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sinistra

Da Mao a Xi: un socialismo vivo

di Diego Angelo Bertozzi

Prefazione al volume" "Il pensiero di Xi Jinping come marxismo del XXi secolo" (LAD edizioni (euro 14,00) e-mail a: This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.; This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.)

102239857 12ffb96d 08f4 4e67 8727 47bb64b0e16fPer introdurre, spero degnamente, questo importante e originale lavoro faccio un salto all'indietro nel tempo. Nella sua recensione del libro “La sinistra assente” del compianto Domenico Losurdo, pubblicata sul Corriere della Sera del 3 novembre, il professor Luciano Canfora, pur riconoscendo i meriti del testo, ne criticava a più riprese le posizioni relative alla Repubblica popolare cinese. Secondo Canfora infatti, il vertiginoso sviluppo economico del Paese asiatico sarebbe avvenuto in forte contraddizione con le premesse teoriche del socialismo cinese e della rivoluzione maoista. Un giudizio che nulla ha di sorprendente: con le sue affermazioni lo studioso si inserisce in un filone di pensiero ben consolidato – anche a sinistra – di condanna degli sviluppi di quello che si auto-definisce “socialismo con caratteristiche cinesi” e, quindi, di rigetto di un tradimento che si sarebbe consumato nel post-rivoluzione culturale per sfociare in una restaurazione autoritaria all'insegna del liberismo capitalista. La Cina, secondo una lettura divenuta negli anni senso comune, non solo non rappresenterebbe un'alternativa reale alla restaurazione liberista in atto dal 1989, ma ne sarebbe, invece, parte attiva con il suo bagaglio di sfruttamento, diseguaglianze raccapriccianti e pulsioni imperialiste.

In fondo basterebbe poco per dimostrare che l'affermazione di Canfora “lo stato di cose che si è affermato in quel grande Paese, trasformatosi ormai nell'esatto contrario di ciò che si proponeva di essere alla metà del Novecento” concede troppo alla vulgata dominante. Si potrebbe partire dal discorso di Mao che il 1° di ottobre del 1949 sancì ufficialmente la nascita della Repubblica popolare cinese: “Ci siamo uniti, con la guerra di liberazione nazionale e con la grande rivoluzione popolare, abbiamo abbattuto gli oppressori interni ed esterni e proclamiamo la fondazione della Repubblica popolare cinese. Da oggi il nostro popolo entra nella grande famiglia di tutti i popoli del mondo, amanti della pace e della libertà”.

Da allora sono passati oltre settant'anni e, quindi, possiamo chiederci in cosa il Partito Comunista Cinese (PCC) abbia contribuito nella costruzione “dell'esatto contrario” di quanto preannunciato dal suo leader più eminente e tuttora ritenuto fonte di ispirazione e cardine ideologico. Ebbene, tra gli scopi originari della lunga rivoluzione cinese, portata a termine dal PCC, c'era proprio quello della rinascita nazionale, della ri-conquista dell'integrità territoriale e della piena sovranità. Ebbene, difficile non vedere come questi obiettivi siano stati sostanzialmente raggiunti (anche se non del tutto se pensiamo a Taiwan), con il ritorno alla madrepatria di Hong Kong e Macao, con l'ormai concreta prospettiva di raggiungere stabilmente il primato economico mondiale, con la drastica riduzione del gap tecnologico (e militare) con le principali potenze mondiali (Usa su tutti), tanto che il Pentagono con sempre maggiore frequenza lancia allarmi su un possibile sorpasso nei più avanzati settori tecnologici. Nata per chiudere la triste parentesi del “secolo delle umiliazioni” (1843-1949), la Cina è in grado di fare fronte ai rinnovati progetti di smembramento dell'imperialismo statunitense. L'“esatto contrario” avrebbe visto ben altri scenari: la liquidazione violenta della presenza comunista (una fine simile a quella dei comunisti indonesiani), lo smembramento dell'ex Celeste impero con la perdita di periferie, storicamente baluardi a protezione del centro, come Xinjiang e Tibet, oppure la ricomparsa, sotto forma diversa, di potentati regionali con a capo moderni “signori della finanza”.

