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Il debito estero come strumento di dipendenza: l'Italia prima e dopo l'euro*

Rivista Indipendenza

Il processo di unificazione europea (con significativo sbocco nell’introduzione dell’euro), è tra i responsabili primari dell’impennata del debito/credito pubblico e sta favorendo la preoccupante crescita del debito estero. Veri beneficiari, le oligarchie finanziarie statunitensi ed il sistema capitalistico statunitense nel suo insieme.

Si proverà a spiegare cosa realmente sia il debito pubblico e le origini delle sue ingenti dimensioni, per comprendere anche come la questione debito pubblico sia la spia di una subordinazione nazionale sempre più pervasiva.

Nonostante gli effetti incidano profondamente sulle condizioni materiali della maggioranza della popolazione, manca una corretta individuazione delle sue cause.
 

1. Dall'integrazione monetaria all'indebitamento estero

Fin dai primi anni Novanta, il debito pubblico è il principale pretesto addotto per giustificare i tagli alla spesa sociale ed agli investimenti pubblici, l’aumento della pressione fiscale nonché lo smantellamento - attraverso le privatizzazioni– del sistema delle partecipazioni statali. Le cause addotte: corruzione e ingordigia del ceto politico democristiano e socialista spazzato via da "Mani Pulite" [scenari a tinte fosche se non si fosse proceduto in tal senso, con accento puntato in particolare per le generazioni future].

Da qui l’enfasi all’intervento salvifico del Trattato di Maastricht: i suoi disciplinanti vincoli per il risanamento dei conti pubblici indispensabili per evitare la “bancarotta” del paese. Le privatizzazioni, peraltro imposte da accordi europei come quello Andreatta-Van Miert del 1993, avrebbero consentito di incamerare risorse vitali.

Nonostante le finanziarie “lacrime e sangue” varate specialmente dal centrosinistra, il rapporto Debito pubblico/Prodotto interno lordo (PIL) è stimato nel 2002 (da Banca d’Italia) a quota 106%, alcuni punti percentuali in più rispetto al 1991. Le modalità di realizzazione e gli introiti delle privatizzazioni, attuate sotto la ben remunerata “consulenza” delle grandi banche d’affari a dominanza statunitense, ci mostrano poi che l’obiettivo di espellere il controllo statale da preminenti settori produttivi e dal comparto bancario è stato ben prevalente rispetto alla sbandierata necessità di fare cassa.

La nostra interpretazione è un’altra. L’espansione del debito pubblico ha le sue cause nel sostegno ad un sistema capitalistico italiano in crisi, dagli anni Settanta, per eventi esterni, in particolare le crisi petrolifere; la sua crescita esponenziale si attiva con l’avvio del processo d’integrazione monetaria europea.


Un glossario estremamente sintetico e preliminare

Distinguere le nozioni di:
 

avanzo / disavanzo (deficit): si ha un disavanzo quando, in un dato anno, la spesa del settore statale è maggiore delle relative entrate (nel caso opposto, si registra un avanzo di bilancio).
L’entità del disavanzo misura dunque la quantità di fondi di cui lo Stato ha bisogno, annualmente, per coprire le spese.

debito pubblico: somma di tutti i disavanzi di bilancio rilevati nel corso degli anni.
 

Per coprire le spese in disavanzo, il Tesoro prende in prestito fondi. In cambio, emette titoli gravati da interessi, iscritti nel bilancio dello Stato alla voce “spesa per interessi”. Una voce tenuta sotto osservazione dagli economisti, che dividono in due parti il disavanzo di bilancio:

1) la componente finanziaria
della spesa per interessi, appunto, il cui ammontare è direttamente proporzionale ai titoli di debito in circolazione ed al livello dei tassi d’interesse,
2) il disavanzo o avanzo primario, cioè la differenza, negativa o positiva, tra entrate e spese al netto degli oneri finanziari.
 
Dalle relazioni annuali della Banca d’Italia si rileva che dal 1991 in poi il disavanzo annuale dei conti pubblici è dovuto integralmente alla spesa per interessi: il resto del bilancio statale segnala una prevalenza, sempre più marcata negli anni, delle entrate sulle spese. In altri termini, gli ultimi bilanci annuali si presentano in disavanzo esclusivamente per gli interessi da corrispondere sul debito pregresso.

Da qui una domanda: perché i governi di centrodestra e centrosinistra dell’ultimo decennio, i cui esponenti hanno esternato a più riprese preoccupazioni sull’entità del debito pubblico, non hanno agito sulla riduzione della spesa per interessi? La risposta sta nello scenario determinato dal processo d’integrazione monetaria europea, come si rileverà nel prosieguo dello scritto.

Per misurare peso e pericolosità di disavanzo e debito pubblico e confrontarli con quello di altri Stati, è stato convenuto di esaminarli non come cifre a sé stanti, bensì in rapporto percentuale al PIL (la ricchezza prodotta capitalisticamente –da residenti nazionali e non– all’interno di un dato Stato). Un rapporto il cui andamento dipende da quattro variabili: il tasso di crescita del PIL, il tasso d’interesse medio sul debito, l’ammontare del disavanzo o avanzo primario dell’anno in corso e quello del debito pubblico pregresso. Gli indicatori statistici, va però rilevato, svolgono sovente una funzione politica: presentare un quadro finanziario in cui il rapporto tra debito e PIL supera il 100%, e dare l’idea che occorrerebbe impiegare più della ricchezza prodotta in un anno per estinguere il debito, funziona nell’allarmare la collettività e spingerla ad accettare i sacrifici richiesti. Taluni rilevano poi che è del tutto arbitrario rapportare una grandezza economica indicante una consistenza formatasi nel corso degli anni (debito pubblico) con un’altra che stima il flusso di beni e servizi prodotto in un anno (PIL). Sarebbe semmai più corretto rapportare il debito pubblico con un’altra grandezza economica rappresentante una consistenza: l’insieme delle attività finanziare nette detenute dalle famiglie, ad esempio.


Mistificazioni e falsi allarmismi sul debito pubblico


Secondo la vulgata dominante, il debito pubblico rappresenta un peso economico per la collettività, in particolare per le generazioni future – il “su ogni cittadino grava un debito di decine di milioni” ripetuto ossessivamente dai mezzi di comunicazione – e un pericolo di bancarotta per lo Stato.

Affrontiamo le due tesi. Se ogni cittadino è gravato da un debito di tali dimensioni, chi è il fortunato creditore? Nei confronti di chi lo Stato-collettività (due concetti che vanno tenuti distinti, ma che in questa sede assumeremo come identici) si è indebitato? Qui sta la sorpresa: nell’ipotesi che i titoli statali vengano sottoscritti da cittadini di questo Stato – la situazione vigente fino a qualche decennio fa –, il debito pubblico è contemporaneamente un credito pubblico; tale passività dello Stato risulterebbe nello stesso tempo un’attività per tutti i “cittadini” – dal piccolo risparmiatore agli istituti industriali e finanziari – possessori di titoli di Stato. Insomma, il debito pubblico si configura come il “debito che la mano destra deve alla mano sinistra” di cui parlava l’economista Jean-François Melon.

Il pericolo di bancarotta (paventato in modo interessato) lascia il tempo che trova: la pratica dei rimborsi di titoli pubblici ha mostrato che lo Stato si può in teoria indebitare all’infinito rinnovando ad ogni scadenza il debito con i propri “cittadini”. Utilizzando il ricavato derivante dall’emissione di nuovi titoli, può estinguere quelli vecchi [anche i più disonesti promotori finanziari o funzionari di banca non possono nascondere che l’investimento finanziario più sicuro è proprio quello in titoli di Stato].

Oltre a diminuire le spese o aumentare le entrate per rimborsare i titoli, uno Stato effettivamente sovrano potrebbe inoltre, in caso di necessità, ricorrere ad estremi rimedi. D’altronde, si è mai visto uno Stato che va in fallimento nei confronti di propri cittadini od imprese? Semmai il contrario.

Se la remunerazione dei titoli non è particolarmente allettante, per non innalzare il costo delle emissioni lo Stato potrebbe allora, come negli anni Settanta, farsi finanziare dalle banche. Per ridurre drasticamente i rimborsi di titoli, potrebbe persino ricorrere a misure di consolidamento, che cioè congelano il rimborso del debito garantendo comunque il pagamento degli interessi. Tali misure certamente accenderebbero conflitti politici, ma escludono l’ipotesi di bancarotta. Non dimentichiamoci infine che, emettendo titoli, ci si impegna semplicemente a rimborsare una determinata somma di denaro: la Banca Centrale potrebbe dunque creare, ossia stampare, il denaro occorrente. Questa creazione di moneta, ora vietata dalle normative di Maastricht, può causare inflazione, ma il rischio di bancarotta è comunque escluso.

In conclusione: se i titoli di uno Stato effettivamente sovrano sono sottoscritti da suoi cittadini, il debito pubblico non è né un peso economico, né rappresenta un pericolo per l’economia nazionale.


I veri problemi posti dal debito pubblico. L’indebitamento verso l’estero


I problemi posti dall’indebitamento pubblico sono altri. Dato che la distribuzione dei titoli di Stato tra la collettività non è uniforme, si assiste ad un trasferimento di redditi, in termini di spesa per interessi, verso quella parte di essa detentrice di titoli pubblici. Soprattutto se i tassi di remunerazione sono elevati, il pagamento degli interessi, comportando maggiore pressione fiscale o riduzioni della spesa pubblica, accentua le disuguaglianze sociali a vantaggio dei ceti più abbienti detentori di titoli.

Tali iniqui trasferimenti di ricchezza rimarrebbero comunque interni ad un determinato Stato, e non invaliderebbero le argomentazioni addotte nel paragrafo precedente.

Il discorso cambia completamente se il debito pubblico viene contratto con investitori esteri. Questo non si configurerebbe più come credito pubblico, bensì come debito estero: il pagamento degli interessi darebbe luogo ad una fuoriuscita di risorse dallo Stato, mentre la spada di Damocle delle strategie politico/finanziarie di istituti esteri graverebbe sul rimborso dei titoli. Devastanti le conseguenze sulla sovranità finanziaria, come ben mostrano i casi di vari Stati dell’America Latina. Una situazione che oggi riguarda pure l’Italia: il Bollettino economico della Banca d’Italia 2003 ha stimato che il 50% dei titoli di Stato italiani è in mano ad istituti esteri.


