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Prabhat Patnaik, “Capitale monopolistico, allora ed ora”

di Alessandro Visalli

mb w p2014a002 resterai poli tela 70x100cmSulla Monthly Review del luglio 2016, l’economista indiano Prabhat Patnaik pubblica una interessante recensione[1] del classicissimo saggio di Paul Baran e Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico[2], del 1966. Un libro, come ricorda, che ebbe una enorme influenza sulla sua generazione (anche se lui stava studiando economia a Nuova Delhi) che cercava di comprendere il funzionamento del “sistema” da contestare. L’aspetto strettamente economico, sul quale si concentra l’autore, era che il testo, come i precedenti dei due autori[3], superava a sottovalutazione nella tradizione marxista del problema posto dalla domanda aggregata, e quindi della circolazione. In un certo senso incorporava, come aveva fatto già Kaleki[4], le intuizioni di Keynes al riguardo in una struttura marxista di analisi. Il superamento della Legge di Say, che implica necessariamente l’emergere della domanda come un problema (anziché come una variabile dipendente dell’offerta), era stato posto dallo stesso Marx, ma successivamente disinnescato dalla sua convinzione che le crisi debbano scaturire dall’interno del “laboratorio interno” del capitalismo, ovvero dai rapporti di produzione. A porre la questione della sovrapproduzione generale e permanente, e quindi dell’importanza e centralità della sfera della “riproduzione”, ovvero della “circolazione”, erano stati già la Luxemburg[5] e Bucharin[6], ma relegati ai margini della corrente principale del marxismo che Losurdo chiamerà “occidentale”[7]. Inoltre, c’era una carenza di analisi sull’equilibrio ed i passaggi tra questi in condizioni di carenza di domanda aggregata (cosa che porterebbe verso una concettualizzazione del “moltiplicatore” alla Keynes o alla Kaleki).

La mera identificazione di una tendenza alla “sovrapproduzione”, anche se come illustra Sweezy nel 1942 il complesso delle teorie della crisi abbozzate o implicite nell’analisi marxiana avrebbe avuto la potenzialità di completare l’analisi ben prima di Keynes, è insufficiente a mostrare come si passa dai diversi stadi e come si comporterebbe il sistema complessivo.

Secondo Patnaik la funzione della tradizione messa in forma da Baran e Sweezy (e poi proseguita nei Monthly Review ed i suoi autori) era di connettere il punto di vista marxista con i dibattiti su moltiplicatore, spesa pubblica e stabilizzazione in corso in quegli anni. Vi posero rimedio Kaleki, Stendl, Lange, Baran e Sweezy, mostrando al contempo che la “medicina keynesiana” sarebbe stata nel lungo periodo insufficiente a risolvere e stabilizzare le contraddizioni del sistema.

Per come lo legge Patnaik “Il capitale monopolista” era fondato su due affermazioni teoriche di base:

- Esiste nel capitalismo monopolista una tendenza a far crescere i salari reali (al netto della inflazione) meno della produttività del lavoro e quindi a far crescere nel tempo la quota di “surplus” di produzione[8];

- Il consumo e gli investimenti dei capitalisti (che assorbono una parte di questo “surplus”) tendono a crescere ad un tasso inferiore sia alla produzione sia al surplus stesso (che sono connessi).

La conseguenza di queste due tendenze sono che, a parità di altre condizioni (ovvero, in assenza di compensazioni), il “surplus produttivo” non riesce ad essere realizzato nel tempo, quindi, dato che si produce solo quel che si può realizzare[9] c’è una tendenza ex ante al declino del grado di utilizzo delle capacità potenziali. Tale tendenza si traduce in una tendenza non al crollo, ma alla stagnazione[10].

Questa tendenza non è visibile negli anni in cui il libro è scritto (mentre si vede bene oggi) perché è aumentato sia il sistema della pubblicità sia, e soprattutto, la spesa pubblica (in particolare militare). Due controtendenze, dunque: una endogena e propria dell’ambiente oligopolistico nel quale si trova il capitalismo (che tende all’espansione, interna ed esterna, del mercato più che alla ‘guerra dei prezzi’) ed una esogena perché frutto di decisione politica e non economica, centrale e non distribuita.

Se questa è la tesi manca, tuttavia, una teoria della relazione “surplus”-salari, anche se è evidente che il monte-salari della parte “produttiva”[11] diminuisce rispetto al prodotto da essi erogato, in quanto la riduzione dei costi non si scarica sui prezzi, ma in “surplus” e quindi profitti, per effetto della disattivazione della concorrenza operata dall’assetto monopolistico. Quindi la tendenza alla crescita del monopolio, come affermava anche Kaleki, va insieme a quella del profitto unitario.

Tuttavia qui c’è una distinzione da fare.

