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Appunti storico-psicologici per una “nuova” genealogia delle odierne schiavitù

di Andrea Muni

EgV3AKmXYAAJacuNella cultura occidentale lo schiavo è qualcosa come un rimosso. Il riemergere della figura dello schiavo nel lavoratore moderno si presenta quindi, secondo lo schema freudiano, come un ritorno del rimosso. 
G. Agamben, L’uso dei corpi

Una pratica millenaria, un istituto giuridico, una tecnica seduttiva. Le molte facce della schiavitù non cessano di affascinarci, indignarci, intrigarci. Forse perché “schiavitù” è una parola che si trova all’incrocio, all’articolazione di tutta una serie di questioni estremamente attuali e, troppo spesso, rimosse. Una nozione-ragno, un concetto viscoso – vertiginosamente oscillante tra il giuridico/politico e l’erotico/psicologico –, che rifiuta definizioni di sorvolo e racchiude in sé un prezioso segreto “strategico” (individuale e politico).

Questo pretestuoso tentativo di nobilitare moralmente lo schiavo è quanto di più fuorviante possiamo incontrare nelle nostre ricerche sulla schiavitù

 

1) Il primo problema metodologico di una “nuova” genealogia delle odierne schiavitù consiste nell’aggirare la pesantissima deformazione storica prodotta dall’autocommiserante immagine cristiana del fedele come servo/schiavo (di dio e del suo Prossimo). Questa auto-rappresentazione, e questo pretestuoso tentativo di nobilitare moralmente lo schiavo – peraltro magistralmente smascherato dal Nietzsche della Genealogiaè quanto di più fuorviante possiamo incontrare nelle nostre ricerche sulla schiavitù. È infatti una via che conduce alla radice storico-ideologica di quello che oggi viene denunciato come “buonismo”: una narrazione tanto potente quanto irrealistica, un boomerang ideologico a tutto vantaggio di chi gli schiavi li sfrutta.

Per farsi un’idea più vicina al reale del servo e dello schiavo nella storia della nostra Cultura è molto meglio rivolgersi alla Commedia dell’Arte – con i suoi Zanni e il suo Arlecchino, idiot savant dell’arte di arrangiarsi che flirta col genio della furbizia per eccesso di stupidità. Oppure, risalendo più indietro, possiamo rivolgerci al mondo greco-romano: dove i padroni diffidavano profondamente dei propri schiavi, pur considerandoli spesso come membri della famiglia, allo stesso modo in cui (pur volendogli molto bene) ci penseresti due volte prima di mettere la testa nelle fauci del tuo Rotweiler se non mangia da due settimane. Fino all’avvento degli Stati del Seicento, e fin dall’antichità, i padroni avevano un vero e proprio terrore dei loro servi: li temevano, a differenza di oggi. Basti pensare alla briga che si prende un Aristotele nel Primo Libro della Politica per giustificare “filosoficamente” la schiavitù: esistono naturalmente uomini nati per servire e altri naturalmente nati per comandare – dice. Facile e spontaneo, quasi “naturale”, fare una simile distinzione se sei un Padrone come lo era Aristotele. Quello che manca alla nostra Cultura è una storia interessata (in prima persona) di quello che gli schiavi, le donne e persino i bambini hanno detto e pensato di sé e del mondo negli ultimi due-tremila anni. Perché noi non lo sappiamo, e il fatto che – almeno per le donne e per i servi – da un paio di secoli questo silenzio “storico” si sia finalmente incrinato, non toglie il fatto che per la maggior parte dei tipi umani che hanno calcato la terra fino a oggi – letteralmente – non ci sia Storia. Lo schiavo, la donna e il bambino per millenni non hanno avuto storia se non quella cucita sui loro corpi da un Discorso che non era e non ha mai potuto essere il loro: quello del Padrone, Maschio, Adulto, Bianco.

