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contraddizione

Dov'è il comunismo?

Profitto, plusvalore, guadagno e ricchezza reale

Gianfranco Pala

klimt121È il caso di rammentare sùbito – onde evitare tanti equivoci nati da una lettura troppo affezionatamente ammiratrice di Marx – che lui quando coniò il titolo del futuro iv libro storico del Capitale <“Teorie sul plusvalore”> lo pensò unicamente in quanto rivolto alla ricerca, del tutto tralasciata o ignorata dagli economisti borghesi (classici e volgari), dell’“origine sociale del profitto” —— ovvero del guadagno dell’imprenditore [proprietario privato] capitalista in sèguito allo scambio contro denaro di merci ottenute entro quello specifico modo di produzione. Ma devono essere chiare due questioni, sia che: 1) questa particolare analisi è circoscritta soltanto al modo di produzione e circolazione della merce capitalistica (dove c’è valore e plusvalore); 2) un qualsiasi proprietario privato, in altri modi di produzione (per ora solo precedenti, i <futuri> per la loro significazione sono ineffabili), può trasformare il mero denaro che possiede, in qualsiasi altro oggetto che desideri o trarne eventualmente un vantaggio monetario. Tuttavia unicamente la rappresentazione del capitale in denaro diviene tale solo e soltanto se esso denaro\capitale è funzionalmente legato a comprare come merce la forza-lavoro altrui per valorizzarsi: ma un vantaggioso guadagno monetario [che gli agenti e i contabili del capitale denotano come “profitto” – e per Marx il tasso del profitto ha cause empiriche e forme diverse dal tasso di plusvalore che pure lo determina concettualmente] si può ottenere in tanti modi diversi dall’uso funzionale della forza-lavoro altrui non pagata, cioè dall’aver trasformato quel <denaro in quanto tale> in capitale per far produrre plusvalore mediante pluslavoro.

Di simili casi assai diversi tra loro e non capitalistici nel passato (mitico, reale o fantastico) ce ne sono a iosa: da Creso a Mida, da imperatori romani, egizi o cinesi, a molti re come Luigi xiv “re sole”, per non dire di uno stuolo di papi, nobili e via notabilando, fino ... a Paperon de’ Paperoni. Dunque la fine del plusvalore, alla prova della storia, può voler dire in via esclusivamente preliminare che il denaro guadagnato – o meglio arraffato rubato sottratto ingannevolmente ai più ingenui, miserabili o deboli – da parte di un gruppo sociale dominante con arroganza e violenza; la qual cosa non implica la cessazione di quella appropriazione indebita.

Piuttosto quel furto continua: epperò soltanto <senza plusvalore>. ! sbagliano i marxolatri a ritenere il contrario; se non c’è plusvalore, non si può neppure <pensare> al modo di produzione capitalistico, ma un sistema di rapina e corruzione può proseguire in altre vesti, come si è ricordato essere già avvenuto abbondantemente nei secoli passati in tutto il mondo, anche su basi assolutamente non-capitalistiche (ossia non riferentisi a quel modo di produzione, e in subordine di circolazione), pur se esse ancora possono assumerne la “forma formale” [dizione diMarx: cfr per tutte lf,q.ii\ff.16, in relazione a Ricardo il quale intende “il capitale <posto come prodotto>, in sé valore di scambio, a cui lo scambio aggiunge soltanto una forma, che in lui è una forma formale”]. Senonché la tanto sfrenata quanto insensata affezione al <comunismo-curiale> (ossia al modo d’esprimersi ufficiale della <corte> del partito\madre – per cui in codesto àmbito è affatto inutile parlare di marxismo ...) ha portato da decenni anche quei sedicenti <cccommunisti> ad affogarsi in indifendibili paralogismi che legavano inscindibilmente, per varie strade, la fine di plusvalore\pluslavoro e sfruttamento alla fine del capitalismo. Paralogismi peraltro degni più di esperti di culinaria del xix sec che di studiosi di economia e politica: mentre i primi discettavano da par loro di quella sapida e piccante salsetta a crudo, fatta secondo diverse maniere regionali, in cui inzuppare carciofi (il cuore dentro le cosche esterne), le teste di cavolo, le carote, ecc. variamente detta, secondo i gerghi e gli usi, cacimperio (o cassimperio o cazzimperio come lo preferisce G.G.Belli, con la chiara allusione sessuale). Dal passaggio al xx sec. dal xix, con la contemporaneità temporale fra l’epoca dell’imperialismo classico e la culinaria del cazzimperio, oggi si potrebbe rispettare questa tradizione confusionaria rispetto ai pasticcioni comunisti odierni coevi all’epoca dell’imperialismo transnazionale nel passaggio dal xx al xxi sec. della leccornìa del cazzimperialismo transnazionale, con l’affermazione di quel simulacro di comunismo. Senza rammentarsi che Marx [c, i.8(2)] affermò perentoriamente che “il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione {si ricordi come ciò annunciavano precocemente i fisiocratici – ndr}, sia questo proprietario bello e buono, cioè nobile ateniese, teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista”: e con codesta eccedenza di pluslavoro lo sfruttamento. Quindi lo <sragionamento paralogico>, anche un po’ volutamente sofistico e farlocco, è del tipo: – non c’è più plusvalore – il capitale è finito – ergo: facciamo il comunismo. Ma il pluslavoro c’è, così come l’appropriazione del tempo di lavoro altrui e lo sfruttamento —— ma dopo l’eventuale fine del capitale non viene da sé il comunismo (occorre preparare ben altre condizioni, che tuttora mancano). Ovverosia possono prevalere molti altri tipi di <formazioni economico-sociali> [prescindendo da una catastrofe che possa provocare la sesta estinzione di massa sulla terra o addirittura l’impatto del pianeta con un meteoroide o piuttosto un asteroide non piccolo, cioè un altro enorme corpo celeste che porti alla loro fusione con la scomparsa della terra stessa così com’è ancora – e questo non è catastrofismo ma fenomeni possibili, anche se poco probabili, che rientrano nel novero degli eventi reali, con buona pace dei fatui atteggiamenti delle scioccherie verdi eco\ambientaliste, che in tale maniera dissipano anche le denunce serie dei problemi naturali rispetto alle basi scientifiche che debbono avere].

