Print Friendly, PDF & Email

commonware

Note sulla crisi: pandemia e trasformazioni capitalistiche

Intervista a Giovanni Semi

A cura di Città Senza Centro e Commonware

unnamed89648eblCSC: Nella “città del contagio” secondo te quali sono le tendenze di trasformazione del capitalismo delle piattaforme? Pensiamo da un lato ai processi di gentrification e turistificazione dei centri storici e dall'altro a quelli di produzione, consumo e distribuzione di beni e servizi culturali. Con la pandemia il consumo culturale comporterà una ristrutturazione delle gerarchie? Quali saranno i dispositivi di esclusione da certe esperienze di consumo culturale?

Una cosa che sostengono quelli che si occupano di consumi culturali da quarant’anni a questa parte è che esiste una tendenza massiccia e diffusa verso quello che chiamano “onnivorismo culturale”, ovvero il fatto che una quota sempre maggiore di popolazione consuma sempre più prodotti culturali simili indipendentemente dalle diverse appartenenze di classe. Questa è stata una rivoluzione del Novecento. Fino agli anni Cinquanta e Sessanta le classi sociali avevano consumi completamente diversi tra loro e molto segmentati. Dagli anni Sessanta in poi si è sviluppata la tendenza a mescolare i codici e a consumare merci simili. È ovvio che non sono mai prodotti identici. Prendiamo l'esempio dell'automobile che – anche se non è un consumo culturale – funziona bene in questo senso. Tu puoi accedere a un'automobile che ha buona parte degli optionals che ha anche l'automobile di un consumatore più ricco. Tu accedi a quel bene con la finanziarizzazione, sei obbligato a comprare l'auto attraverso l'indebitamento, che ti consente quindi di accedere non al modello di classe superiore ma ad uno con caratteristiche abbastanza simili, mentre il consumatore con più disponibilità economica la compra con la carta di credito o con un bonifico ed ha il top della gamma.

La differenza tra le due categorie di automobili è, però, molto più ridotta rispetto a quella che esisteva negli anni Cinquanta e Sessanta, quando c’era chi non poteva permettersi l’auto e chi invece accedeva ai modelli top di gamma. Questa tendenza la ritroviamo su tutti i consumi mediali e nelle varie forme di consumo culturale artistico (cinema, musica, teatro). È una tendenza talmente potente che nel capitalismo contemporaneo è stata il motore per spingere masse sempre più elevate di popolazione a consumare e a stare dentro una macchina di produzione costante. Credo che il motore non possa permettersi di bloccare questa tendenza. In qualche misura i consumi andranno tutelati, poi le forme con cui verranno tutelati in filigrana si vedono già ma non sono ancora decise. Non mi aspetto crolli enormi di consumi, sicuramente ci saranno delle differenziazioni. Siccome ci saranno delle pesanti ristrutturazioni di reddito, accompagnate sicuramente da gravissime e diffuse ondate di disoccupazione che già si vedono e cresceranno nei prossimi mesi, quello che probabilmente vedremo sarà da un lato qualche forma di elargizione dall'alto di reddito per consentire i consumi di base, perché se non succede collassa il sistema. Dall'altro vedremo delle ristrutturazioni della parte simbolica del consumo innescata dalla pandemia. Non è chiaro cosa succederà nei prossimi mesi col virus, ma il tema della distanza o vicinanza rimarrà importante, magari anche solo per due anni che sono comunque moltissimi, quindi, per esempio, il consumo su vasta scala di concerti cambierà sicuramente. Come già anticipavo un paio di mesi fa, circola l'idea condivisa da molti produttori culturali di lasciare ai segmenti di popolazione più ricchi la fruizione analogica e di mettere le popolazioni più povere in condizioni di fruizione digitale. Tu stai su una piattaforma e compri il tuo abbonamento per i concerti dal vivo che sia rock o musica classica. Chi è più fortunato di te, invece, starà distanziato al teatro, all'opera oppure nell'arena dei concerti dove si troverà con poche persone. Non so se questa soluzione reggerà perché se penso ai concerti, io sono stato un grande consumatore di concerti rock tutti i tipi, uno dei piaceri era stare proprio corpo a corpo. Se ci saranno ristrutturazioni saranno una sorta di difesa a tutti i costi delle capacità di consumo della parte di popolazione che si riesce a salvare, mentre per quelli che non riescono a salvarsi perché troppo poveri o troppo ai margini, secondo me continuerà ad essere utilizzato il vecchio sistema della repressione tout court, cioè periferizzazione, carcerazione, stigma e tutti gli strumenti che conosciamo. In merito alla massa dei consumatori si cercherà in tutti i modi di salvarla. Per quanto riguarda le piattaforme bisogna dire che non sono tutte uguali: alcune, in particolare quelle abitative, sono in stallo, basti pensare ad Airbnb anche se non ho dubbi sul fatto che ripartirà. Le altre, quelle della logistica, non hanno perso un euro, anzi, hanno in realtà incrementato in maniera impressionante flussi e ricavi. In maniera analoga tutte le piattaforme della comunicazione hanno di nuovo vinto la battaglia. Mi ha colpito molto un aneddoto che mi ha riportato una mia amica: durante una riunione organizzata dalla Camera di commercio di Torino con tutte le associazioni di categoria commerciali per fare il punto della situazione della riapertura poco prima della “fase 2”, la grande idea proposta dalla Camera di commercio di Torino con il plauso di tutte le organizzazioni padronali dei commercianti è stata quella di fare subito un accordo con Amazon per mettere in rete tutti i negozi sulla piattaforma. Si capisce che se questa è la capacità politica dell'attore locale nei confronti delle piattaforme, se l'unica soluzione che trova è quella di vendersi allo strozzino sapendo benissimo cosa farà, ovvero ti metterà in rete, poi comincerà a chiederti sempre di più e ad abbassare sempre di più i prezzi e ti strozzerà un po' alla volta, è molto facile che le piattaforme vincano. Se gli attori politici compresi quelli che hanno degli interessi da mantenere non sono in grado di capire neanche sindacalmente come fare a difendersi dalla piattaforma, non c'è partita. Questo aneddoto mi ha molto colpito perché mi sarei aspettato un pelo di intelligenza politica in più da Ascom, da Confesercenti e da Confcommercio.

 

CMW: Visto che hai fatto riferimento ai commercianti delle città qual è l'impatto della crisi sul ceto medio, su quel pezzo di composizione che sulla scorta di Alquati diciamo in crisi di mediazione?