Anni Settanta ed Ottanta: l’espansione dei disavanzi pubblici


Per comprendere come si sia arrivati a tale indebitamento con istituti esteri e soprattutto da dove tragga origine il considerevole debito pubblico, è d’obbligo un excursus storico.

Gli anni Settanta sono stati – principalmente per le economie degli Stati a capitalismo avanzato dell’Europa occidentale e del Giappone – anni di forte instabilità anche politica, di stagnazione della crescita capitalistica e di forti aumenti dei prezzi. Sulle origini di quest’ultimo punto, c’è chi ha parlato di inflazione importata, da ricondurre principalmente agli aumenti del prezzo del petrolio deliberati dai paesi produttori organizzati nell’OPEC nel 1973 (da 2-3 dollari a 12 dollari il barile) e nel 1979 (aumento a 32 dollari il barile).

Non è importante adesso analizzare questi ed altri rilevanti eventi di quegli anni. Ai fini di questo intervento, rileviamo come tali accadimenti esterni si siano ripercossi negativamente e con particolare intensità sul capitalismo italiota. Per sostenerlo, una delle risposte è stato il ricorso ad elevati disavanzi pubblici.

L’elevata spesa in disavanzo negli anni Settanta e poi negli anni Ottanta non risiede dunque in un improvviso esplodere della corruzione, come se nei decenni passati (esemplificativo Le Mani sulla città di Francesco Rosi del 1963) e ora sia assente. Inoltre, si confrontino le cifre delle tangenti con quelle, ad esempio, delle spese per gli investimenti: emergerà che la corruzione in oggetto costituisce comunque una percentuale minima del debito complessivo.

La spesa del settore statale dunque s’impenna. Sia quella esplicitamente diretta a convogliare fondi verso le imprese private e statali – ma le vere beneficiarie d’ultima istanza saranno le indebitate imprese private. Sia quella indiretta come previdenza ed assistenza: saranno i contributi sul lavoro a finanziare – tramite prepensionamenti, Cassa integrazione, sgravi contributivi ed altro – la ristrutturazione a base di licenziamenti e decentramento produttivo che le grandi imprese attueranno, specialmente negli anni Settanta, per contenere il costo del lavoro. Al contempo, si attutiscono le tensioni sociali.

Hanno ammesso economisti di tendenze liberiste come Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa che, anche in virtù della spesa in disavanzo, la crescita capitalistica nel periodo 1972-1980 fu meno bassa rispetto agli altri Stati e si alleviò il peso sociale della disoccupazione.

L’economista Augusto Graziani (Lo sviluppo dell’economia italiana, Bollati Boringhieri, 2000) rileva altresì come «la spesa pubblica in disavanzo rappresenta, per il settore privato, una fonte gratuita di risorse liquide» che gli consentì di risolvere, «nel corso degli anni Ottanta, il problema dell’indebitamento nei confronti delle banche», i cui oneri finanziari determinavano perdite in bilancio per la maggior parte delle imprese.

Eppure l’aumento dei disavanzi pubblici si spiega non soltanto con la forte espansione della spesa pubblica, che aumenta in Italia e in ogni Stato in Europa. Ciò che differenzia il nostro paese dagli altri è il mancato corrispondente aumento delle entrate. Nel mentre la riforma tributaria varata a metà degli anni Settanta appesantisce ulteriormente il carico fiscale sui lavoratori dipendenti, si lasciano ampi margini d’evasione fiscale a lavoratori autonomi e piccole, medie e grandi imprese. Il sistema capitalistico italiota trova così un proprio equilibrio. Tali classi, peraltro, soprattutto negli anni Ottanta, investiranno le proprie eccedenze fiscali proprio in titoli di Stato divenuti frattanto molto remunerativi.


Debito pubblico a basso costo. La gestione amministrativa del debito negli anni Settanta


Abbiamo richiamato le cause esterne all’origine dell’espansione dei disavanzi annuali di bilancio. Abbiamo rilevato che in Italia, a differenza di altri Stati in Europa, alla crescita della spesa non ne corrisponde una analoga delle entrate. Ora mettiamo in evidenza come l’entità dei disavanzi registrati negli anni Settanta sarebbe potuta essere molto più alta.

Pur ribadendo le nostre critiche all’indicatore statistico Debito pubblico/PIL, ce ne serviremo nell’esposizione delle nostre tesi. Tale rapporto passerà dal 41% nel 1970 al 59% nel 1980 (cfr Giancarlo Morcaldo, La finanza pubblica in Italia, Il Mulino, 1993): un’espansione piuttosto limitata, soprattutto tenuto conto dell’inflazione di quegli anni. Cosa rese possibile ciò? Il contenimento dei tassi d’interesse, al netto dell’inflazione addirittura negativi. In che modo? Grazie ai finanziamenti della Banca Centrale e del comparto bancario – quest’ultimo soggetto a controlli amministrativi sulla crescita e destinazione del credito – ed alla predisposizione di barriere amministrative al movimento di capitali verso l’estero.

Scendiamo più nel dettaglio. Nel periodo 1970-1976, i disavanzi statali furono coperti: dalla Banca d’Italia (50%), da prestiti erogati da istituti di credito (17%) e dalla Cassa Depositi e Prestiti, cioè l’Amministrazione Postale (14%) –queste ultime due voci a beneficio degli Enti locali e sanitari–, da titoli pubblici per la parte restante. La maggior parte del debito pubblico di quel periodo non era dunque contratto nei confronti di risparmiatori sul “mercato”. Dal 1977 si inverte la tendenza. È però negli anni Ottanta, come emergerà dai paragrafi successivi, che si aggrava notevolmente il costo delle emissioni e dunque l’entità del debito pubblico.

La Banca d’Italia finanziava il Tesoro prevalentemente attraverso due strumenti. Primo: l’acquisto di titoli di Stato all’emissione. La Banca d’Italia sottoscriveva i titoli non collocati sul mercato stampando moneta. Secondo: il conto corrente di tesoreria presso la Banca d’Italia, in cui i saldi debitori del Tesoro erano soggetti ad un tasso d’interesse dell’1%. Tali sostegni della Banca d’Italia, avvenendo a costi nettamente inferiori a quelli derivanti dalla collocazione di titoli sul mercato, hanno consentito al Tesoro un considerevole risparmio in termini di interessi sul bilancio statale.

Risparmi analoghi permetteva il ricorso al comparto bancario, i cui prestiti concessi ad Enti locali e sanitari furono trasferiti al Tesoro e sostituiti con titoli pubblici dal 1977.
 
Il sostegno del sistema bancario, che finiva anche per acquistare parte dei titoli detenuti dalla Banca d’Italia, veniva assicurato tramite due forme di controllo amministrativo sul credito:

il massimale sui prestiti ed il vincolo di portafoglio.
 
Il massimale sui prestiti imponeva un limite massimo di crescita ai crediti concessi a talune categorie di clientela bancaria.
 
Il vincolo di portafoglio, invece, obbligava gli istituti di credito ad un investimento minimo in titoli di Stato commisurato all’entità dei loro depositi.
 

Anche il ricorso a tali strumenti – oltre a permettere di controllare la destinazione degli impieghi bancari – consentiva al Tesoro di emettere titoli a tassi d’interesse (cioè la loro remunerazione per chi li acquista) inferiori a quelli che si sarebbero determinati sul mercato. In sostanza, si aumentava forzatamente la domanda di titoli pubblici (che venivano così emessi ad un costo minore per lo Stato): con il massimale, convogliando le risorse bancarie non destinabili ai prestiti verso l’acquisto di titoli; con il vincolo di portafoglio, imponendone l’acquisto coatto.


Strumenti per limitare fortemente fughe all'estero di capitali


I bassi tassi d’interesse sui titoli emessi non provocano ingenti fughe di capitale per le restrizioni ed i controlli sui movimenti di capitale verso l’estero. I principali strumenti erano:

il divieto di investimenti all’estero a breve termine, e soprattutto il deposito vincolato infruttifero sull’acquisizione di attività all’estero (in misura pari al 50% dell’investimento) che, gravando tali acquisizioni di un costo aggiuntivo, riduceva la convenienza ad operare transazioni fuori casa.
 

Tali barriere, prevenendo imponenti fughe di capitali ed isolando il mercato finanziario italiano da quello internazionale, contribuivano a determinare tassi d’interesse interni più bassi di quelli vigenti all’estero.


Dall’adesione allo SME al Trattato di Maastricht. Fine dell’indebitamento a basso costo

 
La politica economica attuata negli anni Settanta si basò sull’utilizzo dell’inflazione e della spesa in disavanzo, nei conti pubblici, al fine di attutire i conflitti sociali e sostenere le grandi imprese; sulla svalutazione della lira, in particolare nei confronti delle valute europee, al fine di rendere competitive le esportazioni; sul controllo diretto del credito, i finanziamenti della Banca d’Italia e le restrizioni sui movimenti di capitale, al fine di ridurre la spesa per interessi sul debito pubblico. Di fatto il mercato finanziario italiano venne così isolato da quelli internazionali. Un isolamento che, al contrario di quanto affermano le teorie neoliberiste, non ha prodotto alcuna miseria e povertà, ma ha permesso di contenere gli effetti negativi indotti da eventi esterni.


Come il tutto viene smantellato


Il processo d’integrazione monetaria sconvolgerà tali equilibri. Richiamiamo brevemente le tappe principali.

13 marzo 1979. Entra in vigore il Sistema Monetario Europeo [SME]. Anche il meccanismo di funzionamento dello SME imponeva una politica di tassi d’interesse elevati. Il mantenimento del cambio entro una delimitata banda di oscillazione (anche se del 6% per la Lira rispetto al 2,5% delle altre valute europee) penalizzava le esportazioni e dunque la bilancia commerciale. Per compensare il minor afflusso di valuta dovuto al passivo nei movimenti di merci, si doveva allora ricorrere ad importazioni di capitali. Quindi alzare i tassi d’interesse per rafforzare la quotazione della Lira e attrarre capitali esteri. Lo SME è volto ad instaurare un sistema di cambi fissi tra gli Stati aderenti. Un passo preliminare verso la creazione di uno spazio europeo integrato anche dal punto di vista finanziario, basato sui principi della “concorrenza” e sulla totale liberalizzazione dei movimenti di capitale (più precisamente, dei capitali finanziari privati): obiettivi raggiunti con la sottoscrizione dell’Atto Unico Europeo nel 1986 e del Trattato di Maastricht nel 1992.