Quel denaro in quanto tale, oggetto dei paralogismi pseudo-comunisti-curiali, è sempre più spesso impiegato in attività monetarie speculative del cosiddetto “capitale fittizio” (che appunto in quanto fittizio. cioè finto e ingannevole è immaginario, ossia <non-capitale>) è quindi da intendere impiegato nelle truffaldine iniziative finanziarie negoziate per realizzare un utile per <speculazione> [ma non nell’accezione cólta di attività teoretiche portate a osservazioni e riflessioni sulla realtà] – o pure in spese di lusso; senza badare al ripetuto avvertimento marxiano di non superare la <giusta proporzione> tra quella destinazione del denaro e l’impiego riproduttivo di esso, pena il collasso del sistema esistente, vieppiù incapace di sopportare simili sproporzioni [e il potere non si nasconde dietro l’insostenibile leggerezza dell’essere, ma come gli aveva insegnato Hegel nella realtà crolla sempre sotto il peso della propria ricchezza perché non è capace di reggerne la sostenibilità, soverchiata da crescenti indebitamenti]. Al proposito è istruttivo esaminare la grandissima leva speculativa, più di 30\40 volte il valore o prezzo effettivo della quota azionaria originale rappresentata dal prezzo facciale nominale stampato sul titolo emesso, che quindi continua a rappresentare sempre soltanto quella quota di proprietà monetaria iniziale, mentre circola una quantità enormemente maggiore di titoli derivati dal primo, che non contano che come pezzi di carta (una volta erano solo cambiali in quantità minime ancora negoziabili pagando il risconto bancario) che servono unicamente come titoli di proprietà, a rischio di deflagrazione —— bolle speculative pronte a scoppiare a turno. Si va dai debiti immobiliari accesi sulle case come in Usa che hanno avvelenato i <fondi pensione privati> di mezzo mondo tramite banche e altri istituti finanziari, alle cosiddette <obbligazioni subordinate> vendute come buone e sicure da piccole banche di risparmio cooperativo, decotte e di fatto già fallite, a poveri risparmiatori non informati e inconsapevoli, come la Banca Etruria. Qui il raggiro operato dal governo italiano, tramite il ... <boschivo> Renzi de’ Bischeri di Rignano vien dall’Arno (... “ragazzo”!!, cosi si autodefinisce l’eterno boy scout di 41 anni) ha avuto l’ardire di dichiarare, con un altro paralogismo da strapazzo che così si-sono-salvati-migliaia-di-posti-di-lavoro di impiegati di banca. Senonché erano stati gli stessi suoi complici. amici e parenti, dirigenti bancari a mettere gli impiegati sull’orlo delle loro fosse, obbligandoli a scavare per poi però far cadere in quelle stesse fosse comuni le migliaia di <risparmiatori subordinati>: e la storia continua.

