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moneta e credito 

Alcune note sul contributo di Garegnani all’analisi economica

di Antonella Stirati*

Abstract: Garegnani è stato una figura di primo piano nel contesto italiano e internazionale, e la sua attività di ricerca sempre connotata da un forte impegno intellettuale e civile. Nel saggio vengono enucleate le sue principali linee di ricerca concernenti la critica alla teoria marginalista, la ripresa dell’impostazione classica del sovrappiù, e il ruolo della domanda effettiva, i contributi sia metodologici che teorici, i punti di convergenza e di tensione con la scuola postkeynesiana in senso lato

enzo benedetto ciclista. opera futurista origDesidero iniziare queste note su Garegnani con alcuni ricordi personali, e con alcune considerazioni su quanto Garegnani ha trasmesso sia con l’insegnamento che attraverso i suoi contributi riguardo a come esercitare il ‘mestiere’ di economista. In seguito, ripercorro alcune caratteristiche metodologiche molto generali relative al suo approccio all’analisi economica. Cercherò poi di enucleare, sia pure in modo descrittivo e sintetico, le sue principali linee di ricerca e contributi, e quali aspetti di questi ultimi appaiono ancora controversi tra gli economisti postkeynesiani ed eterodossi.

Il mio primo incontro con il nome di Garegnani in relazione al suo contributo alla critica alla teoria neoclassica del capitale è avvenuto al secondo anno del mio percorso universitario. Il corso trattava di microeconomia ed equilibrio economico generale, e il libro di testo era di Augusto Graziani. Il testo riportava alla fine di ogni capitolo una breve bibliografia commentata, e tra i riferimenti vi era anche quello alla controversia sulla teoria del capitale. La cosa già allora mi colpì molto: avevo studiato microeconomia durante il primo anno di corso su un testo del tutto tradizionale, e l’avevo trovato poco convincente – in particolare l’importanza attribuita alle scelte del consumatore mi sembrava aver scarsa attinenza con la realtà economica, che percepivo come terreno di scontri di interesse e di potere piuttosto che fondamentalmente dominata da quelle scelte. Tuttavia, avevo la percezione che quella era una teoria del funzionamento del mercato, e in quanto tale non poteva essere respinta senza motivo. Scoprire che un motivo poteva in realtà esserci, che erano stati denunciati errori di fondo di quella impostazione fu dunque causa di sollievo e anche di ravvivato interesse per la disciplina.

Più tardi, nei miei ultimi anni di corso, ho letto i due libri pubblicati in italiano da Einaudi: Valore e domanda effettiva1 e Marx e gli Economisti Classici2. Sebbene di difficile lettura, quei testi, su cui sarei tornata più volte anche in seguito, sono stati per me molto importanti, in primo luogo nell’aiutarmi a comprendere le differenze tra diverse impostazioni teoriche e ad avere un quadro d’insieme della loro struttura. Questo contributo chiarificatore della logica interna di diverse teorie credo che rimanga ancora oggi un lascito importante e molto formativo dei lavori e dell’insegnamento di Garegnani, e mi sento di consigliare la lettura attenta di quei testi, ancora oggi, a giovani interessati ad un approccio critico allo studio dell’economia.

La conoscenza personale che ho poi iniziato durante il dottorato e proseguita negli anni successivi mi ha portato ad apprezzare non solo la passione intellettuale e civile che animava Garegnani, ma anche la sua profonda convinzione che il ‘mestiere’ di economista debba essere esercitato con un massimo di onestà intellettuale e di rigore, e ciò a maggior ragione se si è interessati a contribuire ad una analisi critica dei processi economici e sociali e ad una loro trasformazione. Una conoscenza per quanto possibile profonda e non ideologica di quei processi è infatti necessaria a chi voglia promuovere un cambiamento. Questo comporta anche che la discussione critica debba sempre basarsi su una conoscenza approfondita delle teorie che si intende criticare, nella loro versione migliore e più alta, esposta dagli studiosi più autorevoli, evitando accuratamente di costruirne delle rappresentazioni semplificate o banalizzate.

 

1. Alcune questioni di metodo

L’insegnamento di Garegnani ha anche alcuni aspetti metodologici distintivi, profondamente legati alla sua proposta di ripresa dell’approccio classico, ma che può essere utile ripercorrere in modo preliminare.

Il primo aspetto, appunto derivato dall’approccio del sovrappiù, è quello della separazione dell’analisi dei prezzi relativi e del loro rapporto con le variabili distributive dall’analisi delle determinanti delle quantità prodotte delle singole merci e da quella del livello aggregato di produzione e domanda effettiva, così come da quella delle forze che determinano la distribuzione del reddito e i suoi cambiamenti. Tale separazione trova le sue ragioni teoriche fondamentali nel fatto che nessuna relazione di carattere del tutto sistematico e generale può essere individuata tra prezzi relativi e quantità prodotte, o tra queste ultime e la distribuzione del reddito. Quest’ultima, determinata da una pluralità di fattori storicamente specifici, a sua volta non può essere esaminata allo stesso livello di astrazione e generalità che è invece necessario per analizzare il rapporto tra distribuzione e prezzi relativi: un rapporto complesso, la cui analisi richiede un approccio di carattere analitico-deduttivo. Ciò naturalmente non significa che l’economista non possa o debba studiare cosa determina le quantità prodotte (ad esempio come variazioni del reddito pro capite nel corso dello sviluppo economico modifichino la composizione dei consumi) o le relazioni tra distribuzione e livello di produzione (ad esempio attraverso gli effetti sulla domanda aggregata, o attraverso gli effetti sulla composizione dei consumi, diversa per diversi gruppi sociali e classi di reddito), ma semplicemente che tali analisi si svolgono in modo separato dalla determinazione dei prezzi relativi, per la quale è necessario prendere come date le quantità prodotte, le tecniche disponibili, e una variabile distributiva (vedi anche qui sotto, sezione 2).