Lo schiavo, la donna e il bambino per millenni non hanno avuto storia se non quella cucita sui loro corpi da un Discorso che non era e non ha mai potuto essere il loro: quello del Padrone, Maschio, Adulto, Bianco

 

2) La storia “vincente” della nostra cultura a partire dall’affermarsi del cristianesimo non ha mai smesso di dipingere il servo – come la donna e il bambino – a immagine di come dovrebbero essere per andare perfettamente a genio ai padroni: docili, fragili, buoni, onesti, capaci di tollerare stoicamente la propria miserabile condizione di sottomissione e disciplinamento senza ribellarsi mentre magari, addirittura, amano il prossimo loro come sé stessi e rendono a Cesare quel che è di Cesare (ipse dixit). Insomma, il tipico buon servo medievale scarpe grosse e cervello fino a quello che ci viene raccontato (tra l’altro in buona fede) dal Romanticismo più aristocratico e conservatore, proprio mentre parallelamente il romanzo borghese raddoppia la definitiva uscita di scena politica della antica nobiltà feudale celebrando l’inurbazione e il presunto incivilimento dei contadini e dei provinciali più poveri; di tutti quei “servi” che tra il XVII e il XIX vanno trasformandosi, ancora a propria insaputa, in “proletari”. Una delle poche eccezioni a questo schema è Sacher-Masoch, i cui romanzi celebrano spesso il ritiro e l’“l’isolamento” delle comunità agrarie dagli sviluppi e dalle leggi della civiltà borghese.

Lo schiavo la donna e il bambino sono stati da sempre oggetto di questa melassa ideologica di cui il cristianesimo ha saputo fare letteralmente un’arte “pastorale”. La pedagogizzazione della donna, del servo e del bambino infatti, almeno fino all’Ellenismo, era nel mondo greco-romano un discorso tecnico ed esplicito di padroni e per padroni. Per il padrone antico lo schiavo, la donna e il bambino sono cose che si governano, perché se ne riconosce indirettamente la forza, la malvagità, la furbizia, la follia. È compito politico del padrone maschio, del Cittadino, quello di “gestirli” – con l’amore o con la forza. Ma il cristianesimo rovescia la questione, attribuendo tutte le più eccelse qualità morali a queste tre figure profondamente temute dall’antichità. Nel mondo greco-romana gli schiavi erano per il novanta per cento nemici sconfitti da far fruttare il meglio possibile: un vero e proprio bottino di guerra. La letteratura antica avvicina spesso la figura dello schiavo a quella del furbo, del malvagio, del bruto, del nemico interno – persino quando, come spesso capitava ai tempi dei greci, gli schiavi erano di etnia e religione identica a quella dei loro padroni. L’antichità greco-romana lascia infatti in dote al cristianesimo un doppio volto della donna e dello schiavo, di cui le commedie plautine e il loro celebre servus callidus sono solo l’esempio più celebre: il volto buono, pedagogico del servo e della donna fedeli al padrone, e quello “malvagio” – che ce li addita come dei nemici interni, dei pervertiti sempre pronti a non far andare le cose secondo il naturale ordine previsto dal maschio padrone. Un dualismo che il cristianesimo riplasmerà strategicamente in maniera del tutto peculiare, esaltando la parte “buona” del servo e della donna come paradigma della cristianità, e respingendo invece la parte “cattiva” (ossia quella disfunzionale al padrone – che ovviamente nel frattempo non ha smesso di essere tale solo perché diventato cristiano) nell’area semantica del “peccato” e del “diavolo”.

 

3) Il cristianesimo introduce anche un’altra novità assoluta nella storia dei sistemi di pensiero (o dell’ideologia, come ormai pare faccia brutto chiamarla). Una novità che ancora oggi non cessa di produrre i suoi effetti. Preparato dalle filosofie ellenistiche e in particolare da cinismo e stoicismo (cioè da filosofie che profumano di Oriente e non a caso fioriscono a partire dalla fine politica delle poleis e della loro democrazia”), l’avvento del cristianesimo come religione e ideologia politica “schiava” introduce l’idea totalmente inedita, scandalosa per gli antichi, di una redenzione “morale” dalla schiavitù. I cristiani introducono l’idea vertiginosa (di matrice giudaica) che la schiavitù e il suo riscatto siano metafore spirituali. Si tratta di un’idea scandalosa, perché il riscatto dalla schiavitù nel mondo antico aveva un valore e un significato prettamente giuridico-economico (a Roma si chiamava manumissione), e aveva la sola funzione legale di rendere lo schiavo un uomo libero o semi-libero (liberto). I cristiani per così dire idealizzano questo processo economico-pratico di “redenzione” dalla schiavitù. Negano che la vera redenzione dalla schiavitù – che spesso consisteva in una vera e propria transazione economica attraverso cui lo schiavo ricomprava sé stesso – sia in terra. Alzano la posta: trasformano la redenzione dalla sofferenza e dal “peccato” (dalla “schiavitù”) in un fenomeno morale, religioso, ultraterreno. Troviamo qui, molto prima di quando Weber le individua magistralmente nel suo L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, le condizioni di possibilità storiche della iper-moralizzazione religioso-economica dell’impresa capitalista tipica delle spiritualità riformate, le quali non a caso propugnavano un ritorno ai più antichi valori e sentimenti del primo cristianesimo.

