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Le controversie di una “storia sociale” del lungo Sessantotto italiano*

di Alessandro Barile - Università "La Sapienza" di Roma

Sessantotto manifestazione.jpgNel secondo Novecento italiano gli anni Settanta occupano un posto di assoluto rilievo storico, per molteplici e ovvie ragioni. Sono gli anni dell’assalto al cielo1 o del «paese mancato»2, a seconda dei giudizi, delle sensibilità, degli obiettivi della ricerca storica che si intreccia con l’impegno civile. Sono anni, dunque, su cui si è scritto tanto. La lotta armata, che di quegli anni ne è un poco l’epitome, ha vissuto le alterne stagioni di una pubblicistica intrisa di attualità, e quindi di passioni ancora brucianti, di ferite non rimarginate nell’uno e nell’altro campo3. La ricostruzione si è avvalsa spesso della testimonianza del “reduce”, poi della testimonianza della “vittima”. Vi è poi stata la sua “funzionalizzazione” attraverso la categoria del terrorismo, e quindi della criminalità politica4. Un taglio storiografico che, insieme a una sempre più raffinata (talvolta esasperata) precisione documentaria, ha portato con sé lo sfocarsi progressivo dei motivi generali che hanno reso possibile la durata, la profondità e la radicalità del lungo Sessantotto italiano. Non vi è (più) un deficit di informazione, quanto un (nuovo) deficit di interpretazione. Lungo questa parabola ora ascendente ora discendente, si è inserita dapprima la storia sociale5, poi lo sguardo “microstorico”6 a complicare ulteriormente il quadro attraverso spiegazioni antropologiche, se non direttamente psicologiche. Il trascorrere del tempo e l’inevitabile distanziarsi dagli eventi ha comportato il paradossale indebolimento della dimensione compiutamente politica della vicenda. Un fatto che distingue non solo la storia degli anni Settanta, interpretata secondo le categorie della devianza (una devianza ora irrisa, ora intrisa di pietas), ma l’intera storia del movimento operaio organizzato. E quindi – almeno in Italia – anche la storia del Pci, che di fatto prosegue lungo la china funzionalista che la riduce, da tempo, all’interno di una “politologia delle élite” che fa aggio su ogni caratterizzazione ideologica.

Sergio Luzzatto di tutto questo movimento storiografico si propone implicitamente di farne una sintesi alta, tentando di ricomprendere la dimensione politica (soprattutto attraverso gli studi di Miguel Gotor)7 all’interno del quadro “etnografico” testé ricordato. Con questo suo Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse (Einaudi 2023), lo storico di professione ingaggia il fatidico corpo a corpo con la vicenda più traumatica del secondo Novecento italiano, sintomaticamente orfana di importanti studi specialistici: la lotta armata delle Brigate rosse. Una storia celebrata e avversata, ma raramente davvero “interpretata”, se non nella parzialità dello sguardo memorialistico, utile ma non esaustivo. In questo senso, Luzzatto legittima autorevolmente l’impianto olistico dell’intera vicenda storica qui evocata: gli anni Settanta come sviluppo, e non come cesura, col Sessantotto italiano (un risultato ancorché non inevitabile, ovviamente), e la lotta armata come tassello determinante di un processo contenuto politicamente in nuce nella dialettica politica scatenata nel paese a partire dall’incrocio tra l’esasperata tensione ideologica, la tenuta organizzativa dei gruppi dopo il fisiologico affievolirsi dell’Autunno caldo e la reazione dello Stato (la strategia della tensione). Tout se tient: l’atmosfera satura di marxismo, una classe operaia indisciplinata (indisciplinata perché sradicata), lo politica di governo incapace di conseguire veramente le promesse di redistribuzione contenute nel “centro-sinistra”, infine uno Stato che si fa soggetto di manovre oscure e di mai davvero sopiti istinti autoritari. Questa la cornice che spiega il nesso (ancora misterioso per una certa storiografia “ufficiale”) tra radicamento sociale e violenza politica (oggi si direbbe: tra consenso e conflitto), che ha poco a che vedere con le psicologie individuali dei singoli protagonisti o con le famigerate “zone d’ombra”.