Tale liberalizzazione è incompatibile con la fissazione controllata dei tassi d’interesse ottenuta tramite gli strumenti di gestione amministrativa del debito descritti nel paragrafo precedente, che verranno così progressivamente smantellati. Dirompenti furono gli effetti sulla spesa per interessi.

Nel 1981
avviene il cosiddetto “divorzio” tra la Banca d’Italia, presieduta dal Governatore Carlo Azeglio Ciampi, ed il ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta: da quel momento la Banca d’Italia non garantisce più la sottoscrizione dei titoli rimasti invenduti. Diminuirà così progressivamente il finanziamento monetario delle esigenze del Tesoro, costretto ad alzare i tassi d’interesse sulle emissioni di titoli per poterli piazzare.
 
Nel 1983 viene accantonato il massimale sugli impieghi e cadono gli ultimi vincoli di portafoglio.
 
Nel 1984 vengono allentate le restrizioni nell’assegnazione di valuta per i viaggi all’estero.
 
Nel 1987 si
ha l’abolizione dell’obbligo del deposito vincolato infruttifero sull’acquisto di attività estere.

Nel 1990 entra infine in vigore la direttiva CEE sulla liberalizzazione dei movimenti di capitale a breve termine.
 
Tra le rilevanti conseguenze, sottolineiamo il venir meno dell’obbligo di utilizzare il sistema bancario per i rapporti economici con l’estero. L’incanalamento di tutte le transazioni con l’estero nel sistema bancario, fino ad allora prevalentemente statale, consentiva a Tesoro e Banca d’Italia di attuare controlli coercitivi sui flussi valutari e sui cambi. Si rinuncia così a cuor leggero a strumenti decisivi per l’esercizio della sovranità monetaria e finanziaria.


L’impennata del debito pubblico e l’inefficace riduzione dei disavanzi primari

 
Nel nuovo contesto di progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale, i tassi d’interesse vengono agganciati a quelli vigenti sui mercati internazionali. Tassi sulla cui determinazione l’economista e docente universitario Marcello De Cecco (cfr la Repubblica, 14 gennaio 2004) rivela che è «l’economia statunitense a chiamare la danza ed il resto del mondo a dover ballare al ritmo da loro imposto».

Nella prima metà degli anni Ottanta, ad esempio, i tassi d’interesse internazionali, e di riflesso gli interessi da corrispondere sui titoli di Stato italiani, conosceranno una forte impennata in virtù della politica monetaria restrittiva attuata dal Governatore della Federal Reserve (la Banca Centrale statunitense), Paul Volcker. La restrizione della quantità di moneta puntava ad accrescere la quotazione del dollaro ricorrendo ad alti tassi d’interesse. Ne derivò non soltanto l’artificiale moltiplicazione del debito estero per Stati come quello del Messico, che nel 1982 si dichiarò “insolvente”. Gli aumenti dei tassi si estendono anche all’Italia, le cui autorità monetarie adottano una politica volta ad importare capitali esteri per compensare lo squilibrio nei movimenti delle merci (e dunque il minor afflusso di valuta) indotto dai cambi fissi dello SME.
Tali aumenti, sommandosi al progressivo venir meno degli strumenti di gestione amministrativa del debito pubblico descritti in precedenza, producono un’impressionante lievitazione della spesa per interessi nel bilancio statale. Dunque del rapporto Debito/PIL, che passa dal 59% nel 1980 all’85% nel 1985. Non solo. Rileva ancora Graziani che tassi così elevati, trasmettendosi anche su quelli dei finanziamenti bancari, hanno prodotto «effetti depressivi sugli investimenti (…) Il Governo fu costretto ad intervenire sistematicamente in favore della grande industria, moltiplicando trasferimenti e sussidi», appesantendo ulteriormente il debito.

Frattanto, nel 1985, il tasso d’interesse medio pagato sul debito pubblico diviene maggiore del tasso di crescita del PIL. Ciò comporta ulteriori effetti moltiplicatori sul rapporto Debito/PIL.

Di fronte a tale impennata, Tesoro e Banca d’Italia affermano che occorre ridurre gradualmente i disavanzi primari –dunque tagliare la spesa pubblica ed aumentare la pressione fiscale. Riducendo questi, si sosteneva, si sarebbero magicamente ridotti i tassi d’interesse sul debito e dunque il suo ammontare complessivo. Una strategia di politica economica inevitabilmente destinata al fallimento. A partire dal 1986, si cominciano a ridurre gradualmente i disavanzi primari, trasformatisi dal 1991 in avanzi primari (e questo succedeva con Craxi ed Andreotti ancora protagonisti della vita politica italiana). Eppure, nonostante lo Stato –nel 1991 e negli anni successivi– spendesse, per fornire beni e servizi ai “cittadini”, meno di quanto incassasse al netto della spesa per interessi, i tassi d’interesse indotti dall’esterno sul debito non si arrestano e tantomeno il suo ammontare complessivo. Anzi, la riduzione dei disavanzi primari, riducendo la domanda interna per consumi ed investimenti, provoca un abbassamento della crescita del PIL. Si alimenta così l’avvitamento su se stesso del rapporto Debito/PIL. Un circolo vizioso irrefrenabile se non si interviene sui tassi d’interesse, che moltiplicati per l’ammontare del debito in circolazione danno luogo ad un considerevole ammontare della spesa per interessi.

Per dare un’idea dei numeri in gioco e del suo peso, in un saggio di Modigliani, Baldassarri e Castiglionesi (Il miracolo possibile, Laterza, 1996) sono rinvenibili i seguenti dati: mentre la somma dei disavanzi primari, tra il 1980 e il 1991, aumentava il debito pubblico di circa 250.000 miliardi di lire, nello stesso periodo la spesa per interessi lo aumentava di circa 800.000 miliardi. Dal 1991 al 1994, mentre la realizzazione di avanzi primari diminuiva il debito complessivo di circa 100.000 miliardi, la spesa per interessi lo aumentava di circa 500.000 miliardi.

Tagli alla spesa, aumento della pressione fiscale ed introiti derivanti dalle privatizzazioni hanno dunque fatto il solletico ad un debito pubblico arrivato a tali livelli proprio per la rinuncia, imposta dalle normative europee, a controllare la spesa per interessi indotta dall’esterno. Il rapporto Debito/PIL, infatti, dopo aver raggiunto il 124% nel 1994, è progressivamente calato al 106% nel 2002: ma questo è potuto accadere solo in virtù del calo a livello internazionale dei tassi d’interesse.


Dal credito pubblico all’indebitamento estero


La liberalizzazione dei movimenti di capitale, obiettivo fondamentale dei Trattati europei, oltre ad aver avviato la crescita esponenziale del rapporto Debito pubblico/PIL, ha aperto ampi spazi agli investitori esteri, liberi di investire e disinvestire senza restrizioni. La posizione debitoria netta verso l'estero dell'Italia, praticamente nulla all'ingresso dell'Italia nello SME, è andata progressivamente crescendo negli anni successivi. Nello specifico dei titoli di debito pubblico, se negli anni Ottanta i risparmiatori italiani, incentivati dalle alte remunerazioni, dall'anonimato e dalle esenzioni fiscali, risultavano ancora i maggiori acquirenti, la situazione si capovolge negli anni Novanta. I piccoli risparmiatori, anche in virtù del calo delle remunerazioni, sono spinti all'acquisto di rischiose obbligazioni private [Un titolo obbligazionario è in sostanza un “pezzo di carta” rappresentativo di un debito ed è emesso dalle società di capitali per reperire mezzi finanziari]. Al loro posto, ecco gli istituti finanziari esteri con quel 50% di acquisti di titoli di Stato stimato dalla Banca d'Italia. A riguardo, sempre Marcello De Cecco (L'economia italiana negli ultimi trent'anni, in Sabino Cassese, Ritratto dell'Italia, Laterza, 2001) evidenzia che il Tesoro avrebbe attuato, nell’ultimo decennio, una politica «diretta a rendere i titoli di debito italiani negoziabili sui mercati finanziari internazionali e a spostarne la proprietà, almeno in gran parte, agli investitori istituzionali stranieri».

Più precisamente il Tesoro, in una situazione di calo generalizzato dei tassi d’interesse, invece di provare ad accorciare la durata media dei titoli di Stato –attualmente pari a quasi sei anni– per sfruttare i più bassi tassi a breve e medio termine, emette titoli a lungo e lunghissimo termine dai rendimenti più elevati, superiori al tasso di crescita del PIL. Ad esempio, nel primo semestre 2003 il Tesoro ha emesso dei BTP trentennali al tasso quasi del 5%. Ciò in una situazione in cui il rendimento dei BOT a 12 mesi è stato pari all’1,86%.

Come si spiega questa deleteria gestione delle finanze statali? Nelle linee guida 2003-2004 sulla gestione del debito pubblico formulate dal Tesoro, si può leggere la spiegazione: «L’offerta dei titoli viene calibrata coerentemente con le esigenze degli operatori», vale a dire degli istituti finanziari esteri a dominanza statunitense, i quali, rileva ancora De Cecco, «controllano i mercati sui quali i titoli di Stato sono trattati e possono senza difficoltà farne cadere i prezzi». Parole che da sole dovrebbero gettare l’allarme sulla deriva da Repubblica delle banane del nostro paese e della penetrante influenza di oligarchie finanziarie estere. Non c’è solo un problema, comunque non irrilevante, del drenaggio di fondi per interessi verso l’estero. Le conseguenze sono soprattutto politiche: si consente ad istituti finanziari esteri di disporre di ulteriori strumenti di ricatto per dettare la politica economica statale. Lo dimostrano le pressioni, coronate da successo, dell’agenzia di rating statunitense Standard & Poor’s sul varo del decreto Scip 2 sulla cartolarizzazione degli immobili degli Enti previdenziali, o le minacce di declassamento del debito pubblico lanciate dalla stessa agenzia in caso di mancato approntamento di una riforma delle pensioni.


2. Gli strumenti finanziari


Fondo Monetario Internazionale ed Unione Europea. Significative analogie

La questione dell’indebitamento verso l’estero non concerne solo gli acquisti di titoli di Stato. Al fine di rispettare i vincoli del Patto di stabilità, che restringono fortemente il ricorso all’indebitamento pubblico interno e vietano i finanziamenti monetari della Banca Centrale, lo Stato è tra l’altro spinto a tagliare i trasferimenti agli Enti Territoriali. I quali, bisognosi di fondi, si stanno pesantemente indebitando verso banche d’affari e fondi d’investimento esteri. Lo Stato stesso ricorre al contempo ad operazioni finanziarie (esempio: le cartolarizzazioni) verso tali istituti finanziari, anch’essi generatori di un non palese ma altrettanto pericoloso indebitamento.