 

4) La redenzione del cristiano, il concetto stesso di redenzione (legato com’è a un’onta o a una colpa originaria) assomiglia moltissimo – anzi, diciamola tutta, è identico – al concetto di “riscatto” dalla propria condizione dello schiavo antico; di quello schiavo antico che originariamente i primi cristiani erano per la maggior parte. L’unica differenza, macroscopica e decisiva, sta nel fatto che il riscatto cessa di essere una questione economico-pratica, cessa di rappresentare l’accesso immediato a una nuova vita “in terra”, dotandosi piuttosto di un inedito manto “morale”. Questo ci mostrano le origini “schiave” del cristianesimo e il molto più tardo intrecciarsi del cristianesimo con la cultura borghese. Un episodio di “storia della schiavitù” la cui evoluzione si snoda, attraverso i meandri della storia, fino al nostro presente offrendoci una possibile spiegazione storico-psicologica della dilagante iper-valutazione dell’affermazione social-lavorativa che oggi permea la nostra società. Un’iper-moralizzazione del riscatto sociale il cui sintomo più evidente è la pulsione generalizzata all’auto-imprenditorialità, divenuta nell’ultimo mezzo secolo sempre più un fenomeno “spirituale”, un’infezione psichica, al punto tale da essere annoverata (già agli inizi del Duemila) dalle istituzioni europee tra gli obiettivi formativi “chiave” dei sistemi d’istruzione pubblica dell’UE.

Uomini e donne abituati da sempre a essere spremuti come limoni, a cui spesso viene più facile identificarsi con i proprio padroni prima che con i propri compagni

 

5) L’evaporazione di dio ha lasciato come residuo nella spiritualità dell’uomo neoliberale, il primo uomo a essere nato pienamente ateo, questa sorta di imprinting morale. Un’idea spirituale e religiosa di riscatto e di redenzione che cova sotto le ceneri della competizione, dell’arrivismo e del materialismo più esibiti. Nella spiritualità autoimprenditoriale ribolle questa pulsione antica, super-egoica, tipicamente religiosa: una pulsione che va ben al di là di quello che essa stessa vorrebbe credere e raccontare di sé. Una pulsione in cui, carsicamente, sopravvivono l’antico quid pro quo e il seducente sofisma cristiani del riscatto sociale come redenzione morale (e viceversa).

 

6) “Schiavitù” è una parola che non si lascia abbordare in maniera museale: è un marchio, è qualcosa che si vive, che si patisce, oggi, nella carne e nella vita. Non c’è bisogno di andare nel Terzo Mondo o nel Sud Italia del più brutale caporalato. La schiavitù è dietro l’angolo, dovremmo abituarci a vederla più spesso, e non solo quando è “strillata” dai titoli dei giornali di area.

La schiavitù spesso la vive il vicino di casa, il cognato, l’amico. Anche nel moderno e civile Nord Italia sono innumerevoli i lavori che non superano di molto i 6 euro l’ora “reali”. Lo stipendio medio di uno stagionale – per non scomodare sempre solo i poveri compagni riders, persino in una regione “ricca” come il Friuli Venezia Giulia o il Veneto, basta a malapena a far sopravvivere lei/lui e la sua famiglia. Non solo schiavizzati, ma entusiasti di esserlo: questo è l’identikit psico-sociale di molti uomini e donne “servi” che sono contenti (e grati!) di poter lavorare come buoi aggiogati; uomini e donne abituati da sempre a essere spremuti come limoni, a cui spesso viene più facile identificarsi con i proprio padroni prima che con i propri compagni. Uomini e donne che non sospettano nemmeno esistano i più elementari diritti dei lavoratori. Sono molte le schiavitù non à la page che si possono incontrare a ogni angolo della strada semplicemente trascorrendo una piacevole giornata al mare o in montagna. Se non è così sorprendente che chi non è mai stato “servo” non se ne accorga neppure, la cosa davvero stupefacente sta nel fatto che spesso sono i “servi” stessi – che mi permetto di chiamare tali solo perché sono uno di loro – a rimuovere il fatto evidente, spiacevole, della loro schiavitù. Il fatto che, come già aveva visto e denunciato Marx, il salario di un odierno proletario – e che nessuno dica che operai e proletari non esistono più, per cortesia – ha il solo scopo di mantenerlo in vita e minimamente in salute affinché possa continuare a dedicare l’ottanta per cento della vita a produrre plus-valore. Quel poco che gli avanza da vivere, il Capitale lo riassorbe facilmente attraverso il consumo di beni posizionali e simbolici a cui lo induce grazie all’incontrollato dominio ideologico che esercita attraverso i media e gli altri apparati ideologici. “Ciò che ovvio trovatelo strano”, diceva il buon Bertolt Brecht.