L’intento di Luzzatto è trasparente nella costruzione argomentativa e a volte anche esplicito nel testo: costruire (o ricavare) una sociologia della sinistra extraparlamentare, e quindi anche della lotta armata, attraverso cui dare spiegazione degli anni Settanta. Si serve, l’autore, di Genova e del fil rouge rappresentato dalla (breve ed emblematica) vita di Riccardo Dura – capo della colonna genovese delle Br – per sostenere un’interpretazione complessiva del “terrorismo”. Nell’Italia del tempo vi era una forte classe operaia organizzata dal comunismo “ufficiale”, rappresentato dal Pci; e vi erano larghi strati di società marginale, che l’autore di volta in volta definisce come “sottoproletariato”, “proletariato illegale”, “dannati della terra”, disponibili e manipolabili alla violenza politica. La tradizione del comunismo storico era riuscita a modellare una classe operaia che fondava la sua forza sui tempi lunghi del riformismo, della cautela e della progressività della sua azione legale. Ma vi era, nell’Italia del tempo, «un’altra grande forza che spiegava allora le sue ali» – per dirla con Guccini – ed era il risultato di una società rapidamente sconvolta dal boom economico, che teneva insieme l’opulenza dell’arricchimento improvviso e la deprivazione di una condizione reale (di classe, familiare, culturale) disallineata con le celebrazioni retoriche dell’agognata modernizzazione. Questa società – marginale ma non residuale – subiva l’indottrinamento dei “cattivi maestri” intellettuali, sovente professori universitari. È il “teorema Dalla Chiesa” – autorevole precedente del “teorema Calogero” – che Luzzatto fa proprio:

«Il generale Dalla Chiesa aveva interpretato correttamente le origini storiche del terrorismo a Genova. Aveva capito essere questo il frutto, più che di una penetrazione significativa della propaganda brigatista presso le grandi fabbriche del Ponente o della val Polcevera, della semina incessante di alcuni idéologues dell’università o dell’ospedale – Gianfranco Faina, Enrico Fenzi, Sergio Adamoli – capaci di convertire alla lotta armata un manipolo di studenti fuori corso, di cani sciolti del movimento, di operai delle 150 ore, e di presentarli bell’e pronti a due abili dirigenti rivoluzionari venuti da fuori: Mario Moretti e Rocco Micaletto» (p. 544).

Riccardo Dura come perfetto eponimo del deviato (madre abietta, padre assente, disoccupato, incapace di legare con le ragazze, internato “garaventino” ecc.), e poi traviato dall’estremismo dei Fenzi e dei Faina e poi dei Senzani. Traviato, si intuisce dalla costruzione narrativa, dall’estremismo brigatista, un estremismo intellettualistico – “piccolo borghese”, Luzzatto non lo dice ma, va da sé, è lì che si va a parare – che, parlando di Renato Curcio e di Mara Cagol, «senza aver lavorato in fabbrica neppure un giorno della [sua] vita» (p. 184), parte dalle università del nord alla ricerca di un raccordo vivificante con la classe operaia delle fabbriche del triangolo industriale. Avremmo mai letto, ci domandiamo sommessamente, di tali bassezze nei confronti dei Gramsci e dei Togliatti, o dei Marx e dei Lenin, che senza aver mai lavorato un giorno nella loro vita (in fabbrica o altrove) tentarono di organizzare gli operai e i contadini del paese in nome della rivoluzione? Ne dubitiamo.