Quando parliamo di ceto medio in Italia indichiamo tre pilastri che sono più o meno sempre gli stessi: il ceto medio pubblico, quello dei dipendenti pubblici; il ceto medio della piccola borghesia urbana, che comprende, ad esempio i commercianti; infine c’è l’enorme galassia delle partite IVA e del lavoro autonomo. Per ragioni politiche e storiche possono anche temporaneamente giocare partite simili, ma sono tre blocchi sociali molto diversi. Sui dipendenti pubblici c'è poco da dire, dipendono interamente dallo Stato e quindi finora gli è andata di lusso. Non si intravedono ristrutturazioni violente di queste categorie. Sicuramente negli ultimi vent'anni i blocchi del turnover e i blocchi degli scatti hanno colpito molto la categoria che però nonostante la crisi ha avuto la garanzia del mantenimento del salario. Vedremo cosa succederà in futuro, ad esempio, con la Troika che quando arriva nei paesi con molti dipendenti pubblici elimina subito le tredicesime. In Italia non se n’è ancora parlato però è, solitamente, una delle prime manovre di finanza pubblica. Per quanto riguarda i commercianti sono oggettivamente in crisi nera da anni. Anche loro sono politicamente allo sbando e hanno cercato spazio politico ovunque: sono stati forzaitalioti fino al midollo, poi sono stati leghisti ed una parte anche pentastellata. Sono un elettorato fluido, proprietari che devono difendere tutte le politiche urbane di rigenerazione e decoro, tutte le politiche più conservatrici perché per loro rappresentano una tutela degli interessi economici. Però in questo momento tra le piattaforme e la rivoluzione in atto nella logistica sono oggettivamente nei guai. In aggiunta a ciò non sono mai stati in grado politicamente di bloccare le concessioni che le regioni facevano sugli oneri di distribuzione per la Grande Distribuzione Organizzata (Gdo), la prima cosa che li ammazza da trent’anni a questa parte. Se non sono riusciti a vincere quella battaglia è impossibile che riescano a vincere qualcosa contro le piattaforme. Amazon, ad esempio, non è neanche in regione, è dematerializzato, è in giro per il pianeta, arriva a Piacenza, piazza il suo centro ed è la rovina. I commercianti sono in grave crisi e negli ultimi anni hanno perso tantissimi posti di lavoro, tantissimo potere e ne escono con le ossa rotte. Un discorso speciale è quello sui commercianti del cibo o del food: sono una categoria particolare, non sono i commercianti tradizionali. Sono dei kamikaze, dei parvenu nel settore commerciale. Ci arrivano da percorsi abbastanza eterodossi rispetto al commerciante tradizionale, con pochi capitali, spesso con pochissime competenze ed in molti casi non sono nemmeno proprietari del fondo. Generalmente il commerciante di questo settore si è riciclato come tale perché non trovava altri sbocchi occupazionali ed è diventato un padroncino del settore commerciale senza avere le spalle grosse come gli altri commercianti. Se però il commerciante tradizionale che ha alle spalle trent’anni di lavoro e magari di evasione e che quindi aveva abbastanza liquidità (magari nascosta) per reggere all’impatto di tre mesi di blocco riesce a ripartire al netto del problema delle piattaforme, per una parte significativa di commercianti del food è diverso perché non avevano fieno in cascina neanche per pagare l’affitto. Sono quindi una categoria molto particolare di commercianti, sono molto deboli e il loro meccanismo di sfruttamento si basa anche sul fatto che hanno dei margini in realtà molto risicati: devono diventare per esempio un ristorante familiare per sfruttare il parente oppure devono smettere prima o poi di pagare lo stipendio, oppure non riescono a mettere in regola i dipendenti. La concorrenza in questo settore è spietata e nelle città turistiche - dove i margini sono ancora più ridotti - sono sicuramente i più feroci perché in un certo senso sono sulla frontiera. Hanno margini così ridotti che per tenersi la maggior parte della pagnotta la tolgono a tutti gli altri. Molti di questi non sono neanche iscritti alle associazioni di categoria, non hanno ancora capito l'importanza di quella relazione politica, per di più se guardiamo il turnover delle loro attività commerciali cioè quanto dura in media la loro attività economica il dato è spaventoso. Non voglio estenderlo a tutta Italia, perché le città sono molto diverse tra loro, ma a Torino la vita media di questi commercianti del cibo prima della crisi era di un anno e mezzo, massimo due anni. Si tratta di gente che bruciava quantità inverosimili di denaro, senza portare a casa quasi niente. L'ultimo gruppo è rappresentato dalle partite IVA e da tutta la galassia del lavoro autonomo. Negli ultimi quattro mesi si è vista la loro debolezza, l'assenza di tutele e il fatto di essere sempre costantemente sul mercato, ovviamente a seconda delle categorie. Puoi essere il padroncino che guida il Transit, l'idraulico o l'elettricista, ma questo tipo di ceto medio diffuso e tutto autonomizzato in maniera violenta si trova in crisi nera. Io ho molti amici lavoratori autonomi, molti informatici che lavorano in grandi aziende di consulenza o che gravitano attorno al settore finanziario e sono stati messi a casa a fare il lavoro smart. In queste ultime settimane uno dopo l'altro mi raccontano tutti la stessa storia: l'azienda non li riconosce come dipendenti, stando a casa gli hanno tolto i buoni pasto, ridotto i progetti e gli hanno tolto lo stipendio da un giorno all'altro. Sono stati inoltre obbligati a prendere ferie forzate e poi li hanno messi in cassa integrazione. Tutta quella galassia produttiva esternalizzata forzatamente negli ultimi anni è in crisi durissima. Di conseguenza quelli che per esempio negli ultimi anni gravitavano più attorno al Movimento 5 Stelle non rinnoveranno questo rapporto politico. Li vedo come una categoria che sarà di nuovo in cerca di rappresentanza politica e non so da chi la troveranno. Diciamo che queste tre gambe del ceto medio, tranne i dipendenti pubblici, quelli più in salvo degli altri, sono tutte in una situazione molto pericolosa e avranno nei prossimi mesi gravi perdite di reddito.

 

CMW: Sempre per restare sul tema dell'analisi delle trasformazioni che interessano questo pezzo di composizione: quale sarà la trasformazione dei processi di gentrification e che effetto avrà su quei settori produttivi ad essa legati?

Per quanto riguarda la gentrification secondo me di nuovo contano le gerarchie. Sono stato a Venezia la settimana scorsa, non è ripartita, ma non è morta. Il turismo internazionale al momento non c’è e il settore alberghiero tradizionale e internazionalizzato è quasi chiuso ma Venezia si riprenderà secondo me addirittura entro la fine di quest'anno perché comunque è troppo potente sullo scenario internazionale. Lo stesso vale per Firenze o per Roma. Hanno certo accusato il colpo, ma queste tre città non cambieranno modello di sviluppo, anzi probabilmente accelereranno perché si sono rese conto di esserne completamente dipendenti. Il turismo è come una dipendenza da sostanze devi farti sempre di più. Quando è sostanzialmente la principale entrata sia per le casse pubbliche che per quelle private non c'è crash che tenga, nel senso che non essendoci alternativa la gente richiede turismo. Un discorso completamente diverso invece è da fare per tutte quelle città che avevano beneficiato del turismo nazionale che non andava più a Venezia, Firenze e Roma perché occupate da cinesi, americani, francesi, tedeschi, come ad esempio Bologna, Torino, Napoli, Palermo. Penso che il discorso sia diverso perché non sono posizionate in alto nella gerarchia internazionale e quindi non sono sicuro che qui il settore riprenderà come era partito all'inizio di quest'anno. A Torino, la città che conosco meglio, i numeri non erano esaltanti neanche prima della crisi e secondo me qui il comparto si bloccherà interamente e un sacco di attività pensate per turisti sono a rischio. Tanto è vero che, per esempio, The Student Hotel che aveva rilevato un’area molto grande per costruire uno studentato pare abbia già congelato l’investimento in attesa di tempi migliori. Sono città che erano già in crisi e che non hanno quella visibilità internazionale necessaria. Qui il turismo rischia di bloccarsi per anni, magari pochi, ma sufficienti ad uccidere tutto il settore della piccola impresa, di chi possiede l’alloggio in più e pensava di farci rendita, ma neanche certi grandi alberghi stanno troppo bene. Credo sia da seguire Federalberghi in questi mesi, che sarà sicuramente preoccupata per i propri associati. Questo riporterà gli abitanti al centro e farà scemare la gentrification? No, nel senso che quella spinta è stata molto voluta, ha messo insieme attori diversi, ma li ha tenuti attorno ad una grande narrazione e tantissimi capitali. Dopodiché quello che accadrà a mio avviso e che nei centri storici comunque ci rimarranno le classi sociali superiori che c’erano già prima. Succederà quello che è successo con la crisi del 2008 e poi del 2013/2014 con i valori immobiliari bloccati nei centri storici e non ci sarà un rientro di popolazione al centro. C’è un atteggiamento molto naïf su questo: sembra quasi che le popolazioni si spostino in maniera idraulica sulla base del costo della casa. È chiaro che se costa meno è più facile spostarsi, però ti sposti anche se hai i servizi e se hai il lavoro. Non è che la gente torna in centro perché il centro è bello. Tu torni a stare in centro se hai un reddito e delle ragioni per stare lì, ma se sei un lavoratore autonomo che deve prendere la macchina perché devi girare fuori città per te stare in centro sarebbe un incubo. Non credo che ci sarà un rovesciamento della tendenza demografica. Quella è avvenuta negli anni Sessanta, Settanta e Ottanta ed è largamente irreversibile, a meno che non cambi la base economica delle città, ma francamente in questo momento non vedo come sia possibile. Quindi dal punto di vista della gentrification non cambia nulla. Ciò vuol dire che tutti quelli che perderanno il posto di lavoro e perderanno quote di reddito continueranno a fare quello che è successo negli ultimi trent’anni ovvero ammassarsi fuori dalle zone decorose e ripulite del centro storico.