Certo, il processo di apertura e riforma, nelle sue fasi di maggiore radicalità, ha portato alla crescita di diseguaglianze nella distribuzione delle ricchezze, riservando ad alcune regioni costiere, piuttosto che a quelle interne, il ruolo di locomotiva dello sviluppo. Tuttavia ha permesso il raggiungimento di un risultato di portata storica (e non solo per la Cina): l'uscita dall'estrema povertà (quindi dal rischio di morte per fame) di oltre 700 milioni di persone, centrando con dieci anni di anticipo gli obiettivi dell'Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Nel 1950 la Cina comunista vedeva ancora parte della propria popolazione vittima di morte per inedia, con intere zone devastate da uno dei peggiori imperialismi della storia e condannate al perenne sottosviluppo. Alla sola Pechino socialista va il merito, secondo gli attuali standard dell'Onu, di aver sollevato dalla povertà oltre il 70% della popolazione mondiale. A tutto questo va aggiunta la costante crescita dei salari e il progressivo riconoscimento di diritti ai lavoratori. Misure impensabili senza uno sviluppo economico a doppia cifra. Tutt'altro che l'“esatto contrario” di quanto preannunciato! Certo, al mercato e all'iniziativa privata sono riconosciti ruoli crescenti, ma si resta nel quadro di una coerente programmazione economica da parte dello Stato (pianificazione), del controllo di quest'ultimo sul credito, sulle infrastrutture, sui settori strategici dell'economia, di un potere statale che può aumentare per legge i salari minimi, di un sistema fiscale fortemente progressivo a tutto vantaggio dei redditi più bassi, e dello sviluppo di un fiorente settore cooperativo che vede impiegata una fetta crescente della popolazione. Sotto la generazione di governo guidata da Xi Jinping il Partito comunista ha visto crescere il proprio ruolo di salvaguardia del sistema anche all'interno dell'economia privata, vedendo riconosciuto il proprio ruolo negli statuti delle imprese. Sono, quindi, diversi gli aspetti che permettono di parlare di socialismo: in aggiunta alla già citata pianificazione (non più rigida e iper-centralizzata come agli inizi della repubblica popolare) e all'esistenza di servizi pubblici sempre più diffusi esterni al mercato o flebilmente condizionati da questo, ci sono la proprietà pubblica della terra e delle risorse naturali e le grandi imprese pubbliche la cui azione – ormai globale – non è finalizzata all'arricchimento degli azionisti privati ma risponde a interessi strategici generali di lungo termine, come dimostra anche il versamento del 10% dei profitti allo Stato. Come ricordano gli studiosi Remy Herrera e Zhimin Long “benché di ampiezza più limitata rispetto al passato, il settore pubblico rappresenta ancora circa la metà degli attivi industriali totali e la loro quasi totalità nei settori assai strategici per l'economia del Paese come le grandi infrastrutture energetiche, i trasporti, le telecomunicazioni e quello militare”[1].

Sulle aziende statali – vere e proprie “alture strategiche” del socialismo di mercato cinese per dirla alla Lenin – ricadono perciò importanti responsabilità sociali che si esprimono nel concorso allo sviluppo dell'economia nazionale – si pensi al ruolo di vettori dell'innovazione – all'accrescimento del tenore di vita della popolazione e al riequilibrio regionale. Si tratta di un ruolo, quindi, che non va valutato solo in base a indicatori economico-operativi. Con orrore viene spesso sottolineato come questi obiettivi siano stati raggiunti ricorrendo al mercato, alla proprietà privata e agli investimenti stranieri con la conseguente immissione di forme di sfruttamento della manodopera cinese. Indubbio, ma ci si scorda spesso che la Cina ha vissuto per decenni in completo isolamento e da vittima di una persistente politica di embargo economico da parte dell'Occidente. Soprattutto ci si scorda spesso che la sperimentazione del socialismo di mercato non è stata una novità teorica e pratica. Fu lo stesso Lenin, posto di fronte alla necessità della giovane e sempre minacciata Unione Sovietica, a sottolineare la necessità dell'apertura al mercato, all'economia privata e dell'acquisizione, attraverso accordi persino con potenze occidentali che l'avevano aggredita, delle innovazioni tecnologiche capitaliste. Come scrisse nel maggio del 1921, in piena Nuova politica economica, le “concessioni” al capitalismo occidentale avrebbero permesso al potere sovietico di rafforzarsi e alle forze produttive di svilupparsi: “Noi paghiamo un certo tributo al capitalismo mondiale, sotto certi rapporti ci riscattiamo da esso ottenendo immediatamente, in una determinata misura, il rafforzamento della situazione del potere sovietico e il miglioramento delle condizioni della nostra economia. […] La politica delle concessioni ci darà, in caso di successo, un certo numero di grandi imprese modello, se comparate alle nostre, che potranno reggere il confronto con quelle del capitalismo moderno progredito”. E, infine, un monito ancora valido nei confronti di chi pensa alla costruzione di una nuova società come scelta di ascetica purezza: “chi raggiungerà in questo campo i maggiori risultati […] recherà maggiore utilità alla causa dell'edificazione socialista di tutta la Russia di chi penserà alla purezza del comunismo [...]”[2].