Un altro aspetto metodologico importante, interconnesso col precedente, è la necessità, per l’economista, di procedere per “catene di ragionamento brevi” – un approccio che può essere ritrovato nei primi economisti classici e perseguito anche da Marshall con le sue analisi di equilibrio parziale – sebbene queste ultime viziate da limiti fondamentali e insuperabili legati alla costruzione delle curve di offerta sotto l’ipotesi di ceteris paribus, come messo in luce da Sraffa (1925). Questa impostazione rendeva Garegnani molto diffidente nei confronti della costruzione di modelli economici complessi, in quanto la formalizzazione di un numero elevato di relazioni e interrelazioni tra le variabili comporta la necessità di numerose assunzioni quantitative e qualitative che rischiano di essere arbitrarie e fuorvianti.

Infine, ancora mutuata dagli economisti classici, sebbene comune anche a Marshall e ad altri economisti marginalisti, è la distinzione tra diverse dimensioni logico-temporali dell’analisi economica, che è opportuno mantenere distinte. L’analisi “di lungo periodo” si riferisce ad una analisi in cui si ipotizza che le variabili prese come date dalla teoria non mutino, mentre d’altra parte non vengono prese in considerazione le variazioni transitorie dovute ad eventi accidentali – le analisi di lungo periodo, quindi, riflettono le forze economiche persistenti che, in base alla teoria economica, sottostanno alla determinazione delle grandezze oggetto di analisi. Più concretamente, i prezzi di produzione o prezzi normali delle merci sono “di lungo periodo” in quanto determinati dai dati (quantità domandate e prodotte in corrispondenza dei prezzi normali, tecniche di produzione, una variabile distributiva) attraverso l’operare della forza fondamentale della concorrenza (libera entrata e uscita dei capitali dalle varie attività produttive) e trascurando eventuali fattori di disturbo (ad esempio l’effetto sui prezzi di una annata di cattivo raccolto). L’analisi “secolare” si riferisce invece all’analisi degli effetti di cambiamenti nei “dati” durante il processo di accumulazione – ad esempio, gli effetti del progresso tecnologico sui prezzi, sulla occupazione, sulle quantità prodotte. I fenomeni di breve periodo, causati da fattori transitori e accidentali, non venivano considerati dagli economisti classici come suscettibili di analisi teoriche di carattere generale. Di nuovo, ciò non significa che l’economista non debba mai occuparsene – si pensi ad esempio alla potenziale rilevanza e interesse dello studio delle dinamiche speculative che possono innescarsi in alcuni mercati in seguito a iniziali disturbi di carattere accidentale (nei classici troviamo ad esempio interessanti analisi di come ciò possa accadere per beni agricoli di prima necessità). Tali analisi però dovranno riferirsi a mercati e contesti specifici e non possono avere carattere di generalità.

In sostanza, ciò che questo approccio metodologico e teorico indica è che l’economista ‘classico’ non ha, e non può avere per precise ragioni teoriche, le stesse ambizioni dell’economista che, attraverso sistemi di equilibrio economico generale, ritiene di poter determinare simultaneamente tutte le variabili di interesse (prezzi relativi, quantità, variabili distributive, livelli aggregati di occupazione), ma deve accettare di procedere separando diversi oggetti e relazioni e accettando che molte di esse non sono suscettibili di analisi logico- deduttive di carattere del tutto generale. In molti ambiti dell’analisi economica, l’economista può solo produrre delle “tassonomie” o classificazioni, cioè l’indicazione delle circostanze che, se presenti, possono dar luogo a determinate conseguenze. Di nuovo, per concretezza, si possono fare degli esempi: mentre per l’economista marginalista c’è un’indicazione univoca circa il fatto che la distribuzione dipende dalla scarsità relativa dei “fattori di produzione”, per l’economista ‘classico’ si tratterà invece di individuare, sulla base tanto della riflessione economica che della storia e dei dati, l’insieme dei fattori istituzionali che possono influenzare la distribuzione del reddito, di chiedersi se essi abbiano lo stesso ruolo e importanza a seconda dei livelli di occupazione e disoccupazione, se altre circostanze economiche (ad esempio, il regime dei cambi, la politica monetaria, la struttura produttiva) abbiano un ruolo e in quali circostanze. Lo stesso si potrebbe dire per l’inflazione: nelle analisi macroeconomiche di tipo tradizionale essa è sempre l’indicazione di un eccesso di domanda aggregata alimentato da una politica monetaria espansiva. In una prospettiva diversa essa potrà, in alcuni casi, essere il risultato di un eccesso di domanda, ma non necessariamente, e dunque diventa essenziale individuare i diversi fattori (conflitto distributivo, sistema dei cambi e bilancia commerciale, mercati delle materie prime) che possono alimentare i processi inflazionistici; in quali circostanze questi possono accelerare; quali sono le condizioni che possono generare gli episodi di iperinflazione.

Tuttavia, anche per procedere ad analisi che tengono in piena considerazione la storia e le istituzioni, è necessario disporre di un quadro di riferimento teorico solido, a cui ancorare le analisi che si muovono ad un livello minore di astrazione. Per Garegnani, così come per gli economisti classici, per Marx e per Sraffa, un aspetto fondamentale di questo quadro teorico di riferimento era la teoria dei prezzi relativi e, in stretta connessione con questa, l’individuazione della relazione tra variabili distributive, e in particolare tra salario e saggio del profitto.