Abbiamo scritto che la tendenza alla crescita del “surplus produttivo” è determinata dal disaccoppiamento tra produttività e costi di riproduzione. Questi sono schematicamente rappresentati dai salari dei lavoratori (inclusivi di quel che serve, dato l’ambiente e la convenzione locale, alla riproduzione degli stessi) e dalle materie prime ed energetiche necessarie alla produzione (più gli ammortamenti). Dunque, l’equazione di Baran e Sweezy è soddisfatta sia se sono i salari a stagnare sia se, ed è questione di rapporti di forza, a stagnare non sono questi ma gli altri input.

Guardando la cosa nella prospettiva del sistema-mondo questa “soluzione” (ovvero l’imperialismo) che scarica sul costo delle materie prime la ricerca di “surplus” lascia invariata la tendenza alla stagnazione, in quanto fa mancare domanda aggregata alla scala mondiale. Anche questa tendenza è diventata visibile una ventina di anni dopo il libro. Nei termini di Patnaik, “perché uno spostamento dai produttori di materie prime, che includono numerosi contadini e piccoli produttori, ai capitalisti, abbasserebbe ancora il livello della domanda aggregata a causa della maggiore propensione marginale a consumare (per usare un termine keynesiano) dell'ex gruppo”.

Se la prima affermazione è stata abbastanza accettata, la seconda, che il consumo e gli investimenti dei capitalisti sarebbe cresciuta ad un tasso inferiore sia alla produzione sia al surplus stesso, pone problemi in particolare con la qualificazione dell’innovazione. Essa è endogena o esogena? Se spesa statale e invasione di altri mercati sono un buon esempio di allargamento di investimenti e consumi esogeni, l’innovazione costante non basterebbe a reintegrare gli investimenti al livello necessario per sostenere la domanda e quindi la riproduzione? Baran e Sweezy seguono la linea proposta da Joan Robinson[12], Josef Steindl[13] e Paolo Sylos Labini[14] nel dire che nelle condizioni del capitalismo monopolistico le normali innovazioni non sono uno stimolo esogeno adeguato perché la caccia al mercato reciproco è inibita. Dunque, le innovazioni normalmente sono tenute a freno. Con le sue parole: “anche coloro che hanno accesso al nuovo processo non intraprenderebbero alcun investimento aggiuntivo al di là di ciò che la crescita anticipata del proprio mercato avrebbe giustificato, vale a dire ciò che solo lo stimolo endogeno avrebbe dettato. Ciò che gli oligopolisti che hanno accesso a un nuovo processo faranno sarà di quindi incorporare questo nuovo processo nell'investimento che stavano pianificando di fare comunque.” E’ frequente l’osservazione degli acquisti da parte di monopolisti o oligopolisti di nuovi brevetti, aziende innovative o start-up, al solo scopo di tenerle “in panchina”.

Quindi: “Ciò che ciò significava dal punto di vista macroeconomico era che l'effetto dello stimolo esogeno ‘spontaneo’ sugli investimenti, lungi dall'essere maggiore sotto il capitalismo monopolistico di prima e rendendo così possibile compensare le conseguenze stagnazioniste di un aumento della quota del surplus, era in realtà meno. Anche se la quota del surplus stava aumentando, l'effetto dello stimolo esogeno nel generare investimenti stava calando sotto il capitalismo monopolistico, aggravando così la tendenza stagnazionista.”

L’unico caso di stimolo realmente esogeno derivante dagli investimenti è quello delle innovazioni “epocali”. Anche se, ovviamente, non è senza limiti di fronte ad una massiva e persistente carenza di domanda (è il caso dell’innovazione delle automobili durante la grande depressione degli anni trenta).

Dunque, ricapitolando, il capitalismo nella fase monopolista tende alla stagnazione (“secolare”, secondo alcuni[15]) e viene tenuto sotto controllo solo da spinte esogene delle quali le principali sono politiche, ovvero la spesa pubblica, in particolare militare o connessa con la gestione “imperiale”. Siamo, non a caso, negli anni dell’escalation in Vietnam. Ma così facendo raggiunge una sua stabilità di fatto.

Il problema, sostiene Patnaik, è che con questa diagnosi di stabilità, sia pure ottenuta esogenamente, la critica si sposta sul piano morale e tutto l’impegno si sposta nelle regioni “periferiche”, dalle quali può essere ancora sfidato. Ovvero: “Spostando la critica del capitalismo da un piano economico a un piano morale, Monopoly Capital ha anche spostato la posizione della sfida all'egemonia del capitalismo alla periferia”.

Rispetto all’analisi di dieci anni prima, avanzata da Baran, viene perso di vista il fatto che la compensazione del sottoinvestimento e sottoconsumo tramite spese volontarie militari e pubbliche potrebbe creare un eccesso di liquidità che è sempre a rischio di tradursi in inflazione. Questa tesi era presente in “Il surplus economico”, ma si perde in “Il capitale monopolistico”. Certo, la posizione di Baran era stata attaccata da Joan Robinson, che vi aveva visto un residuo “monetarista”, ma Patnaki sottolinea che c’era una differenza: l’idea era di tipo patrimoniale, non monetaria. Baran “stava parlando di un aumento della ricchezza privata, sotto forma di rivendicazioni nei confronti del governo, che potrebbero cambiare forma ed essere trattenute come merci (o rivendicazioni su materie prime) su suggerimento di un'inflazione, e quindi esacerbare qualsiasi episodio inflazionistico che potrebbe sorgere”.