Oltre all’indebitamento pubblico verso l’estero, aumenta quello privato: il caso Parmalat, il primo grande gruppo italiano a ricorrere ai servizi delle banche d’affari statunitensi, rappresenta un monito per le stesse parassitarie grandi famiglie. Stato e grandi imprese si stanno avvitando insomma in una spirale debitoria i cui effetti non si sono ancora pienamente dispiegati. Il baratro davanti cui si trova la collettività di questo paese, in futuro chiamata come in Argentina alla socializzazione selvaggia dei costi di tali politiche, non è ancora percepito. Così come non si è presa coscienza delle conseguenze derivanti dal processo d’unificazione europea, analoghe a quelle scaturenti dai cosiddetti programmi di aggiustamento strutturale del Fondo Monetario Internazionale (FMI) negli Stati ad esempio dell’America Latina o del Sud-Est asiatico. Programmi con cui tali Stati, costretti ad accedere ai prestiti-usurai dell’FMI, si sono visti rimodellare gli elementi portanti del proprio sistema economico.

Molte delle condizioni politico/economiche che il FMI – istituto fattivamente operante nel quadro degli interessi statunitensi – ha imposto lì con tali programmi, sono veicolate qui dal processo d’unificazione europea: l’imposizione di vincoli sul disavanzo di bilancio (comportanti anche il taglio degli investimenti pubblici, l’abolizione dei sussidi e delle sovvenzioni per le imprese statali e lo smantellamento dello Stato sociale); l’abolizione di controlli di Stato sull’economia; la liberalizzazione dei movimenti dei capitali finanziari privati; “l’indipendenza” della Banca Centrale dalle autorità politiche; le privatizzazioni dei servizi pubblici e dei settori strategici; la deregolamentazione di prezzi e tariffe; la libertà d’azione per le grandi multinazionali industriali e finanziarie estere. In due parole, lo smantellamento di pezzi decisivi di sovranità economica e finanziaria. Tali programmi, ricordiamo, hanno infine accresciuto il debito estero dei malcapitati Stati e peggiorato drasticamente le condizioni di vita delle rispettive popolazioni, che hanno tra l’altro assistito ad un rilevante aumento del costo della vita.

Analoghe conseguenze si stanno registrando negli Stati membri dell’Unione Europea, in particolar modo in Italia. Dietro il principio della “stabilità dei prezzi” (uno dei cardini del Trattato di Maastricht), si sono esautorati gli Stati membri dal potere di regolare la propria liquidità interna. La politica monetaria, così come quella del cambio, è stata ceduta alla Banca Centrale Europea, cui le normative europee vietano qualsiasi forma di sostegno finanziario agli Stati; quella fiscale, invece, è compressa dai vincoli del Patto di stabilità. Priva di sovranità economica e finanziaria, ed avvitata in una spirale perversa di bassa crescita del PIL ed elevati disavanzi statali, l’Italia si ritrova sempre più tra le braccia di istituti finanziari esteri a dominanza statunitensi.

Così come per i paesi sottoposti alle cure del FMI, il rischio sempre più concreto per il nostro paese è di finire invischiati in un meccanismo debitorio usuraio finalizzato, in ultima istanza, ad un’ulteriore accentuazione del controllo dell’Italia da parte di oligarchie economiche statunitensi. Ad un’attenta analisi, il sistema capitalistico statunitense nel suo complesso si rivela il vero beneficiario del processo di unificazione europea. L’indebolimento dei sistemi economici degli Stati membri e la loro immissione nel “mercato finanziario globale” rafforza la penetrazione di interessi capitalistici statunitensi, soprattutto delle sempre più presenti oligarchie finanziarie. Aggiunto allo smantellamento di pezzi rilevanti di sovranità economica e finanziaria, ed al meccanismo di subordinazione militare e di controllo politico ed economico della NATO, gli Stati Uniti stanno prevenendo a tutto campo l’emergere di un concorrente imperialista anche nel ‘Vecchio Continente’. Sarebbe ora di rendersi conto dei meccanismi di sudditanza indotti dall’unificazione europea, per spezzare catene imperialiste di qualsiasi provenienza, di diretta od interposta natura.


Rinazionalizzare la finanza


A partire dalla metà degli anni '80 gli Stati uniti si sono trovati di fronte alla seguente questione: come finanziare il debito (estero e di bilancio) in assenza di risparmio nazionale? Semplicemente facendo venire il denaro dai paesi risparmiatori. Ovvero, all'epoca (come d'altronde ancora oggi), Giappone e Germania, a cui si è aggiunta ormai anche la Cina. La deregolamentazione finanziaria è dunque la risposta strategica consistente nell'impostare le strutture della circolazione internazionale dei capitali per esonerare l'economia americana dal dover completare il circuito risparmio-investimento all'interno del proprio spazio nazionale.

Nelle relazioni tra debitori e creditori, le strutture dei mercati di capitali liberalizzati rovesciano i rapporti di forza a favore dei secondi. Prendere denaro in prestito sui mercati significa sottomettersi al loro verdetto. Dall'imposizione di tassi d'interesse i più bassi possibili alla sanzione di qualunque scostamento dal deficit di bilancio, passando per l'interdizione del suo finanziamento monetario e la santificazione del modello della banca centrale indipendente, è possibile farsi un'idea, anche solo superficiale, dell'ampiezza delle rinunce di politica economica determinate dal controllo dei mercati. Quelli che in condizioni di normalità sono dei vincoli, in una situazione di crisi si trasformano in incubi. Infatti, la diffidenza degli investitori si manifesta attraverso la vendita dei titoli del debito pubblico, il cui risultato è un aumento dei tassi d'interesse, ovvero del costo del finanziamento degli stati. Il supplemento di tensioni finanziarie che ne segue può arrivare fino all'imposizione di costi esorbitanti ai bilanci pubblici, come se ne stanno dolorosamente rendendo conto i greci. Le tensioni che si determinano intorno all'ipotesi di una crisi delle finanze pubbliche hanno l'effetto di condurre gli operatori in una direzione che manifesta tutte le caratteristiche della dottrina normalizzatrice dei mercati e che inasprisce l'adeguamento della politica economica - per capirlo è sufficiente guardare all'ampiezza dei sacrifici che gli investitori esigono a breve termine dalla Grecia in cambio di un'apparente ritorno alla calma... È proprio in questo frangente che il caso giapponese potrebbe fare scuola. Per affrancarsi dai creditori abusivi è necessario... cambiare creditori. Il Giappone ha avuto la saggezza di fare ciò, o piuttosto ha avuto il buonsenso di non compiere il primo passo, quello che ha gettato la maggior parte degli altri paesi tra gli artigli degli investitori a cui le strutture dei mercati deregolamentati hanno permesso di entrare nei mercati nazionali... dando loro un enorme potere di condizionamento rispetto alle politiche economiche degli stati. Contrariamente a quanto enunciato dall'ideologia della globalizzazione, che fa l'apologia della soppressione di tutte le frontiere (e specialmente di quelle che potrebbero ostacolare i movimenti di capitali) il caso giapponese, in materia di indebitamento dello stato, offre l'esempio di un'opzione non solo valida ma dotata di proprietà vantaggiose. Non si vuole qui sostenere che la soluzione giapponese offra una riposta infallibile, che permetterebbe ai debiti pubblici di essere finanziati in modo illimitato e al di fuori di qualunque vincolo - è possibile che anche il Giappone, con il suo debito al 200 % del Pil, possa incontrare qualche ostacolo imprevisto - , ma è doveroso almeno riconoscere a Tokyo il merito di avere portato un alto livello di debito pubblico in condizioni di eccellente stabilità. Il compimento di questa opera è stato possibile anche grazie ad una serie di condizioni (oltre al possesso locale del debito) che non vanno trascurate: in particolare, va sottolineato il lavoro coordinato dei poteri pubblici e degli istituti di risparmio. Attraverso un compromesso tipicamente giapponese, sistema bancario e casse pensioni sono effettivamente «state al gioco», orientando massicciamente i capitali delle famiglie verso l'acquisto di titoli del debito pubblico.

3. Derivati, rating, cartolarizzazioni: strumenti finanziari di dominio della finanza statunitense dai risvolti politici


“Globalizzazione” o americanizzazione capitalistica?

Attraverso il controllo del sistema finanziario, si detiene nelle proprie mani l’intero sistema produttivo di un paese. Se nel nostro paese andiamo a verificare chi suona le danze, emergerà la preminenza assunta di banche d’affari, agenzie di rating (valutazione solvibilità dei debiti) e fondi d’investimento statunitensi. Il controllo ha finalità politico-strategiche: finanziando  figure amiche (vedasi il ruolo della banca d’affari statunitense Chase Manhattan, ora JP Morgan Chase, nelle scalate su Telecom) e direzionando gli investimenti in determinati settori, si concorre alla configurazione di una divisione internazionale della produzione a guida statunitense. In ultima istanza, si impedisce l’emergere di un serio competitore nei cruciali settori ad alto contenuto di innovazione di prodotto.
 
Focalizzare alcuni strumenti finanziari (derivati, rating, cartolarizzazioni) concepiti e perfezionati negli Stati Uniti ed attraverso i quali le oligarchie finanziarie di quel paese tengono sempre più sotto scacco Stati ed imprese.


Le finalità speculative dei derivati


È risaputo che i flussi finanziari sono diventati esponenzialmente superiori ai movimenti commerciali di beni e servizi. Tale massa monetaria, esponenzialmente superiore a quella controllata dalle banche centrali (banconote emesse e credito concesso dalle banche, quelle che gli economisti denominano masse monetarie M1 ed M2), è costituita prevalentemente dai derivati, i principali dei quali sono i futures [Ad esempio, se ritengo che il prezzo delle banane in futuro salirà, con un contratto a termine derivato (il cui prezzo cioè “deriva” da quello del bene o dell’attività di riferimento) denominato future, mi impegno oggi ad acquistare tra un anno un chilo di banane al prezzo di 100 lire, versando solamente una cauzione di 10 lire. Se dopo sei mesi il suo prezzo sale a 130 lire, vendendo il contratto guadagnerò 30 lire e rientrerò in possesso delle 10 precedentemente versate, che avranno così fruttato il 300%], le options e gli swaps.

