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poliscritture

La parola superflua di Erri De Luca

di Marco Gaetani

Erri De Luca 1024x372La vicenda dello scrittore Erri De Luca, processato per aver sostenuto in un’intervista che la linea ferroviaria per treni ad alta velocità in costruzione in Val di Susa debba essere a ogni costo «sabotata», è abbastanza nota per esimere dal richiamarla qui nel dettaglio. Ricostruzione precisa cui del resto procede lo stesso autore napoletano nella sezione intitolata «Cronaca» di un libretto pubblicato dall’editore principale di De Luca (Feltrinelli) proprio nei giorni del processo. Alle pagine di La parola contraria si può fare riferimento per alcune considerazioni che, a partire dall’episodio in questione (davvero «minuscolo» in rapporto a ciò che accade in Val di Susa, come scrive De Luca?), si tentano con il proposito di uscire dalla cronaca spicciola, di sfuggire al chiacchiericcio proliferante nell’immancabile (quanto falso) dibattito mediatico.

I fatti sono talmente incredibili, nella loro conclamata scandalosa evidenza, da risultare quasi imbarazzanti e non lasciare dubbi su chi abbia ragione e chi torto. Che si possa essere sottoposti a un’azione penale per aver esercitato il proprio diritto di parola dà la misura esatta del degrado dell’Italia contemporanea. Che in questo paese possano agire nel nome del popolo italiano magistrati come quelli che hanno incriminato De Luca fa comprendere dolorosamente lo sfacelo civile, morale e anche giuridico di un’intera comunità nazionale (istituzioni e società civile). Lo scrittore ha dunque facile gioco nel difendersi col suo scritto ad hoc, ricorrendo a una retorica tutto sommato controllata – ma qualche volta contrattaccando, ribaltando cioè l’autodifesa in orgoglioso «j’accuse» («L’accusa contro di me sabota il mio diritto costituzionale di parola contraria»; «Sto subendo un abuso di potere da parte della pubblica accusa che vuole impedire, dunque sabotare, il mio diritto di manifestazione verbale», ecc.).

Di fronte all’assurdità e al lato grottesco della situazione in cui è venuto a trovarsi, l’imputato De Luca si sforza di non alzare eccessivamente i toni, evitando quanto possibile di atteggiarsi a vittima, ad eroico testimone di un diritto fondamentale conculcato. In verità, come già detto, i fatti parlano da sé: l’idiozia degli «atti osceni», come chiama De Luca quelli giudiziari che lo riguardano, palmare. La facilità con cui possono essere confutate le risibili tesi dei magistrati (che accolgono di fatto integralmente quelle farneticanti del direttore generale della Lyon Turin Ferroviaire, la cui «denuncia / querela» viene pubblicata nell’«Appendice» a La parola contraria, insieme all’intervista che ne è il pretesto) sarebbe quasi confortante, se non intervenisse a far rabbia (e a generare inquietudine) una duplice consapevolezza: dell’ingiustizia comunque subita nell’essere trascinati in giudizio per un fatto simile; e della effettiva possibilità di riuscire condannati, pur contro ogni logica e contro ogni giustizia, in un sistema giudiziario (ma: di potere) che offre quasi quotidianamente – in non poche storie minime di ‘comuni’ cittadini – prove d’inettitudine, protervia, malafede.

Non si riporteranno qui gli argomenti a propria difesa avanzati da De Luca, che talora ricorre saggiamente allo humour (come quando per esempio rivendica il suo meridiano diritto al malaugurio) e a una specie di quasi goliardica provocazione («Questa incriminazione è il mio primo premio letterario italiano»). Lo scrittore è ben conscio dell’enormità dell’ingiustizia subita. D’altra parte, per quanto si voglia trattare questa storia indecente in chiave quasi farsesca (come di certa commedia all’italiana), l’accaduto prende fatalmente bagliori sinistri, vagamente kafkiani. E basterebbe, a valutare la portata della minaccia incombente, considerare cosa si rischia quando si renda necessario riaffermare il proprio diritto all’uso completo dell’idioma materno, e occorra rintuzzare il tentativo di un potere ignorante quanto smargiasso di restringere il significato del lessico («riduzione di vocabolario», scrive De Luca). «Rivendico il diritto di adoperare il verbo sabotare come pare e piace alla lingua italiana. Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri di questo caso»; «Il verbo sabotare ha vasta applicazione in senso figurato e coincide con il significato di ostacolare», è costretto a puntualizzare lo scrittore contro i suoi sagaci accusatori: ancora un passo e ci si trova in pieno teatro dell’assurdo.