 

2. Le principali linee di ricerca

I contributi di Garegnani possono essere collocati lungo tre grandi linee: la critica alla teoria marginalista, l’interpretazione e lo sviluppo dell’impostazione classica del sovrappiù, il ruolo della domanda effettiva nella determinazione di output e occupazione anche nel lungo periodo – le ultime due evidentemente con un contenuto di carattere costruttivo.

2.1 La critica alla teoria marginalista

Riguardo alla critica, l’aspetto che merita credo di essere ricordato e su cui a volte vi è incomprensione, è che essa andava ben oltre la critica all’utilizzo della funzione aggregata di produzione (dal cui utilizzo peraltro anche i migliori economisti neoclassici erano alieni). Piuttosto, la critica era rivolta, sotto le ipotesi normalmente fatte dalla teoria neoclassica, ai fondamenti teorici delle curve di domanda decrescenti dei “fattori produttivi”, come derivate anche nei modelli di equilibrio economico generale alla Wicksell, in cui i prezzi di equilibrio erano prezzi “di lungo periodo” cioè caratterizzate da un saggio di profitto uniforme (Garegnani, 1970 e 1990b). Il lavoro critico di Garegnani si è rivolto anche all’analisi di equilibrio economico generale di Walras (Garegnani, 2008) e, fino alla fine, agli approcci neo-walrasiani di più moderna concezione, sia mettendone in evidenza i limiti come strumenti di interpretazione dei fenomeni economici (Garegnani, 1976, 2002; cfr. anche Ciccone, 1999), sia indicandone i problemi interni, legati, secondo Garegnani, alla possibilità di rinvenire, anche in quei modelli, la necessità di introdurre una nozione di relazione inversa tra saggio di interesse e investimento analoga a quella tradizionale, e dunque soggetta alle stesse difficoltà messe in luce per le versioni tradizionali della teoria (Garegnani, 2013).

Il significato che Garegnani e altri hanno attribuito alla critica è del tutto generale: essa cioè mette in discussione l’intero edificio della teoria marginalista, in tutte le sue versioni, con importantissime implicazioni anche per la politica economica (Garegnani, 2007). Il vuoto così lasciato andava dunque colmato, e l’alternativa non poteva né essere opera di un singolo, né essere improvvisata, ma andava ricercata nella storia del pensiero economico, in impostazioni teoriche alternative, ma anche in quei contributi di carattere storico/empirico che non sono fondati su un impianto di tipo marginalista.

Per quanto riguarda le basi teoriche, oggetto principale, anche se non unico, della ricerca di Garegnani, come è noto, i riferimenti principali sono stati all’impostazione classica del sovrappiù e ai suoi sviluppi ad opera di Piero Sraffa da un lato, e al principio della domanda effettiva ed alla sua estensione alla analisi della crescita dall’altro.

2.2. L’approccio del sovrappiù

Sul piano della ricostruzione e sviluppo dell’impostazione classica, Garegnani ha dato un contributo al chiarimento del quadro teorico condiviso dagli economisti classici e delle sue differenze rispetto alla teoria marginalista (Garegnani, 1981, 1987, 1990a; Garegnani e Petri, 1982) che si colloca in continuità e coerenza con il contributo dato da Sraffa, non solo in Produzione di merci, ma anche nell’“Introduzione” ai Principi di Ricardo. In particolare, Garegnani ha insistito sulla differenza nelle grandezze prese come date al momento di determinare i prezzi tra l’approccio marginalista e quello classico. In quest’ultimo, non vengono prese come date le dotazioni iniziali dei “fattori produttivi” ma le quantità prodotte; viene inoltre presa come data una variabile distributiva e, questo in modo simile all’impostazione marginalista, le tecniche di produzione disponibili. Le stesse caratteristiche si ritrovano nelle equazioni di prezzo di Sraffa dove, date le quantità prodotte, le tecniche disponibili e una variabile distributiva, è possibile determinare simultaneamente i prezzi relativi “di lungo periodo” (cioè caratterizzati da un saggio del profitto uniforme) e l’altra variabile distributiva. L’ipotesi di quantità date ha spesso suscitato perplessità. Tuttavia, da un lato, si può notare come essa sia necessaria nel momento in cui i coefficienti tecnici di produzione devono essere noti, ma allo stesso tempo nessuna ipotesi del tutto generale può essere fatta circa l’eventuale esistenza di rendimenti di scala nei vari settori; in modo simile, nessuna ipotesi di carattere generale può essere fatta circa il rapporto tra i prezzi relativi di lungo periodo e le quantità domandate delle varie merci. Di conseguenza i coefficienti di produzione devono essere associati ad una data – nota – scala di produzione, a sua volta associata alle date quantità domandate e prodotte in corrispondenza dei prezzi normali (quella che Adam Smith chiamava “domanda effettuale” delle singole merci). I coefficienti di produzione che entrano nella determinazione dei prezzi relativi inoltre sono da intendersi come quelli associati all’utilizzo normale/programmato della capacità produttiva nelle diverse industrie. Dall’altro lato, la separazione tra l’analisi dei prezzi relativi e delle quantità prodotte è una caratteristica distintiva di tale approccio che ne favorisce la flessibilità, capacità di interpretazione dei fenomeni reali e di aderenza a questi ultimi.

Quanto al prendere come data una variabile distributiva, ciò veniva visto da Garegnani come una caratteristica distintiva fondamentale dell’approccio del sovrappiù, connessa all’idea che la distribuzione del reddito è determinata non da forze meccaniche, ma invece strettamente legata ai rapporti di forza e alle azioni intraprese dalle parti interessate per modificarla a proprio favore.