Sarebbe altrettanto limitante opporre a questa narrazione, volta a edificare una sociologia dell’estremismo che vuole gli operai con il Pci e gli “sbandati” con la nuova sinistra, una sorta di contronarrazione operaistica della nuova sinistra o della lotta armata. L’internità delle Brigate rosse nella classe operaia del settentrione è un dato di fatto – che emerge episodicamente nelle pieghe della ricostruzione dello stesso Luzzatto: i vari Rocco Micaletto, Francesco Berardi, Cristoforo Piancone, Vincenzo Guagliardo, Francesco Lo Bianco quali dirigenti operai dell’organizzazione ne testimoniano la presenza non casuale – che peraltro non smentisce la salda presa comunista sulla maggioranza del proletariato italiano. Non si tratta di negare l’egemonia del Pci sui destini della classe operaia del paese, quanto fare luce sulla “contesa reale” che in una specifica finestra di tempo (tra l’Autunno caldo e il sequestro di Aldo Moro, con al centro l’insurrezione operaia alla Fiat del 1973) rese credibile il tentativo di staccare dei pezzi non irrilevanti di avanguardie operaie dal controllo del riformismo comunista. Occultando tale cornice, che rimanda dunque all’opportunità concreta di tradurre in tattica politica i discorsi sulla “rivoluzione in Occidente”, non si perverrà mai alla spiegazione efficace e plausibile dei motivi che porteranno il Pci a farsi protagonista indiscusso del “fronte della fermezza”, in occasione del sequestro Moro; oppure, ancora, non si capirebbe nulla della dinamica che porterà all’uccisione di Guido Rossa come risultato non solo di un “tragico errore”, ma di un’intera vicenda che oppose operai a operai, come carsicamente e rapsodicamente emerge dalla ricostruzione dello stesso Luzzatto (cfr. pp. 446-447). Si potrebbe in tal senso dare credito alle parole di un ex dirigente di Rosso, Chicco Funaro, non certo solidale con le vicende brigatiste e più in generale della lotta armata italiana:

«Pochi ignoravano che il progetto della rivista [«Controinformazione», nda] implicasse un rapporto [di Potere operaio, nda] con le rinascenti (dopo i colpi subiti l’anno prima) Brigate rosse. Voglio essere chiaro: tale rapporto era reso appetibile, ma anche necessario, dall’alto grado di consenso politico e di sostegno organizzativo nelle concentrazioni operaie del milanese di cui godevano le brigate di allora, poggianti peraltro su un fabbrichismo quasi integrale. Per avere rapporti stabili con le assemblee autonome, era insomma necessario che i nostri compagni, già gli operai, ma soprattutto gli esterni che reggevano l’intervento, non trovassero porte chiuse da parte delle Br»8.