Ai successi interni vanno collegate le ricadute internazionali dello sviluppo economico cinese e che mostrano chiaramente una coerente prassi socialista. L'ingresso a titolo paritario nella “grande famiglia di tutti i popoli del mondo” avveniva nel pieno di un processo di lotte di liberazione nazionale che vedevano impegnati popoli dell'Asia come dell'Africa contro le ex potenze coloniali e l'ingresso dell'imperialismo statunitense (guerra di Corea e difesa militare della secessione di Taiwan). Quell'espressione sintetizzava, quindi, la volontà dei comunisti cinesi di favorire il processo in atto e di costruire un ordine internazionale basato sul rispetto delle autonome vie di sviluppo economico-sociale. Volontà e programma politico che sarebbe stato successivamente scolpito nei Cinque principi della coesistenza pacifica (1954) in occasione della nascita del Movimento dei Paesi non allineati. A oltre settant'anni da quella presa di posizione – ancora oggi pietra miliare dell'impegno diplomatico cinese – ci troviamo forse di fronte all'“esatto contrario”? Chiusa la parentesi dell'esportazione della rivoluzione – che portò Pechino a sostenere la nascita di una sorta di Onu alternativa e rivoluzionaria – ora il successo economico cinese esercita quella che possiamo definire, utilizzando le riflessioni degli autori di questo libro, una “attrazione magnetica” o un “irradiamento” per quei Paesi – ancora molti – desiderosi di uscire da un secolare sottosviluppo e di sconfiggere la povertà. Aspetto puntualmente rilevato anche da Romano Prodi – già presidente del Consiglio dei ministri italiano e attento studioso delle dinamiche internazionali – che riflettendo su di un “globalismo economico senza universalismo politico” presenta una Cina che “rifiuta la pretesa dell'Occidente democratico di definire quello che è bene e quello che è male o, per essere ancora più espliciti, si ritiene legittimata, almeno come l'Occidente, a definire quello che è bene e quello che è male”; e conclude: “Ogni Paese dovrebbe infatti avere il diritto di scegliere i suoi punti di riferimento politici e ideali in accordo con la propria tradizione e in coerenza con i propri interessi”[3]. L'affacciarsi della Cina come potenza globale ed esempio di lotta al sottosviluppo ha quindi mostrato l'insostenibilità e pericolosità – si pensi alle guerre cosiddette “umanitarie” o di “esportazione della democrazia” – dell'equiparazione tra valori occidentali e valori universali. Si pensi, ad esempio, al delicato tema dei diritti umani per il quale Pechino è da sempre oggetto di critiche e strumentalizzazioni ad opera delle potenze occidentali: è fuori di dubbio che l'impegno cinese su questo fronte abbia messo in discussione l'egemonia di quest'ultime promuovendo una nuova codificazione che metta sullo stesso piano di quelli politici anche i diritti collettivi allo sviluppo economico e sociale, tenendo conto – come recita il comunicato finale del Forum Sud-Sud ospitato a Pechino nel dicembre del 2017 alla presenza di 300 rappresentanti provenienti da una settantina di Paesi in via di sviluppo – dei “contesti regionali e nazionali e dei contesti politici, economici, sociali, culturali, storici e religiosi”. Il documento termina poi invitando a “prestare particolare attenzione alla salvaguardia del diritto alla sussistenza e al diritto allo sviluppo in particolare per ottenere un tenore di vita decoroso, cibo adeguato, abbigliamento e acqua potabile, il diritto alla casa, alla sicurezza, al lavoro, all'istruzione e alla salute e alla sicurezza sociale”[4].