I Classici e Marx vedevano il salario reale come la variabile distributiva da prendere come data al momento di determinare i prezzi relativi e il saggio di profitto normale. Il salario reale veniva a sua volta visto come il risultato, da un lato, di norme sociali e abitudini di consumo storicamente sedimentate, che definivano il “minimo di sussistenza” cioè il valore minimo del salario socialmente accettabile e, dall’altro, dei rapporti di forza correnti tra le parti, determinati da circostanze economiche e istituzionali. Alcuni autori tuttavia hanno sostenuto, sulla scia di un suggerimento in tal senso di Sraffa (1960, p. 33), che nelle economie moderne sia il saggio di profitto la variabile che deve essere presa come data, determinata dal saggio di interesse fissato dalle banche centrali sulla base di un insieme di obiettivi e di vincoli. Tale saggio di interesse (che rappresenta la remunerazione pura del capitale) deve essere ottenuto anche sul valore del capitale investito produttivamente, oltre a una data remunerazione del rischio e della illiquidità del medesimo. Cambiamenti del saggio di interesse, dunque, indurrebbero variazioni nella stessa direzione del livello dei prezzi relativamente al salario nominale (Pivetti, 1991).

La mia interpretazione della posizione di Garegnani a tale riguardo è che essa fosse piuttosto cauta, e aperta a riconoscere che l’influenza sulla distribuzione dal lato dei salari o da quello del saggio di interesse potesse di volta in volta essere prevalente a seconda delle circostanze.

In Note su consumi, Garegnani riconosce che la concorrenza tenderebbe ad assicurare, su periodi di tempo sufficientemente lunghi, che il saggio di interesse e il saggio di profitto si muovano insieme, e che, se il saggio di interesse è una variabile ‘convenzionale’ in larga misura determinata dalle autorità monetarie, allora sarebbe in grado di determinare il saggio di profitto normale e il salario reale corrispondente. Tuttavia, scrive Garegnani: “Ciò non significa che si giunga così a negare di nuovo ogni capacità della contrattazione salariale di modificare i salari reali: la politica delle autorità monetarie non viene esercitata nel vuoto, e tra le considerazioni rilevanti alla sua formulazione avrà preminenza l’andamento dei prezzi e quindi, l’andamento dei salari monetari determinato dalla contrattazione salariale” (Garegnani, 1979c , p. 87).

Questa posizione piuttosto cauta è stata supportata anche dai contributi di Ciccone (1990b) e Stirati (2001) che mettono in rilievo come il saggio di profitto debba essere posto in relazione con il tasso di interesse reale, e dunque dipenda non solo dalla fissazione del tasso nominale da parte delle banche centrali, ma anche dalla dinamica di salari nominali e prezzi.

Nel complesso, credo che Garegnani abbia sempre ritenuto molto importante l’azione e la forza contrattuale dei lavoratori, influenzata, tra le altre cose, dal livello della disoccupazione – quest’ultima considerata come un elemento fondamentale nell’imporre disciplina ai lavoratori sia nel conflitto distributivo che più in generale nelle condizioni di lavoro (Cavalieri et al., 2004). Questa posizione è coerente anche con quanto Sraffa scriveva proprio a Garegnani, in una lettera privata, rispondendo a un quesito di quest’ultimo (che stava preparando una recensione a Produzione di Merci) sulla questione dell’influenza del saggio di interesse sul saggio di profitto:

Ma per la recensione è forse meglio non avventurarsi troppo su questo terreno: io non ho inteso dir niente di molto impegnativo, e in generale ho solo voluto metter fuori qualche segnale per evitare che si creda che il sistema viene presentato come “fondamenta” per una teoria delle offerte relative di capitale e di lavoro! È la negazione che mi sembra importante: quanto alla affermativa non ho nessuna intenzione di mettere avanti un’altra teoria meccanica che, in una forma o nell’altra, ribadisca l’idea che la distribuzione sia determinata da circostanze naturali, o tecniche, o magari accidentali {la precedente versione della lettera aggiunge: “o comunque estranee”} ma comunque tali da rendere futile qualsiasi azione, da una parte o dall’altra, per modificarla {la precedente versione della lettera aggiunge: (e qui, sia detto fra di noi, ho in mente anche alla Cambrid[ge] come l’ha battezzata Pasinetti la teoria che fa dipendere il saggio del profitto dal saggio di crescita)}. In conclusione direi che nella recensione è meglio non insistere troppo sull’obiter dictum del saggio monetario dell’interesse (lettera di Sraffa a Garegnani, 13.3.1962).

In relazione a quanto sopra, va inoltre ricordato il contributo di Garegnani alla critica della “equazione di Cambridge” cioè alla determinazione del saggio di profitto sulla base del tasso di crescita dell’economia, proposta sia da Kaldor (1956) che da Pasinetti (1962). L’obiezione centrale è che il saggio di profitto che appare nell’equazione, se il tasso di crescita è quello effettivo dell’economia, è il saggio di profitto realizzato, dipendente dal grado di utilizzo effettivo della capacità, che è diverso dal saggio di profitto normale (corrispondente a un grado di utilizzo normale/programmato del capitale) che appare nelle equazioni di prezzo di Sraffa. Mentre quest’ultimo è necessariamente in relazione inversa con il saggio di salario reale (dati i coefficienti tecnici di produzione), il primo può anche variare insieme, e nella stessa direzione, del salario reale (Ciccone, 1990a; Garegnani, 1992; Garegnani e Palumbo, 1998; Aspromourgos, 2013; per una rassegna di questi dibattiti sulle relazioni tra variabili distributive cfr. Stirati, 2018, sezioni 2-4).