Le due narrazioni contrapposte: le Br come escrescenza dell’Italia deviata dalle contraddizioni del boom economico; oppure le Br come espressione della linea carsica operaista della “resistenza tradita” (à la Lazagna o à la Alberganti), le Br come studenti borghesi o le Br come operai incazzati, mancano ambedue di cogliere la dimensione delle Brigate rosse come (piccolo) partito politico, ovvero come organizzazione generale che, al di della composizione sociale dei suoi militanti e dirigenti (che fu anche una composizione operaia, delle Br così come di Lotta continua o di Potere operaio), al di delle singole e fortuite vicende esistenziali dei suoi protagonisti (tutte diverse e tutte inessenziali), si propone di organizzare un punto di vista ideologicamente fondato volto alla contesa del potere politico. Celando tale dimensione – una dimensione che ovviamente risponde delle specifiche logiche di un partito sui generis, illegale, clandestino, combattente, e che quindi fu costitutivamente impossibilitato a organizzare il consenso se non attraverso atti dimostrativi che però erano inseriti in una razionalità della lotta politica dell’epoca (vedi il sequestro Amerio) – è una conseguenza naturale quella di chiedersi ossessivamente: chi era in grado di “pensare”, dentro quel marchingegno intellettualmente modesto che furono le Brigate rosse? Potevano davvero essere dirette da un perito tecnico marchigiano, da un operaio pugliese o da un contadino della bassa padana? Di qui – ovvero dal travisamento/mascheramento della dimensione interamente politica della vicenda – la ricerca del “grande vecchio”, o del “cattivo maestro”, da parte di inquirenti e storici: i misteri sull’Hyperion, oppure il ruolo di Negri, quello di Fenzi o quello di Faina, e ancora l’eterodirezione di qualche apparato “deviato” dello Stato. Qualcuno ci deve essere pur stato, a guidare un decennio di violenza politica. Lo stesso stupore, d’altra parte, veniva formulato in occasione del 1977 romano: chi li manovra? Possibile davvero che un tecnico dell’Enel e un portantino del Policlinico fossero i veri “macchinatori” della sovversione comunista? Eppure, gli stessi esegeti del “moderno principe” (ovvero del partito come intellettuale collettivo), faticano a individuare esattamente questo dato di fatto, in qualche modo banale: i gruppi politici degli anni Settanta, la lotta armata, le Brigate rosse, non intervenivano dall’esterno della realtà italiana dell’epoca, ma erano parte di una processualità politica determinata (e comprensibile solo in quel contesto specifico), come rileva lo stesso Luzzatto in uno dei passaggi più riusciti del libro, che conviene riportare nella sua interezza:

«Da una riunione a un picchetto, da un corteo a una scazzottata, un viavai ininterrotto di persone, di idee, di gesti. Un tourbillon di studenti e di operai, di progetti e di trame, di manifestazioni e di spedizioni, di passioni rivoluzionarie e di incubi golpisti. Fino a che – nell’autunno del 1974, dopo le stragi di piazza della Loggia e del treno Italicus, e nell’eco delle bombe di Savona – i più determinati fra i membri del servizio d’ordine genovese di Lotta continua […] ritennero che tutto ciò non bastasse più. Come altri compagni del movimento lontano da Genova, perorarono la causa di un passaggio dalla vigilanza antifascista alla lotta armata […] A Genova come a Milano, Torino, Roma, centinaia di ex militanti di Lc, di Potop, di varie altre sigle dell’ultrasinistra, considerarono la strada della lotta armata non più un’opzione, ma una necessità: sia per scongiurare il pericolo del golpe neofascista, sia per realizzare la prospettiva della rivoluzione comunista» (p. 271).

D’altronde, e anche in questo caso Luzzatto coglie il punto, il dibattito sulla violenza politica origina e si concretizza ben prima e ben distante dalla (prudente, se la osserviamo in prospettiva) radicalizzazione brigatista, come dimostra l’affare Calabresi: «La prima organizzazione di estrema sinistra che infranse il tabù del quinto comandamento fu Lotta continua: il 17 maggio 1972, a Milano, con l’omicidio Calabresi» (p. 188). Quattro anni prima del primo omicidio brigatista, quello del giudice Francesco Coco del giugno 1976 (avvenuto dopo il primo omicidio di Prima linea, quello del fascista Enrico Pedenovi, aprile 1976).

Ma se questa è la spiegazione che più si approssima alla realtà degli anni Settanta, per quale motivo inquadrare l’intera vicenda della lotta armata attraverso lo stralunato bozzetto della Genova degli anni Sessanta, quella di Don Gallo e della Garaventa? Oppure, perché trasformare un operaio marittimo come Riccardo Dura in un improbabile «perdente radicale» che diviene (malgré lui, dopo l’indottrinamento dei Fenzi e dei Faina) «serial killer politico» (la tragica sequenza è a p. 428)?