 

CSC: Una delle questioni che ruotano intorno al processo di gentrification a Perugia, è questa: dagli anni Ottanta, quando c'era già il Partito Comunista, la logica della speculazione immobiliare ha innescato un processo di desertificazione sociale nel centro storico, si sono deportati i vecchi abitanti ma contemporaneamente non si è riusciti ad attrarre un flusso di turisti abbastanza ricco capace di prendersi la casa magari per 4 mesi all'anno oppure di comprarla. Oltretutto la massa di turisti che arriva dall'estero veniva a Perugia perché consumava un certo tipo di relazioni sociali e usufruiva di uno specifico spazio urbano che ora non c'è più. Il centro storico è stato poi privato anche degli uffici per seguire una ristrutturazione dello spazio che attirasse i turisti ricchi. Insomma la strategia di gentrification a Perugia è stata completamente fallimentare, con una paralisi del centro storico del tutto desertificato.

Mi consentite di dire una cosa interessante. Quella che state descrivendo in relazione a Perugia è una contraddizione violentissima che sta attraversando anche Torino in queste settimane. Negli anni, anche a Torino tutti i funzionari e dipendenti, i posti di lavoro pubblici, gli assessorati, la provincia, la regione sono stati spostati per fare delle piccole o grandi speculazioni. Poi c’è stato il lockdown che ha chiuso l’Università e alcune attività comunali in centro. Con la “fase 2” tutti i lavoratori sono a casa ed il commercio che aveva provato a ripartire crolla nuovamente perché non ci sono più lavoratori in centro. Prima sono stati spostati e poi sono stati tenuti in casa con lo smartworking, provocando un collasso. In questo momento c'è un dibattito in molte città: tutte le categorie chiedono il ritorno dei lavoratori sui posti di lavoro e degli studenti nelle aule universitarie. Questa fase è interessante perché molto contraddittoria.

 

CMW: Forse, nel senso che hai appena mostrato, l'uscita di Beppe Sala contro lo smartworking può essere letta come una forma di tutela o come manifestazione di un interesse politico nei confronti di questo settore produttivo urbano colpito dalla crisi da Covid-19?

Se guardiamo le due grandi iniziative private di sviluppo immobiliare milanese, che sono CityLife e Porta Nuova (palazzi in piccola parte ad uso residenziale ed in gran parte occupati dal settore terziario) notiamo che sono state costruite con ingenti investimenti e vendute o affittate a cifre disumane e oggi stanno viaggiando al 20% della loro capienza. Nel giro di tre o quattro anni dalla conclusione dei lavori non staranno più in piedi economicamente in quanto i costi fissi sono giganteschi e si possono mantenere solo se tutto l’edificio è in funzione. Evidentemente a Sala hanno fatto capire che se gli alloggi sono tutti vuoti l'investimento fallisce e lui sta chiaramente difendendo i due principali interventi milanesi che gli stanno crollando in mano in poco tempo.

Le aziende si stanno ristrutturando approfittando della crisi per abbattere i costi degli affitti dei locali, tenendo i dipendenti a casa e riducendo alcuni costi del lavoro, come i buoni pasto, o anche riducendo gli stipendi sfruttando la cassa integrazione o costringendo alle ferie forzate. Se andranno avanti con lo smartworking buona parte dell’attività economica del centro crolla. Si apre quindi una contraddizione pazzesca.

 

CSC: Volevo aggiungere questa cosa: per quanto riguarda i mutamenti c'è anche una differenziazione fisica e sociale degli spazi che sembra, almeno per alcune fasce di popolazione si concentri a livello domestico. Qualcuno ha parlato di lavoro “ai domiciliari”, ma non è solo il lavoro, c’è anche la scuola e il tempo libero, si riconcentra tutto in un unico spazio, concentrazione che magari ci rende più produttivi. La contraddizione sta nel fatto che da una parte si svuotano i centri storici già desertificati, dall’altro c’è la riduzione degli spazi intermedi della vita pubblica, il bar, il parco, il ristorante, perché relazioni sociali e lavorative sono tutte concentrate nello spazio domestico”

Sì sicuramente. Fa quasi sorridere. Da un lato ci sono tutti quelli che pensavano lo smartworking come una liberazione per il lavoratore, mentre tutti quelli che conosco (a parte noi dipendenti pubblici universitari) e che lavorano in realtà aziendali dicono tutti la stessa cosa: in smartworking negli ultimi quattro mesi abbiamo lavorato molto di più. Sottolineano inoltre l'invadenza dell'azienda, i controlli continui attraverso la richiesta di inviare mail ogni ora per rendere conto del lavoro svolto. Tutti si sono sentiti in dovere, per ragioni psicologiche e individuali ma tipiche dei meccanismi di controllo del lavoro, di fare di più. Il risultato è che a molte imprese come quelle di servizi informatici di consulenza che citavo prima, quando è stato chiaro che la produttività stava aumentando in piena emergenza sanitaria non pareva vero, ed è per questo che adesso vogliono tenere lo smartworking almeno fino a dicembre senza nessuna necessità reale se non, appunto, perché così riducono i costi ed aumentano la produttività. Per molte aziende è un sogno incredibile. Questo processo sta creando però una grande disuguaglianza sociale, infatti un conto è la casa di ceto medio di ampiezza superiore a 100 metri quadri e il terrazzo, il giardinetto. Un altro è lo smartwork in una casa di 45 metri quadri magari con dei figli. Se il tuo spazio di vita è lo stesso del lavoro, è lo stesso della riproduzione sociale, ed è uno spazio di 45 metri quadri, sì sono lavori ai domiciliari.

 

CMW: Vorrei ora utilizzare la tua collocazione lavorativa, di ricercatore e docente universitario. In una vecchia intervista ci dicevi che le credenziali educative sono uno degli strumenti di tutela del ceto medio. Che ne sarà della fabbrica di credenziali? Ci saranno dei cambiamenti nella composizione studentesca?