I derivati sono contratti a termine con cui i contraenti si impegnano, ad una data prefissata, ad effettuare un’operazione di scambio a condizioni (prezzo, quantità) stabilite al momento della stipula. Il termine “derivato” sta a significare che la quotazione di tale contratto “deriva”, cioè dipende, dall’andamento del bene o dell’attività finanziaria o reale di riferimento.

In ambito finanziario, i derivati sono definiti “strumenti di copertura del rischio”, vale a dire mezzi di protezione dal rischio di perdite dovute ad indesiderate variazioni delle quotazioni di merci, tassi di cambio e d’interesse, eccetera, sui “mercati finanziari”. Nella pratica, tali strumenti sono prevalentemente adoperati per operazioni speculative, soprattutto perché per l’acquisto di taluni contratti è sufficiente versare solo una piccola somma cauzionale, rappresentativa però di cifre ben più elevate. Tali strumenti permettono dunque di acquistare o vendere beni, attività finanziarie, eccetera, per un ammontare ben superiore al capitale posseduto, e basta una piccola variazione del prezzo del bene in oggetto per generare ampi guadagni o perdite in percentuale al capitale investito.

L’economista Susan Strange li ha perciò definiti “strumenti da casinò”. A differenza però che nella roulette, il giocatore/grande investitore istituzionale, in possesso d’ingenti capitali, è in grado di condizionare il risultato desiderato. Ipotizziamo la stipula di un future, con cui, ad una data prefissata, ci si impegna ad acquistare una determinata quantità di azioni, stabilendo immediatamente il prezzo che verrà pagato al momento del contratto. Puntando sull’ascesa delle quotazioni, grandi istituti finanziari, acquistando tale azioni, possono far salire i loro corsi. Eccezionali i guadagni realizzabili sia con il normale acquisto di titoli, sia con i derivati, una volta che si è verificato l’aumento su cui si è scommesso.


Che cos’è la cartolarizzazione


Tra le misure governative volte al reperimento di capitali, attenzione particolare merita la tecnica finanziaria della cartolarizzazione – traduzione italiana del termine inglese securitization –, un portato di quell’americanizzazione che tanto sta cambiando lo stesso volto del capitalismo italiano. Uno strumento che, indotto dalle rigidità del patto di stabilità, ha fatto la sua comparsa pure sui bilanci di Austria, Grecia, Irlanda, Portogallo. Per l’Italia, finita l’epoca del debito pubblico ‘facile’, i fondi occorre procurarseli – pagandoli, come vedremo più avanti a caro prezzo – presso banche e fondi d’investimento in prevalenza esteri.
 
La cartolarizzazione consiste nella cessione di attività finanziarie (ad esempio un credito, ma anche attività altrimenti non negoziabili come il diritto a ricevere ricavi futuri) o di attività reali (come un immobile) ad apposite società veicolo, che le “trasformeranno” in garanzia per l’emissione di “carta”, cioè di titoli obbligazionari da collocare presso istituzioni finanziarie varie. Obbligazioni che le società veicolo dovrebbero poi remunerare e rimborsare con i proventi derivanti esclusivamente dalle attività ricevute, considerato che il proprio patrimonio, peraltro risibile, è esentato per legge a risponderne.


Il meccanismo delle cartolarizzazioni


L’americanizzazione del sistema finanziario italiano si estrinseca pure nell’importazione di tecniche finanziarie come la cartolarizzazione. Essa consiste nella cessione di immobili o attività finanziarie di vario genere ad una apposita società veicolo. Questa, sulla base di tali attività, emetterà obbligazioni: in gergo finanziario, il passaggio appena menzionato viene chiamato “trasformazione” delle attività ricevute in titoli (“carta”, da cui, appunto, cartolarizzazione). Gli acquirenti delle obbligazioni emesse dalla società veicolo saranno poi “remunerati e rimborsati” con i proventi derivanti esclusivamente dalla vendita o gestione delle attività ricevute.

Le cartolarizzazioni di Stato in Italia sono state inaugurate dal centrosinistra – nel 1998 crediti Sace [istituto statale per i servizi assicurativi del commercio estero, nato allo scopo di garantire (con soldi pubblici) le imprese italiane da tutti i rischi connessi a commesse all’estero o esportazioni], Inps ed Inail rispettivamente nel 1999 e nel 2000 – ed hanno conosciuto una notevole espansione sotto il centrodestra. La dismissione del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali, innanzitutto, con le operazioni Scip 1 – che Tremonti ha più volte affermato di « aver trovato nella finanziaria» predisposta dal governo di centrosinistra Amato – e Scip 2; in preparazione Scip 3, con la quale saranno ceduti immobili demaniali e del ministero della Difesa. Ma non solo: il centrodestra ha “cartolarizzato” pure i “ricavi attesi futuri” di Lotto ed Enalotto, i mutui della Cassa depositi e prestiti e persino i prestiti che l’Inpdap (l’ente di previdenza dei dipendenti pubblici) ha concesso ai dipendenti.

Effetti sulla collettività e meccanismo di funzionamento delle cartolarizzazioni sono ben resi dalla vicenda Scip 2. Ultimo significativo evento, il decreto varato in aprile sotto dettatura della Standard and Poor’s, che minacciava altrimenti una revisione del rating italiano.

Spieghiamo intanto cosa sia Scip 2. La Scip 2 è la società veicolo di “una delle più grandi dismissioni immobiliari mai effettuata al mondo”: dismissioni che riguardano un nutrito pacchetto di immobili degli enti previdenziali, acquistati con i contributi dei lavoratori al fine di garantire loro la pensione.

La società veicolo Scip 2, definita da Roberta Carlini (il Manifesto, 2 marzo 2004) una scatola vuota, un “tramite per la ricerca dei fondi, un veicolo che va in giro per i mercati, raccoglie soldi, anticipa e poi restituisce a vendita avvenuta”, ha acquistato in blocco immobili degli enti previdenziali. In cambio, ha girato al Tesoro un corrispettivo, ricavato dall’emissione di obbligazioni collocate sul “mercato” dalle grandi banche d’affari estere. Tali obbligazioni verranno poi ripagate dalla “società veicolo” vendendo gli immobili.

Ricapitoliamo. Il Tesoro vuole vendere degli immobili, e cosa fa? Li cede in blocco ad una società costituitasi appositamente, la Scip 2 appunto, che in cambio “anticipa” al Tesoro una parte del valore “stimato” di vendita degli immobili. Come trova la Scip 2 tali fondi? Indebitandosi (emettendo obbligazioni) con investitori soprattutto esteri. Obbligazioni collocate con il determinante aiuto di grandi banche d’affari estere. Scip 2, a sua volta, rimborserebbe gli investitori, a scadenze prefissate, delle somme ricevute e dei relativi interessi vendendo gli immobili ricevuti dal Tesoro.

Ora spunta la sorpresa. Cosa succederebbe se Scip 2, non riuscendo a vendere gli immobili o a cederli ai prezzi sperati, non potesse rimborsare le obbligazioni? Il senso comune direbbe: affari suoi. Le leggi dell’americanizzazione finanziaria impongono invece che, a farsene carico, sia lo Stato.


Cartolarizzazioni ‘italiane’ (2002)


Al fine di ricevere denaro dalle grandi istituzioni finanziarie, estere in primis, Tremonti sta utilizzando – e prevede ancora di utilizzare – la tecnica della cartolarizzazione su tutto quanto risulti appetibile: gli immobili su tutti, ma non solo. Sono già stati trasformati in “carta” (titoli) la seconda riscossione dei crediti INPS, INAIL e SACE e le vendite future dei biglietti Lotto e Superenalotto (mandato assegnato a Bnl, IntesaBci, Citigroup e Ubs Warburg). Mentre è già partita la terza “tranche” dei crediti INPS (affidata ad Unicredit Banca mobiliare, Morgan Stanley ed Ubs Warburg), si parla di cartolarizzare le future riscossioni di tariffe e pedaggi, i biglietti dei musei ed addirittura il Trattamento di fine rapporto (cioè la liquidazione, ovverosia il salario differito dei lavoratori), al fine di alimentare i fondi pensione, che disporrebbero così di risorse da investire nelle privatizzazioni o in quant’altro, lasciando nel contempo il TFR nella disponibilità delle imprese.


Le cartolarizzazioni del centrosinistra


L’uso di tale tecnica finanziaria non è però un’esclusiva del centrodestra. Proprio il centrosinistra l’aveva ‘importata’ – disciplinandola con leggi come la 130/99 sulla cartolarizzazione dei crediti – ed usata a proposito dei crediti SACE nel 1998, nonché di quelli INPS nel 1999 ed INAIL nel 2000. Operazioni su cui si buttarono a capofitto soprattutto le più rinomate banche d’affari estere, cui venne ceduta, a prezzi di favore e al netto delle spese (e dei “costi della cartolarizzazione”), la riscossione di tali crediti. La prima cernita di quelli INPS (selezionati tra quelli considerati esigibili e lasciando all’ente il resto) e l’istituzione della relativa “società veicolo”, ad esempio, sono state affidate dall’allora Direttore generale del Tesoro Mario Draghi a Morgan Stanley, Warburg Dillon Read (oggi Ubs Warburg) e Banca Imi, il loro prezzo fissato da agenzie di rating (valutanti cioè il grado di solvibilità di crediti, ecc.) come Moody’s, ed il gruppo di banche Caboto-Gruppo Intesa, Merril Lynch e la francese Paribas incaricato del collocamento dei titoli e/o dell’erogazione di finanziamenti alla società veicolo.

Dietro l’assegnazione di incarichi dai nomi più svariati (advisor, arranger, lead manager, servicer, ecc.), si assiste sostanzialmente alla classica “spartizione della torta” delle commissioni tra il maggior numero di istituti finanziari, con conseguente lievitazione dei costi della cartolarizzazione, di per sé elevati a causa della complessità e quantità di operazioni da effettuare e soggetti coinvolti da remunerare.