Un progetto in cerca di complici, che ispirandosi alle genealogie foucaultiane si sforzi di dissotterrare le ragioni storico-psicologiche per cui alla fine quasi nessuno sembra voler più “vedere” la schiavitù a cui soggiace

 

7) Ecco un primo assaggio dell’ampiezza di questioni che potrebbe abbracciare un progetto collettivo per una nuova storia della schiavitù. Un progetto in cerca di complici, che ispirandosi alle genealogie foucaultiane non abbia come obiettivo quello di fare – una volta di più – una storia erudita o “tecnica” della schiavitù, ma si sforzi piuttosto di dissotterrare le ragioni storico-psicologiche per cui alla fine – schiavi o meno che siamo – quasi nessuno sembra voler più “vedere” la schiavitù a cui soggiace: sia quella forzata perpetrata attraverso il ricatto economico (“o accetti queste condizioni, o muori di fame”), sia quella semi-volontaria (“sì è uno stage non pagato, ma mi fa curriculum”), sia quella da “sindrome di Stoccolma” che vede milioni di persone entusiaste e soddisfatte di sacrificare interamente la propria vita di relazione al Capitale in cambio di qualche bene di lusso o posizionale. Già agli inizi degli anni Duemila il sociologo Domenico De Masi segnalava, a proposito di quest’ultima schiavitù, come molti tra i “padroni” di oggi (manager, top manager, capifiliale, professionisti affermati, ecc.) lavorino in termini assoluti più del doppio delle ore che poteva lavorare un servo della gleba medievale. Insomma: stile di vita da padroni, ma vita reale quanto mai “schiava”.

 

8) Ispirandosi alle genealogie foucaultiane, una storia della schiavitù dovrebbe chiedersi: “Da dove viene la nostra idea di schiavitù? Che rapporto ha con quella di libertà? Cosa rende, ai nostri occhi, certe schiavitù più o meno belle, evidenti e/o tollerabili?”. E poi ancora. “Quali vantaggi strategici potremmo trarre dallo scoprirci finalmente schiavi insieme?”.Se vogliamo, questa “nuova” storia della schiavitù, sarebbe anche una storia critica e in controluce del nostro attuale concetto di libertà. Di quella libertà che oggi è certamente vissuta in modo affermativo, come una libertà di fare, una libertà di che nella nostra società si traduce unicamente in una triste e aberrante libertà di impresa. La strada del Fanciullo nietzschiano è infatti, per ora, sbarrata dalle più potenti forze ideologiche neoliberali (“Se puoi sognarlo puoi farlo”, e compagnia cantante). Per riuscire a forzarla, a renderla di nuovo percorribile, noi schiavi di oggi dovremmo forse sforzarci di ri-territorializzare intanto l’altra libertà: quella negativa, quella del Leone nietzschiano (a cui lo stoico e temprato Cammello, schiavo del dovere, approda al termine della sua parabola). Dovremmo forse prima di tutto ripensare strategicamente quella libertà da – la libertà negativa che originariamente l’ideologia liberale aveva pensato come libertà dell’impresa dalle ingerenza dello Stato per trasvalutarla e risignificarla come libertà dallo sfruttamento. Cos’è lo sfruttamento? Definizione secca: mantenere qualcuno in vita al solo scopo di fargli produrre plus-valore.