Per poter rispondere è necessario parlare della fase precedente a questa che ha suscitato parecchio dibattito pubblico negli ultimi quattro o cinque anni. Noi veniamo da una fase neoliberale molto dura in merito agli Atenei, nei quali il Ministero ha continuato ad usare il bastone e la carota. Da un lato ha depotenziato in maniera grave gli Atenei del Sud e successivamente quelli meno concorrenziali e dall’altro ha dato molte risorse agli Atenei del Nord favorendo ulteriormente quelli più concorrenziali. Lo dico in quanto lavoro in uno degli atenei del Nord concorrenziali e in uno dei cinque dipartimenti di sociologia italiani che hanno vinto un progetto di €5.000.000 di sviluppo, come dipartimento di eccellenza (Gianfranco Viesti, un economista dell’Università di Bari che si è occupato di sviluppo, Mezzogiorno e Università, racconta da anni questo sacco del Sud fatto dagli Atenei del Nord). Troviamo da una parte logiche di eccellenza e produttivistiche che ci chiedono di far crescere il livello e la quantità delle pubblicazioni e contemporaneamente dall’altra la carota, che consiste, ogni tanto, in qualche posto di lavoro o risorse per fare ricerca. Questo meccanismo è in funzione da parecchio tempo, anche prima della riforma Gelmini, che l‘ha messo a sistema. Per quanto riguarda la fase attuale, vediamo come la fabbrica delle credenziali che era già in crisi, subisce un cambiamento nelle gerarchie. I miei colleghi che insegnano informatica lo dicono da un po' di tempo ma ora sempre di più. Il loro problema è che non riescono a traghettare alla Laurea Magistrale i loro studenti perché (come accadeva una volta per altre lauree) appena uno studente termina la triennale le aziende lo assumono perché c'è lavoro per quel tipo di competenza. In altri campi penso ai miei [scienze sociali, ndr] neanche la Magistrale conta perché non c'è mercato del lavoro. Così nel mondo degli informatici, degli statistici e di tutti quelli che possiedono una laurea che mette insieme competenze informatiche sull’elaborazione dei Big Data e sul lavoro di analisi, si vede emergere molta classe media non tradizionale. Se guardo al tipo di estrazione sociale dei miei studenti, che possono permettersi di studiare scienze sociali sapendo che non troveranno una collocazione lavorativa soddisfacente o comunque ricca, constato che molti di questi vengono da classi medie tradizionali o addirittura dalla borghesia e possono permettersi di studiare scienze sociali perché hanno le spalle coperte da altri meccanismi di riproduzione. La collocazione sociale degli iscritti ad informatica è diversa, in quanto vengono più dalle partite IVA e dalle nuove classi medie in ascesa, se non addirittura dalle classi popolari o da famiglie in cui non ci sono laureati. Per quando riguarda la composizione studentesca, in questo momento ci stiamo muovendo con le ipotesi – stime che nessuno ha capito come siano nate – che perderemo circa il 20% di iscritti quest’anno. È ragionevole pensare ad una contrazione dell’economia del 6%, forse del 10%, per cui le famiglie avranno molto meno reddito disponibile e non faranno iscrivere i figli. Secondo me, comunque, finché non sappiamo cosa succederà realmente alle iscrizioni non riusciamo a dirlo. Guardando al passato, alla crisi del 2008 c’era stato un anno di calo in corrispondenza dell’arrivo reale della crisi in Italia, nello stesso momento in cui si sono bloccati il settore dell’edilizia e il mercato immobiliare, lì ci fu una flessione, che però è durata un anno, dal successivo abbiamo continuato a crescere e la popolazione studentesca in Italia tuttora continua inesorabilmente a crescere. Non so se questa sia una lezione per quello che potrà accadere, ma penso che ci sarà una flessione a settembre. Mi sembra comunque che in Italia il sistema sia anche molto in grado di assorbire questo tipo di shock e che le famiglie tutto sommato si sentono ancora di investire i loro soldi nell'istruzione superiore (magari meno che altrove, ad esempio in altri paesi OCSE) ma comunque lo fanno, continuano a farlo. Peraltro le statistiche sul reddito di chi è laureato e di chi non è laureato, indipendentemente dal tipo di laurea, danno leggermente ragione alle famiglie che hanno iscritto i figli all'università, quindi in media un laureato guadagna di più rispetto ad un non laureato.

 

CMW: Sempre per rimanere in tema Università, quali sono i processi che stanno maggiormente accelerando a seguito di questa crisi? Penso soprattutto alla questione della didattica online che si configura, per gli insegnanti, come una forma di smartworking. Inoltre, come pensi che si riconfigurerà il rapporto tra Università e città?

Un tema caldo rispetto all'università, in queste ultime settimane, è quello della didattica online. Ci stiamo attrezzando a erogare forme di didattica online per tutto il prossimo anno e il discorso che viene fatto rispetto a questo passaggio è che da qui non si torna indietro. Non si capisce chi l'abbia deciso che da qui non si torna indietro e non si capisce nemmeno perché indietro fosse un problema. La retorica, però, è questa. Abbiamo visto che siamo riusciti a tenere botta durante la crisi da Covid-19 erogando praticamente il 95% della didattica online nel giro di una settimana. Abbiamo mantenuto la produttività identica, abbiamo erogato lo stesso servizio, è stato un test involontario e lo abbiamo superato. Così il ragionamento che molti colleghi dei piani superiori hanno fatto e stanno facendo è che possiamo partire all'assalto delle università telematiche e possiamo sottrargli studenti. Le Università di Bologna, di Torino, di Milano hanno comunque un profilo superiore rispetto a Unimarconi o a Unipegaso, quindi se riescono a erogare la stessa quantità di didattica online non c'è ragione per cui uno studente dovrebbe scegliere di prendere un titolo a Unipegaso quando può ottenerlo allo stesso modo all'Università di Milano, Trento, Padova o Pisa. Nell'Ateneo dove lavoro c'è un fronte completamente spaccato: c'è una parte del corpo docente che è accusata di essere conservatrice – se non addirittura reazionaria - che dice di tornare alle modalità precedenti perché c'è bisogno della relazione con lo studente, la pedagogia ha bisogno di esseri umani che si parlano e si riconoscono. Molti altri dicono che ormai è tutto su piattaforma, che possiamo erogare tutto quello che vogliamo in quella forma, possiamo aumentare il numero di studenti e ovviamente, con la stessa logica che usano le aziende, sostengono che possiamo cominciare anche a non usare le aule risparmiando sull'aria condizionata, sull'elettricità e su tutto l'outsourcing che abbiamo fatto sulle imprese di pulizia e sui servizi accessori, tutti appaltati a cooperative. Nel mio campus ad esempio, il personale di pulizie, di portineria e una parte dei servizi amministrativi era esternalizzato ad una ditta di Torino che si chiama Rear, di proprietà di un esponente del PD, ex presidente del Consiglio Regionale, attualmente senatore, che è molto influente in città e ha questa cooperativa con circa 20.000 soci e paga i lavoratori €4 l’ora. Beh! I lavoratori di questa cooperativa dal 3 marzo circa, sono stati tutti mandati a casa. Non c’è più stato bisogno di loro, prima sono stati messi in ferie forzate e poi in cassa integrazione. Noi usiamo in tutti i nostri spazi questa cooperativa e si capisce molto chiaramente il patto politico tra l’Ateneo e questa personalità. Per tornare sulla questione dello smartworking. I dipendenti dell'università, come quelli delle aziende, sono entrati in smartworking, ma gli strumenti ideologici di legittimazione di questo passaggio sono diversi da quelli delle aziende. Le aziende possono tenere i lavoratori in formato agile o casalingo ma poi devono muoversi in un’ecologia in cui devono negoziare con gli attori pubblici e con altri attori di mercato, quindi non possono decidere da sole, tant’è che Sala e molti altri sindaci hanno sbraitato contro lo smartworking. A Torino invece la sindaca ha detto che lo smartworking non è così male, ma bisogna tenere a mente le sue “origini” confindustriali in quanto il padre e il marito sono industriali, quindi sa di cosa sta parlando. Infine la questione dell’intreccio tra Università e spazio urbano toccherà principalmente l'economia urbana. Penso alle città universitarie – non solo Torino – Pisa, Bologna, Pavia, Padova, dove l’economia si era costituita attorno al fatto che gli studenti dovevano andare lì, dovevano mangiarsi la piadina, il kebab, dovevano fare le fotocopie lì attorno. Come risposta a noi dicono di dare i testi in formato digitale in modo che gli studenti non debbano comprare i libri. Sì, molto bello! A fronte di questo c'è però l'editoria a fianco che collassa e il sistema delle librerie che collassa. Si sta allargando il solco di una contraddizione enorme che è quella tra il digitale e il pre-digitale o il capitalismo produttivo precedente. Concludendo, le Università, che in Italia sono per la maggior parte pubbliche e dovrebbero avere altri obiettivi, stanno facendo esattamente lo stesso discorso che fanno le aziende, in forma più subdola. È questa la cosa più interessante e ambigua, perché quando uno ricorda che l’istituzione universitaria è un’istituzione pubblica, benché non sia scuola dell’obbligo, la risposta è che si sta operando in un’ottica totalmente di funzione pubblica. Da un lato ci sono le aziende che dicono di aver aumentato la produttività e quindi non si vede perché debbano ridurla e dall’altro l’Università dice di essere più inclusiva perché può raggiungere molta più popolazione studentesca, ma allo stesso tempo anche più green – è il classico meccanismo del greenwashing – perché eliminando i pendolari riesce a produrre un minore impatto ambientale.

