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losguardo

"L'uso dei corpi" di Agamben

di Carlo Salzani

museo poldi pezzoli le dame dei pollaioloPuò un’opera (artistica, poetica, filosofica) essere veramente conclusa? E un progetto filosofico che abbraccia due decenni (o più)? Da qualche tempo Agamben va citando, in seminari, conversazioni e interviste, un’affermazione di Giacometti, secondo il quale un’opera non può mai essere conclusa, ma solo abbandonata: la sua ‘potenza’ non si esaurisce con l’ultima pennellata o con l’ultima parola; la ‘potenza’ dell’opera non può mai esaurirsi. È quindi naturale che un pensatore che, come Agamben, ha messo il concetto di ‘potenza’ al centro del suo pensiero, apra l’ultimo volume del suo progetto «Homo sacer» avvertendo il lettore con le parole di Giacometti (citate «senza virgolette»): questo libro non è una conclusione o un nuovo inizio, ma il punto in cui il filosofo, tirando le somme di una ricerca che lo ha occupato per due decenni (e più, visto che la concettualità centrale del progetto comincia a essere elaborata ben prima della pubblicazione di Homo sacer nel 1995) decide di abbandonarla – perché, eventualmente, altri la continuino.

In realtà, al completamento del progetto manca ancora l’ultimo libro del volume II (II, 4), sulla stasi o guerra civile, che uscirà tra qualche mese per Bollati Boringhieri. Ma L’uso dei corpi è l’‘ultimo’ volume in quanto conclude la parte propriamente propositiva del progetto (iniziata con Altissima povertà, 2011), che, dopo la presentazione delle problematiche fondamentali (volume I), l’analisi della struttura del potere (volume II), e l’analisi della vita nella stretta del potere sovrano (volume III), deve presentare la proposta ontologica alternativa.

Ma anche a questo proposito Agamben revoca in questione l’idée reçue della ‘buona pratica filosofica’, che vuole che una ricerca cominci con una pars destruens e si concluda con una pars construens, nettamente distinta dalla prima: la pars destruens, scrive Agamben nell’Avvertenza, interamente coincide, in realtà, con la pars construens, e una teoria che sia riuscita a far luce sugli errori del tempo si completa e si esaurisce tutta in questo gesto (p. 9). Nonostante nessun’altra proposta filosofica della contemporaneità si sia presentata in modo così pianificato e strutturato come quella di Agamben, egli sembra voler dire che la teoria dev’essere anche in grado di mostrare la sua insufficienza.

Quest’ultimo libro presenta in effetti una serie di tesi e concetti che gli altri volumi avevano progressivamente anticipato e promesso, ma questi non costituiscono in alcun modo la parola finale – e cioè probabilmente risulteranno, agli occhi dei lettori più critici e severi, insufficienti.

A livello strutturale, questo libro, assai voluminoso per gli standard di Agamben (366 pagine), si allontana poi dalla pratica che aveva caratterizzato il progetto a partire da Stato di eccezione (2003), primo libro del volume II, che ne comprenderà in totale cinque: secondo la prassi del volume II, L’uso dei corpi avrebbe potuto essere pubblicato in tre libri separati, giacché le tre parti che lo compongono (I. L’uso dei corpi; II. Archeologia dell’ontologia; e III. Forma-di-vita), di lunghezza più o meno equivalente, costituiscono unità in sé contenute e complete, e si articolano tra loro proprio come i cinque libri del volume II. Volendo, anche l’epilogo (Per una teoria della potenza costituente) è a se stante e avrebbe potuto essere pubblicato indipendentemente, un po’ come i saggi brevi degli ultimi anni, da Che cos’è un dispositivo (2006), a L’amico (2007), Il mistero del male (2013), o Pilato Gesù (2013). E tuttavia, l’intenzione che tiene insieme le diverse parti è proprio quella dell’‘ultima parola’ di una ricerca che viene, infine, non completata, ma abbandonata al lettore: L’uso dei corpi costituisce così una vera e propria Summa agambeniana, con la quale in filosofo riallaccia i vari fili lasciati in sospeso e promessi per il futuro nei volumi precedenti e fa un bilancio dei risultati raggiunti.

