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Privatizzazioni: il sabba della finanza

di Giovanna Cracco

Particolarmente attivo su tutti i palcoscenici mediatici e finanziari, Mario Monti non si è fat­to mancare la visita alla sede di Piazza Affari a Milano, il 20 febbraio scorso. Nell’occasio­ne ha buttato lì un’affermazione apparentemente banale, dato lo sce­nario nel quale veniva pronunciata, in realtà estremamente significativa. La Borsa italiana “è una ricchezza del nostro sistema” ha detto Monti, ma “il numero delle società quotate è in­feriore rispetto alle altre realtà euro­pee”, e questo è un problema poiché “una Borsa con un numero più alto di imprese quotate può dare un contri­buto fondamentale per la crescita”.

Le questioni implicite nella dichiara­zione – per i non addetti al lavoro, ché per gli specialisti sono al contrario estre­mamente esplicite – sono due. Innanzi­tutto, il legame tra la crescita economica di un Paese e il suo mercato finanziario. Dall’avvento del neoliberismo, da ormai un ventennio, quindi, i tassi economici di uno Stato sono solo marginalmente la rappresentazione della sua economia reale: è il settore finanziario a spingere il Pil, con tutto quel che ne consegue in termini negativi per l’occupazione lavo­rativa. Il “Rapporto sul mondo del lavoro 2011” pubblicato dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) – un’organizzazione Onu, e dunque non cer­to ideologicamente a sinistra – eviden­zia che “fra il 2000 e il 2009, la quota degli utili sul Pil è aumentata nell’83% dei Pae­si analizzati. Tuttavia, durante lo stes­so periodo, gli investimenti produttivi sono stagnanti a livello globale. Nei Pa­esi avanzati, la crescita degli utili delle imprese, escluse le società finanziarie, si è tradotta in un aumento sostanzia­le dei dividendi distribuiti (dal 29% de­gli utili nel 2000 al 36% nel 2009) e de­gli investimenti finanziari (dal 81,2% del Pil nel 1995 al 132,2% nel 2007)”. Le imprese dunque staccano dividendi agli azionisti anziché reinvestire i profitti nella produzione, e contempora­neamente spostano gli investimenti dal processo produttivo al mercato finanziario – viene dunque da chieder­si se i profitti derivino dalla produzione o dai giochi in Borsa.

I tassi economici crescono – crescevano, perché ora, in piena crisi sia economica che finanziaria, nemmeno più – ma è solo la finanza a crescere, in quella realtà fittizia e drogata che Monti e l’Unione europea tutta continuano a sostenere, con ma­novre fi scali che non intaccano il setto­re della finanza e vanno a deprimere e impoverire il lavoro, le pensioni, i con­sumi (con l’aumento dell’iva, della ben­zina, delle tariffe dei servizi ecc.).

La seconda questione è legata alla privatizzazione delle imprese statali, avviata in Italia nel 1992, in gran par­te già compiuta ma non ancora del tut­to ultimata, su cui il governo sta tem­poreggiando. Sono le privatizzazioni infatti a poter principalmente fornire quel “numero più alto di imprese quo­tate” in Borsa che auspica Monti, ma la situazione attuale non è favorevole alla quotazione. Ancora il presidente del Consiglio, nella sua visita alla Borsa di Londra del 18 gennaio scorso, ci spie­ga la ragione: “Crediamo che i prezzi di mercato non inducano il governo ad an­dare sul mercato”. Nessuna motivazio­ne politica, dunque – come la necessi­tà di uno Stato di mantenere il controllo su settori strategici – ma semplicemen­te economica: la crisi e la conseguen­te mancanza di liquidità monetaria ri­schiano di trasformare la quotazione in Borsa di un’impresa pubblica, trasfor­mata in privata, in un drammatico flop, con conseguenze a catena ancora peg­giori. Occorre quindi prima rilanciare il mercato finanziario – che, difatti, nelle manovre dei vari governi nazionali eu­ropei non è stato toccato né con limi­tazioni alla speculazione né con nuove tassazioni incisive, ma anzi continua a essere alimentato con sostanziose im­missioni di denaro da parte della Bce – dopodiché si può procedere alla nuova e ultimativa tranche di privatizzazioni.