 

CSC: Ritornando sul punto della città e delle accelerazioni degli spazi urbani. Partendo da una mappa di Milano, a cui era sovrapposta una mappa del contagio, osservavamo che l’area del centro storico era “Covid-Free” mentre le periferie si presentavano come le zone più colpite. La riflessione, seppur di carattere induttivo, era che se da un lato negli spazi urbani sono emersi regimi riproduttivi molto differenti, con tassi di contagio distribuiti su linee di razza, classe, genere e della marginalità, dall’altro si è verificata un’accelerazione relativa allo sviluppo della Città- Digitale. Ibm, Google, Cisco e altre grandi multinazionali del digitale riempiono le città di tecnologie «intelligenti», trasformandole in piattaforme per l’«Internet of Things» e promuovono un nuovo modello di città, la Smart City che offrirà, secondo l’ideologia ufficiale, un futuro sostenibile, prospero e inclusivo per i tutti suoi cittadini attraverso l'efficace integrazione dei sistemi fisici, digitali e umani. Allo stesso tempo molte sfere della riproduzione sociale vengono sempre più delegate ad una classe iper-sfruttata di addetti alle pulizie, alla ristorazione, baby-sitter, assistenti sanitari, formatori e del business della formazione etc. Chi può permetterselo, (e qui ci riferiamo anche al discorso sulla classe media seppur diversificata), si rivolge al mercato per acquistare il lavoro riproduttivo di cui ha bisogno e che lo Stato ha smesso di garantire, lavoro riproduttivo che utilizza una forza-lavoro sempre più precaria e differenziata per razza, genere, classe e che riceve salari da fame nonostante le responsabilità complesse di cura personale che gli vengono affidate. La domanda è: come mai questa situazione non crea punti di tensione e di rottura? È come se ci fosse una città doppia, da un lato la città del sottosuolo e dall’altra quella in cui c’è la formazione, l’Università, una classe media più o meno in difficoltà ma che comunque è in grado, tutto sommato, di garantirsi, comprandoli sul mercato, tutta una serie di servizi di riproduzione sociale.

Mi colpisce molto questa considerazione, perché la cosa che dite e che condivido completamente, era una riflessione che facevano vent'anni fa due sociologi, un americano e uno spagnolo, due importanti come John H. Mollenkopf e Manuel Castells quando hanno scritto un libro su New York che si intitolava Dual City: Restructuring of New York. I due autori descrivevano New York esattamente come tu hai descritto le città italiane in questo momento. Ricordo che il dibatto in Italia quando uscì il libro si concentrava sul punto che la situazione statunitense fosse in quel modo ma che la nostra fosse molto più complicata. Con buone probabilità gli Stati Uniti erano solo più avanti di noi di una generazione, noi, invece, siamo arrivati ad una Città Duale venti anni dopo. Una cosa che mi ha colpito enormemente della fase lockdown è che in poco tempo alcuni centri storici italiani hanno perso, nel giro di una decina di giorni, il 70/80% della popolazione, ed è una cosa che non sapevamo. Quello che noi sapevamo era che il 70% di quelli che abitavano fisicamente i centri storici non erano residenti, ma studenti o turisti e tutti quegli attori, appunto, duali, che stavano al servizio dei turisti ma non degli studenti. Quando collassa questo allora viene chiusa la città e scompaiono tutti, c’è chi fugge e chi non arriva proprio e il centro diventa uno spazio vuoto. Nelle prime settimane c'era questa doppia narrazione. La città che recupera sé stessa, che ritrova il centro, la bellezza del centro vuoto, il silenzio e così via e un'altra angosciata che pensa: «Qui non c'è più nessuno, se mi viene un infarto per la strada chi mi prende? Nessuno, perché non c'è più nessuno». Io che abito in centro a Torino questa cosa la vedevo chiaramente. Quando mi affacciavo nelle notti di marzo particolarmente angoscianti, guardavo le case attorno e non c'erano luci accese, né abitanti. Questa cosa è stata veramente molto violenta ma non penso che darà luogo a nessun ripensamento del modello di sviluppo perché per come sono fatti il capitalismo e le persone, sono tutti saliti su questo treno che va a velocità folle e l'unica cosa che vogliono è che il treno che si è fermato in stazione riparta, possibilmente più veloce di prima.

Perché questa dualizzazione non genera conflitto, rivolte, riforme, politica? Anche nella città duale di Mollenkopf e di Castells se ne parlava: com’è possibile avere queste città una sopra il suolo e l’altra sotto e che le due non si parlino? Una spiegazione banale è che la dipendenza da quelle poche prebende che la parte di sopra passa a quella di sotto tiene tutti per il collare, toglie l'ossigeno e non lascia molto spazio di azione e probabilmente gli interessi materiali di quelli “di sopra” sono ancora talmente forti che non consentono una rottura del fronte. I riders che sono stati una forza molto interessante anche in questi quattro mesi hanno provato a far notare il fatto che sono essenziali, ma sottopagati e che rischiano di morire senza nessuna tutela, quindi «come la vogliamo mettere?» Mi ricordo di alcuni amici che ad un certo punto avevano bisogno di mangiare cinese o la pizza e non è arrivato nulla, hanno pagato ma non è arrivato niente. La risposta del ristorante è stata che spesso i riders rubavano il cibo da consegnare, un po’ come protesta, un po’ per fame, ma i ristoratori mandavano comunque un altro rider per evitare di perdere i clienti. Però i miei amici dicevano: «Eh vabbè! Ci sta! In effetti vogliono mangiare». E la consapevolezza si fermava lì. Io ho l'impressione che la frontiera sia veramente molto forte e che in qualche misura la naturalità dello sfruttamento, la naturalità del servizio, la naturalità del consumo sono talmente entrate nella carne e nella mente delle persone che è molto difficile spaccare quel fronte. L'impressione è che le ideologie di supporto allo sfruttamento siano talmente granitiche e condivise che consentono qualsiasi copertura.

 

CSC: Ci chiedevamo se negli spazi urbani si possono innescare dei processi di de-mercificazione capaci di interrompere questa dialettica neoliberale/capitalistica tra l’estetizzazione degli spazi urbani e la loro mercificazione per la vendita sul mercato internazionale del turismo o degli investimenti.

Ho avuto molte discussioni sul tema dello spazio pubblico e adesso è uscito anche un testo frutto di molte discussioni e anche incazzature. Una delle cose che sono emerse e che mi ha dato più fastidio era la contrapposizione tra demercificazioni. C’è un fronte, diffuso a Torino, come ovunque, che è sempre “figlio” del greenwashing. Io non ho nulla contro le biciclette e penso sarebbe buono che tutti iniziassimo ad usarle in sostituzione delle macchine. Detto ciò, l’argomento forte dei movimenti ecologisti, pro-bike torinesi era quello di avere un sacco di dehors, di pedonalizzare il centro e di fare esondare i locali in tutti gli spazi, così da abbattere il traffico automobilistico e far “vincere” la bicicletta. Io ci ho litigato, perché non si rendono conto che questa è una privatizzazione dello spazio pubblico. Per quale ragione, per contrastare l’automobile, dovrei consentire che l’unica logica di utilizzo dello spazio pubblico sia consumare a tutti i costi aperitivi e cene? Il tutto inserito in un contesto in cui ci sarà una riduzione del reddito e poi voglio anche vedere quante di queste attività resistono. Questa è una classica contraddizione in cui un pezzo del capitale, non tutto, usa come testa di punta alcuni movimenti ecologisti, gli fa fare il lavoro sporco di spandere la melassa del green e nel frattempo si mangia la città e questo è esattamente quel tipo di contraddizione che argomentavate ed è uno dei problemi che abbiamo sempre, perché il greenwashing è difficilissimo da contrastare. Cosa faccio, mi metto io a fare gli interessi della Fiat, dei produttori di automobili dicendo che voglio le auto in strada per consentire ai residenti di parcheggiare? Io voglio la mobilità dolce, pubblica, voglio le biciclette però non voglio necessariamente che per arrivarci ci debbano essere i locali che si pigliano tutto il centro storico. Questa cosa mi sembra immonda. Che spazio lascia? A Torino (ma come in tutta Europa) ci fu una fase luddista interessante, sulla quale non so pronunciarmi, quando arrivarono le multinazionali cinesi del bike-sharing: le biciclette furono buttate nel Po e nella Dora e furono vandalizzate. Ci fu un grande scandalo in città. Quella cosa lì, che ripeto non so giudicare, aveva quantomeno consentito l'elaborazione di un discorso sul come fosse possibile che qualcuno possa essere contrario al bike-sharing.