Ovviamente, dire tutto questo non significa sposare la specifica linea politica promossa dalle Br e dall’insieme della lotta armata in Italia, riconoscendola come efficace contraltare al moderatismo incarnato dal Pci. Significa semmai distinguerla come tale, nell’indipendenza del suo ingranaggio collettivo e nei suoi limiti più o meno vasti, d’altronde segnalati da uno dei suoi esponenti più prestigiosi, Prospero Gallinari, nelle sue riflessioni postume9. Le Br, e con esse l’intera costellazione della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta, furono probabilmente molto al di sotto della sfida politica apertasi nel paese tra il Sessantotto e il sequestro Moro. Una sfida che però fu resa possibile dall’incrocio tra l’insubordinazione operaia e la capacità mobilitante della nuova sinistra, in grado di sostenere un periodo eccezionalmente lungo di furiosa conflittualità politica e sociale.

Costretto dalle inevitabili contraddizioni di una storia così organizzata e raccontata, Luzzatto si produce in sintomatiche incoerenze argomentative: da un lato vuole liberarsi da ogni interpretazione dietrologica del fenomeno (vedi la dichiarazione d’intenti contenuta nel Prologo), dall’altro assegna a Gotor (che della spiegazione dietrologica è fine cesellatore) l’attestato di studioso di riferimento (p. 415); da un lato racconta del ribaltamento sociologico dei ruoli nel partito brigatista, dove l’operaio Micheletto comandava l’intellettuale Fenzi (p. 354), dall’altro l’insistenza di scovare il deus ex machina nelle aule di via Balbi (sede universitaria di Genova) piuttosto che in una logica che altrove Luzzatto riconosce e descrive bene (vedi la già citata p. 271). A scomparire del tutto, e clamorosamente, è la figura di Renato Curcio, ovvero di colui che, contribuendo all’originale sincretismo ideologico brigatista (incrociando marxismo cominternista, maoismo, Foucault e operaismo), in altre parole: tentando una combinazione tra tradizione e innovazione nel contesto italiano degli anni Settanta, ha saputo dare respiro a un’azione politica che si voleva rivoluzionaria ma non imbalsamata all’interno dei vincoli ideologici del fabbrichismo stalinista. Curcio come espressione di un dibattito – nello specifico interno al Cpm milanese (che era una sorta di conurbazione di collettivi operai della Siemens, della Pirelli, dell’Alfa Romeo ecc., non una congrega di diabolici professori a contratto) – che attraversava tutta l’estrema sinistra del tempo, e che cercava di rispondere alla cruciale domanda: come si fa una rivoluzione in Occidente che non si esaurisca totalmente, come per il Pci, in una contrattazione in sede parlamentare? Alla fine i conti non tornano. Voler fare delle Br, della lotta armata, della sinistra rivoluzionaria degli anni Settanta una “storia dei marginali” porta a nuovi vicoli ciechi, da cui ci si può salvare solo attraverso forzature storiche, quelle stesse forzature che hanno impedito a Mario Moretti di collaborare alla ricostruzione della vicenda di Riccardo Dura, come onestamente riporta Luzzatto nell’Epilogo. Parole che possono servire anche a noi da chiosa a tutto il discorso:

«Il punto è che non mi riesce di considerare “marginale” un tipo che ha passato la sua vita da adulto – purtroppo non lunghissima – guadagnandosi la pagnotta navigando per mezzo mondo a bordo di navi mercantili. Un “marittimo” che conosceva come pochi la storia dei portuali di Genova, delle lotte dei camalli, dal mitico luglio 1960 in poi, dall’inizio delle prime gloriose organizzazioni sindacali fino alla loro tarda degenerazione corporativa. Era nei caruggi, in quell’ambiente di lavoro e di lotta, che aveva vissuto e capito da che parte stare e come starci. Anche se può capitare che, insieme a una nonna siciliana meravigliosa, ti tocchi in sorte una madre un po' balenga: ma questo non fa di te un marginale» (p. 602).


* Note attorno al libro di Sergio Luzzatto, Dolore e furore. Una storia delle Brigate rosse, Einaudi, Torino 2023.

