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Qualche chiarimento in tema di beni comuni

di Carlo Donolo

Dopo il referendum sull’acqua e il suo felice risultato anche in Italia si sta diffondendo nell’opinione pubblica e nei movimenti collettivi la nozione di beni comuni. Per lo più viene usata in modo generico e anche sloganistico, ma in ogni caso si tratta di un tema che mette radici nel crescente fabbisogno di coesione sociale, e nella resistenza agli effetti più distruttivi dei processi globali. Si coniuga facilmente con un certo localismo e con il rigetto di soluzioni che impongono gravi costi locali anche se con vantaggi generali, come nelle sindromi nimby.

Viviamo in una società di individui possessivi e da noi “la roba” è sempre sacra. La mentalità collettiva è stata plasmata dal consumo, dalla pubblicità, dal denaro. Ma proprio la violenza insita in rapporti di scambio de-socializzati fa risorgere un bisogno di comunità, di appartenenza, e anche di ritrovare cose in comune, svincolate dal totalizzante rapporto proprietario. I beni comuni, infatti, non sono proprietà di qualcuno, ma sono per tutti. Si rifà vivo il bisogno di credere, specie in tempi di crisi e trasformazioni laceranti, e da qui il bisogno di rassicurazioni religiose e anche la domanda sempre insoddisfatta di nuove fedi, quasi un sostituto delle vecchie ideologie politiche. Su questioni di grande complessità che collegano il nostro destino individuale alle catastrofi globali su cui non possiamo incidere c’è anche il desiderio di risposte semplificate, in un certo senso massimalistiche, che riducano l’eccesso di complessità a “soluzioni” autoevidenti, anche se illusorie.


Tutto questo c’entrerebbe poco con i beni comuni, ma essi si prestano bene a fornire la materia per molte operazioni azzardate e discutibili. Cosa credono i movimenti (quello sull’acqua o quello degli indignati)? Come si sono formate le idee sulla natura dei problemi e ancor più perché vengono predilette soluzioni massimaliste o simboliche (dare le ville di Berlusconi ai senza casa in sé non è un’idea malvagia, ma non si risolve certo il problema dell’housing sociale per questa via). Anche dire: non pagheremo noi il vostro debito, ha senso come slogan che marca la distanza tra noi e loro, ma dobbiamo sapere che il debito è il risultato sia di un sistema di welfare di cui tutti e malgrado i suoi limiti godiamo, e soprattutto di un’evasione fiscale da record cui partecipano vaste masse della popolazione, magari compresi i genitori dei giovani che protestano. Ma mentre è logico che i movimenti si agitino per slogan e parole d’ordine drastiche, e non indichino tanto soluzioni (che sarebbe incongruo con la natura dei movimenti stessi), quanto il tipo di mutamento nella tematizzazione dei problemi che va introdotto se si vuole davvero affrontare la crisi, meno plausibile è che l’elaborazione culturale si adegui a quel livello, e non aiuti la riflessione collettiva che pure è necessaria. Tutto ciò lo dico perché ancora una volta sul terreno dei beni comuni si può verificare un riduzionismo pericoloso e ingannevole che non fa maturare le alternative necessarie. Se c’è un tema sul quale occorre che i cittadini e i movimenti sviluppino chiare competenze e una visione strategica è proprio quello dei beni comuni. E se si devono guardare da qualcosa sono i guru del pensiero facile. Che è anche debole.

Questa lunga premessa ci riporta al nostro tema. I beni comuni sono l’insieme dei beni che permettono la sussistenza dell’uomo in società, a livello locale e globale. Certo conosciamo soprattutto le componenti naturali quali gli ecosistemi, le risorse non riproducibili, il clima, ma vi aggiungiamo le forme della conoscenza, le risorse morali, il capitale sociale, le regole, le norme, le istituzioni di cui abbiamo bisogno per la convivenza civile. Anche molti artefatti dell’intelligenza umana hanno questo carattere di “comune” e dobbiamo quindi immaginare (anche se non è ancora del tutto esplorato) un continuum di beni dal naturale al sociale all’artificiale. Questi beni sono esposti alla tragedia dei beni comuni, cioè al degrado per abuso, sfruttamento, mancata cura. Per evitare questo esito, che ha sempre conseguenze sociali drammatiche, occorre formulare sistemi di governo molto intelligenti, prudenti e strategici. Cosa non facile, né probabile, come si può immaginare. E già qui è bene dire una verità che può riuscire sgradevole alla mentalità manichea che contrappone società e stato, movimenti e politica. Sebbene oggi evidentemente il grande attacco al patrimonio dei beni comuni (non solo l’acqua ma anche la conoscenza) sia mosso dai grandi poteri industriali e finanziari, occorre dire che nella genesi della tragedia dei beni comuni, anche i comuni cittadini, la cosiddetta società civile, hanno le loro responsabilità. Basta guardare bene le immagini dell’alluvione di Genova, più forti di ogni argomento. Da noi l’abusivismo edilizio è stato ed è una pratica sociale diffusa e quasi legittimata anche nelle situazioni più a rischio, e d’altra parte siamo tutti implicati in una relazione vittima-carnefice nelle pratiche di consumo opulento proprie della nostra società. I processi che aggrediscono i beni comuni non sono solo imputabili a poteri forti, ma anche a processi sociali diffusi, a pratiche sregolate, a un disordine di cui abbiamo goduto i frutti per anni. Per evitare la tragedia dei beni comuni occorre quindi non solo combattere tali poteri e le loro brame, ma anche indurre un processo di apprendimento collettivo di preferenze più sostenibili, più prudenti e caute, che implica modificazioni sostanziali, anche se tendenziali, dei modelli di consumo e di rapporto tra benessere e risorse preziose.