In campo è posta un'alternativa tanto all'imperativo liberista quanto alla complementare “carità che uccide”, secondo la definizione della giornalista africana, collaboratrice di New York Times e Financial Times, Dambysa Moyo. Queste sono le sue considerazioni: “Negli ultimi decenni più di un trilione di dollari nell'assistenza allo sviluppo ha davvero migliorato la vita degli africani? No. Anzi, in tutto il globo i destinatari di questi aiuti stanno peggio, molto peggio. Gli aiuti hanno contribuito a rendere i poveri più poveri e a rallentare la crescita. Al contrario, il ruolo della Cina in Africa è maggiore, più sofisticato e più efficiente di quello di qualsiasi altro paese in qualunque momento del dopoguerra. Un ruolo criticato da quanti attualmente si arrogano il diritto di decidere il destino del continente come se fosse una loro precisa responsabilità, ossia la totalità dei liberal occidentali, i quali la ritengono (spesso nel ruolo più paternalistico) una loro precisa responsabilità. Per molti africani i vantaggi sono davvero tangibili: ora ci sono strade dove non ne esistevano, e posti di lavoro dove mancavano; invece di fissare il deserto degli aiuti internazionali, possono finalmente vedere i frutti dell'impegno cinese. Quest'ultimo è chiaramente un fattore che negli ultimi anni ha permesso all'Africa di arrivare a un tasso di crescita del 5%”[5].

Non possiamo quindi evitare di fare riferimento al progetto strategico della Nuova Via della Seta (BRI), sul quale si soffermano a più riprese anche gli autori di questo prezioso e innovativo studio. Annunciata nel 2013, in piena continuità con il programma maoista di rinascita e denghista di apertura, è entrata nel 2017 nello statuto del Partito comunista cinese. Criticata costantemente dall'Occidente euro-atlantico in quanto progetto imperialista e ricattatorio (la “trappola del debito”), questa immane e poderosa strategia di sviluppo ormai globale ha permesso, sempre al continente africano, di incamminarsi con passo deciso lungo la strada della decolonizzazione economica. Diverse studiosi e istituzioni internazionali sottolineano come i collegamenti ferroviari sorti grazie ai prestiti cinesi – solitamente concessi a condizioni più favorevoli rispetto a “donatori” tradizionali come FMI – consentano nuovi sbocchi per i prodotti locali e alimentino opportunità per i piccoli commercianti e gli agricoltori. Chiare sono in questo senso le riflessioni della statunitense Jamestown Foundation: le reti di comunicazione sorte in ambito BRI “collegheranno tra loro i vari centri regionali alleviando in parte un problema che ha tormentato lo sviluppo economico dalla fine dell'era coloniale”. Un'eredità coloniale fatta di collegamenti troncati che rendevano estremamente costoso lo scambio di risorse e prodotti tra Paesi africani[6].

Ormai una parte significativa del mondo guarda con interesse al socialismo cinese e la stessa presenza di Pechino ha dato a molti quanto negli ultimi decenni sembrava inverosimile: una possibilità di scelta, una alternativa al ricatto, da giocare a favore dei propri interessi. È indubbio: la presenza e l'azione della Cina popolare costituisce e offre un sempre più importante contrappeso politico-economico per tutti quei Paesi che, grazie ai flussi finanziari e ai crediti (a tassi agevolati) provenienti dal dragone orientale, possono evitare il cappio dello sfruttamento occidentale rappresentato da strumenti operativi come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.

Siamo, anche in questo caso, di fronte all'“esatto contrario” di quanto preannunciato nell'ottobre del 1949? Pare proprio di no. E per confermare con dati, riflessioni e abbondanti riferimenti alla storia del socialismo, questa mia veloce riflessione il lettore italiano ha a disposizione questo libro. Senza dubbio un'originale novità nel panorama editoriale italiano.


Note
[1]    Remy Herrera e Zhimin Long, La Chine est-elle capitaliste?, éditions critiques, 2019, p.109
[2]    Si rimanda a Giacché Vladimiro (a cura di), Economia della rivoluzione, Il Saggiatore, 2017, pp 353-370.
[3]    Romano Prodi, Cina: scienza e tecnologia obiettivo primario. Ma sotto controllo politico, Il Messaggero, 5 novembre 2017
[4]    Full text of Beijing Declaration adopted by the First Sout-South Human Rights Forum, Xinhua, 8 dicembre 2017
[5]    Dambysa Moyo, La carità che uccide, Rizzoli, 2010, pag. 122
[6]    Bertozzi Diego Angelo, La nuova via della Seta, Diarkos, 2019, pp. 197-198

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