 

CSC: In definitiva, attorno a queste contraddizioni e tensioni che si creano possiamo dire che l'ecologia è la nuova morale del capitale. Però il punto è un altro: la distruzione di legami di quartiere, di reti di relazioni etc. non ha creato neanche il bisogno di costruire reti comunitarie diverse. Questo significa ribadire che la precarietà è una cosa che si gestisce individualmente. Arrangiatevi tanto è e sarà così per sempre…

Ci sono state in tutte le città tantissime reti dal basso, mutualiste, che si sono attivate anche attraverso mezzi digitali che hanno messo delle pezze colossali all'incapacità dei servizi sociali di far arrivare pacchi alimentari in tempo rapido e là dove dovevano arrivare. Dalle cassette sospese a tutte le reti civiche questa cosa c'è stata ed è una cosa che va salvaguardata. Una cosa che mi ha colpito molto di quella fase, una fase molto generosa che è stata sempre interpretata come una fase emergenziale per salvare dei poveri è stata il ricorso al concetto di povertà, che secondo me pone sempre tutto in una prospettiva molto particolare, ossia l’idea che questi poveri ad un certo punto finiranno, torneranno ad essere consumatori normali e non ci sarà più bisogno del mutualismo. Secondo me questo modo di ragionare in termini eccezionali è tipico di molto associazionismo cattolico, molto diffuso in Italia e che è stato dietro a questa rinascita di pratiche mutualiste. A me pare si dica: «Ok, nella fase emergenziale, quando la gente non riceveva i 600 euro abbiamo messo la pezza, ora lo Stato è riuscito ad erogare i 600 euro e l’emergenza è finita e il problema del cibo è scomparso». Bisognerebbe invece guardarsi allo specchio e dire: «Scusate ma qui è bastato un mese di perdita di reddito e una fascia importante della popolazione non aveva di che mangiare?» È una cosa enorme, dovrebbe scatenare una riflessione pubblica gigantesca: per un mese crolla il reddito e la gente non ha da mangiare. Ma come regge questa cosa con il dibattito sulla società del benessere del consumismo? Secondo me anche quelle energie molto positive che si sono scatenate in questi tre mesi se rimangono confinate nel dibattito sui poveri, sul sostegno ai poveri, si arrestano lì, non generano niente di nuovo. Una cosa che aggiungo che mi ha colpito è che a Torino in un quartiere come Barriera di Milano, un quartiere oggettivamente povero, uno dei più poveri della città “La Casa del Quartiere” e i “Bagni Pubblici” di via Agliè nel giro di una settimana erano riusciti a mettere le famiglie benestanti del quartiere attorno a un tavolo e a dirgli: «Signori c'è bisogno che tiriate fuori i soldi perché qua c'è gente che non riesce a mangiare!» E l'hanno fatto. Mentre il Comune di Torino, invece, non aveva nemmeno la lista delle famiglie che avevano bisogno e non riusciva, dopo due settimane, a fare niente. Aveva saputo dai servizi sociali che i Bagni Pubblici stavano distribuendo derrate alimentari e allora il Comune ha esternalizzato al privato sociale questa cosa. I “Bagni Pubblici” sono pagati per metà dalle fondazioni bancarie attraverso meccanismi di welfare. Nella fase calda di questa emergenza non posso che in qualche maniera stare a fianco di “Bagni Pubblici” perché hanno fatto un lavoro sacrosanto. C'è gente che ha mangiato e altrimenti non lo avrebbe fatto e quindi sono furente con il Comune di Torino che avrebbe fatto morire di fame delle persone. Dopodiché, la contraddizione è gigantesca e non si scappa. Che ci siano dei benefattori locali va benissimo, ma il benefattore è sempre espressione della fase di emergenza, è una roba dell’Ottocento. Qua noi vogliamo che la gente paghi il 70% di tasse e che i patrimoni vengano portati via.

 

CW: Mi veniva in mente mentre parlavi di povertà e impoverimento, per ritornare all’oggetto privilegiato di questa discussione, un discorso che facevi sui proprietari di casa e sul loro uso delle piattaforme di locazione. Ci dicevi che l’uso di Airbnb per esempio era una strategia di sopravvivenza soprattutto per i figli precari delle famiglie proprietarie. Un modo per mantenere un certo reddito o per compensare i redditi da lavoro sempre più esigui. È cambiato qualcosa o cambierà qualcosa rispetto a queste strategie di sopravvivenza? Per restare in tema, quali sono i sentimenti politici che si muovono tra i piccoli e medi proprietari immobiliari che segui nei gruppi di discussione Facebook?

Secondo me, il punto di partenza e anche purtroppo il punto di arrivo rimane l'ideologia proprietaria. Da noi, è da troppe generazioni che si dà per scontato che il modo giusto per formare una famiglia e per vivere in maniera legittima, sia attraverso l'acquisizione di proprietà, soprattutto immobiliari. Non tutti, ma la grande maggioranza di italiani ce l'ha fatta. Questa idea, per la quale solo attraverso la proprietà della casa posso diventare “adulto” e fare le mie cose è stato inizialmente un colossale motore di speculazione immobiliare, di crescita dell’edilizia e di patti conservatori tra politici e cittadini. Successivamente, in epoca recessiva, dalla metà degli anni Novanta in poi, è diventato un appiglio a cui si sono attaccate le frange più deboli della popolazione proprietaria, perché anche se l’80% degli italiani vive in una casa che possiede non vuol dire che questo 80% sia equamente ricco. C’è un 5/10% ricco, un altro 30% benestante e il resto si sfrangia. Un conto è, poi, un’analisi strutturale in cui ci sono queste quote di ricchi e poveri, un altro è quando li spalmi sulle città che hanno dei margini di estrazione di rendita diversi. Un piccolo proprietario con la casa a Milano, in una zona non troppo periferica, dove magari c’è un ospedale, lo stadio, la fiera o altri servizi avrà una certa rendita. In quel tipo di economia terziaria milanese che si basa molto su sanità privata, turismo sanitario, eventi e fieristica, avere quella casa permette di affittarla per metà dell’anno senza rischiare di darla ad un coinquilino moroso - il grande spauracchio dei proprietari di casa - e quindi estrarne una quota di reddito che può sostituire completamente un reddito normale o in altri casi integrare dei redditi altalenanti. Questa è una cosa che abbiamo visto in tutta Italia: un conto è se sei a Milano, Venezia, Firenze, Roma, mentre un altro è se tu ti trovi in tutte le altre città che non ho nominato. Non è dato sapere quando si rimetterà in moto il turismo internazionale, con che velocità e con che diffusione. Gli americani, che sono un mercato enorme per l’Italia, stanno vedendo negli USA un’ondata di Covid violentissima e verosimilmente saranno bloccati per altri sei o otto mesi. Chi si recherà nelle mete turistiche? Gli Italiani? Sì, ma non sono loro il mercato. E come gli americani sono finiti per un po’ di tempo anche inglesi, cinesi e giapponesi. In alcune città quindi quel tipo di economie si bloccheranno e quindi anche le frange di piccolo ceto medio proprietario che trattavano sull’estrazione di rendita di quelle case, se tutto va bene, non avranno quel mercato per un paio d’anni, se va male anche per quattro o cinque. Cosa faranno? In molte città hanno già cominciato a rimettere le case sul mercato della locazione normale e quindi una cosa che si sta discutendo a livello nazionale e in tanti sostengono è: «Dobbiamo incrementare gli investimenti pubblici nel sostegno all’affitto sociale, alle agenzie per la casa e altri strumenti». Si devono quindi creare dei fondi che passano per il pubblico e vanno a tutelare il privato perché l’inquilino moroso comparirà.

