa un criterio regolatore per poi tornare a essere un fatto, mentre altri fatti possono diventare regole.

Ecco, questa reversibilità fra norma e vita e, viceversa, tra vita e norma è un po’ l’aspetto concettuale che costituisce lo stato d’eccezione. Se dovessi immaginare delle istituzioni non più statali (che sono il bottino, la posta in palio della disobbedienza radicale) avrei a che fare con delle regole. Ma che cosa sono le regole? Sono come degli strumenti per misurare l’azione. Ebbene bisognerebbe pensare che questi strumenti per misurare l’azione siano a loro volta misurabili ed eventualmente revocabili. Ecco che questa revocabilità delle regole, questo loro poter tornare alla loro origine empirica mi parrebbe qualcosa che le istituzioni della moltitudine, le istituzioni non più statali, le istituzioni che nascono dalla disobbedienza, dovrebbero acquisire come un loro criterio «costituzionale», se si può giocare con questo termine.


L’impressione è che non si riesca però a far precipitare questo potenziale eversivo, questo affrancamento dalla rappresentanza, in un orizzonte politico di rottura decisiva o in quelle istituzioni non statali di cui tu parli.


Quello che tu menzioni è il problema fondamentale degli ultimi dieci o venti anni, vale a dire una straordinaria empasse nel tradurre operativamente, in forme di organizzazione e in forme di lotta incisive, cioè che facciano del male a chi comanda, le nuove forme del lavoro e della vita. Su questo sono possibili molte risposte. Io credo che ci sono stati molti tentativi a livello internazionale e anche italiano, e si è proceduto con prove ed errori, come è inevitabile quando si esplora un continente sconosciuto e che questi tentativi non riusciti, parzialmente falliti, vadano tutti in qualche modo onorati come una sorta di bottega artigianale. Resta però il fatto che di questa sostanziale impotenza pratica, di cui si misura la gravità in questi anni di crisi radicale del modo di produzione capitalistico, io ho sempre avuto l’impressione che il motivo di fondo di questa difficoltà, di questa empasse, di questa impotenza stia nel fatto che quando la produzione assorbe in sé alcuni aspetti fondamentali della natura umana – dalla capacità linguistica, alla capacità di relazione, alla sensibilità estetica, alle passioni, e via dicendo – è ovvio che ribellarsi alla organizzazione della produzione richiede in qualche modo l’organizzazione di tutto ciò, un po’ come dire l’organizzazione di un’intera forma di vita: l’organizzazione sovversiva della capacità linguistica, delle passioni e via dicendo. Quindi è tutto enormemente complesso, anche per vincere su una singola rivendicazione è come se si dovesse costruttivamente esibire un nuovo modo di vivere, e questo è straordinariamente difficile. Oppure, per dirlo in maniera ancora più semplice e più diretta: perché vi sia una lotta incisiva in grado di colpire l’organizzazione del lavoro e del tempo sociale, perché ci sia una lotta incisiva non è necessario niente di meno che la costruzione delle istituzioni della democrazia.

Questo si capisce nella condizione precaria: come è possibile costruire una lotta efficace dei precari senza organizzarli per ciò che è la loro vita complessiva? Occorre dunque molto per colpire, occorre un’insieme di gesti positivi e questa è certamente una delle cause di fondo della stagnazione, nonostante la capacità, l’esperienza, le prove e gli errori di cui ti dicevo. Tutto quello che manca in fondo è il gesto più elementare e più potente della politica, cioè rivolgerci a quella parte della nostra gente che è restia a lottare nonostante ne avrebbe tutta la necessità, cioè rivolgersi ai corrotti e ai crumiri di quel 99% di Occupy Wall Street, e fargli sapere che un’iniziativa pratica non coinvolge solo chi è già d’accordo, la tribù che è già dalla nostra parte. Dopo di che credo che la grande politica a venire sia quella in grado di costruire istituzioni non statali e di colpire il capitalismo finanziario e postfordista, di mettere in moto un meccanismo che i teorici delle scienze cognitive chiamano di coevoluzione tra crescita di nuove istituzioni non statali e invenzioni di forme di lotta all’altezza del precariato universale.


Le forme di lotta e di azione diretta contemporanee sono molte ma ne dovremmo trovare almeno una che abbia la stessa efficacia che ha avuto lo sciopero generale in epoca fordista.

Il problema è che l’equivalente funzionale dello sciopero oggi deve coinvolgere non solo il tempo passato in un ufficio o in una fabbrica, ma dovrebbe coinvolgere quel tempo sociale più generale fatto di relazioni, affetti, comunicazione ecc. che in realtà è la base effettiva della produzione contemporanea. Alla fine è anche la vecchia idea di Lenin, che pensava che il partito come una fabbrica rovesciata, cioè come una fabbrica che si rovescia contro chi comanda. Soltanto che la fabbrica da rovesciare ora è straordinariamente vasta, se per fabbrica intendiamo tutte le forze produttive che sono sollecitate e mobilitate nella produzione contemporanea.

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