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La crisi del Modo di Produzione Capitalistico e la Rivoluzione in Occidente

di Giacomo Marchetti

Festa ANC.jpgNel quadro dell’annuale Fête de l’Association National des Communistes si è svolto il dibattito “Di fronte alla militarizzazione dell’economia globale, come lottare per la pace e il progresso sociale?” con gli interventi di Charles Hoareau (ANC de France), Saïd Bouamama (Rassemblement Communiste), Marie-Josée Ngomo e Mariam Bah (Dynamique Unitaire Panafricaine). Un dibattito ricco, interessante e proficuo sul ruolo dei comunisti nella nuova fase della competizione internazionale e di crisi dell’egemonia dell’imperialismo occidentale. Di seguito l’intervento di Giacomo Marchetti (Rete dei Comunisti).

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Nell’agosto del 2021, commentando la precipitosa fuga dell’Occidente dall’Afghanistan, scrivevamo nell’editoriale del nostro quotidiano Contropiano.org: «I talebani hanno vinto, le potenze occidentali hanno perso. Gli sconfitti si portano dietro quel sistema di relazioni, ormai oggettivamente indebolite, che aveva caratterizzato la fine del mondo bipolare.

Perde quindi un mondo che aveva scommesso sul complesso militar-industriale e le “guerre infinite” come motore principale di sviluppo – tagliando sul Welfare e aumentando il Warfare – in una mutazione castrense e poliziesca della funzione dello Stato. Gli USA avevano pensato che quel meccanismo inaugurato di fatto dalla Reagan-Economics, con la corsa agli armamenti contro l’Unione Sovietica, avrebbe pagato all’infinito.

Un mondo che, come riflesso culturale indotto, non si accorgeva che oltre il suo Limes mentale un paese della periferia integrata – la Cina – stava diventando “la fabbrica del mondo” di prodotti ad alto valore aggiunto, mentre la Russia cessava di essere una “potenza regionale”, come la definì Obama in maniera quasi spregiativa, per diventare un global player cui non è conveniente pestare i piedi».

La sconfitta militare era il riflesso non solo di mutati rapporti di forza dal punto di vista geo-politico, ma della crisi di un modo di produzione e delle relazioni internazionali che l’hanno caratterizzato ormai al crepuscolo.

Stava finendo non solo il ruolo degli USA come gendarme mondiale, ma un modello di sviluppo imperialista che si era via via affermato come risposta alla crisi strutturale all’inizio degli Anni Settanta dalla fine degli accordi di Bretton-Woods e l’inizio della crisi petrolifera dopo la Guerra del Kippur.

Scrivevamo il settembre dello scorso anno, sempre su Contropiano.org, cercando di mettere in evidenza la correlazione tra un motore di sviluppo occidentale “fuso” e il ruolo centrale nuovamente rivestito dalla NATO:

«Esattamente 14 anni fa il crack della Lehman Brothers – era il 15 settembre del 2008 – metteva in evidenza le criticità di un modello di sviluppo emerso con la fine del mondo bipolare, con la globalizzazione a guida statunitense che aveva affermato la propria egemonia con quella che sembrava una accoppiata vincente: finanza creativa ed apparato militare-industriale.

La “bolla finanziaria” scoppiò allora trascinando con sé le narrazioni fino ad allora egemoni, ma che non vennero sostituite. La crisi dei mutui subprime mostrava la fragilità del modello di capitalismo statunitense e dei suoi emuli, tra cui l’Unione Europea, nella variante ordoliberista.

Quella potenza economica – gli USA – che dopo la Seconda Guerra Mondiale impiegava quasi un terzo della sua forza lavoro nell’industria, e il cui settore manifatturiero era circa un terzo di quello mondiale, era ormai divenuta praticamente un’economia castrense, sostenuta dai castelli di carta della finanza, e più tardi anche dall’esportazione di idrocarburi (gas e petrolio).

L’economia reale si era intanto spostata in Asia, in particolare in Cina che, “usando” per così dire il Modo di Produzione Capitalista, si era sviluppata a ritmi vertiginosi, risalendo progressivamente la catena del valore mondiale fino a far svanire progressivamente quello “sviluppo diseguale” cui sembrava condannata dalla gerarchia imperialista a guida statunitense. Da tempo Pechino, da potenza economica, si è trasformata in potenza politica.