La questione dell’inquilino moroso comparirà e si aggraverà sicuramente da settembre. Una parte di questi proprietari dovrà, in qualche maniera, accettare che quella fonte di reddito è finita e secondo me in molte città è veramente finita per un po' di anni. O lo Stato fa quello che molti stanno chiedendo e cioè sostenere pesantemente il settore attraverso il debito, iniettando soldi nelle casse pubbliche che poi vengono girati agli attori privati o non vedo come questi possano sopravvivere. Ci troveremmo quindi di fronte ad uno scenario interessante e apocalittico: quello in cui lo Stato non lo fa perché non ha soldi per farlo e i proprietari non trovano più affittuari e le case rimangono vuote. Che succede con il pagamento dell'Imu, con le tasse? È uno scenario possibile, di rapido degrado anche fisico delle città in cui ci sono tante proprietà vuote che non trovano affittuari perché non conviene affittarle in quanto verrebbero prese sicuramente da persone che poi non pagano il canone e gli immobili deperiranno. Tanto è vero che c'è già un dibattito tra molti giuristi italiani che stavo leggendo in questi giorni sulla possibilità di liberarsi delle proprietà. In Italia in questo momento è illegale liberarsi di una proprietà, cioè tu proprietario non puoi regalare un immobile allo Stato. È talmente forte la proprietà come diritto che non è possibile alienarsela e infatti molti giuristi in questo momento stanno dicendo che dobbiamo ripensare questa cosa. Le città turistiche ripartiranno più veloci di prima, ci sarà qualche “morto” tra quelli che nei sei mesi non riescono a reggere l'urto, che quindi venderanno le case o le affideranno a qualcuno a qualsiasi condizione. Ma al di là delle città turistiche -che ripartiranno - per le altre la crisi sarà molto seria. Altro esempio: buona parte di questi affitti era legata, l'ho detto per Milano ma vale per tutte le città europee, ad un’economia degli eventi ¬ pensate all'indotto immobiliare delle fittanze sugli eventi sportivi. Finché si continuano a fare gli incontri a stadi chiusi non si sposta nessuno. Quando la Juventus è in Champions tutte le case su Airbnb raddoppiano gli affitti e si riempiono. Se scompaiono queste cose, quelle famiglie non hanno un mercato secondario dove affittare i loro immobili, non c’è proprio nessun mercato e qui secondo me c’è un rischio molto grave. La piattaforma è cinica ed ha costi bassissimi di gestione. Airbnb ha già eliminato tutti i costi che aveva, principalmente costi di marketing. Airbnb è un software, non ha locazioni da pagare, le sedi di cui è proprietaria le tiene come capitale investito perché le ha in posti di pregio. I suoi costi reali sono i lavoratori nel marketing e nella gestione desk del software e possono essere licenziati da un momento all'altro, cosa che Airbnb ha fatto, licenziando più di un terzo dei dipendenti già ad aprile e poi li riassumerà. Quindi la piattaforma in quanto tale è molto flessibile, ha dei costi molto bassi a differenza delle imprese precedenti che non potevano lasciare il macchinario semplicemente spento. Non puoi spegnere un altoforno perché poi ci vogliono settimane per riportarlo a temperatura e ci sono dei costi enormi di gestione. Imprese come Airbnb fanno on/off da un giorno all’altro, mettono in mobilità i lavoratori e poi riescono a ripartire. Airbnb ha già ritrovato due finanziamenti sul mercato internazionale colossali ad aprile; si è assicurata la liquidità e in questo momento sta aspettando. Le piattaforme non subiscono nessuno stop dal lockdown e dai suoi effetti. Il paradosso ancora una volta sono le piccole piattaforme mutualistiche o con finalità sociali, quelle che comportano un reinvestimento sociale degli utili. Chiaramente non è il mezzo piattaforma il problema, il problema è come viene utilizzata la rendita di quella piattaforma. Comunque sono proprio le piattaforme piccole che collassano e di nuovo, darwinianamente, Airbnb trionfa, Amazon trionfa, tutta la piattaforma innovativa e più «sociale» non ce la fa. In una ricerca di dottorato che ho seguito era molto bella la differenza tra proprietari milanesi e proprietari napoletani. Due mondi diversi, due forme di ceto medio proprietario. A Milano il settore è molto più industrializzato, molti proprietari danno ad agenzie la gestione di tutto lo stock degli appartamenti, anche quando ne hanno uno solo, perché le economie sono molto più differenziate e potenti. A Napoli i rentiersono tutti figli del ceto medio napoletano declassato, della borghesia intellettuale, della borghesia di intermediari culturali, figli con titolo di studio Dams, Lettere, Scienze della comunicazione e tutte le cose che insegno anche io e che non trovano un cavolo di posto di lavoro. Fanno i rentier con l’appartamento della nonna, della zia Carla. Tutti tra l'altro politicamente orientati a sinistra e quindi con dei grandi sensi di colpa. Nelle interviste si mettevano a piangere oppure si mettevano a dire che l’avrebbero fatto per poco tempo oppure insistevano sull’esperienza e sul conoscere persone nuove. A Milano gli intervistati questa roba non la dicevano assolutamente, avevano un atteggiamento completamente industriale su questa cosa: «È la mia proprietà, sono i miei soldi e li faccio fruttare». Due mondi, che è veramente impressionante quanto siano differenti eppure facevano la stessa cosa. Le discussioni online, che io continuo perversamente a seguire, sono il frutto di questa cosa. Ci sono degli attori aziendali che stanno dando consigli su come riconvertire in affittanze residenziali a lungo termine oppure su come coprire alcuni settori di mercato: il personale sanitario per esempio o tutti quelli che hanno ancora bisogno di muoversi per lavoro. Il resto dei piccoli proprietari sono tutti obnubilati dall'ideologia proprietaria e dicono che è una vergogna e che lo Stato dovrebbe proteggerli e tutelarli. Sono, appunto come al solito neoliberali all'amatriciana: lo Stato li dovrebbe proteggere ma non si capisce perché e per quale ragione. Il dibattito ormai è questo: «Dateci i soldi, dateci protezione!» Quelle volte che abbiamo provato a discutere con loro su tassazioni progressive, sulla distribuzione delle loro rendite era un muro di gomma: «No, la casa è mia, i soldi sono miei». E noi a spiegargli che i soldi non erano loro, neanche la casa era loro, peraltro, e che dovevano distribuire. Questa cosa in Italia è impossibile anche solo da dire. Non c'è verso. Quindi questi gruppi sono interessanti, ma alla fine le cose che dicono sono proprio queste, anche banali: chiedono protezione pubblica adesso in tempo di crisi. Un classico, come dire un ceto proprietario parassitario. Non erano disposti a fare nulla per la collettività quando stavano bene perché erano soldi loro e adesso vogliono i soldi della collettività, tutto questo è veramente banale.