Garegnani ha poi anche contribuito al dibattito sulla “gravitazione” dei prezzi di mercato (cioè i prezzi effettivamente osservati) verso i prezzi di lungo periodo, caratterizzati da un saggio di profitto uniforme su cui dirò più avanti (sezione 3).

2.3. Il principio della domanda effettiva

L’altro pilastro nella costruzione di un approccio alternativo secondo Garegnani sta nella piena legittimazione del principio della domanda effettiva come teoria dell’output e la sua estensione al lungo periodo.

La critica alla teoria neoclassica da un lato mina alle fondamenta la teoria del livello aggregato di produzione e occupazione come determinato da fattori da offerta e associato alla piena occupazione (anche quando riformulata in termini di tasso naturale o non inflazionistico di disoccupazione per tener conto delle “imperfezioni” del mercato). Dall’altro lato è anche in grado di liberare il principio della domanda effettiva di Keynes (visto come il principale contributo positivo e innovatore della Teoria Generale) dagli elementi tradizionali ancora presenti nell’analisi di Keynes stesso – e tra queste la funzione di domanda di investimento decrescente rispetto al saggio di interesse – che ne avevano favorito la reinterpretazione come teoria di breve periodo o teoria delle recessioni, valida sotto ipotesi di rigidità di salari nominali e prezzi oppure in condizioni di “aspettative” fortemente negative degli investitori, quali possono manifestarsi in situazioni di forte recessione: una interpretazione già affermatasi subito dopo la pubblicazione della Teoria Generale con la “sintesi neoclassica” e diventata dominante. In particolare, la critica alla teoria neoclassica del capitale consentiva di negare validità generale alla relazione decrescente tra tasso di interesse e investimenti aggregati e dunque di negare che variazioni del livello dei prezzi, o una politica monetaria appropriata da parte della banca centrale, potessero mantenere il sistema intorno a un equilibrio di pieno impiego. D’altro lato, la critica alle funzioni di domanda decrescenti dei “fattori produttivi” consentiva di separare l’analisi dell’occupazione da quella della distribuzione, nel senso specifico che aumenti dell’occupazione non dovevano necessariamente associarsi a riduzioni del salario reale. In questo quadro, variazioni del livello di domanda effettiva potevano avere effetti persistenti sul livello aggregato di produzione e sul grado di utilizzo degli impianti, senza che ciò potesse mettere in moto meccanismi di aggiustamento verso il pieno impiego e verso il pieno utilizzo degli impianti attraverso variazioni del saggio di interesse.

Quanto sopra a sua volta apriva la strada, secondo Garegnani, alla considerazione della endogeneità degli investimenti rispetto all’andamento della domanda aggregata. Infatti, un sottoutilizzo persistente del capitale fisico esistente avrebbe portato a una distruzione di capacità produttiva attraverso il mancato rinnovo (ammortamento) degli impianti, mentre viceversa un persistente elevato grado di utilizzo di questi ultimi – al di sopra di quello inizialmente programmato – avrebbe portato a investimenti netti positivi, volti ad ampliare la capacità produttiva esistente adeguandola al livello della domanda. Da qui la conclusione che l’aggiustamento della produzione aggregata alla domanda avvenisse, su periodi sufficientemente lunghi, attraverso variazioni dello stock di capitale fisico, e non solo del suo grado di utilizzo. Ciò ha come corollario la critica dell’ipotesi fatta da Keynes nella Teoria Generale che il capitale fisico esistente, se pienamente utilizzato, avrebbe consentito la piena occupazione del lavoro: se la dimensione aggregata della capacità produttiva in un certo periodo dipende dal sentiero di crescita della domanda nei periodi precedenti, allora nulla garantisce che essa sia in grado di assorbire, anche quando pienamente utilizzata, l’intera forza lavoro potenzialmente disponibile (Garegnani, 1983b).

Può a questo punto essere interessante ricordare, in particolare per i più giovani, il contesto storico e intellettuale che ha fatto da sfondo a questo interesse di Garegnani per il ruolo della domanda aggregata nei processi di accumulazione, anche perché esso appare ancora attuale, in particolare riguardo al tema dello sviluppo economico in paesi o regioni caratterizzate da problemi strutturali di carenza di capacità produttiva.

La riflessione di Garegnani nasce originariamente nell’ambito del dibattito degli anni 1950 e 1960 sulla politica economica appropriata a generare lo sviluppo delle regioni meridionali italiane, nelle quali c’era un problema evidente di insufficiente accumulazione di capitale. La posizione prevalente in quegli anni, sostenuta anche da altri economisti non neoclassici (ad esempio Napoleoni), e che ancora si ritrova molto spesso nella letteratura sui problemi dello sviluppo economico, era quella di una netta separazione tra il problema della disoccupazione dovuta a una insufficiente domanda, o disoccupazione “keynesiana”, e quello della disoccupazione “strutturale” dovuta a una insufficiente accumulazione di capitale. La prima, considerata caratteristica di economie mature, richiedeva uno stimolo di domanda volto ad assicurare il pieno utilizzo degli impianti. La seconda, tuttavia, richiedeva notevoli investimenti volti alla creazione di capacità produttiva. Dunque, veniva generalmente affermato, per poter realizzare la maggiore produzione di beni di investimento, era necessario, data la carenza di capitale, comprimere i consumi e quindi, a tal fine, i salari reali. La riflessione di Garegnani nasce come critica e alternativa a questa impostazione: da un lato, argomentando che i maggiori investimenti pubblici e privati dovessero essere “giustificati” da una crescita della domanda che consentisse l’utilizzo produttivo della capacità aggiuntiva; dall’altro, argomentando che la flessibilità del grado di utilizzo degli impianti rendeva possibile aumentare sia la produzione dei beni di investimento che quella dei beni di consumo, senza dover quindi comprimere i consumi e i salari, e che anzi la crescita di questi ultimi dovesse accompagnare un accrescimento della capacità produttiva in modo da sostenere la domanda (Garegnani, 2015).