La Russia – che aveva a lungo bussato alle porte dell’Occidente (ricordate il G8, nel 2001?), vedendosele sbattere continuamente in faccia, e registrando la continua disattesa delle promesse fattele in epoca tardo-sovietica rispetto ad un congelamento dell’espansione della NATO – diventava un attore sempre più assertivo del consorzio internazionale, a cominciare dal suo estero vicino, per proiettare la propria sfera di influenza molto più in là. Per fare ciò si appoggiava, e tuttora si appoggia, sull’eredità del sistema militar-industriale sovietico e sulle sue risorse energetiche, forte di un collante ideologico patriottico post-sovietico che pervade capillarmente la società russa.

Insieme a Cina e Russia, altri soggetti di peso emergevano, pronti a sganciarsi o quanto meno a rendersi più autonomi dalle catene del valore occidentali e dalla gerarchia euro-atlantica; a giocarsi insomma un ruolo non più subordinato, per la maggior parte dei casi, come competitor dell’Occidente più che come veri e propri antagonisti, ma con cui gioco forza si trovavano ai ferri corti in un sistema sempre più polarizzato.

La precipitosa fuga dell’Occidente dall’Afghanistan, un anno fa, ha fatto “suonare a morto” le campane della presunta superiorità occidentale anche nei conflitti asimmetrici, trasformando così uno dei perni della strategica statunitense in un buco nero per sé e per i propri alleati. La fuga da Kabul ha di fatto certificato militarmente ciò che era emerso economicamente 13 anni prima.

La NATO, che sembrava “cerebralmente morta”, come l’aveva definita Macron, è ridivenuta la camera di compensazione dei conflitti interni all’area euro-atlantica a guida statunitense.Tenta di catalizzare in una sorta di nuova Santa Alleanza una serie di soggetti che vanno oltre i perimetri per cui è stata concepita, e riallinea ai suoi desiderata le politiche dei Paesi che la compongono e di quelli che a lei guardano. L’Alleanza Atlantica si conferma quindi il vettore principale della guerra a quel mondo multipolare che sta sorgendo, la principale minaccia alla Pace sul nostro pianeta. L’estremo baluardo di un mondo declinante».

La deterrenza atomica reciproca rimane in questo contesto – ovvero “l’equilibrio del terrore” -, il maggiore fattore di contenimento della precipitazione bellica tra potenze, considerando che non vi è alcuna cornice internazionale in grado di “raffreddare” i conflitti in corso e le ferite “non sanate”.

La NATO come dimostra il corso della guerra in Ucraina, e il fallimento della cosiddetta contro-offensiva, è inadatta a vincere una guerra simmetrica sul campo e appare piuttosto isolata nella propria azione egemonica nonostante un pugno di stati si auto-definiscono “comunità internazionale”.

L’affermazione della seconda ondata progressista in America Latina – coronata dalla “sofferta” vittoria di Lula alle elezioni presidenziali brasiliane – che affiancava i capisaldi della transizione socialista nel continente (Cuba castrista, Nicaragua sandinista, e Venezuela boliviano) e il consolidarsi dei “Colpi di Stato popolari in Sahel (Mali, Burkina Faso, Guinea-Conakry, Niger) mostravano e mostrano una tendenza al superamento del neo-colonialismo nelle forme che aveva storicamente assunto nel “cortile di casa” statunitense e nella Françafrique.

Naturalmente ci sono altri importanti segnali che testimoniano l’emergere di una tendenza verso un mondo multipolare e multicentrico (lo sviluppo del BRICS PLUS in primis e altre importantissime forme di cooperazione politico economico regionali) – quella “giungla” come l’ha chiamata con smaccato atteggiamento razzista Borrell contrapponendola al “giardino” euro-atlantico – in cui anche le classi subalterne dei paesi occidentali possono ridefinire una propria traiettoria di emancipazione, e i comunisti – se si liberano definitivamente dei propri retaggi euro-centrici e sciovinisti – possono giocare un ruolo, come acceleratori di questo processo dentro il conflitto di classe e sviluppando le forme necessarie che assume la sedimentazione delle forze antagoniste a quest’ordine politico-economico.

La spinta soggettiva trova condizioni abbastanza fertili: la stagflazione che i maghi dell’economia occidentale non riescono a risolvere, la definitiva installazione del Workfare State al posto del Welfare State con la desertificazione di quel minimo di garanzie sociali acquisite (istruzione, salute, servizi), una polarizzazione sociale accresciuta dentro un rapporto centro-periferia di matrice sempre più “coloniale” anche dentro le metropoli imperialiste, una vistosa torsione autoritaria che assume le forme della fascistizzazione crescente – negli apparati dello Stato, nel vorticoso “spostamento a destra” delle politiche dei maggiori attori politici, nel ritorno in forza delle organizzazioni neo-fasciste – in cui sembra avverarsi la distopica profezia di Bertold Brecht: “non cantiamo vittoria troppo presto: il grembo da cui nacque è ancora fecondo”.