Per il governo dei beni comuni è necessaria l’interazione più forte ed efficace tra saperi tecnico-scientifici e saperi comuni. Pensare – come spesso fa chi ripone tutte le virtù nel popolo e nel movimento: c’è anche un populismo di sinistra, o che crede di esserlo – che bastino le “idee giuste” è un autoinganno. In Italia dove viviamo già una grave crisi cognitiva, dove il livello di scolarizzazione è basso, dove la scienza gode di scarsa legittimazione pubblica, dove le superstizioni abbondano (e sennò come spiegare il successo di massa del berlusconismo?), è sempre presente il rischio del riduzionismo, del pressapochismo e dell’ignoranza al potere. Nessuna tragedia dei beni comuni può essere trattata, come nessuna questione ambientale o relativa alla sostenibilità, senza scienza e tecnica. All’ordine del giorno c’è una nuova alleanza tra saperi (si veda M. Callon e a., Acting in an uncertain world. An essay on technical democracy, MIT Press 2009), certo non un maoismo volontaristico rivisitato. E i primi a confermarlo sarebbero i movimenti indigenisti che difendono i loro beni comuni locali dall’aggressione delle multinazionali o l’esperienza di Vandana Shiva.

Come hanno mostrato le ricerche comparative di Elinor Ostrom il governo dei beni comuni richiede tutte le risorse della democrazia costituzionale: forme di democrazia partecipata, divisioni dei poteri, agenzie terze, tribunali (come quello delle acque di Valencia), monitoraggi tecnici e – non da ultimo – la condivisione collettiva di una cultura delle regole e di cooperazione sia sociale che interistituzionale. Il governo è sia tecnico che politico, si basa su istituzioni e certo non su movimenti, che casomai rappresentano in situazioni critiche un momento istituente. E inoltre, dato che ogni bene locale è inserito nella grande catena dei beni comuni, nessun bene sta da solo e così pure il suo governo, necessariamente articolato su livelli (come già nella nostra sussidiarietà) e inoltre governato più dall’alto o più dal basso a seconda della sua scala: un conto è un bosco e un conto il clima globale. Non si vede perciò come si possa fare a meno della politica democratica dispiegata in tutte le sue forme: gli stessi movimenti hanno senso solo dentro il suo quadro e come fattore del suo dinamismo e della sua capacità di apprendimento. Ogni riduzionismo che neghi queste relazioni complesse illude sulla semplicità della soluzione.

Ero partito in realtà con l’idea di recensire Beni comuni. Un manifesto, Laterza 2011, di Ugo Mattei, ma ho poi preferito porre questioni più generali pur suggerite dalla lettura di quel testo. Esso è destinato ad avere successo tra militanti e nuovi credenti. Ma non farà un buon servizio allo sviluppo di una cultura consapevole dei beni comuni. Conosco personalmente l’autore e ho con lui relazioni amicali. Ma il dissenso resta vivo. Egli ha redatto un manifesto per soddisfare i bisogni dei semplificatori e degli antipolitici irriflessivi. Parte molto da lontano con una vignetta caricaturale dell’età premoderna e poi della modernità. Questa è condannata radicalmente, ivi compresa la scienza (Galileo è il primo scientista, poveretto lui, che era un grande umanista!), e Cartesio diventa il capro espiatorio. L’alternativa proposta è chiaramente populista: il governo dei beni comuni nelle mani delle popolazioni locali (e i beni comuni di altra scala? E il fatto che tutti i beni anche molto locali in realtà sono inseriti in una catena scalare?) che – se sono movimento – sono in grado di governare. Politica, istituzioni, conflitti interni al popolo scompaiono, di fronte alla contrapposizione antipolitica tra società e stato. Se poi invece di Galileo preferiamo Fritjof Capra, aggiungiamo un tocco new age, molto gradito ai giovani, che sa tanto di olismo per principianti. Io avrei suggerito allora Gregory Bateson. Al contrario di quanto pensa Mattei, io credo che la tragedia dei beni comuni può essere trattata ed evitata solo con tutte le risorse della modernità riflessiva, che egli sembra ignorare.

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