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Michal Kalecki e la piena occupazione

di Federico Fioranelli*

220px Michal KaleckiMichal Kalecki nasce a Lodz, in Polonia, il 22 giugno 1899, in una famiglia di origine ebraica. Nel 1917 inizia a studiare ingegneria al Politecnico di Varsavia ma interrompe gli studi prima della laurea. Si avvicina invece allo studio dell’economia leggendo Mikhail Tugan-Baranovsky e Rosa Luxemburg.

Dal 1929 al 1936 lavora presso un Istituto di ricerca economica a Varsavia e scrive dei testi raccolti in Studi sulla teoria dei cicli economici (1972).

Dopo essersi recato a Stoccolma, Londra e Cambridge grazie ad una borsa di studio, dal 1940 al 1945 lavora all’Istituto di statistica di Oxford: in questo periodo pubblica il saggio Aspetti politici del pieno impiego (1943).

Dal 1946 al 1955 è membro della Commissione economico-sociale dell’ONU.

Nel 1954 scrive Teoria della dinamica economica.

Nel 1955, Kalecki torna in Polonia per dedicarsi all’insegnamento e alla ricerca all’Università di Varsavia. I lavori di questo periodo fanno parte della raccolta Sulla dinamica dell’economia capitalistica (1975).

 

La dinamica dell’economia capitalistica

In Teoria della dinamica economica, Kalecki costruisce inizialmente un modello semplificato ipotizzando che l’economia sia chiusa e dividendo il sistema economico in due classi: i lavoratori e i capitalisti.

Il reddito dei lavoratori è costituito dai salari (W) mentre quello dei capitalisti dai profitti (P). Il reddito nazionale è così la somma di salari e profitti: Y = W + P.

Le imprese, in un’economia in cui hanno potere di mercato, adottano il principio del costo pieno, cioè un criterio che consiste nel fissare il prezzo del prodotto in relazione ai costi variabili, accrescendoli di un margine proporzionale destinato a coprire costi fissi e spese generali e a garantire un margine di profitto. I capitalisti determinano in questo modo il saggio di profitto e il saggio di salario.

Il profitto totale e il livello totale dei salari dipendono invece dalla spesa effettuata dagli stessi capitalisti in investimenti e consumi.

Infatti, il reddito nazionale, oltre che come somma di salari e profitti, può anche essere scritto come la somma di consumi (C) e investimenti (I): Y = C + I.

Questa equazione permette a Kalecki di introdurre l’identità di contabilità nazionale (W + P = Cw + Ck + I) dove Cw sono i consumi dei lavoratori e Ck i consumi dei capitalisti.

Poiché Kalecki ipotizza che i lavoratori non risparmiano (W = Cw), è possibile scrivere che P = Ck + I e affermare che i lavoratori spendono ciò che guadagnano mentre i capitalisti guadagnano ciò che spendono.

Considerando, poi, che i consumi dei capitalisti sono in funzione dei profitti realizzati in passato, in questo modello semplificato, il profitto attuale (e il risparmio totale S, dato che S = Y – C = I) dipende principalmente dal livello degli investimenti effettuati e, di conseguenza, dalle attese dei capitalisti riguardo al futuro.

Kalecki rileva che questo modello è in equilibrio anche in presenza di disoccupazione: infatti, il livello complessivo degli investimenti generato dal settore capitalistico privato non corrisponde necessariamente ad una situazione di pieno impiego.

A questo punto, Kalecki arricchisce il modello introducendo lo Stato, il settore estero e il risparmio dei lavoratori (Y = Cw + Ck + I + Dg + Ee). L’equazione del profitto diventa la seguente: P = Ck + I + Dg + Ee – Sw.

I profitti crescono in seguito all’aumento dei consumi dei capitalisti (Ck), degli investimenti (I), del deficit pubblico (Dg), cioè della differenza tra spesa pubblica e gettito fiscale, e delle esportazioni nette (Ee), cioè della differenza tra esportazioni e importazioni. Diminuiscono, invece, di fronte all’aumento dei risparmi dei lavoratori (Sw).

Kalecki individua un’analogia tra le esportazioni e la spesa pubblica: allo stesso modo delle esportazioni nette, anche il deficit di bilancio dello Stato può determinare un effetto positivo sul reddito nazionale, sulla produzione e sui profitti. Invece, un’eccedenza delle importazioni rispetto alle esportazioni e un avanzo di bilancio riducono il reddito nazionale, la produzione e i profitti.