La propaganda ideologica del neolibe­rismo, che ha fatto buona breccia nel­la maggior parte dei cittadini, vuole che le privatizzazioni siano dettate dalla ri­cerca di una maggiore efficienza – le aziende statali sono baracconi impro­duttivi manovrati dagli interessi politici dei partiti – e dalla necessità di abbas­sare l’ingente debito pubblico italiano – le aziende statali pesano sul bilancio dello Stato, e dunque pesano sulle ta­sche dei cittadini. A questo si affian­ca il dogma che l’apertura ai privati dei pochi settori economici rimasti ancora in mano pubblica (utilities soprattutto, acqua, luce, gas ecc.) e la loro conse­guente immissione nel libero mercato, generi automaticamente concorren­za e quindi abbassamento delle tarif­fe a vantaggio, ancora una volta, dei cittadini. Tutto per il bene dei cittadi­ni, insomma.

Ma, come spesso accade, la propa­ganda dell’etica ufficiale è smontata da documenti altrettanto ufficiali a cui la grande informazione – in mano a in­dustriali e banchieri – si guarda bene dal dare visibilità: in questo caso, il do­cumento è la relazione del 2010 della Corte dei Conti su “Obiettivi e risulta­ti delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche”, di cui vale la pena riportare direttamente alcuni passaggi.


Vi si legge, innanzitutto, che la priva­tizzazione dell’Iri, il colosso statale che possedeva più di un migliaio di impre­se operanti in ogni settore, da quello industriale a quello bancario a quello dei servizi, “venne avviata da un accor­do firmato nel 1993 dal ministro degli Esteri, Beniamino Andreatta, e il com­missario alla Concorrenza dell’Unio­ne europea, Karel Van Miert. Secon­do tale accordo, il debito del gruppo Iri doveva essere ridimensionato entro la fine del 1996 a un livello accettabi­le secondo le regole generali di libero mercato”.

Anche l’avvio delle privatizzazioni negli anni Novanta, dunque, nasce da un accordo/imposizione con l’Europa, e non c’è di che stupirsene: il Muro e l’Urss erano caduti, e con loro era crol­lato il riferimento politico a un sistema economico diverso dal libero mercato – anche in Italia il Pci aveva fatto la sua svolta con la Bolognina – e il capitali­smo aveva vinto a livello globale la sua battaglia ideologica.

Neoliberismo e privatizzazioni non hanno infatti riguardato solo l’Italia, anzi, il Belpaese è stato tra gli ultimi Stati ad avviare la ‘riforma’, a causa ben più del­la struttura feudale del suo capitalismo straccione, incapace di esistere e crescere senza gli aiuti statali, che della presen­za del più grande partito comunista d’Occidente. “Nel Re­gno Unito l’intero processo fu implementato su un periodo di tre legislature consecutive del Partito Conservatore (dal 1979 al 1991)” scrive ancora la Corte dei Conti, “con il fine ultimo di de-nazionalizzare l’economia inglese, limitare il potere del sindaca­to e incentivare il capitalismo popola­re”. Dove, per capitalismo popolare, si intende la diffusione della proprie­tà azionaria e la promozione della liqui­dità del mercato finanziario, situazione che avrebbe avuto anche l’effetto favo­revole di generare uno spostamento a destra del Paese: “Nelle future elezio­ni la nuova classe di azionisti creata­si con le privatizzazioni sarebbe stata più incline a supportare partiti che di­chiarassero idee di libero mercato”. In Inghilterra dunque, come in Francia – altro Paese caratterizzato da un’impor­tante presenza dello Stato nell’econo­mia – “le strategie di privatizzazione […] avevano un obiettivo comune a quello italiano: lo sviluppo del merca­to finanziario”.