Alle tre parti e all’epilogo si aggiungono un prologo e due intermezzi più ‘personali’, dedicati rispettivamente a Debord, Foucault e Heidegger (e al tema della «vita» nel loro pensiero). Forte risuona la totale assenza di Schmitt, che da sempre costituiva uno dei pilastri del progetto e la cui presenza domina i volumi precedenti: a dispetto dell’avvertenza iniziale, risulta chiaro che la funzione – centrale – di Schmitt si limita alla pars destruens del progetto – l’analisi e la critica della sovranità e del potere – e non ha quindi nulla a che fare con la sua parte propositiva. Un po’ una sorpresa è il tono minore in cui appare invece Benjamin, da sempre pensatore chiave per Agamben, ma in particolare per la parte propositiva del progetto «Homo sacer»: solo due testi di Benjamin vengono (assai brevemente) analizzati – e uno dei due è, di nuovo, Per la critica della violenza, testo chiave fin dal volume I; per il resto Benjamin viene invocato di quando in quando come un’autorità, ma messa in ombra dalla presenza dominante di Foucault e Heidegger.

Il titolo L’uso dei corpi è in effetti quello della prima parte del libro, che si propone di presentare una «teoria dell’uso». Il concetto di «uso» occupa un posto centrale nel pensiero di Agamben almeno fin da Stanze (1977), che, nella sezione sul feticcio, prospettava una nuova relazione tra il soggetto e le cose che andasse al di là sia del valore d’uso che di quello di scambio. La comunità che viene (1990), citando l’espressione hölderliniana «il libero uso del proprio è la cosa più difficile» (che qui ritorna come epigrafe), proponeva già l’uso come categoria politica fondamentale, da sostituire all’«azione» e al «fare» della tradizione politica occidentale; ma fino ad oggi questa «teoria dell’uso» era rimasta al livello di accenno e promessa. L’espressione «l’uso del corpo» viene dalla Politica di Aristotele, dove é utilizzata per definire la natura dello schiavo: se l’opera (l’ergon, ciò che ne definisce l’essenza) dell’uomo libero è il vivere secondo il logos, quello dello schiavo è invece l’uso del corpo. Agamben sottrae questa definizione al contesto aristotelico (una giustificazione ‘fisica’ della schiavitù) per evidenziarne i tratti che possono portare a rompere gli schemi della filosofia politica tradizionale. Quest’«uso», per cominciare, è del tutto indipendente da un «fine», ed è quindi un’attività improduttiva o «inoperosa»; esso si situa poi in una zona di indifferenza fra lo strumento artificiale e il corpo vivente, tra il corpo proprio e quello altrui, tra la poiesis e la praxis, e rompe (o, piuttosto, «disattiva») così la centralità del tradizionale soggetto autonomo e autocentrato della tradizione filosofica occidentale. Analizzando in particolare il verbo greco chrestai («usare»), Agamben nota che esso non è né attivo né passivo, ma nella forma «media», e che l’oggetto dell’«uso» non è all’accusativo, ma al dativo o al genitivo: in questo verbo, la relazione soggetto/oggetto nella forma (moderna) dell’utilizzazione scema in una zona di indeterminazione fra soggetto e oggetto, in cui l’«uso» è piuttosto la relazione che si ha con se stessi quando si è in relazione con un ente. «Uomo e mondo sono, nell’uso, in rapporto di assoluta e reciproca immanenza; nell’uso di qualcosa è dell’essere dell’usante stesso che innanzitutto ne va» (p. 55).

Agamben distingue poi il concetto di uso da quello di «cura», centrale sia nel pensiero di Foucault (souci, soin) che in quello di Heidegger (Sorge), e si rivolge piuttosto all’ontologia, elaborata dagli stoici e da Plotino, dell’essere come «uso di sé». La posta è infatti squisitamente ontologica, e questo riporta Agamben a riesaminare nuovamente uno dei nodi centrali di tutto il suo pensiero (anche al di fuori e prima del progetto «Homo sacer»): la distinzione aristotelica tra potenza e atto. L’«uso» agambeniano implica infatti un’ontologia irriducibile alla dualità aristotelica: l’essere-in-uso è «una potenza che non è mai separata dall’atto, che non ha mai bisogno di mettersi in opera, perché è sempre già in uso» (p. 88). Il sé che si costituisce in questa relazione non è più il soggetto autonomo autocentrato, ma non è che questa relazione: l’uso non appartiene ad alcun soggetto, non è una «facoltà» ma una forma-di-vita – esso è «il paradigma di un’altra attività umana e di un’altra relazione con il corpo vivente» (p. 112).