A riguardo, Kalecki introduce il concetto di esportazioni interne, per definire i disavanzi dello Stato quando vengono finanziati dalla banca centrale attraverso l’emissione di moneta, e inventa anche una favola per dimostrare che un’emissione aggiuntiva di moneta da parte della banca centrale determina un aumento dei livelli di produzione, reddito nazionale, profitti e occupazione.

La storia raccontata da Kalecki si svolge in una cittadina caduta in miseria.

Presso la locanda del posto, un giorno arriva un ricco ebreo che offre di pagare in anticipo il conto e lascia in custodia all’oste una banconota da 100 dollari. La mattina successiva, l’ebreo parte senza richiedere la banconota all’oste. Dopo pochi giorni, l’oste, giunto alla conclusione che il ricco ebreo non sarebbe più tornato, utilizza la banconota per acquistare della merce per la sua locanda presso l’emporio locale. Il titolare dell’emporio consegna la banconota alla moglie, che se ne serve per ordinare un abito alla sarta, la quale, a sua volta, usa i soldi per pagare l’affitto. Il padrone di casa, ricevuto l’affitto, paga con la banconota la sua amante, che la utilizza, invece, per l’affitto di una stanza presso la locanda. La banconota torna così all’oste. Dopo diversi giorni, il ricco ebreo torna e l’oste gli rende la banconota da 100 dollari. L’ebreo la prende e, davanti all’oste, ci accende una sigaretta. Vedendo lo sgomento dell’oste, il ricco ebreo ride dicendo che la banconota è falsa.

Con questa favola, Kalecki vuole dimostrare che la creazione di moneta genera produzione e reddito anche se la banconota in questione è un semplice pezzo di carta. L’importante è che essa venga accettata come mezzo di pagamento.

 

La dottrina economica del pieno impiego

Nel saggio aspetti politici del pieno impiego, Kalecki indica tre metodi per raggiungere la piena occupazione attraverso l’intervento dello Stato: la spesa dello Stato in deficit, gli incentivi agli investimenti privati, la redistribuzione del reddito.

Il primo, la spesa dello Stato in deficit, prevede due soluzioni. La prima è quella di fare investimenti pubblici, ad esempio in scuole, ospedali e autostrade; la seconda soluzione riguarda il sostegno ai consumi di massa con sussidi, ad esempio gli assegni familiari, la riduzione delle imposte indirette e i sussidi diretti a mantenere bassi i prezzi dei beni di prima necessità.

Kalecki prende in considerazione tre possibili critiche alla spesa in deficit.

La prima critica riguarda il modo in cui viene finanziato il deficit di bilancio. Per kalecki, esso può essere finanziato con il collocamento di titoli di Stato. L’eventuale aumento del tasso di interesse può essere evitato attraverso l’acquisto dei titoli del debito pubblico da parte della banca centrale.

Kalecki sostiene inoltre che il deficit, cioè la differenza tra spese ed entrate pubbliche, finisce per finanziare se stesso: il suo aumento causa un rialzo dei redditi e degli effetti cumulativi sul sistema economico che determinano un aumento del gettito fiscale, il quale poi finanzia il deficit.

La seconda critica concerne la sottrazione di risorse finanziarie agli investimenti privati. Per Kalecki, tutto dipende dalla politica monetaria praticata dallo Stato: una politica monetaria espansiva dello Stato permette di tenere basso il saggio di interesse e quindi di non generare conflitto fra investimenti privati e azione dello stato.

La terza critica si riferisce alla spinta inflazionistica causata dalla spesa in deficit. Per Kalecki, fino a quando c’è disoccupazione e capacità produttiva inutilizzata, non si genera inflazione.

La seconda strada per raggiungere la piena occupazione consiste nel far ricorso agli incentivi a sostegno degli investimenti privati.

I principali meccanismi adottati per attuare tale politica sono tre: la riduzione del tasso di interesse fatto pagare alle imprese per espandere la loro attività, le agevolazioni fiscali per gli imprenditori e la predisposizione di poli di sviluppo, dove allo Stato spetta il costo dell’infrastruttura necessaria.

Per kalecki, tuttavia, non esiste alcuna garanzia che, in seguito ad un aumento degli incentivi, aumentino gli investimenti e l’occupazione per due motivi. In primo luogo, perché gli imprenditori, nonostante gli incentivi offerti, possono anche decidere di non investire se il loro stato di fiducia circa la domanda futura è negativo. In secondo luogo, perché, per l’imprenditore, fare un investimento significa acquistare mezzi di produzione per produrre merci, non fornire lavoro sufficiente a raggiungere la piena occupazione: infatti ci sono degli investimenti che, anziché sviluppare l’occupazione, risparmiano lavoro.