E ci sono riuscite. Ancora la Corte dei Conti: “Negli ultimi venti anni, l’Italia ha trasformato profondamente il pro­prio sistema finanziario e le privatizza­zioni hanno contributo in modo significativo a questo cambiamento. Fino agli inizi degli anni ’90, la maggior parte del risparmio delle famiglie veniva canalizzato al settore pub­blico attraverso l’emissione di titoli obbligazionari di Stato. Le privatizzazioni sono state disegnate per – e hanno avu­to comunque l’effetto di – offrire nuove opportunità agli in­vestitori italiani, che progressivamente avrebbero rialloca­to i propri portafogli verso attività più rischiose. L’aumento della domanda avrebbe stimolato un aumento dei prezzi del mercato azionario, facilitando a sua volta il progredire del processo di privatizzazione […] Dal 1990 al 2007, nono­stante lo scoppio della bolla tecnologica e una fase di con­trazione economica globale, la capitalizzazione del mercato borsistico è divenuta sette volte maggiore in termini nominali ed è triplicata in rapporto al Pil. Du­rante lo stesso periodo, il numero del­le società quotate è cresciuto solo del 30%. La significativa differenza nei tas­si di crescita dei due indicatori è chia­ramente giustificata dal fatto che le so­cietà di maggiori dimensioni (quelle statali) furono quotate proprio in quel periodo. […] Dal 1990 al 2007, il volu­me degli scambi è aumentato di qua­si 60 volte e il turnover è passato dal 25,2% al 208,3%. […] Il contributo delle imprese privatizzate alla capitalizza­zione di mercato e all’incremento dei volumi scambiati è stato davvero note­vole. Nel 2007, le società privatizzate rappresentano il 59% della totale capi­talizzazione di mercato e il 65% dei vo­lumi scambiati. Il contributo delle stes­se società sul flottante è ugualmente impressionante: nel 2000, queste im­prese rappresentavano per il 60% del capitale flottante contro il 16% registra­to nel 1996”.

Grazie alle privatizzazioni, dunque, il mercato finanziario è esploso, in Italia come in tutta Europa. Certo se si leggo­no questi dati con un pensiero rivolto alla crisi attuale e alle parole che la clas­se dirigente economica e politica utiliz­za per definirla, viene da ridere. Sem­bra che la crisi sia piombata addosso ai Paesi sviluppati del primo mondo in­spiegabilmente, generata da qualche male oscuro non meglio definito, da un capitalismo finanziario nato e sviluppa­tosi non si sa come, quando la sua ge­nesi è stata studiata a tavolino ed è frut­to di una precisa scelta ideologica. E se questo strappa una risata (amara), i dati forniti dal rapporto Ilo e sopra riportati, che evidenziano come la finanza si sia sviluppata a scapito dell’economia manifatturiera, con tutto ciò che ne con­segue in termini di aumento della di­soccupazione e impoverimento della popolazione, trattenere una sghignaz­zata (ancora più amara) è dura. Da qui, il passaggio a lacrimare per il troppo ri­dere (finendo per non sapere più se si sta piangendo o ridendo) è breve, se si guarda alle misure oggi imposte dagli Stati ai cittadini per “superare la crisi”: abbassamento dei salari e delle tutele dei lavoratori e ancora privatizzazioni, ossia ancora alimentazione del merca­to finanziario.

Senza contare che è anche la crea­zione di questo mercato azionario, su cui i cittadini si sono buttati come po­veri pesci attratti dall’esca di pirite del denaro che produce denaro, ad avere spostato la proprietà del debito pubbli­co italiano, innescando così quella che è l’arma più potente in mano al pote­re finanziario, quella con la quale impo­ne la politica economica a ogni Paese, ossia la speculazione sui titoli pubblici. Tra il 1992 e il 2000 “il valore degli in­vestimenti in azioni sul mercato aziona­rio delle famiglie è cresciuto sette vol­te, raggiungendo nel 2000 il 29% del totale”; un investimento che è andato a scapito di quello sui titoli di Stato, con il risultato che nel 1992 i cittadini ita­liani detenevano il 58,01% del debito pubblico nazionale e nel 2007 appena il 15,14%, e l’investimento da parte di istituzioni estere sui titoli del Belpaese è passato dal 5,72% del 1992 al 52,95% del 2007.