 

3. Punti di convergenza e tensioni all’interno del campo postkeynesiano rispetto al contributo di Garegnani

Mentre alcuni punti importanti del contributo di Garegnani, in particolare la separazione tra la determinazione dei prezzi relativi normali e delle quantità prodotte delle singole merci, e il ruolo centrale della domanda effettiva nel determinare output e occupazione a livello aggregato, appaiono pilastri largamente condivisi da parte degli economisti postkeynesiani in senso lato, alcuni temi sono tuttora controversi. In quanto segue ne segnalerò due, che mi sembrano particolarmente rilevanti, e su cui sarebbe opportuno a mio parere che si sviluppasse un dibattito aperto e approfondito.

3.1 Investimenti e accumulazione

Il primo tema riguarda la determinazione degli investimenti aggregati. Tradizionalmente, gli economisti postkeynesiani hanno enfatizzato il ruolo di aspettative in larga misura “esogene” rispetto all’andamento effettivo dell’economia – gli “animal spirits” degli imprenditori – e dunque il loro ruolo di motore primario e autonomo sia della domanda effettiva che dell’accumulazione. Una visione simile, basata sul ruolo fondamentale delle innovazioni nel determinare gli investimenti, si può ritrovare negli economisti di ispirazione neoschumpeteriana. Altri economisti eterodossi sottolineano l’influenza del saggio di profitto (normale e/o realizzato) sugli investimenti. Garegnani, pur non respingendo completamente la possibilità di una componente autonoma dell’investimento aggregato trainata dall’innovazione tecnologica, ha sottolineato l’importanza della domanda effettiva sia nelle sue componenti autonome (spesa pubblica, esportazioni) sia nella componente dei consumi aggregati (Garegnani e Trezzini, 2010), sottolineando a questo riguardo l’importanza della distribuzione – in particolare il ruolo della redistribuzione a favore dei salari reali nel sostenere la domanda aggregata (Garegnani, 2015). Oggi, sia nel campo largo postkeynesiano, sia all’interno della moderna ripresa dell’approccio del sovrappiù in combinazione con il principio della domanda effettiva, sopravvivono al riguardo diverse prospettive: da un lato alcuni economisti ritengono che, quali che siano le motivazioni dell’investimento a livello della singola impresa, nell’aggregato gli investimenti debbano essere visti come interamente indotti dall’andamento della domanda aggregata, e in particolare dalla crescita delle sue componenti autonome, mentre variazioni della distribuzione, pur avendo effetti di livello, non modificano permanentemente il trend di crescita dell’economia. Altri invece continuano a ritenere importante, o prevalente, la componente autonoma degli investimenti come motore della crescita; altri ancora a vedere gli investimenti aggregati come strettamente determinati dal saggio di profitto. Nel complesso, tuttavia, sembra di poter dire che negli ultimi anni vi sia una certa convergenza su una visione della crescita come trainata dalla domanda, e perciò favorita da una redistribuzione del reddito verso i salari. Permangono tuttavia differenze su se e come “modellizzare” la crescita, e se sussista una tendenza di lungo periodo della capacità produttiva ad adeguarsi alla domanda aggregata, tale da generare una tendenza del sistema economico a convergere verso un grado di utilizzo normale/programmato della capacità produttiva determinato indipendentemente dal grado di utilizzo effettivo (cfr Cesaratto, 2015; Lavoie, 2016, per una discussione della letteratura).

3.2 Prezzi relativi di lungo periodo e uniformità del saggio di profitto

Un altro tema controverso è quello della convergenza dei prezzi relativi verso i prezzi normali di lungo periodo caratterizzati da uniformità del saggio di profitto sul valore del capitale anticipato nella produzione. A tale riguardo non è sempre facile comprendere quali siano esattamente le ragioni di divergenza. Forse semplificando, mi sembra che esse siano riconducibili ai seguenti aspetti tra loro collegati: il primo è l’importanza della concorrenza come forza economica fondamentale nelle economie di mercato, che costituisce quindi un elemento di disciplina e vincolo alla fissazione dei prezzi e dei profitti – e ciò anche nei settori o imprese in cui esistono barriere all’entrata che consentono dei margini di profitto più elevati, ma comunque entro limiti ben definiti. Il secondo riguarda i meccanismi attraverso cui i prezzi effettivi tenderebbero a “gravitare” verso, o intorno, ai prezzi normali. Tentativamente, potrebbe poi esservi un terzo elemento: una diffidenza in qualche misura preanalitica verso le analisi di lungo periodo, associata all’idea che è nel breve periodo che si afferma la validità della teoria keynesiana.

Prima di esaminare più da vicino queste difficoltà o diffidenze rispetto alla posizione di Garegnani (e di Sraffa) su tali temi, può essere utile considerare gli elementi comuni alla visione postkeynesiana prevalente circa la formazione dei prezzi relativi.