Ecco, così, dei crediti trasformati in garanzia per l’emissione di titoli, soggetti ad agevolazioni ed esenzioni fiscali varie, e soprattutto garantiti dallo Stato. Il che sta a significare che, nel momento in cui la loro riscossione non dovesse andare a buon fine, sarà la collettività a farsi carico del capitale nominale, nonché degli interessi e dei costi delle emissioni obbligazionarie e delle riscossioni (da certuni stimate attorno al 50% del valore nominale dei crediti ceduti). Se a questo si aggiunge che tali titoli sono stati collocati in maggioranza tra gli investitori istituzionali stranieri, ciò significa che il credito di un ente dello Stato rischia di trasformarsi in un aumento del debito estero, ben più grave di quello pubblico. L’Argentina dovrebbe pur insegnare qualche cosa.

Il centrosinistra, tra l’altro, aveva già in cantiere di privatizzare gli immobili. Il decreto del Ministro del Tesoro del 27 marzo 2000 costituisce l’iter finale di un percorso che, prevedendo la vendita a privati di beni di interesse artistico e storico, nonché di beni del demanio naturale, capovolge il principio secondo cui detti beni sarebbero inalienabili. Nella stessa finanziaria per il 2001 erano previste, benché non effettuate, entrate derivanti da cessioni di immobili.


Dal centrosinistra al centrodestra: il passaggio del testimone


Il sinistro ed inquietante ‘tocco di genio’ del centrodestra sta nel fatto che, attraverso il decreto legge 351/2001, la procedura della cartolarizzazione viene usata – per la prima volta in Europa – per privatizzare beni immobili. I titoli emessi dalla società veicolo saranno dunque garantiti dal valore dei beni immobili destinati alla vendita. Un patrimonio pubblico di immobili residenziali e commerciali – case, magazzini, negozi, terreni, uffic i– di proprietà di sette Enti previdenziali pubblici (ancora l’INPS e l’INAIL, ma anche l’ENPALS, l’INPDAI, l’INPDAP, l’IPOST e l’IPSEMA), dai già alti valori catastali e con valori di mercato passibili di ulteriori incrementi, si appresta ad essere riconvertito – si parla di ristrutturazioni o addirittura di abbattimenti e ricostruzioni – in alberghi, supermercati e quant’altro, per la gioia di banche, assicurazioni, fondi d’investimento ed immobiliari, ecc.

Per la cronaca, il mandato di organizzare la cartolarizzazione della prima “tranche” del patrimonio immobiliare è stato assegnato a Deutsche Bank, Caboto-IntesaBci, Lehman Brothers e Banca Imi, affiancate nel ben remunerato ruolo di advisor (consulenti) per la dismissione degli immobili dal consorzio G6, formato da Pirelli &C. Real Estate, Romeo Gestioni, Romeo immobiliare, Knight Frank, IntesaBci, e la società di revisione statunitense Arthur Andersen.

La “cordata” ha innanzitutto acquisito i beni immobili pattuendo un prezzo di gran lunga inferiore al loro valore di mercato, che gli esperti prevedono possa decuplicare in pochi anni. Parte di tale prezzo è stato “pagato” dalle banche capofila con la concessione di un prestito-ponte, al fine di consentire al Governo il rispetto dei vincoli del patto di stabilità.

Per il resto, invece, verranno utilizzati come “moneta” gli introiti della cartolarizzazione, cioè l’emissione di obbligazioni garantite dallo Stato che la “società veicolo” SCIP (Società Cartolarizzazione Immobili Pubblici) dall’ininfluente capitale minimo dovrà effettuare. Detto in altre parole, è come se Tizio cedesse a prezzi di saldo un immobile in cambio di denaro che lo spiantato Caio corrisponderà gradualmente tramite l’assunzione di debiti il cui buon esito è garantito sia dall’immobile “acquistato” sia da Tizio stesso. Potenza del capitalismo! Alzi la mano chi intenda vendere la propria casa alle medesime condizioni.

Senza contare le altre “agevolazioni” concesse dal decreto. Tra  queste: le operazioni di cartolarizzazione andranno esenti dalle imposte di bollo, di registro, ipotecaria e catastale, indirette, nonché dall’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili (con ulteriori ripercussioni sulla spinta dei prezzi verso l’alto) e da ogni altro tributo o diritto; agli enti previdenziali cedenti saranno addossati costi e rischi legati alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili, “messa a norma” di impianti ed edifici, copertura assicurativa ed altro (ennesimo esempio di socializzazione dei costi e privatizzazione dei profitti); penalizzazioni per gli attuali inquilini, per cui il mancato rinnovo dei contratti di locazione porterà a breve allo sfratto di migliaia di famiglie.

Non deve poi ingannare il trattamento di favore concesso alle famiglie a basso reddito: dopo nove anni, non c’è nessuna garanzia che il contratto di locazione venga rinnovato alle precedenti condizioni. Si progetta dunque lo svuotamento dei centri storici di città come Roma e Milano dalla gente che vi risiede per trasformarli in luoghi destinati a supermercati o uffici o a qualsiasi altra destinazione d’uso che produca profitti. Perché altro utilizzo per gli immobili pubblici non sarà ammesso. Come si vede, da qualunque parte si osservi l’operazione, gli interessi collettivi sono il vero perdente. Se le società veicolo non riusciranno a ripagare le obbligazioni emesse con gli introiti del processo di dismissione, la collettività sarà chiamata a risponderne. In ogni caso, aumenti alle stelle di affitti e prezzi delle case sono assicurati.


Sotto la spada di Damocle delle agenzie di rating statunitensi


Il rating è definito in ambito finanziario come giudizio sulla capacità di un debitore-impresa o di uno Stato nel far fronte puntualmente al pagamento del capitale e degli interessi, relativi ad una determinata emissione di titoli. Espresso con una curiosa scala di valutazioni in lettere –tipo AAA, eccetera– si presenta come una mera opinione, dotata però di particolare autorità, sul grado di solvibilità finanziaria del soggetto in questione. Apparentemente. Nella pratica, le valutazioni dei debiti delle agenzie di rating si rivelano uno strumento di controllo politico su Stati ed imprese, per le finalità più recondite.

Le agenzie di rating (valutazione della solvibilità dei debiti) dominanti sono tre: le statunitensi Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. Le origini di tali agenzie risalgono agli inizi del Novecento, ma è recente (primi anni Novanta) l’emissione di giudizi fuori dei confini degli States. Si è stimato che, mentre nel 1984 le agenzie di rating non avevano alcun analista fuori degli Stati Uniti, già nel 1993 ne disponevano di un centinaio negli Stati europei, in Giappone ed Australia. La quantità delle emissioni obbligazionarie –cioè prestiti– di Stati ed imprese scrutinate si sarebbe quintuplicato tra il 1993 ed il 1998. Come si spiega tale diffusione? Grazie alla stipula di accordi, recepiti tra le pieghe del processo di integrazione monetaria europea, come quelli di Basilea del 1988. Un’ulteriore diffusione del rating è prevista con l’entrata in vigore, tra qualche anno, dell’accordo Basilea 2, che fissa i nuovi requisiti che le banche devono detenere per poter erogare credito, requisiti fortemente penalizzanti, tra l’altro, per le piccole imprese di casa nostra.

La vicenda della riforma delle pensioni ha mostrato chiaramente quali pesanti condizionamenti tali agenzie possano esercitare. Konrad Reuss, direttore esecutivo della Standard & Poor’s, dichiarava lo scorso settembre all’agenzia di stampa Bloomberg che «il rating deve rimanere sotto una spada di Damocle» per spingere al varo di misure come questa ed altre desiderate dalle oligarchie finanziarie estere. Dichiarazioni accolte con allarme da politici ed imprenditori.
 
Un “declassamento” del rating potrebbe scatenare conseguenze di non poco conto: innanzitutto un aumento del costo delle emissioni di titoli dello Stato come BOT, BTP, eccetera, detenuti per il 50% da investitori esteri, con conseguente crescita della spesa per interessi e dunque del disavanzo annuale di bilancio. E non di poco, se consideriamo l’enorme quantità di titoli emessi a fronte del debito pubblico italiano.

I titoli statali non sarebbero inoltre gli unici a dover sborsare maggiori interessi. Il “declassamento” si ripercuoterebbe a cascata sul costo delle emissioni dei titoli obbligazionari delle imprese partecipate dallo Stato – tipo Eni, Enel, Finmeccanica, Patrimonio ed Infrastrutture Spa, eccetera – nonché degli enti territoriali. I precedenti non mancano. Pensiamo al “declassamento” dei titoli di Stato italiani sanzionato a più riprese da Moody’s negli anni 1992-93, quelli della svalutazione della lira che, guarda caso, rese la privatizzazione delle imprese di Stato molto più appetibile agli investitori esteri. Nel marzo 1993, addirittura l’allora Presidente Scalfaro chiese pubblicamente se Moody’s non intendesse «destabilizzare l’Italia».

Non bisogna dunque pensare che tali agenzie vestano i panni di “giudici indipendenti” e fidati del grado di solvibilità dei debitori. Ad avvalorare questa convinzione, non ci sono soltanto le ripetute dimostrazioni d’incapacità nel prevedere crisi finanziarie come quella Parmalat o della multinazionale statunitense Enron, quest’ultima giudicata, cinque giorni prima della dichiarazione formale di fallimento, impresa dotata di «capacità di rimborso solida ed adeguata». Lo mostra soprattutto il fatto decisivo che i loro giudizi negativi aggravano la situazione finanziaria dei malcapitati, chiudendo canali di finanziamento o innalzando, nel migliore dei casi, i costi delle emissioni di titoli. Si noti, inoltre, che i ricavi delle agenzie di rating derivano dalle commissioni pagate proprio dalle società giudicate, le quali peraltro forniscono le informazioni sulla cui base le agenzie di rating sentenziano. Insomma, quali argomentazioni di maggiore conoscenza sulla salute finanziaria dei debitori motivano il ricorso al rating? Come non vedere che la loro autorità deriva da ragioni politiche e trova la propria sponda nella forza dell’unico imperialismo esistente, quello statunitense?


L’indebitamento estero degli enti territoriali


Un esempio di come normative e vincoli europei favoriscano la sempre più pericolosa influenza di istituti finanziari statunitensi, è fornito dall’indebitamento degli enti territoriali. Negli ultimi anni si è registrato un vero e proprio boom delle emissioni obbligazionarie di tali enti. Secondo le stime della Standard & Poor’s, per oltre il 70% queste sarebbero state collocate all’estero.