Nonostante questo, il modello del­la public company – ossia il capitali­smo popolare, grandi imprese in mano a tutti i cittadini attraverso le azioni – che ufficialmente si voleva inseguire, non è stato raggiunto, e non sorpren­de dato le caratteristiche del sistema Italia. “L’iniziale preferenza per l’OPV [Offerta Pubblica di Vendita, n.d.a] , ri­sulta ampiamente ridimensionata dal peso significativo che hanno avuto […] le vendite dirette (come nel caso Tele­com) a specifici gruppi finanziari candi­dati a costituire il nocciolo duro, e cioè ad assumere il controllo della società privatizzata”. Ed è qui che, in pieno sti­le italiano, i monopoli pubblici si sono trasformati in monopoli privati, andan­do ad arricchire i soliti noti, quel capi­talismo feudale per il quale il sostegno statale ha solo cambiato d’abito.

“L’analisi dei dati disponibili ha an­che mostrato per le OPV un eccesso della domanda di azioni rispetto all’of­ferta” scrive ancora la Corte dei Conti, “con un rapporto pari, per il complesso delle operazioni, a 2,94”. Ossia: a do­manda pari a 2,94 rispondeva un’of­ferta pari a 1. “Quando, come nel caso di Snam Rete Gas, la differenza fra do­manda e offerta di azioni è particolar­mente ampia (4,98), pare legittimo chiedersi, non solo se ciò sia coerente con l’obiettivo – fortemente sottolinea­to – di voler diffondere il modello della public company, ma anche se il prezzo di cessione non sia stato troppo basso. Analoghi interrogativi possono suscita­re la riserva di offerta a predeterminati gruppi di investitori, italiani o esteri”.

Le aziende pubbliche, insomma, sono state svendute. Non che non ci fosse­ro già stati negli anni studi indipenden­ti ad affermarlo, sulla base dei nume­ri, ma certo ritrovarlo scritto anche in un relazione della Corte dei Conti, un po’ sorprende. Un’azienda che vale­va 1.000 è stata valutata, per esempio, 600, ed è ovvio che il numero delle azioni da mettere sul mercato è pro­porzionato al valore complessivo; al­trettanto ovvio è che una bassa valoriz­zazione non è certo stata effettuata per favorire il singolo cittadino che compra qualche azione ma quel ‘nocciolo duro’ a cui è riservata in primis l’offerta di un blocco di azioni.

Dubbi, quelli espressi dalla Corte dei Conti, “interrogativi ai quali, come ad altri, non è stato possibile dare risposta conclusiva in mancanza di informazio­ni più dirette e più analitiche, ricavabi­li dai verbali delle riunioni del Comita­to per le privatizzazioni, verbali, però, che l’Amministrazione ha ritenuto di non dover mettere a disposizione della Corte, non consentendo, in tal modo, di fare, definitivamente, piena luce sul rispetto dei criteri di efficacia, efficien-za ed economicità e della stessa rego­larità di singole operazioni”. La politi­ca ha dunque anche rifiutato di fornire quei dati che avrebbero fatto chiarez­za sul processo delle privatizzazioni, e questo, al contrario, non sorprende.