Agamben ha sempre sottolineato che la questione della politica come «abitare dell’uomo nel mondo» non è semplicemente una faccenda ‘gestionale’, ma è invece fondamentalmente una questione ontologica, e che il senso e lo scopo di tutto il suo progetto è una sorta di ‘rivoluzione ontologica’, una volontà di aprire la strada a una ‘nuova ontologia’. La seconda parte de L’uso dei corpi, intitolata Archeologia dell’ontologia, si propone proprio di investigare, in tre densissimi capitoli, quello che Agamben chiama il «dispositivo ontologico», e cioè il sistema che ha informato e retto per più di due millenni la storia e il pensiero dell’Occidente. Il punto di partenza è (come sempre, per Agamben) Aristotele: è l’ontologia aristotelica che ha determinato a oggi la storia dell’Occidente, e questa ontologia è definita da un dispositivo di scissione dell’essere – l’essere, la vita, saranno sempre interrogati a partire dalla scissione che le attraversa: essenza/ esistenza, potenza/atto, zoé/bios, physis/nomos ecc. Questa scissione è determinata dal linguaggio: «non appena vi è linguaggio, la cosa nominata viene presupposta come il non-linguistico e l’irrelato con cui il linguaggio ha stabilito la sua relazione» (pp. 159-60). E nel gesto con cui il linguaggio scinde l’identità dell’essere, esso produce il tempo. Il dispositivo ontologico costituisce quindi l’articolazione fra linguaggio e mondo che si dischiude agli umani come «storia». Oggi – e questa è la tesi portante non solo di tutto il progetto «Homo sacer», ma dell’intera filosofia agambeniana, che, in termini heideggeriani, si articola come «fine della metafisica» – questo dispositivo (come tutti gli altri dispositivi che hanno organizzato per millenni la storia occidentale) è entrato in crisi: i due termini della scissione sono o integralmente divaricati o appiattiti l’uno sull’altro, e quindi l’articolazione tra i due, l’articolazione fra linguaggio ed essere, sembra non realizzarsi più.

Questa ontologia subisce una trasformazione radicale con la teoria delle ipostasi del neoplatonismo, in cui la scissione tra essenza ed esistenza viene conciliata in una teoria dell’emanazione: l’esistenza diventa in qualche modo una prestazione dell’essenza. La dottrina neoplatonica raggiunge il suo sviluppo decisivo nella teologia trinitaria della cristianità, che Agamben ha analizzato a fondo in Il Regno e la Gloria (2007), ma il cui portato ontologico – l’ontologia dell’operatività – ha presentato in dettaglio in Opus Dei (2012). Questa ontologia non solo non è oggi più in grado di articolare i due termini della scissione, ma è, da sempre, inadeguata a dar ragione della singolarità. Per risolvere le aporie del dispositivo ontologico, Agamben propone di passare a quella che chiama, ormai da tempo, un’«ontologia modale», a cui è dedicato il terzo e ultimo capitolo della seconda parte. Tutta questa parte, ma in particolare il terzo capitolo, si inoltra in dibattiti filosofici e teologici assai difficili da seguire per il lettore non specializzato. In breve, quello che Agamben cerca di fare articolando un’ontologia del «modo» è di superare la scissione fondamentale che costituisce il dispositivo ontologico, e cioè di pensare la coincidenza o l’indifferenza dei due termini della scissione, essenza ed esistenza, potenza e atto ecc.: un’ontologia modale «implica la coincidenza, cioè il cadere insieme, dei due termini» (p. 214). Dei tanti strumenti che Agamben utilizza in questa densa elaborazione, emergono due categorie fondamentali che si sottraggono al dispositivo ontologico: la «causa immanente» di Spinoza e il concetto di «esigenza» di Leibniz. Il punto di questa nuova ontologia è di neutralizzare e rendere inoperose le scissioni, per cui l’essere risulterebbe alla fine non separato da o preesistente ai suoi modi: nel modo, l’essere «costituisce sé modificandosi, non è altro che le sue modificazioni» (p. 221).