Benché vi siano diversi punti di vista circa la formazione dei prezzi, la visione prevalentemente condivisa tra gli economisti keynesiani è che i prezzi relativi normali riflettano i costi di produzione unitari in corrispondenza del grado di utilizzo normale degli impianti. In sostanza, dunque, non ci si deve preoccupare delle variazioni dei costi unitari legate alle fluttuazioni cicliche dei livelli di produzione (Lavoie, 2015, p. 167). Questo è un elemento di contatto, in quanto nelle equazioni di prezzo di lungo periodo i coefficienti tecnici devono essere intesi come quelli corrispondenti alla tecnica dominante e ad un grado normale di utilizzo. Se è così poi, il saggio di profitto che appare nelle equazioni e che concorre a formare il mark-up deve essere inteso come il saggio di profitto normale, indipendente, cioè, dalle fluttuazioni nel grado di utilizzo.

Nella formazione del prezzo in base al principio del “normal cost pricing”, o “cost-plus pricing”, ai costi unitari normali diretti si aggiunge un mark-up che copre i costi fissi unitari (sempre ‘normali’) e un margine di profitto per unità di prodotto che ovviamente riflette anche il rapporto tra valore del capitale impiegato e prodotto. Il punto, dunque, sembra essere cosa determina il saggio di profitto sul valore del capitale, e se esso possa essere diverso tra varie imprese e settori produttivi.

Con riguardo alla “determinazione” l’idea, sopra discussa, che il tasso di interesse possa rappresentare il riferimento per la fissazione del saggio di profitto e quindi del mark-up appare accettabile e accettata da molti economisti postkeynesiani, in quanto apparirebbe conciliabile con l’idea che le imprese fissino i prezzi avendo un tasso di profitto “obiettivo”, obiettivo che in questo caso sarebbe rappresentato dal tasso di interesse. Anche se vanno sottolineate alcune differenze analitiche importanti: ad esempio riguardo a se il tasso di interesse influisca sul prezzo solo in quanto costo effettivamente sostenuto dalle imprese e dipendente dai livelli effettivi di indebitamento (Hein e Shoder, 2011) o se debba essere visto come riferimento per il rendimento del capitale impiegato nella produzione, del tutto indipendentemente dal finanziamento, interno o a debito, di quest’ultimo (Pivetti, 1991).

Più in generale però il mark-up (e quindi il saggio di profitto sul capitale in esso implicito) dell’impresa o settore produttivo viene visto come fissato in base alle strategie di investimento, crescita, finanziamento delle imprese. Ciò appare in contrasto con il punto di vista dei classici e di Marx, ripreso da Sraffa e Garegnani, in quanto differenze persistenti e arbitrarie (cioè non riconducibili a barriere all’entrata, che definirebbero comunque un determinato livello praticabile di extra-profitti), in presenza di concorrenza, genererebbero entrata di imprese e/o concorrenza sul prezzo dei prodotti riconducendo verso l’uniformità dei saggi di profitto. La concorrenza viene vista cioè come una forza fondamentale nelle economie di mercato ed essenziale per comprenderne le dinamiche. Questa funzione della concorrenza sembra essere riconosciuta in alcuni ambiti, ad esempio quando si accetta l’idea di un unico prezzo per la stessa merce (Lavoie, 2015, p. 165) ma non come forza che tende a stabilire una uniformità dei saggi di profitto.

Inoltre, la nozione che le imprese possano “fissare il mark-up” secondo i propri obiettivi strategici pone problemi in relazione alle interdipendenze tra imprese e in relazione alla distribuzione del reddito. Riguardo a quest’ultimo aspetto, sembrerebbe logico ritenere che il “target” dell’impresa non possa che essere il massimo possibile saggio di profitto (obiettivo, peraltro, sollecitato dalla concorrenza tra le imprese) e cioè spingere il salario reale costantemente verso il minimo “di sussistenza” socialmente accettabile. Ma non è detto che le imprese possano sempre riuscire nel loro intento. In altri termini: l’idea che le imprese possano “autonomamente” fissare il mark-up implica che esse possano a livello aggregato anche determinare la distribuzione del reddito (il mark-up a livello aggregato è speculare alla quota di reddito che va ai salari). Ciò sembra suggerire una visione troppo meccanica della realtà, che trascura l’influenza delle “azioni intraprese dalle parti” e del conflitto distributivo. In realtà, quando dall’analisi della formazione dei prezzi si passa agli studi storico-empirici sulle cause dei cambiamenti nella distribuzione del reddito, gli economisti postkeynesiani ed eterodossi in generale adottano un punto di vista ampio, che riconduce tali cambiamenti, in ultima analisi, a modificazioni nei rapporti di forza tra le classi e non (o non unicamente) a condizioni che possono aver modificato i “target” di profitto delle imprese e il mark-up da queste caricato sui costi unitari: adottano cioè un punto di vista che è comune alla tradizione dei classici e di Marx ed era condiviso da Sraffa e Garegnani.

3.3. Gravitazione verso i prezzi normali

L’altro lato del problema è quello della nozione che i prezzi di mercato, cioè, in ambito classico, i prezzi effettivamente osservati sui mercati, tendano a “gravitare” verso i prezzi normali, come argomentato anche da Garegnani (1983b, 1990c, 1994).

Brevemente, possiamo riassumere, semplificando, il punto di vista dei classici: un cambiamento persistente nella composizione della domanda avrebbe generato un parallelo cambiamento nella composizione della produzione. Inizialmente, il cambiamento della composizione della domanda avrebbe causato una deviazione dei prezzi effettivi da quelli normali, e dunque della profittabilità da quella normale. Ciò a sua volta avrebbe incentivato lo spostamento degli investimenti verso i settori in cui la domanda era aumentata e in uscita da quelli in cui era diminuita, riportando in tal modo anche i prezzi relativi verso il loro valore normale. Non c’è nei classici nessuna idea che: a) i prezzi di mercato o effettivi siano “market clearing” b) le deviazioni dei prezzi di mercato da quelli normali inducano delle variazioni prevedibili per segno ed entità delle quantità domandate delle merci.