Riferimenti bibliografici
ALBANESE, MATTEO ANTONIO, 2020
Tondini di ferro e bossoli di piombo. Una storia sociale delle Brigate rosse, Pacini, Pisa.
BALESTRINI, NANNI — MORONI, PRIMO, 1988
L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, SugarCo, Milano.
BENIGNO, FRANCESCO, 2018
Terrore e terrorismo. Saggio storico sulla violenza politica, Einaudi, Torino.
BIANCHI, SERGIO — CAMINITI, LANFRANCO (a cura di), 2007
Gli autonomi. Vol. I, Le storie, le lotte, le teorie, Derive Approdi, Roma.
BRIZZI, RICCARDO — CECI, GIOVANNI MARIO — MARCHI, MICHELE — PANVINI, GUIDO – TAVIANI, ERMANNO, 2021
L’Italia del terrorismo: partiti, istituzioni e società, Carocci, Roma.
CECI, GIOVANNI MARIO, 2014
Il terrorismo italiano. Storia di un dibattito, Carocci, Roma.
CLEMENTI, MARCO — PERSICHETTI, PAOLO — SANTALENA, ELISA, 2017
Brigate rosse. Dalle fabbriche alla «campagna di primavera», vol. I, Derive Approdi, Roma.
CRAINZ, GUIDO, 2003
Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma.
GAGLIARDI, ALESSIO, 2017
Stagione dei movimenti e anni di piombo? Storia e storiografia dell’Italia degli anni Settanta, in “Storica”, 67-68, pp. 83-129.
GALFRÈ, MONICA, 2022
Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione, Einaudi, Torino.
GALLINARI, PROSPERO, 2006
Un contadino nella metropoli. Storia di un militante delle Brigate rosse, Bompiani, Milano.
GOTOR, MIGUEL, 2022
Generazione Settanta. Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982, Einaudi, Torino.

Note
1 BALESTRINI — MORONI 1988.
2 CRAINZ 2003.
3 Sulla storiografia sugli anni Settanta e le sue evoluzioni, cfr. GAGLIARDI 2017.
4 Cfr. CECI 2014; BRIZZI — CECI — MARCHI — PANVINI — TAVIANI 2021. Sulla categoria euristicamente compromettente di terrorismo, cfr. BENIGNO 2018.
5 Cfr. ALBANESE 2020. Cfr. anche CLEMENTI — PERSICHETTI — SANTALENA 2017.
6 Cfr. GALFRÈ 2022.
7 Cfr. GOTOR 2022.
8 FUNARO, in BIANCHI — CAMINITI 2007, p. 164.
9 Cfr. GALLINARI 2006, pp. 267-325.

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DANILO FABBRONI
Thursday, 29 February 2024 11:26
Rivoluzionari e alta finanza, Lsd e jet set, criminali e filosofi alla moda. E poi Parigi e la California, Hong Kong e Berlino, Londra e Milano. Nomi e luoghi, fatti e circostanze del grande inganno che prende il nome di "Sessantotto". Danilo Fabbroni, raccogliendo e interpretando testi inediti o poco noti in Italia, ricostruisce la trama nascosta, intricata e imprevedibile della controcultura internazionale, ricomponendo l'inquietante puzzle degli ambienti libertari ed alternativi e rivelandone i mandanti nell'ombra e gli occulti ispiratori. Fabbroni indica non soltanto gli attori, ma soprattutto i registi e i produttori del tragico show planetario che, lungi dall'essere stato un fenomeno spontaneo, ha inquinato con i suoi veleni mortali il mondo di oggi. E in una vertiginosa ricostruzione delle autentiche ragioni di quella rivolta, dimostra come essa sia stata progettata e diretta da un tenebroso potere che, con demoniaca intelligenza, in nome di valori in apparenza contrari, ha manipolato e asservito la società contemporanea. Lasciandole, come funebre eredità, la disperazione e la morte che ci circondano.
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