Conseguenza naturale di tale pro­cesso ideologico a favore di pochi ma­scherato da riforma economica a fa­vore di molti è stato l’aumento delle tariffe, con buona pace della bandie­ra della concorrenza piantata nel ter­reno del libero mercato che la propa­ganda sventolava – e ancora sventola – e che avrebbe dovuto abbassare i co­sti dei servizi. “Gli effetti delle privatiz­zazioni sul benessere dei consumatori sembrano ancora più controversi. […]
   
In particolare, analizzando nel detta­glio i prezzi dei servizi erogati dalle uti­lities (acqua, energia, trasporti, teleco­municazioni), si osserva una dinamica dei prezzi molto accentuata […] Anco­ra meno soddisfacenti appaiono i risul­tati della privatizzazione delle banche per ciò che attiene al livello degli one­ri che il sistema bancario pone a carico della clientela, che da tutte le indagini anche di recente condotte risulta siste­maticamente e considerevolmente più elevato di quello riscontrato nella mag­gior parte degli altri Paesi europei”.

Totalmente falsa anche la propagan­da che affermava – e afferma tutt’ora – che la privatizzazione avrebbe por­tato una maggiore efficienza in quelle burocratiche baracche statali asservite alla politica che erano le imprese pub­bliche: “Le società totalmente privatiz­zate presentano una redditività supe­riore a quelle privatizzate solo in parte o a quelle ancora completamente pub­bliche. […] La tentazione di interpreta­re queste conclusioni nel senso di in­dividuare un rapporto causa-effetto tra partecipazione privata e maggiore effi -cienza è forte, ma ovviamente tale in­terpretazione sarebbe forzata, data l’incompletezza dell’analisi che è stato possibile svolgere. Infatti, non si può ancora escludere che si riscontri una maggiore presenza di azionisti privati ‘proprio perché’ le imprese in questio­ne operano in condizioni oggettiva­mente più favorevoli, talvolta grazie ai benefici concessi all’impresa dal socio pubblico [ossia l’operare in regime di monopolio, n.d.a.]. Uno sguardo d’in­sieme […] suggerisce che l’aumento della profittabilità delle imprese rego­late sia attribuibile in larga parte all’au­mento delle tariffe, e forse meno in ter­mini di recupero di efficienza sui lati dei costi, anche al di là di eventuali ristrut­turazioni avvenute a seguito della pri­vatizzazione”. Le imprese privatizzate sono dunque più redditizie semplice­mente perché fanno pagare di più i ser­vizi che forniscono, e se operano in re­gime di monopolio fissare la tariffa che si desidera è ancora più semplice.

Ai profitti incamerati dal privato su­bentrato nelle aziende un tempo pub­bliche si sono aggiunti, durante il pro­cesso delle privatizzazioni, i profitti dei cosiddetti contractors, istituti finanziari che si sono occupati di valutare e collocare le aziende pubbliche sul merca­to finanziario, curiosamente divenuti centrali nel processo di privatizzazio­ne a causa di una mancanza dell’am­ministrazione pubblica: “Ciò che appare in ogni caso sin da ora evidente è il peso condizionante che per le scarne strutture amministrative e i componen­ti part time del Comitato privatizzazioni ha avuto l’articolata gamma dei nume­rosi contractors”.

Al banchetto hanno pasteggiato con abbondanza tutti i gran­di gruppi finanziari – l’ambiente dal quale,com’è noto, proven­gono sia Mario Monti (Goldman Sachs, Bilderberg, Trilateral ecc.) che Papademos, nuovo premier greco ed ex vice presi­dente della Bce – che ancora oggi dettano le regole di que­sta seconda e feroce fase del neoliberismo a una politica asso­lutamente consenziente. Goldman Sachs, Rothschild, Morgan Stanley, JP Morgan, Merryl Lynch, Sociètè Gènèrale e le italiane Imi e San Paolo di Torino (poi fuse con Banca Intesa nell’at­tuale Intesa Sanpaolo, da cui provengono i ministri Passera e Fornero), Mediobanca e altre hanno intascato complessiva­mente almeno 2,2 miliardi di euro, scrive la Corte dei Conti, su un totale di 134 incassati dalle privatizzazioni, registrando molti casi di ripetuti cumuli di incarichi in conflitto di interessi tra loro.