 

CSC: Noi adesso partendo dalla nostra piccola esperienza in una città medio-piccola di 150.000 abitanti negli ultimi 6 /7 anni, abbiamo notato una cosa. Le amministrazioni, in particolare una di centro sinistra, hanno cominciato ad adottare modalità di gestione della città di tipo imprenditoriale. Si sono dotati di un assessore al marketing urbano e hanno fatto vari tentativi per “vendere” il territorio sul mercato internazionale, tramite la fabbrica degli eventi, da Umbria Jazz al Festival del Giornalismo passando per il turismo “mistico” sulle orme di San Francesco di Assisi. Questa strategia sembra non aver non funzionato molto perché ci sono i soliti problemi di inefficienza dell'amministrazione pubblica. Ad esempio, il centro storico viene museificato nel tentativo di venderlo a city user più o meno ricchi mentre alcuni quartieri più periferici continuano a tenersi dentro una serie di contraddizioni sociali che riguardano l’immigrazione, la precarietà del lavoro, l’aumento della povertà urbana. Tutto ciò avviene anche per andare incontro ad una volontà politica europea che ha deciso che bisogna dare vita ad un’Europa delle città, riorganizzando i territori i cui nodi diventano i centri urbani appunto, o delle loro aggregazioni funzionali. Parlano di un’ossatura del territorio europeo fatto di città di medie-piccole dimensioni, intorno ai 150.000 abitanti. La Commissione Europea ha adottato una politica che viene definita “delle eccellenze”, ovvero non si sostiene più lo sviluppo delle aree arretrate ma al contrario, si sostengono tutte quelle aree, porzioni di territori o di aggregazioni territoriali che rendono ormai inattuale il concetto tradizionale di città e sono capaci di competere sul mercato mondiale. Si lascia indietro chi è già indietro e si finanzia solo chi ha le “qualità” per vendersi o per stare sul mercato internazionale degli investimenti, del turismo etc. In piccolo sembra che questo accada anche a Perugia con l’ideologia della Smart City che con il mantra di una città intelligente, sostenibile, inclusiva e verde si sottrae a priori a qualsiasi tipo di obiezioni, pure quando legittima politiche di carattere predatorio e speculativo. Sembra che una posizione critica riguardo a queste politiche urbane, sia dettata solo da pregiudizi ideologici, in linea di principio negativi nei confronti delle nuove tecnologie. Ad esempio quando si parla di questione abitativa, con l’adozione di una sorta di neolingua, non si costruiscono più case popolari ma Social Housing. Poi magari intorno a queste parole ci sono alloggi vuoti, famiglie sfrattate o che fanno fatica a pagare gli affitti. Che ne pensi di una situazione di questo tipo, di questa sorta di impresizzazione dello spazio urbano?

Non ho molto da aggiungere, sono d’accordo. È una tendenza che va avanti almeno dagli anni Novanta in maniera più che dichiarata da tutti gli attori e non se ne vede minimamente l'uscita con qualcosa di nuovo. Qualche piccolo paradosso geopolitico c'è. È vero che non se ne vede l'uscita, dopodiché la Brexit in questo momento l'abbiamo congelata perché c'è stata una cosa più grossa che l’ha messa tra parentesi. Quale sarà l’effetto-catena di questa cosa non è chiaro. Fino a pochi mesi fa comunque uno dei possibili scenari era anche quello di due Europe, addirittura con chi ipotizzava due possibili valute. Quindi lo scenario che hai descritto temo che sia quello in cui siamo immersi, sono d'accordo sulla ricostruzione. L'unica cosa che mi rimane come possibile dubbio è il fatto che, se dieci anni fa mi avessero detto che avremmo avuto Trump, Boris Johnson, la Brexit, il Covid io non ci avrei creduto e come me buona parte dei miei amici e colleghi, quelli più bravi di me mi avrebbero detto che ero scemo. Ho l'impressione che si stia muovendo qualcosa comunque di molto grosso a livello planetario che è in parte ambientale, in parte ecologico, in parte legato al sistema economico ed è in parte legato anche alla trasformazione degli Stati e questa cosa non necessariamente riporterà in auge le città. La fase di rinascita delle città, dell’urbano è una cosa che va avanti dagli anni Ottanta e sono passati trent’anni. Una nuova fase nazionale, nazionalista o di nazionalizzazioni non penso sia completamente fuori dallo scenario e il presupposto che tu dicevi è quello che insegno ai miei studenti a lezione: l’Europa delle città, questa ossatura che va avanti da almeno dieci secoli in maniera veramente incredibile, può anche essere interrotta. Non sono convinto che sia una necessità storica e sono anche timoroso del fatto che ci siano delle scosse telluriche molto forti in questi anni e che stanno anche aumentando di intensità e di frequenza. Questo lascia spazio a delle aperture, lascia spazio anche a grandissimi esplosioni di violenza, in particolare da parte degli Stati, non dei cittadini. Quindi mi lascio aperto questo spiraglio, anche perché questa economia degli eventi e del marketing urbano legato alla vendita dei territori era perfetta in un’epoca pre-Covid, ma ora se c'è una cosa che il Covid ha veramente interrotto è proprio questo nesso tra agglomerazione e sviluppo. Faccio una parentesi: io dal punto di vista storico credo nella lunga durata, non credo negli eventi ma al momento voglio pensare che questo sia un evento che verrà assorbito sotto la crosta della lunga durata. Se però questo non fosse un evento ma fosse una scossa tellurica che cambia l'ordine della lunga durata probabilmente molti di quegli argomenti che stavano dietro il modello di sviluppo valido fino a quattro mesi fa non stanno più in piedi. Da cosa verranno sostituiti, non lo so. Comunque, attenzione, secondo me, qualcosa di nuovo è alle porte. Io questa possibilità me la lascio aperta. Le piattaforme sono pronte per ricostruire quell'infrastruttura che tutto sommato può fare anche a meno delle città o comunque può mettere fuori scala le città. Io un centro di distribuzione di merci lo metto a Piacenza che rientra in quel modello lì di città che non è Milano, non è Bologna, non è Torino. A partire da una provincia italiana, muovo merci con i padroncini anche se tra dieci anni saremo pronti ad avere una mobilità automatizzata con macchine e camion a guida autonoma. Che effetto avrà questo sulla forma urbana? Potenzialmente dirompente.

 

CSC: Tutta la nostra riflessione ruotava attorno a questa trasformazione della città legata ad un’era che un progetto della Commissione Europea ha definito di “europeizzazione soft”, che passava attraverso le città incidendo sulla destinazione di una quota crescente di fondi europei direttamente ad aggregazioni territoriali rispetto alle quali l’Italia è indietro e che sta distruggendo anche l'idea tradizionale di città…

È che questo gioco di scale tra il metropolitano e le scale superiori storicamente è sempre andato alterandosi. Noi sicuramente abbiamo avuto un ritorno: abbiamo avuto una scala urbana nel periodo degli anni Novanta; in Italia ma non solo, in maniera quasi sincronica per buona parte delle città europee, gli Stati hanno adottato riforme legislative introducendo ad esempio l'elezione diretta del sindaco, che consentiva più autodeterminazione, più responsabilità e più autonomia. Ma adesso per esempio, pensate al MES e a tutti i meccanismi di finanziamento, di finanza pubblica che arrivano dall'Europa o dalla Banca Centrale, la centralità passa per gli Stati, non passa per le città. Gli Stati faranno gocciolare risorse attraverso le città oppure rinazionalizzeranno? E chiaramente il dibattito è apertissimo, infatti i sindaci su questo sono molto spaventati. Secondo me la questione si pone. Cioè lo scenario è talmente mobile che in questo momento prefigurare come gli Stati si comporteranno, visto che hanno comunque loro il cordone della borsa, nei confronti delle scale inferiori è tutto da vedere. Oppure le regioni: non mi sembra che abbiamo fatto una bella figura in questi quattro mesi come scala e quindi uno Stato nazionale, nazionalista, forte, alla francese potrebbe dire che la riforma del titolo quinto è stata oggettivamente un fallimento. In una fase di grave crisi le regioni sono andate in ordine sparso e hanno fatto dei disastri. Non dico che aboliranno le regioni perché c'è talmente tanto potere attorno ad esse che è difficile trovare delle coalizioni che le abbattano ma lo scenario mi sembra più mobile adesso di quanto non lo fosse oggettivamente quattro mesi fa.

Add comment

Submit