 

9) Lo stallo politico-sociale odierno – il fatto francamente misterioso per cui, pur peggiorando verticalmente le condizioni di vita e del lavoro, sono ancora pochissime nel nostro Paese le persone che hanno deciso rivoltarsi – pare a volte tutto concentrato in quella che potremmo chiamare una rimozione, una mancata consapevolezza delle nostre schiavitù. Se, come piaceva dire a Lacan, la schiavitù è qualcosa che oggettivamente dispiace, il trucco di chi la perpetra è sempre lo stesso: farla scivolare al di sotto della soglia della coscienza. Questo è stato l’escamotage che ha condotto all’apparente fine della schiavitù tardo-antica (cfr. http://www.chartasporca.it/mini-genealogia-delle-odierne-schiavitu-e-appunti-strategici-per-le-nuove-lotte-sociali/). Questo è stato il trucco, mal riuscito, con cui i signori feudali e i padroni delle manifatture tra Trecento e Cinquecento hanno cercato di spremere più tasse possibili dai contadini e dai lavoratori meno qualificati, che per tutta risposta lungo questi due secoli non hanno praticamente mai smesso di ribellarsi con violenza inaudita – dai Ciompi alle Jacqueries, dalla rivolta di Tyler in Inghilterra fino alle più tarde rivolte contadine inizio-cinquecentesche nella Germania riformata di Munster e Lutero.

Questo è infine – venendo al presente – anche il caso degli afroamericani negli USA, che grazie all’impegno di Black Lives Matter sembrano essere riusciti nuovamente (dopo le lotte degli anni Sessanta) a riportare a livello di coscienza collettiva lo stato di schiavitù razziale in cui ancora oggi versa la maggior parte della popolazione di pelle nera negli Stati Uniti. Un risveglio di cui l’entusiasmante discorso dell’attivista Tamika Mallory ha recentemente rappresentato l’apice mediatico (cfr. https://www.youtube.com/watch?v=PYtphM9SgnI). Si tratta di risvegli che scaldano il cuore e danno speranza, ma che per essere davvero tali devono accompagnarsi in parallelo anche al risveglio, più lento e faticoso, ma che pure è in atto, da tutte le specifiche forme di auto-schiavizzazione che interessano invece gli strati intermedi della società. Mi riferisco a tutte la forme ributtanti di auto-imprenditorializzazione forzata e di stage non pagati, cui molte persone iper-formate soggiacciono semi-volontariamente nella speranza di guadagnarsi finalmente un giorno un lavoro in cui lo sfruttamento sarà per lo meno “tollerabile”.

Ma ciò che conta davvero è fare questo lavoro in prima persona; ciò che conta è osservare, patire, sentire sulla pelle – mentre ne siamo assorbiti – le trasformazioni che fare questa genealogia produce in noi

 

10) Una grande, globale, presa di coscienza delle schiavitù che non ci accorgiamo nemmeno più di vivere (o di perpetrare indirettamente e di riflesso), siano esse brutali ed esplicite o più sottili e impercettibili. Questa sarebbe la posta in gioco politica di una “nuova” storia della schiavitù, di un possibile lavoro collettivo capace di includere ogni ambito del sapere: dalla storia del diritto all’etnografia, dagli studi post-coloniali a quelli sull’immigrazione, dalle lotte per i diritti di donne e degli omosessuali, passando per l’analisi critica della criminalizzazione e rieducazione di folli e drogati, arrivando fino alle aberranti involuzioni del diritto del lavoro degli ultimi trent’anni. Per giungere infine alla rimessa in discussione mirata, esplicita e radicale delle disuguaglianze abissali in cui troppo spesso, per disperazione o per ignavia, non vogliamo nemmeno più accorgerci di vivere. Perché certo, conta aver letto e studiato la cosiddetta “letteratura” e i Grandi nomi sulla questione – come quelli di Agamben, di Hannah Arendt o di Yan Thomas, che nel suo bellissimo lavoro “L’usage et les fruits de l’ésclave” ha cercato di chiarire a livello di storia del diritto il rapporto reale tra lavoro e schiavitù nell’antichità. Ma ciò che conta davvero è fare questo lavoro in prima persona; ciò che conta è osservare, patire, sentire sulla pelle – mentre ne siamo assorbiti – le trasformazioni che fare questa genealogia produce in noi. Perché questo è, in ultima analisi, il vero scopo, il vero senso di ogni “genealogia”: produrre una trasformazione nel genealogista stesso, trasformare il rapporto con se stesso di chi la compie.

Comments

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Pantaléone
Friday, 11 September 2020 18:13
Non c'è tempo da perdere nello spettacolo permanente della mistificazione capitalista, ieri l'antifascismo puro è il prodotto del fascismo, oggi l'anti-schiavitù pura è il prodotto della schiavitù generalizzata e nell'intermezzo lo spettacolo pietoso delle pubblicazioni scientifiche più contraddittorie sul Covid19
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