Ma il guasto logico è più generale e sta a monte: nelle interpretazioni dei marxologi che hanno il doppiamente insano “desiderio tanto pio quanto sciocco” come scrisse Marx [cfr. lf, q.ii;f.12], non tanto <che il valore di scambio non si sviluppi in capitale o che il lavoro che produce il valore di scambio non si sviluppi in lavoro salariato>, ma addirittura che si sia già arrivati al comunismo tutto e sùbito. “Ciò che distingue questi signori dagli apologeti borghesi è da un lato la sensazione delle contraddizioni che il sistema racchiude; dall’altro l’utopismo di non capire la necessaria differenza tra configurazione reale e ideale della società borghese, e di volersi perciò assumere il compito superfluo di volerne realizzare di nuovo l’espressione ideale, ove questa è in effetti soltanto la trasfigurazione di questa realtà”. Infatti è in questo contesto che i marxolatri che hanno quel desiderio utopico superfluo di <realizzare l’espressione ideale> senza accorgersi che questa <è in effetti soltanto la trasfigurazione della realtà >. Una trasfigurazione che ha inizio con il titolo del libro, cocciutamente detto Grundrisse anziché farlo capire in italiano che è Lineamenti fondamentali e prosegue con il paragrafo in questione [cfr.lf, q.vii-ff.1-4] che, poiché è stato espunto dal contesto generale nella prima tardiva traduzione italiana per una rivista, al tema che tratta della Contraddizione tra la base della produzione borghese (misura del valore) e il suo sviluppo stesso è stata anteposta un’etichetta identificatrice, con una parola-chiave [tag, dicono gli anglofoni] con cui è passata nell’uso comune italiano “Frammento sulle macchine”, ma originariamente non è affatto un “frammento” (anzi, si sente la mancanza del contesto complessivo). E passando al contenuto che interessa, Marx analizza le <contraddizioni della produzione borghese> e per niente affatto la realizzazione del comunismo.

Fin dalle prime righe si legge che “nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta — questa loro powerfull effectiveness — non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione [è la tendenza capitalistica a sostituire lavoro morto, passato, a lavoro vivo, presente – ndr], ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione. (Lo sviluppo di questa scienza, in particolare della scienza della natura, e con essa di tutte le altre, è a sua volta di nuovo in rapporto allo sviluppo della produzione materiale). L’agricol­tura, per esempio, diventa una semplice applicazione della scienza del <ricambio materiale>, da regolarsi nel modo più vantaggioso per l’intero organismo sociale. La ricchezza reale si manifesta invece — e questo è il segno della grande industria — nella enorme sproporzione fra il tempo di lavoro impiegato e il suo prodotto, come pure nella sproporzione qualitativa fra il lavoro ridotto a una pura astrazione e la potenza del processo di produzione che esso sorveglia. Non è più tanto il lavoro a presentarsi come incluso nel processo di produzione, quanto piuttosto l’umano a porsi in rapporto al processo di produzione come sorvegliante e regolatore. (Ciò che si è detto delle macchine, vale anche per la combinazione delle attività umane e per lo sviluppo delle relazioni umane). Il lavoratore non è più quello che inserisce l’oggetto naturale modificato come membro intermedio fra l’oggetto e se stesso; ma è quello che inserisce il processo naturale, che egli trasforma in un processo industriale, come mezzo fra se stesso e la <natura inorganica>, della quale si impadronisce. Egli si colloca accanto al processo di produzione, anziché esserne l’agente principale. In questa trasformazione non è né il lavoro immediato, eseguito dall’umano stesso, né il tempo che egli lavora, ma l’ap­propriazione della sua produttività generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale — in una parola, è lo sviluppo dell’individuo sociale che si presenta come il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”.

Ed è qui che viene in luce la fuga in avanti dei marxolatri verso la insensata adorazione del comunismo già realizzato fin da ora. “Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna [cioè ancora quella borghese capitalistica], si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena [che è in consonanza con la precondizione iniziale che regge tutto il discorso: <nella misura in cui si sviluppa la grande industria> – ndr] il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società a un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo — in misura crescente — la condizione di quello necessario”. Fin qui si sta ancora analizzando la realtà contraddittoria del capitale così com’è con le tendenze che sono celate al suo interno e che il processo antagonistico potrebbe svelare <non appena> <nella misura in cui> il rapporto di capitale <deve cessare>, ma ancora vige. E perciò è da qui che la lotta per il comunismo assume i risultati determinati dagli sviluppi dell’industria capitalistica che contraddittoriamente “da un lato evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso [capitale] intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali [si veda quanto detto prima – ndr]— entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale — figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per far saltare in aria questa base”. E questa base non è ancora saltata in aria e sembra che non abbia per ora intenzione di farlo.

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