Il terzo metodo individuato da Kalecki è la redistribuzione del reddito dalle classi ricche alle classi povere, operata mediante l’aumento delle imposte sul reddito.

Tale trasferimento determina una crescita del reddito delle classi meno agiate e, dato che le classi povere hanno una propensione al consumo più alta di quelle abbienti, un aumento della domanda effettiva.

Dopo aver analizzato i tre metodi, Kalecki presenta i problemi che possono sorgere nel momento in cui viene raggiunta la piena occupazione.

Il primo problema che viene evidenziato è quello inflazionistico perché, se in situazione di piena occupazione aumentano i salari, aumentano anche i prezzi.

Infatti, una situazione di pieno impiego rafforza i sindacati e, di conseguenza, genera maggiori rivendicazioni salariali che possono innescare una spirale salari-prezzi. Anche le imprese possono contribuire all’aumento dei prezzi nel momento in cui entrano in concorrenza sul mercato del lavoro con le altre imprese ed utilizzano l’incentivo salariale per sottrarre ad esse i lavoratori occupati.

Per evitare la spinta inflazionistica, per Kalecki, è necessaria una politica dei redditi, la quale consiste nel controllo dei salari e dei prezzi da parte dello Stato.

Il secondo problema riguarda la possibilità che la bilancia dei pagamenti vada in deficit. In questo caso, al fine di mantenere l’equilibrio della bilancia dei pagamenti, è necessario un controllo diretto delle esportazioni e delle importazioni, impedendo certe importazioni e agevolando determinate esportazioni.

La terza difficoltà è connessa alla carenza di manodopera che porta al ristagno del sistema economico. In questo caso, la soluzione consiste in una politica di orientamento professionale della nuova forza lavoro in funzione delle esigenze del sistema economico.

 

I motivi dell’opposizione al pieno impiego

Kalecki parte dall’idea che il pieno impiego, in un sistema capitalistico, possa essere raggiunto mediante l’intervento dello Stato con un maggiore indebitamento e non con la tassazione.

Nei Paesi capitalistici, l’obiettivo della piena occupazione non viene però perseguito a causa degli uomini d’affari e degli esperti di economia strettamente legati ai settori bancario ed industriale. In particolare, sottolinea Kalecki in Aspetti politici del pieno impiego, a causa della loro avversione all’interferenza dello Stato nel problema dell’occupazione, della loro opposizione alle destinazioni della spesa pubblica e, infine, della loro avversione al mantenimento del pieno impiego.

Riguardo al primo motivo, Kalecki sostiene che gli imprenditori si oppongono duramente alle politiche statali volte a raggiungere la piena occupazione per non vedere indebolito il loro potere di controllo sullo Stato.

Essi sostengono invece un sistema economico di laissez-faire in cui lo Stato non interviene per modificare l’occupazione e il livello dell’occupazione dipende solo dallo stato di fiducia degli imprenditori stessi: se questo stato di fiducia si logora, gli investimenti privati diminuiscono e ciò si traduce in una caduta della produzione e dell’occupazione.

È evidente che in un sistema di laissez-faire, gli imprenditori ricattano lo Stato imponendo ad esso soltanto quelle politiche pubbliche che non possano scuotere il loro stato di fiducia e causare una crisi economica.

Di conseguenza, l’intervento pubblico a sostegno dell’occupazione e i deficit di bilancio dello Stato sono considerati pericolosi dagli imprenditori perché riducono il loro potere di controllo sullo Stato.

Il secondo motivo di avversione è connesso al tipo d’intervento dello Stato, rappresentato dagli investimenti pubblici e dal sostegno al consumo di massa.

Gli uomini d’affari richiedono che gli investimenti pubblici avvengano nei settori dove non c’è concorrenza con le imprese private (ad esempio, ospedali, scuole e autostrade) per non ridurre la profittabilità degli investimenti privati.

Anche i sussidi al consumo sono avversati dagli uomini d’affari in quanto tali sussidi non rispettano i principi fondamentali dell’etica capitalistica, secondo i quali non è possibile, a meno che non capiti che tu sia ricco, guadagnarsi il pane senza il sudore.

Il terzo motivo di opposizione degli uomini d’affari è, per Kalecki, connesso ai mutamenti sociali e politici che intervengono in un regime di piena occupazione.

Anche se i profitti sono più elevati a causa di una maggiore domanda delle merci e dei servizi prodotti, in un sistema economico senza disoccupati si sviluppa anche la coscienza della classe operaia, si rafforzano i sindacati, si creano tensioni politiche e aumentano gli scioperi per ottenere incrementi salariali e miglioramenti delle condizioni di lavoro.