Piuttosto che ribadire quanto già detto da molti commentatori intorno a una vicenda il cui profilo assiologico – per dir così – è nettissimo, può essere più interessante, qui, invitare alla riflessione su un paio di temi (tra sé correlati) che la vicenda coinvolgente De Luca (ma in realtà non solo lui) sembra implicare, e che non a caso – infatti – l’autore stesso tocca nelle pagine del suo intervento a discolpa. Ci riferiamo alla questione (evidentemente vexata) del ruolo dell’intellettuale ‘umanista’ nelle società contemporanee; e a quella dei rapporti tra parola e azione, con particolare riferimento a quella parola specialissima che si qualifica come «letteraria».

Quanto al primo aspetto del problema, De Luca ha le idee piuttosto chiare: «Uno scrittore ha in sorte una piccola voce pubblica. Può usarla per fare qualcosa di più della promozione delle sue opere. Suo ambito è la parola, allora gli spetta il compito di proteggere il diritto di tutti a esprimere la propria». Ancor più: lo scrittore s’incarica di parlare per tutti, e segnatamente in nome e per conto di coloro che, per le più diverse ragioni, non ne hanno facoltà (De Luca, come noto frequentatore e traduttore del testo biblico, si rifà a Proverbi 31, 8: «apri la tua bocca per il muto»). L’esempio di Pasolini, «il maggiore intellettuale italiano» del secondo Novecento, non fa che confermare questa idea alta dell’intellettuale moderno come testimone e portavoce, epitome vivente di un privilegiato rapporto che si darebbe «tra cultura e lotte civili». Un intellettuale, dunque, elettivamente antagonista rispetto a quel potere che non a caso con cura particolare se n’è ‘occupato’ per tutto il secolo breve («Vengo dal campo scuola del 1900, dove gli scrittori, i poeti, hanno pagato il più amaro prezzo per le loro parole», ricorda De Luca). E ancora oggi, se ne occupa: non casualmente per gli eventi in Val di Susa è stato colpito anche «il filosofo Vattimo che ha disobbedito alla consegna di farsi i fatti suoi».

Si venga ora al secondo motivo di riflessione che l’istruttiva disavventura di De Luca (e la sua alquanto tempestiva presa di posizione pubblica) ci presenta. Motivo come detto correlato al primo, e concernente i rapporti tra parole (in particolare quelle della letteratura) e azioni. La principale accusa mossa dallo stato italiano (non dimenticare) all’autore di La parola contraria è infatti quella di istigazione a delinquere contro «un’opera strategica per lo Stato». Lo scrittore napoletano non è stato infatti «incriminato per avere fatto, ma per avere detto». Può così agevolmente rilanciare, alludendo al paradigma d’intellettuale cui s’è fatto riferimento poc’anzi: ogni scrittore può bensì «istigare un sentimento di giustizia, che già esiste ma non ha ancora trovato le parole per dirlo e dunque riconoscerlo». Il modello aureo sembra essere ancora quello pasoliniano, cui De Luca di nuovo si riferisce quando scrive che «uno scrittore al suo meglio istiga alla lettura e qualche volta anche alla scrittura».

Proprio a questo punto però tutta la questione sembra un poco complicarsi. Non tanto perché c’è in effetti qualche differenza tra lettura e scrittura, da una parte, e comportamenti ‘penalmente rilevanti’, dall’altra. Quanto piuttosto perché sembrano esistere, per De Luca (come pure, plausibilmente, per i suoi accusatori…), un’istigazione ‘buona’ (quella, per dir breve, alla presa di coscienza, che lo scrittore rivendica orgogliosamente come propria prerogativa) e un’istigazione ‘cattiva’ (quella precisamente per cui l’autore viene oggi accusato dagli zelantissimi magistrati torinesi). Prescindendo per il momento da questo particolare risvolto della questione, va anche detto che De Luca, nelle sue pagine a difesa della «libertà di parola contraria», sembra non interessato a distinguere tra una generica «parola pubblica» dello scrittore (di questo genere è parte quella virgolettata / ammanettata – si riprende l’immagine, un po’ ruffiana, dell’autore stesso – per la quale è chiamato a rispondere in giudizio) e quella affidata ai suoi libri; pure pubblicamente, senz’altro: ma come opera letteraria.