Un monito che l’attuale politica israeliana di genocidio e di pulizia etnica a Gaza e nella West Bank, e la strutturale complicità dell’Occidente, rende quanto mai attuale dopo che la gloriosa operazione “Diluvio d’al-Aqsa” ha rimesso definitivamente al centro la capacità della Resistenza Palestinese di riaffermare ancora una volta la propria imprescindibile esistenza politica e la capacità di cambiare il quadro politico in cui era inserita.

Per noi l’organizzazione strategica – la Rete dei Comunisti – è il cervello collettivo e il perno dell’attività che sviluppiamo nei fronti di massa (Sindacato, Organizzazioni Giovanili, Organizzazioni Specifiche, Rappresentanza Politica, Contro-informazione), e pensiamo che la sua crescita qualitativa e quantitativa in un processo di accumulo delle forze, sia una premessa per potere svolgere un ruolo adeguato nella mutata fase che stiamo attraversando.

Il confronto con l’ANC, per noi è stato fondamentale per qualificare la nostra azione come soggettività rivoluzionaria così come nei fronti in cui agiamo. Una relazione che ci auguriamo sempre più stretta nell’immediato futuro come ambito di confronto e di azione comune.

Per necessità di sintesi passiamo molto sommariamente ad alcune indicazioni che abbiamo cercato di sviluppare praticamente negli ultimi anni in Italia rispetto ai temi qui dibattuti:

  • Se la tendenza alla guerra, è la tendenza principale nella crisi sistemica del modo di produzione capitalistico – e noi siamo nel ventre della bestia – lo sviluppo del movimento contro la guerra con parole d’ordine chiare contro la NATO e l’imperialismo euro-atlantico è una priorità. La presenza delle basi statunitensi e dell’Alleanza Atlantica sono state un fattore di “contro-rivoluzione permanente” per il movimento di classe in Italia e non solo dei perni per le avvenute militari all’estero. La NATO è infatti la “assicurazione sulla vita” dell’imperialismo euro-atlantico e dell’élite che ne godono dei relativi privilegi.
  • Dove lo scontro contrappone chiaramente “L’Occidente Collettivo” contro le popolazioni che si vogliono sganciare dal suo gioco imperialista e neo-coloniale, l’azione dev’essere in supporto all’esperienze di auto-determinazione qualunque forma essa assumano – senza se e senza ma – e sviluppare l’attività internazionalista concreta in loro supporto. L’attuale situazione in Palestina per esempio necessità lo sviluppo di un’opposizione e boicottaggio popolare e di una disobbedienza civile di massa, a cominciare dalla catena logistico-manifatturiera della filiale della guerra, con un ruolo rilevante delle parti più militanti del movimento dei lavoratori e dell’ambito di solidarietà. Le manifestazioni di sostegno, sono utili e necessarie, ma non sufficienti.
  • La “questione di classe”, cioè come si articola e si sedimenta un sindacalismo militante e indipendente è centrale, anche per la rottura con la complicità occidentale nella tendenza alla guerra. Una rottura non solo “ideale” ma nella capacità di incidere realmente sui rapporti di forza legando la tendenza alla militarizzazione all’impoverimento crescente delle classi subalterne. L’USB ha coniato lo slogan: “Giù le armi, su i salari” che ci sembra una ottima resa di questo concetto, e tutte le forme di lotta che hanno caratterizzato la storia del movimento operaio (e quelle che ci inventeremo) sono una strumentazione necessaria che deve essere recuperata contro la collaborazione di classe.
  • La “questione giovanile” di una generazione senza futuro che non può che radicalizzarsi deve trovare i comunisti capaci di articolare una proposta organizzativa efficace dentro un’alternativa di società e una visione del mondo in cui l’identità comunista può orgogliosamente riaffacciarsi nell’orizzonte di valori della parte più militante dell’attivismo giovanile.
  • Il razzismo sistemico e il patriarcato di cui sono intrise le nostre società devono diventare campi di battaglia dove i soggetti più colpiti possono diventare da vittime a protagonisti e protagoniste dentro un’alternativa sociale complessiva.

La Storia non è finita, è la loro storia che sta finendo. Come diceva il Presidente Mao: “Grande è il disordine sopra e sotto il cielo. La situazione è quindi eccellente”.

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