Così, dato che gli uomini d’affari preferiscono la disciplina delle fabbriche e la stabilità politica rispetto ad un aumento degli stessi profitti, essi accettano la disoccupazione come parte integrante di un normale sistema capitalista.

Kalecki, nel saggio Aspetti politici del pieno impiego, rileva anche che l’avversione degli uomini d’affari alle politiche statali volte a raggiungere la piena occupazione con la spesa pubblica può essere superata sotto i governi fascisti.

Infatti, sotto un governo fascista, la stretta alleanza che si crea tra Stato e grandi imprese non indebolisce il potere di controllo degli imprenditori sullo Stato, la concentrazione della spesa pubblica sugli armamenti non riduce la profittabilità degli investimenti privati e, infine, la disciplina delle fabbriche e la stabilità politica sono mantenute dal nuovo ordine, che spazia dalla soppressione dei sindacati ai campi di concentramento.

 

Il capitalismo del pieno impiego

Kalecki, nell’opera Sulla dinamica dell’economia capitalistica, sostiene che gli uomini d’affari e i loro esperti sono favorevoli all’intervento pubblico quando l’azione dello Stato è diretta a superare una crisi economica.

Dichiara anche che essi condividono l’idea che, inizialmente, l’unica cosa che lo Stato deve fare in una crisi è stimolare gli investimenti privati. Questo stimolo può avvenire diminuendo il tasso di interesse, riducendo le imposte sui redditi o sussidiando direttamente gli investimenti privati.

Per Kalecki, però, lo stimolo agli investimenti privati non costituisce un metodo adeguato per superare la crisi economica e incidere significativamente sul livello della produzione e dell’occupazione.

Infatti, se lo stimolo agli investimenti privati nei tre modi previsti viene fatto soltanto durante la crisi economica ma non nella successiva fase espansiva, la disoccupazione persiste anche nella fase di espansione economica.

Se, invece, gli investimenti privati vengono stimolati sia durante la crisi economica sia nella successiva fase di espansione, la fase espansiva dura più a lungo. Visto che, però, non vengono eliminate le cause delle fluttuazioni cicliche, nella nuova fase recessiva è di nuovo necessario stimolare gli investimenti privati fino a che il tasso di interesse non diventa negativo e le imposte sui redditi non vengono sostituite con sussidi ai redditi.

Inoltre, aggiunge Kalecki, se la recessione è accentuata al punto che lo Stato è costretto ad abbassare continuamente il tasso di interesse e le imposte sui redditi (e ad aumentare i sussidi diretti agli investimenti privati), gli imprenditori riducono progressivamente la loro fiducia: il risultato è che l’effetto sul livello degli investimenti, della produzione e dell’occupazione è piccolo o nullo.

Così, nonostante la preferenza nelle crisi economiche per un intervento pubblico finalizzato soltanto a stimolare gli investimenti privati, gli uomini d’affari si trovano costretti ad accettare, nelle fasi più acute di depressioni economiche profonde e prolungate, come estremo rimedio, gli investimenti pubblici finanziati con un maggiore indebitamento.

Poi, però, nelle successive fasi espansive, essi tornano ad opporsi strenuamente a una politica governativa di investimenti pubblici perché una situazione permanente di pieno impiego non è affatto nei loro desideri.

In questo modo, gli imprenditori, inducendo il governo a ridurre il deficit di bilancio, gettano le basi per nuove recessioni economiche.

Kalecki, nel saggio Aspetti politici del pieno impiego, sostiene che, se lo Stato interviene attraverso gli investimenti pubblici solamente nella fase più acuta di una depressione economica, le fasi di recessione economica non vengono abolite.

La totale abolizione delle fasi di recessione economica si concretizza soltanto in seguito a un programma di spesa pubblica che assicuri un durevole pieno impiego, cioè a un programma di spesa pubblica che non sia limitato agli investimenti pubblici ma si estenda al sostegno dei consumi (attraverso gli assegni familiari, le pensioni di vecchiaia, la riduzione delle imposte indirette e i sussidi per ridurre i prezzi dei beni di prima necessità).

Kalecki pensa, quindi, che il capitalismo debba conseguire e mantenere la piena occupazione. Altrimenti, esso è solamente un sistema obsoleto che deve essere abbandonato.


*docente di materie economiche e giuridiche; collaboratore di “Cumpanis”.

Comments

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Pantaléone
Wednesday, 02 November 2022 17:07
La storia raccontata da Kalecki
Il valore di 100 dollari che circola è stato creato dalla sarta!
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