Al di là di questo pur essenziale (mancato) distinguo, impressiona (non proprio favorevolmente) come De Luca si difenda scendendo sul terreno (da puntiglioso causidico, capziosamente avvocatesco) dei suoi accusatori: «Se dalla parola pubblica di uno scrittore seguono azioni, questo è un risultato ingovernabile e fuori del suo controllo». Affermazione che sembra quasi una presa di distanza da se stesso e dalle proprie parole, un bello e buono «qui lo dico e qui lo nego» – come usa molto italianamente dire. E ancora il medesimo effetto (di qualcuno sulla difensiva, è il caso di dire, e forse non precisamente «a posto con i suoi argomenti, con la sua coscienza di cittadino e con la sua responsabilità di scrittore») sortisce un asserto certamente in punta di logica (ma sempre una logica un po’ da leguleio) come il seguente: «Perché si dia istigazione alla violenza bisogna dimostrare la connessione diretta tra parole e azioni commesse». Dove il pur sacrosanto disvelamento dell’aberrazione (logica, di nuovo – a dir il vero, e purtroppo, moneta sempre più corrente nei tribunali della repubblica) per cui post hoc, ergo propter hoc lascia inspiegabilmente uno sgradevole retrogusto d’ambiguità, per così dire. «La pubblica accusa afferma che le mie parole hanno avuto un seguito di azioni», afferma ancora De Luca; e sfida a dimostrare che sia stato davvero così – di nuovo trasmettendo l’impressione di una presa di distanza anche da se stesso, dal proprio medesimo dire, oltre che da quanti hanno agito contro le leggi dello stato.

Pensa davvero, lo scrittore, che la propria parola non abbia alcun potere nel determinare, o anche soltanto nell’influenzare e nell’orientare, l’azione altrui? La questione interessa tanto di più quando coinvolga la virtù eventuale (la forza di efficacia) di quella parola che si presenti come letteraria. E riflettendo al fatto che anche la parola semplicemente «pubblica», quella pur «piccola voce» di cui lo scrittore si riconosce fortunato detentore, trova ascolto e si fa voce autorevole per il riverbero di quell’altra parola, di quell’altra voce – egualmente pubblica ma di statuto più eminente, di prestigio maggiore e malgrado tutto effettivo: di residuale spessore, d’accordo, ma non ancora completamente consumato.

Allontanando da sé la taccia, anche questa invero molto italiana, di «cattivo maestro» (espressione che è però un inosservato ossimoro) De Luca assume una posizione netta, quasi di sfida. «Rispondo a difesa dei miei libri: in quale di essi ho istigato a commettere dei reati?». Netta ma per altri versi ambigua: ancora una volta egli sembra scendere al livello del potere (statuale) che lo processa, e delle sue leggi (le quali, al di là delle molte ideologie legalitarie oggi proliferanti anche a ‘sinistra’, possono ben essere, come De Luca mostra di sapere benissimo, «criminali»; anzi: criminali). Per aver modo di fare quasi un passo indietro, per respingere da sé, dal sé dicente e non agente, qualsivoglia sospetto di responsabilità.

E finché in effetti si parli di responsabilità giuridica, è certo bene che così vada fatto. Ma una volta che si sia con forza riaffermato ciò che in ultima istanza qualifica uno stato di diritto (contro quella che rischia di diventare la nera consuetudine di molte procure italiane, e qualche volta delle stesse corti giudicanti: di non provare ‘al di là di ogni ragionevole dubbio’ le imputazioni gravanti sui cittadini), perché non rivendicare anche per sé, per la propria «parola contraria», una forma di responsabilità civile, morale? Anche parziale, eventualmente circoscritta da qualche «se» e alcuni «ma», beninteso. Ma nondimeno reale, cogente: politica. De Luca invece sembra voler stare con i cittadini in lotta della Val di Susa senza condividere in pieno con loro la responsabilità – di nuovo: una responsabilità sostanziale e più alta di quella meramente giuridica, legale – per ciò che di illegale da essi viene fatto contro l’ingiustizia, «per il diritto di sovranità e d’incolumità di un popolo sulla sua terra». L’intellettuale letterato in punta di diritto prende le distanze dal comportamento di quanti pure, si riconosce ambiguamente, con le proprie azioni (non legali) riscattano «il titolo di cittadini da prepotenze che li vogliono sudditi».