Resta infine da vedere se perlomeno le privatizzazioni ab­biano migliorato i conti dello Stato e arginato il debito pubbli­co, presentati come obiettivi primari dall’etica ufficiale del ne­oliberismo e invece considerati, parole della Corte dei Conti, un obiettivo secondario.

È indubbio che le entrate generate dalle vendite delle so­cietà pubbliche – 131,8 miliardi di euro netti dal 1992 al 2008, più altri 14 miliardi di debiti in capo alle società vendu­te e con esse trasferiti – hanno inciso positivamente sul bi­lancio statale, sia in termini di diminuzione del rapporto debito/Pil sia in termini di risparmio futuro per interessi – dato che grazie agli incassi, il debito pubblico è diminuito. Ma le politiche di privatizzazione “dovrebbero essere orientate al mantenimento (o all’accrescimento) nel tempo del patri­monio netto dello Stato, a vantaggio delle generazioni futu­re”. Se ho una casa che vale 100 – per valore di mercato, di costruzione, di posizione, di redditività possibile (se la affitto), di mobili che contiene – al netto delle spese che mi co­sta ogni anno, e la vendo a 60 dando a miei figli quel 60, è evidente che ho impoverito i miei figli, non li ho arricchiti. E a fronte di tutto ciò che la relazione dettagliata della Corte dei Conti contiene, è indubbio che da quella che è stata una svendita del patrimonio industriale italiano mascherata da privatizzazione, i cittadini siano stati impoveriti; oltre a ritro­varsi anche a pagare tariffe più alte per i servizi.

Questo, dal solo punto di vista economico. Poi c’è l’aspet­to politico. Ogni crisi è una grande possibilità per cambiare l’assetto strutturale di una società: con la scusa del ‘risana­mento’ e dei ‘sacrifici necessari’ consente ai poteri forti – in­dustriali (Marchionne docet) e finanziari – di modificare gli equilibri sociali a proprio favore, eliminare diritti e tutele al lavoro (come l’articolo 18) e ai cittadini tutti (come l’innal­zamento dell’età pensionabile e lo svuotamento dello Stato sociale). La misura di quanto questa crisi sia grave e struttu­rale è data dal fatto che per la prima volta i burattinai – i po­teri finanziari ed economici – sono stati costretti a scacciare i burattini – la classe politica – e a mostrarsi sul palcoscenico. Una classe politica becera, corrotta e contraddistinta da una piccolezza culturale come non si era mai vista ha facilitato il passaggio di consegne, alimentato da una corsa all’antipoli­tica a cui la grande informazione – manovrata e comandata dagli stessi poteri industriali e finanziari – ha tirato la volata con massicce campagne mediatiche.

Stiamo vivendo una svolta storica e ciò che più sconcerta è che ben pochi analisti – dando loro il beneficio della buo­na fede – sembrano accorgersene. Anche ben pochi citta­dini paiono rendersene conto, e rimbecilliti da vent’anni di propaganda neoliberista sostengono il ‘governo dei tecni­ci’ – senza accorgersi che questo è il governo più politico e ideologico che l’Italia abbia visto nella seconda Repubblica – e chiedono a gran voce liberalizzazioni e privatizzazioni.

Alla fine di questa legislatura la società non sarà più la stessa che abbiamo fino a oggi conosciuto: quel compromesso di socialdemocra­zia che ha consegnato all’Europa in­tera uno Stato sociale e che solo l’esi­stenza del contraltare dell’Urss, di un pensiero politico di sinistra, di un’uto­pia, di una chiave di lettura marxiana che individua nel conflitto capitale/la­voro i meccanismi strutturali di una so­cietà, hanno permesso. In Italia come in tutta Europa lo Stato avrà una sola funzione: reprimere il conflitto sociale, scatenato da una popolazione sempre più impoverita dai dictat dei grandi po­teri finanziari e industriali e priva di un referente politico.

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