Come la teoria dell’uso propone di disattivare le scissioni tra soggetto e oggetto e tra potenza e atto, e l’ontologia modale quelle tra essenza ed esistenza e tra linguaggio e mondo, così la teoria della forma-di-vita, presentata nella terza e ultima parte del libro, si propone di disattivare la fondamentale scissione che caratterizza il concetto di «vita» nella cultura occidentale. Alcuni capitoli di questa parte sono rielaborazioni di testi già pubblicati (o, come Agamben scrive già nell’avvertenza iniziale, scritti quasi vent’anni fa), quindi il lettore informato già sa che la macchina ontologico-biopolitica dell’occidente si fonda su una divisione della vita attraverso una serie di cesure e soglie (zoé/bios, oikos/polis ecc.), e che questa politicizzazione non può che produrre uno scarto, la «nuda vita». La forma-di-vita è invece definita come una disattivazione delle scissioni e cesure, come una vita che non può essere mai separata dalla sua forma, e in cui non è possibile isolare qualcosa come una nuda vita. Agamben qui si rivolge in particolare all’ontologia plotiniana che, contro quella aristotelica, accentua invece il carattere unitario di ogni fenomeno vitale: Plotino estende la teoria stoica del zoon logikon, che considerava il logos come pervasivo dell’intera physis umana indipendentemente dalle sue divisioni (vegetativa, sensibile, psichica), a tutti i viventi e a tutte le forme di vita. A questa profonda unità della vita corrisponde un nuovo statuto ontologico del vivente come «tutto indivisibile», che Plotino chiama già eidos zoes, «forma di vita».

Questa sezione procede in una serie di avvicinamenti e approssimazioni a questa nuova ontologia della «vita indivisibile», che passano per la teologia neoplatonica di Mario Vittorino e la forma di vita in Wittgenstein, per arrivare alla «politicizzazione» (ontologica) di concetti come «gusto», «stile», «inclinazione», «intimità» – tutte volte al superamento dell’ontologia aristotelica e della biopolitica basate sulla scissione e l’articolazione, e quindi verso un’«ontologia della non-relazione». Queste approssimazioni non arrivano – né possono mai arrivare – a una definizione positiva, e questo non per un’insufficienza della teoria in generale o per un limite di quest’elaborazione in particolare, ma perché «la forma-di-vita non può né riconoscersi né essere riconosciuta, perché il contatto fra vita e forma e la felicità che in essa sono in questione si situano al di là di ogni possibile opera» (p. 314).

Il tema dell’intero libro può quindi essere (assai sbrigativamente) riassunto come il tentativo di proporre un superamento dell’ontologia occidentale basata sul dispositivo della scissione; questo tentativo si articola qui in tre gesti: la teoria dell’uso, l’ontologia modale, e la forma di vita, che sono, ovviamente, strettamente connesse e interdipendenti. L’epilogo, Per una teoria della potenza destituente, fornisce un ulteriore nome a questa strategia del superamento. Anche in questo caso il concetto proposto, la «potenza destituente», ha una lunga storia, che precede la concezione del progetto «Homo sacer» e affonda le radici già nel concetto di «decreazione» proposto in Bartleby (1993), o forse addirittura in quello di «irreparabile» de La comunità che viene (1990). A partire da Homo sacer, questo concetto prenderà il nome di désoeuvrement o «disattivazione» e costituirà il pilastro di tutta la parte propositiva del progetto, che si contrappone esplicitamente all’«attivismo» e all’«ontologia operativa» della tradizione politico-filosofica occidentale. Alla fine de L’uso dei corpi Agamben propone una sorta di riepilogo dei gesti e delle tappe fondamentali dell’intero progetto, per ribadire che solo un gesto e una cesura fondamentale permetteranno un vero superamento dell’impasse – ontologica – del nostro tempo. La macchina ontologico-politica dell’Occidente, i cui meccanismi e segreti Agamben è andato progressivamente svelando e analizzando per più di un ventennio, non può essere ‘riparata’ o ‘migliorata’, e il gesto, infinitamente ripetuto, di cercare nuove e più efficaci articolazioni dei due elementi che essa tiene insieme (logos e mondo, essenza ed esistenza, potenza e atto, zoé e bios, physis e nomos, soggetto e oggetto,ecc.), non fa che prolungare l’agonia del nostro tempo. La macchina dev’essere invece disattivata, e «destituente» sarà allora «una potenza capace di deporre ogni volta le relazioni ontologico-politiche per far apparire fra i loro elementi un contatto» (p. 344).

Questa strategia «destituente» è stata da sempre l’oggetto delle critiche più severe al progetto «Homo sacer» e gli ha guadagnato da più parti l’accusa di «impoliticità». Non c’è dubbio che questo volume (in) conclusivo del progetto riceverà nuove variazioni di questa accusa, a cui se ne aggiungeranno altre di inconclusività e insufficienza, giacché qui non si propongono conclusioni o soluzioni, ma ‘solo’ nuove strade che il pensiero ‘che viene’ potrà e dovrà cercare di percorrere. È uno dei limiti della filosofia in quanto tale quello di non essere – costitutivamente – in grado di fornire risposte concrete; ma le domande che Agamben, con l’intero progetto «Homo sacer», ha posto alla filosofia occidentale sono ormai inaggirabili.

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