Il fenomeno può essere brevemente spiegato così. Il contenimento della spesa pubblica, prescritto in particolare dal Patto di stabilità europeo, ha determinato la riduzione dei trasferimenti dello Stato centrale a regioni, province e comuni. Al contempo, lo scaricamento di competenze e responsabilità da parte dello Stato, senza corrispondente assistenza finanziaria, accresce la loro sete di risorse. L’aumento della pressione fiscale ed il taglio dei servizi non sono sufficienti. Per finanziare investimenti ed affari, gli enti territoriali emettono obbligazioni: politica del resto incoraggiata da normative di derivazione anche europea, che consentono loro il ricorso a tale strumento.

Ad emetterle, particolarmente attive, come rivela Enrico Cisnetto (Panorama, 23 gennaio 2004), le regioni. Sia quelle più ricche del Nord, che «hanno fatto programmi convinte che, con il federalismo fiscale, presto avrebbero potuto disporre di una quota maggiore delle entrate fiscali raccolte sul proprio territorio». Sia quelle più povere del Sud, che «s’indebitano invece per finanziare deficit cronici, sempre meno coperti dai trasferimenti statali, e sanno benissimo che, in caso di un federalismo fiscale “poco solidale”, sarebbero davvero ad un passo dal fallimento». Insomma, sullo sfondo dei vincoli del Patto di stabilità, ci sono tutte le premesse per un forte scontro tra “Nord” e “Sud” sull’accaparramento delle risorse necessarie a rimborsare la finanza estera.

Le obbligazioni emesse, in considerazione della scarsità di risorse interne, risultano infatti collocate prevalentemente all’estero: qui entrano ancora in gioco le agenzie di rating, la cui certificazione si rivela indispensabile per non incorrere nell’esclusione dal circuito dei prestiti esteri. Una certificazione in molti casi imprescindibile per reperire fondi anche al di fuori dei mercati obbligazionari: ad esempio, per incentivare gli insediamenti produttivi in loco di multinazionali od attrarre investimenti esteri nell’area nell’ambito del project financing, finanza di progetto.


I penalizzati dalle cartolarizzazioni


Provate a questo punto a mettervi nei panni dello Stato, e ad immaginare di vendere a tali condizioni un vostro immobile: comprenderete subito la razionalità economica con cui opera tale supposto “rappresentante della collettività”.

Provate a mettervi ora nei panni dei lavoratori, i cui contributi sono stati a suo tempo investiti in quegli immobili, e scoprirete che lo Stato vi ha espropriato dei vostri contributi per cartolarizzarli a fini speculativi.

Provate a mettervi invece in quelli degli enti previdenziali, che ricaveranno solamente qualche briciola da tutta l’operazione: e poi parlano di conti previdenziali in deficit.….

Provate ancora a mettervi in quelli della collettività nazionale, e scoprirete che se prima avevate un immobile tra l’attivo dei vostri beni, ora quest’immobile rischia seriamente di “cartolarizzarsi” in un debito estero, da saldare tagliando ulteriormente spesa sociale, trasferimenti agli enti Territoriali, eccetera. Senza contare le ripercussioni sulle quotazioni di mercato di immobili ed affitti. Per attrarre gli investitori e remunerare le banche d’affari, le “società veicolo” emettono infatti obbligazioni per interessi ed importi che incorporano prezzi di vendita degli immobili più alti di quelli esistenti al momento dell’emissione.

Provate a mettervi infine in quelli delle famiglie affittuarie di tali immobili, che dalla condizione di inquilini di un ente previdenziale – dunque affitti abbordabili e buone condizioni contrattuali – si ritrovano, se non hanno la possibilità di comprare l’immobile, gettati per strada alla ricerca di un contratto di locazione privato. Sempre più caro.


Patto di stabilità europeo e cartolarizzazioni


A questo punto, va data risposta ad un’ultima domanda: a parte i beneficiari privati, perché questo ampio ricorso alle cartolarizzazioni? Un ruolo fondamentale lo giocano i vincoli sul bilancio statale del Patto di stabilità europeo, che limitano fortemente il ricorso all’indebitamento pubblico e spingono a ricercare fonti alternative di finanziamento. Una strana concezione della “stabilità” hanno i tecnocrati dell’Unione Europea: questa sarebbe compromessa da un aumento dell’indebitamento pubblico, mentre non sarebbe messa in pericolo da un aumento di quello verso l’estero, che rischia di avviluppare il paese in una spirale tipo Argentina.

Da quanto argomentato sopra, emerge dunque che dietro gli esponenziali aumenti del prezzo di immobili ed affitti, un ruolo lo gioca anche il processo d’unificazione europea. Sono i vincoli del Patto di stabilità a gettare questo Stato, comunque compiacente, in pasto ai pescecani della finanza estera, in particolare statunitense. Sono proprio le normative europee ad avere spianato la strada per la sempre più diffusa americanizzazione finanziaria degli Stati membri e per l’importazione di tecniche su cui la finanza statunitense gioca fattivamente un ruolo dominante. Non è poi superfluo aggiungere che il quadro di liberalizzazioni e privatizzazioni imposto dalle normative europee, cui l’approvazione della Costituzione europea darebbe ulteriore suggello, disegnano un contesto sociale in cui tali speculazioni e privatizzazioni di profitti sono la normalità.


4. Il Caso della Grecia: i “Come” e i “Perché” di una Crisi Indotta


Prima della crisi greca. Le consulenze interessate delle grandi banche USA

Il caso greco scoppia con la rivelazione, amplificata dalla grande stampa anglosassone – la stessa che ha coniato (copyright: The Economist) l'acronimo razzista PIGS, maiali in inglese, per riferirsi a Portogallo, Irlanda o talvolta anche Italia, Grecia e Spagna –, dello stato reale dei conti pubblici di Atene da parte del neo insediato governo socialista. Si tratta dell’ennesima operazione di “cosmesi contabile” predisposta da Atene, niente affatto una prerogativa del paese ellenico: cfr. Financial Times, 5 novembre 2001, “I trucchi dell’Italia per entrare nell’euro”, ed il «Perché lei, nella sua vita, ha mai visto un bilancio non falso?», proferito al giudice durante l’interrogatorio sul crack della Ferruzzi dal “mitico” presidente di Mediobanca, Enrico Cuccia. Trucchi contabili, effettuati dai governi precedenti con contratti derivati (un giochino finanziario, chiamato Swap) offerti dalle banche d'affari USA Goldman Sachs e JP Morgan Chase, avevano mascherato il reale rapporto deficit/PIL monitorato da Bruxelles e Francoforte, ipotecando al contempo alcuni settori della propria economia.

Contratti, scrive sempre il New York Times – 13 febbraio 2010 –, analoghi a quelli sottoscritti con il governo Prodi nel 1996, ulteriore elemento che dovrebbe gettare più di un dubbio sul preteso risanamento del centrosinistra...

Una serie di meccanismi swap messi a punto dalle due banche hanno permesso nel 2001 alla Grecia – legalmente secondo i criteri di Eurostat, che comunque non poteva ignorare l'effettiva veridicità dei conti pubblici di Atene – di sgonfiare il debito, presentando come vendite con pagamenti differiti quelli che erano 'semplici' prestiti bancari
. Utilizzando tecniche di ingegneria finanziaria, la Goldman Sachs ad esempio assumeva passività di Atene – evitando così una loro contabilizzazione nel bilancio pubblico – in cambio di introiti futuri del governo greco (dalle tasse aeroportuali, ai pedaggi autostradali, agli incassi legati alle lotterie di Stato...). In Italia 'finanziamenti' anche identici a questi hanno preso il nome di “finanza creativa”.

 L'ex ministro delle Finanze, George Alogoskoufis, criticò “l'affare Goldman” in Parlamento nel 2005, affermando che avrebbe pesato sui conti greci fino al 2019: dichiarazioni che aprono inquietanti interrogativi sugli effetti, in Italia, dei derivati nei conti pubblici, anche quelli degli Enti Locali, come mostrato dallo scandalo dei derivati sottoscritti dal comune di Milano.

Anche quando i trucchi contabili divennero pubblici, un'equipe di banchieri di Goldman Sachs – riferisce sempre il succitato New York Times – arrivò ad Atene all'inizio di novembre –  tre mesi prima che Atene diventasse l'epicentro delle note speculazioni sui “debiti sovrani” nell'Eurozona – per presentare “nuove proposte” al governo Papandreu ritrovatosi con un deficit ormai al 127% del PIL in seguito ai salvataggi pubblici delle banche greche vittime anch'esse della crisi finanziaria made in USA. La proposta venne respinta, ma Goldman Sachs non deve aver perso influenza se si pensa che alla gestione del debito pubblico greco è stato chiamato Petros Christodoulou, ex Goldman Sachs e JP Morgan (Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2010): insomma, i Prodi ed i Draghi esistono anche in altri Paesi...
 

Le cause tecniche della crisi greca


Un succinto riepilogo degli avvenimenti salienti della speculazione sulla Grecia mette ancora una volta in primo piano il ruolo giocato dalla finanza USA. L'8 febbraio 2010 cenano insieme a New York sei tra i finanzieri più potenti degli USA: George Soros, John Paulson, Steven Cohen. Assieme a loro Donald Morgan, David Einhorn e Andy Monness. Nei giorni successivi alla cena inizia il travolgente movimento ribassista sull’euro (Panorama, 10 marzo 2010). Salgono vertiginosamente i futures (contratti standardizzati con cui le parti si impegnano a scambiarsi, a un prezzo predefinito e a una data futura, attività reali o finanziarie di cui non se ne detiene ancora il possesso) contro l’euro, che a fine febbraio raggiungono punte, allora record, di 70mila contratti. Una segnalazione al “mercato” che un movimento importante era in atto. La psicologia gregaria degli investitori ed i sistemi informatici di trading (compravendita di prodotti finanziari) avrebbe fatto il resto: amplificare e propagare la dinamica ribassista sull'euro. Gli stessi servizi segreti di Atene hanno accusato quattro fondi d'investimento – tre amerikani (Moore Capital, Fidelity International e Paulson & Co) e uno inglese (Brevan Howard, il maggior gestore di hedge funds –fondi d'investimento speculativi– d'Europa) – di seminare il panico sui mercati scommettendo sul ribasso del prezzo dei titoli di Stato greci. «I quattro fondi hanno assunto posizioni corte [cioè vendita – sul mercato dei derivati – di titoli allo scoperto, non ancora posseduti, con l'intento di acquistarli successivamente a quotazioni più basse, ndr] sul debito greco vendendo massicciamente e quotidianamente i nostri bond a dicembre per poi ricomprarli una volta scese le quotazioni», sostiene in un suo rapporto l'Intelligence ellenica (cfr. quotidiano greco To Vima, 19 febbraio 2010).