È stato tuttavia messo in dubbio che tale processo di aggiustamento e gravitazione intorno ai prezzi naturali fosse dimostrabile,3 e spesso i contributi inerenti la dimostrabilità del processo hanno fatto ipotesi sulle relazioni tra quantità domandate e prezzi relativi di sapore neoclassico e per la verità piuttosto lontane da quanto si ritrova negli economisti classici. Ci sono state tuttavia delle eccezioni, che hanno studiato la “gravitazione” con un approccio propriamente classico, tra cui il contributo di Garegnani (1990c, 1994; cfr. anche Bellino e Serrano, 2017).

Mi sembra però importante sottolineare che non è strettamente necessario assumere che l’aggiustamento della composizione della produzione a quello della domanda avvenga attraverso deviazioni dei prezzi relativi da quelli normali. Nulla vieta che l’aggiustamento avvenga direttamente attraverso l’aggiustamento delle quantità prodotte senza che avvengano cambiamenti (transitori) nei prezzi relativi. Personalmente, credo che sia ragionevole pensare che le modalità di aggiustamento, così come l’esistenza ed entità di deviazioni dei prezzi effettivi da quelli normali, possano variare a seconda delle caratteristiche del prodotto (se sia o meno di prima necessità, se sia possibile accumulare scorte), della struttura produttiva e del mercato, come del resto già discusso da Adam Smith; il punto fondamentale è che vi sia una tendenza verso l’aggiustamento delle quantità prodotte a quelle domandate.

Ovviamente c’è anche un’altra questione che si pone oggi, e che non poteva porsi negli economisti classici, che è la seguente: mentre appare del tutto ragionevole supporre che la composizione della produzione tenda ad aggiustarsi alla composizione della domanda, il principio della domanda effettiva, e cioè l’indipendenza a livello aggregato della domanda dalla capacità produttiva, ci fa ritenere che in ogni dato periodo il grado di utilizzo effettivo della capacità possa essere diverso da quello normale sia in aggregato sia nelle singole industrie e imprese. Tuttavia, la nozione di “gravitazione” verso i prezzi normali non richiede che un grado di utilizzo normale della capacità si realizzi effettivamente sull’intero stock di capitale esistente nei vari settori (Ciccone, 1986). Inoltre, la nozione di una flessibilità diffusa nel grado di utilizzo rende il processo di aggiustamento della composizione delle quantità prodotte più semplice: perché ciò può avvenire, in un primo momento, tramite variazioni del grado di utilizzo nei diversi settori, (accompagnati o meno da variazioni dei prezzi effettivi) e successivamente, in modo graduale, determinare un aggiustamento del capitale fisso nei vari settori (Ciccone, 1986, 2011).

Come accennato sopra, la diffidenza verso i prezzi normali di lungo periodo e l’uniformità dei saggi di profitto da parte di economisti Keynesiani potrebbe anche riflettere l’idea che la teoria Keynesiana (il principio della domanda effettiva) valga solo nel breve periodo – un’idea tuttavia fortemente legata alla reinterpretazione di Keynes da parte degli economisti mainstream, e in contrasto con l’estensione dell’analisi del ruolo della domanda nei processi di crescita. Un altro elemento di diffidenza potrebbe stare nel fatto che le analisi di lungo periodo apparirebbero in contrasto con la pervasività di fenomeni di “path-dependence” nell’economia. Tale dipendenza dalla storia, tuttavia, è fortemente presente anche nella visione proposta da Garegnani in relazione alla distribuzione del reddito e alla accumulazione. Ma in che forma potrebbero presentarsi fenomeni di path-dependence in relazione alla tendenza verso prezzi di lungo periodo? Certo, una modificazione significativa della quantità normale domandata e prodotta in un particolare settore potrebbe dar luogo, ad esempio, a rendimenti di scala, e quindi modificazioni dei dati (i coefficienti tecnici di produzione) che sottostanno ai prezzi relativi. Tuttavia, nessuna generalizzazione teorica è possibile circa l’esistenza e la forma di tali fenomeni in diversi settori, stadi dell’accumulazione e conoscenze tecniche, né d’altra parte l’eventuale presenza di tali fenomeni metterebbe di per sé in discussione la tendenza verso un aggiustamento della composizione della produzione verso quella della domanda, e quindi dei prezzi effettivi verso i prezzi relativi normali, eventualmente modificati dal cambiamento avvenuto nei coefficienti, come del resto si ritrova anche nei testi degli economisti classici.

In conclusione, mi auguro che queste note possano stimolare, tra i più giovani, la lettura dei principali contributi di Garegnani e tra gli studiosi occasioni di confronto e dibattito scientifico proficuo sulle questioni ancora controverse.


* Ringrazio Roberto Ciccone per i suoi commenti ad una precedente stesura, mentre rimane solo mia la responsabilità di eventuali errori e mancanze.

Dipartimento di Economia, Università Roma Tre, email:This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it.

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Note
1 Largamente corrispondente alla versione inglese (Garegnani, 1978, 1979a e 1979b).
2 Largamente corrispondente alla versione inglese (Garegnani, 1984).
3 Cfr. tuttavia Petri (2011), secondo cui la tendenza all’uniformità dei saggi di profitto è un fatto, che in quanto tale non richiede dimostrazione.

Da Moneta e Credito, 75 (299): pp. 251-265.

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