Si venga infine all’ultimo aspetto che interessa portare all’attenzione del lettore in questa nota, e che riguarda il rapporto tra la parola letteraria e le azioni storiche, individuali e collettive. Par di capire che per De Luca questo rapporto non sia diretto ma mediato. In breve, per l’autore napoletano la parola letteraria può plasmare la coscienza, e dunque contribuire in maniera talora decisiva all’elaborazione di quel libero arbitrio che poi si farà carico esclusivo dell’azione (o della mancata azione, che pure nella storia è azione). È l’idea di letteratura che emerge nella sezione di La parola contraria intitolata «Influenze», dove tra l’altro si rievoca l’effetto di certi libri e certi autori sulla propria personale formazione giovanile. «La letteratura» scrive De Luca «agisce sulle fibre nervose di chi s’imbatte nel fortunoso incontro tra un libro e la propria vita». Si può, al limite, in qualche modo convenire. I vari Borges, Šalamov, Orwell hanno agito sul giovane De Luca in modo tale, si presume, dal farne prima un «militante della sinistra rivoluzionaria italiana negli anni settanta» e, successivamente, quel genere di scrittore e d’intellettuale che egli è oggi. Un libro come Omaggio alla Catalogna, dichiara l’autore, fu in grado di spostargli «la direzione della vita». È la presa di coscienza di cui sopra; di più, è la genesi – la costruzione – di una coscienza.

Ma se ci si domanda «cosa muova un giovane di oggi a esporsi in una lotta massicciamente diffamata e repressa come quella della Val di Susa» e ci si risponde che la letteratura, una voce come per esempio quella di Orwell, non è affatto necessaria per maturare una simile scelta di campo, perché «basta sapere che esiste una volontà di resistenza civile, popolare, per unirsi» (per elaborare un proprio pensiero critico, un proprio modo di stare nella storia, di passare coerentemente all’azione?), allora sfugge a cosa possa servire la parola («contraria») della letteratura e dello scrittore, dove risieda la sua insostituibile necessità, la sua essenzialità. Veramente (e se sì, quanto? E in quale forma? Con che titoli di legittimità storica? Con quali prospettive di concreta affermazione?) «già esiste», ciò che «non ha ancora trovato le parole» per riconoscersi, per esprimersi, per giustificarsi, per imporsi? O non si espone invece, più che alla lotta, proprio a una facilissima diffamazione (cfr. articoli come quello di Marco Bardesono sul «Corriere della Sera» di martedì 30 giugno 2015, p. 23)?

Paradossalmente sembrano saperla più lunga gli altri, gli inquisitori, gli oppressori della «piccola comunità in lotta compatta e intransigente» per i propri diritti, quando ostentano indulgenza verso il barbiere di Bussoleno, al quale evidentemente non riconoscono affatto «un potere di persuasione superiore» a quello di uno scrittore.

A meno che, in effetti, lo scrittore non somigli all’autore di La parola contraria: a ben considerare non pamphlet ma instant book, in cui la specifica responsabilità dell’intellettuale viene surrettiziamente declinata, e non ci si preoccupa di riaffermare, e rinsaldare, il legame profondo tra l’istigazione ‘buona’ e quella ‘cattiva’ (legame che esiste, anche se è latente e un po’ intricato); libello nelle cui pagine s’invocano a difesa propria gli articoli di una costituzione ‘vigente’ solo per chi ci crede, e dove ci si guarda bene dal dichiarare a chiare lettere che hanno ragione, i sabotatori, che hanno fatto benissimo a fare quello che di illegale hanno fatto. E che se pure nessuno di loro ha mai ammesso di aver agito come ha agito perché ‘istigato’ da De Luca, sarebbe bello e confortante che, invece, almeno un poco così fosse davvero. Soprattutto se si scoprisse promanare, quell’istigazione, dai libri: dalla parola letteraria più che da quella improvvidamente ‘rilasciata’ ai media (De Luca crede davvero che la stampa con cui ha scelto di parlare sia meno «interessata» di altra?).

Tanto per avere almeno, vivaddio, la soddisfazione di farsi condannare davvero, e giustamente! Invece la «parola contraria» di De Luca preferisce dichiarare la propria impotenza, sostenere di non avere la forza necessaria a determinare «seguito di azioni» – e sperare così di farla franca (cosa che avverrebbe, sia chiaro, anche in caso di condanna: che sarebbe la condanna socratica cui forse lo stesso imputato segretamente o inconsciamente aspira). Ci si presenta, questa parola sedicente «contraria» e in realtà auto-dichiarantesi superflua, come pura (innocente) testimonianza, vox clamantis in deserto, storicamente irrelata a onta della lusinghevole «solidarietà di massa e di base» (?) che essa sembra suscitare.

Parola, dunque, autoreferenziale, storicamente inefficace: muta, fallita.

Nota Questo intervento è in corso di stampa nella rivista “GenerAzioni”. Si ringrazia l’editore Milella di Lecce per averne consentito qui la pubblicazione.

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