Forse a partire dalle risposte giudicate insufficienti dei governi europei, si decise di far deflagrare altre mine per provocare una valanga di dimensioni colossali. Entrano così in gioco i contratti derivati di Credit Default Swap (CDS) e le valutazioni delle agenzie di rating.
I CDS sono una sorta di polizza assicurativa contro il rischio di mancato pagamento di uno Stato o di un'impresa. Nati quindi come strumenti di copertura del rischio, con le deregolamentazioni finanziarie promosse da Washington sono diventati, così come tutti i contratti derivati, “armi di distruzione finanziaria di massa” (copyright: il noto finanziere Warren Buffet). La deregolamentazione consente infatti di “scommettere” sul fallimento dello Stato/impresa nel mirino anche senza detenerne materialmente i titoli. Questi contratti rappresentano cifre immani, mosse non solo per assicurare i propri credito (e come si potrebbe, visto che l'ammontare dei CDS è di gran lunga superiore ai debiti in questione?) ma soprattutto per speculare. E chi domina, comanda e pilota il mercato dei CDS, influenzando in maniera decisiva anche il prezzo delle obbligazioni ed andando ad intaccare in modo devastante il fattore fiducia sugli emittenti? Il 75% dei CDS (dati OCC, Organismo di controllo del Tesoro USA) è mosso da cinque grandi banche di Wall Street: JP Morgan Chase, Bank of America, l'immancabile Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup, che gli utili li fanno ormai solo con la finanza creativa e il trading. Ed in quale valuta vengono trattati i famigerati CDS? Ovviamente in dollari, ancora oggi la preferita valuta di riserva internazionale, utilizzata in percentuali bulgare nelle transazioni finanziarie e commerciali mondiali: non male per una moneta di cui troppo prematuramente è stata annunciata la fine, secondo alcuni addirittura a scapito dell'euro...

Intrecciate a queste scorribande speculative si sono mosse le tre agenzie di rating, partecipate dalle solite banche e fondi d'investimento anglosassoni (alla faccia del “conflitto d'interessi”) e pagate dalle stesse società di cui dovrebbero giudicare la “solvibilità”. Il rating in sostanza è pilotato. Molti sono gli scandali finanziari e le “sviste” che hanno messo in dubbio la “credibilità” delle “tre sorelle”. E poi, perché un'agenzia privata deve giudicare “l'affidabilità” degli Stati? I loro insindacabili giudizi ed anche i loro report continuano però a rivestire un'importanza cruciale. Nello specifico hanno rinvigorito la pressione ribassista. Non si tratta soltanto di alimentare nei risparmiatori preoccupazioni e timori, quindi crollo di fiducia e vendite. Per le regole di funzionamento del mercato finanziario globale, banche e fondi istituzionali sono obbligate a detenere in portafoglio o in bilancio certe quote di titoli con rating elevato: un declassamento, come avvenuto con la Grecia, scatena dunque un'ondata di vendite forzate (Corriere della Sera, 30 aprile 2010). Certe esternazioni, per tempi e contenuti, sembrano ispirate ad una valutazione prettamente politica. La mattina del 6 maggio scorso Moody's sostiene che «la crisi del debito greco può colpire le banche di vari Paesi fra cui il Portogallo, la Spagna, l'Italia, l'Irlanda e la Gran Bretagna». Un flash d'agenzia rilasciato con un tempismo perfetto per gli scommettitori al ribasso: proprio in quei minuti Madrid chiudeva una delicatissima asta dei suoi titoli di Stato; i parlamenti di Atene e Berlino discutevano sacrifici e prestiti per la Grecia; le Borse europee cercavano di stabilizzarsi. Dopo questa dichiarazione, poi ritrattata, crollano inoltre tutti i titoli finanziari italiani, facendo la gioia di coloro che li avevano “venduti allo scoperto”.
 

Integrazione UE, subprime USA, crisi greca. Gli intrecci perversi della globalizzazione finanziaria


Ricapitolando: fondi speculativi anglosassoni avviano lo scorso febbraio speculazioni in massa sul debito greco e sull'euro. L’operazione viene agevolata dalle tre agenzie di rating USA e coinvolgono le banche d'affari USA, che muovono i CDS oltre che altri grandi fondi di investimento. La potenza di fuoco mobilitata diventa micidiale grazie all’effetto moltiplicatore dei derivati. A parte tutto questo, comunque, rimane inevaso un interrogativo ben pregnante: fermi restando i trucchi contabili, come è stato possibile che si determinasse una così accentuata escalation del rapporto deficit/PIL greco?

Oltre agli effetti restrittivi nell'economia indotti negli ultimi decenni dai famigerati parametri di Maastricht, effetti che, analogamente a quanto successo in Italia, hanno spinto Tesoro ed Enti Locali a ricorrere ai 'servizi' delle banche d'affari internazionali, e senza dimenticare la non marginale spesa militare sostenuta a beneficio dell'industria tedesca, negli ultimissimi anni si è aggiunto un ulteriore elemento a determinare la brusca impennata del rapporto deficit/PIL: il salvataggio delle banche greche.

I loro bilanci si sono ritrovati intossicati dalle cartolarizzazioni made in USA e sono stati risanati a spese di un aumento del debito pubblico che ha socializzato le perdite e privatizzato i profitti. Si tratta di un dato che innesca una significativa catena di perché che chiama in causa il significato del processo di integrazione europea. Che la crisi finanziaria, innescata dalle insolvenze dei mutui subprime nel 2007 negli USA, sia arrivata a devastare i bilanci delle banche europee (quelle tedesche in primo luogo), ci dice che la globalizzazione finanziaria, promossa dagli USA a partire dagli anni Settanta, ha trovato il suo canale di diffusione – e di infezione – in Eurolandia proprio grazie a quel processo di integrazione dei mercati finanziari internazionali e di ristrutturazione della governance delle grandi banche promosso dalle normative europee sotto gli auspici di Washington.

La trasformazione delle banche da enti con finalità di sviluppo economico ad imprese con finalità di profitto; il passaggio da una finanza legata al territorio e caratterizzata nazionalmente, ad una “orientata al mercato”, acquirente e/o distributrice al pubblico di prodotti finanziari anche concepiti all'estero (si tenga presente come in particolare i bilanci delle banche tedesche siano risultati gravemente colpiti dalle insolvenze dei mutui subprime USA), ad alta redditività/rischio; la liberalizzazione dei movimenti di capitale; la deregolamentazione finanziaria e lo smantellamento di controlli di politica valutaria e del credito (tra questi il ricorso alla leva delle svalutazioni competitive per alleviare lo stato dell'economia interna); l'affidamento della gestione delle aste di titoli di Stato alle grandi banche internazionali; la cessione della sovranità monetaria e le reciproche (inter)dipendenze finanziarie: sono tutti elementi –e tappe imposte dal processo d'integrazione europea– che non possono essere tralasciati nella composizione del puzzle greco, pena il perdurare di perniciosi equivoci. Non è dunque vero che ci vuole più Europa per fronteggiare i mercati; anzi sono state proprio le "regole" imposte dall'Europa che già c'è ad aver permesso lo scardinamento assoluto del sistema di protezioni degli Stati per mano degli speculatori d'oltre Oceano. Quale “insolvenza” avrebbe rischiato uno Stato greco indebitato nei confronti dei propri cittadini piuttosto che degli investitori esteri e dotato della facoltà di battere moneta emettendo credito sovrano per finanziare il proprio debito pubblico?

Chi dunque veicola e reitera, nell’immaginario collettivo, l'argomentazione che l'attuale crisi del debito che ha colpito la Grecia sia frutto di una frode di bilancio dei conti pubblici operata dai governanti ateniesi che ha permesso il dilagare di corruzione ed evasione fiscale ad alti livelli, lo fa quindi per mascherare i fattori suddetti di effettiva causa/responsabilità.


Conclusioni


In sostanza, beni appartenenti alla nazione sono dati in pegno o in usufrutto od anche venduti, al fine di intascare i capitali necessari per adempiere gli obblighi europei e nel contempo investire in grandi opere (es. Ponte sullo Stretto di Messina) comportanti peraltro gravi danni all’ambiente.

Le previste opere per infrastrutture e la privatizzazione di beni dello Stato sono dunque un’ulteriore cartina al tornasole per constatare l’alterità tra interessi collettivi e quelli capitalistici. L’ambiente, così come i beni culturali, di interesse storico ed artistico, dovrebbero appartenere ed essere fruiti dalla collettività. Se sul piano dei princìpi ciò sembrerebbe acclarato, non lo è se si guarda alla sua effettualità in un contesto sociale capitalistico. Rimanendo al solo ambito giuridico, il principio dell’appartenenza collettiva di tali beni richiederebbe l’affermazione del principio della proprietà collettiva e l’approntamento di un apposito regime di tutela e fruibilità da parte di un soggetto collettivo qual è una comunità nazionale. Una soluzione che contrasta con certi capitalistici princìpi giuridici, che vedono proprietà e soggettività giuridica soltanto in termini esclusivi ed individuali. In quest’ottica, i cosiddetti beni demaniali non sono da considerarsi beni della collettività, cioè di una pluralità di soggetti, bensì beni dello Stato, cui viene riconosciuto dal diritto lo statuto di persona giuridica.

Non si fraintenda: se è giusto riconoscere agli individui la proprietà e l’uso esclusivo di determinati beni (la casa, ad esempio), occorrerebbe anche riconoscere a tutti l’appartenenza di beni come l’ambiente. La proprietà individuale dovrebbe coesistere con la proprietà collettiva dei beni, così come riconosciuto nel diritto romano, che distingueva tra res in commercio (beni che potevano essere acquistati e venduti) e res extra commercium, che appartenevano alla collettività, e non potevano essere oggetto di compravendita essendo già nel patrimonio di tutti.

Classificazioni concettuali, queste ed altre, dal contenuto significativo e di notevole utilità operativa, che non casualmente si richiamano a princìpi di natura nazionalitaria. Essenziali per dare contenuto ad una progettualità di ripensamento radicalmente critico delle attuali società capitalistiche.

Un progetto nazionale di indipendenza politica non può non scrollarsi di dosso anche le forme della dipendenza finanziaria ed economica.


*Indipendenza, n. 16

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