Negli anni immediatamente successivi, però, qualcosa di rilevante si è verificato. L’espansione di spesa all’estero aveva esacerbato il deficit di partire correnti, insieme a quello fiscale, e l’espansione monetaria resasi necessaria (quindi la spesa aggiuntiva, rispetto a quella fiscale che poteva soggiacere al “moltiplicatore del bilancio in pareggio”) ottenne tre conseguenze:

1- La crescita del mercato degli eurodollari e la liberazione della finanza speculativa dai limiti di Bretton Woods,

2- La materializzazione del circuito dell’inflazione temuto nel 1957 da Baran,

3- Il crollo della parità dollaro-oro, proprio a causa della perdita di fiducia in questo.

Insomma, il sistema non era stabile e non aveva sotto controllo le sue contraddizioni.

Lo stesso Sweezy, con i suoi coautori Magdoff e Huberman, sul Monthly Review, negli anni successivi descriverà le fasi di questa crisi e l’insorgere di quella che chiamiamo “finanziarizzazione”.

Insomma: “La forza di Monopoly Capital risiedeva nella sua incorporazione delle intuizioni della rivoluzione keynesiana in una comprensione marxista. La sua debolezza stava nel fatto che non andava oltre. Non prevedeva un'era post-keynesiana, ma si limitava a fornire una forte, sebbene essenzialmente morale, critica del modo in cui il keynesismo era attuato”.

La cosa curiosa è che il libro è invece particolarmente specifico ora che siamo nell’era post-keynesiana (in realtà siamo alla sua fine). Le cose rilevanti sono che con il capitale reso globalmente mobile ed il mondo meno segmentato, i lavoratori nei paesi avanzati sono presi nella concorrenza con i lavoratori meno pagati del terzo mondo. La divaricazione tra produttività e salari è ormai, e da tempo, del tutto evidente (in realtà lo è dalla metà degli anni settanta). Ma questa divaricazione è un fatto mondiale, anche se in alcuni paesi del terzo mondo è meno visibile. Ovvero, “il vettore dei salari mondiali non aumenta, nello stesso modo del vettore delle produttività mondiali del lavoro, dando origine al fenomeno di una quota crescente di eccedenze nella produzione mondiale”. La cosa è registrata dal costante incremento dell’ineguaglianza e della ricchezza accumulata da élite sempre più ristrette.

Inoltre, ormai non si possono più neppure attivare spinte esogene sotto forma di interventi statali volontari, in quanto i deficit fiscali sarebbero subito puniti dalla fuga dei capitali. L‘unico paese relativamente capace, per la posizione del dollaro, di finanziare la spesa senza rischiare eccessivamente l’opinione dei mercati, gli Stati Uniti non lo farebbero perché in condizioni di deficit commerciale la spesa favorirebbe i paesi esteri e competitori. Ciò a meno di reintegrare il protezionismo.

Questa ultima osservazione di Patnaik, a luglio 2016, sarà immediatamente lo spazio di manovra della nuova amministrazione Trump, eletta di lì a pochi mesi.

Se si escludono il governo mondiale o la possibilità di riattivare le controtendenze “esogene” politiche dei diversi stati attraverso l’eliminazione della circolazione dei capitali e delle merci, limiti alla circolazione dei lavoratori, restano solo le “bolle”, che, però, durano solo fino a che non collassano inevitabilmente. Dicendolo in modo più esteso nella soluzione che si trova per strada, attraverso la crisi aperta negli anni settanta e richiusa negli ottanta, il “suplus produttivo” che si continuava ad espandere a causa dell’assetto monopolista del capitalismo mondiale è stato riciclato nel crescente settore finanziario ed in parte in un nuovo ceti di intermediari di vario genere (professional, manager, manipolatori di simboli e di spettacoli, …). L’accumulazione originaria è stata alimentata dalla rottura della parità, dai petrodollari ed eurodollari, nel contesto della deregolazione, e ha progressivamente creato una forma di capitalismo interamente concentrato sulla generazione parossistica di surplus e sulla sua intermediazione con appropriazione. La divisione del lavoro a scala mondiale vede ora la base produttiva sparpagliata in tutte le aree di minore resistenza, nelle quali può essere estratto il surplus con il minimo di attrito, con relativo disinteresse al problema del realizzo, in quanto la domanda è fluida e mondiale (ma tende comunque ad essere scarsa) e in quanto il meccanismo di creazione delle bolle e gli “schemi ponzi” possono appianare le asperità, almeno temporaneamente, e creare domanda senza base produttiva. L’espansione del debito surroga la chiusura stabile del ciclo keynesiano appoggiandosi su “cicli Minsky” sempre più ampi e quindi sempre più veloci ed instabili[16]. La circolazione del valore muove dalla produzione, decentrata, divisa in catene di approvvigionamento e montaggio sempre più lunghe ed intrecciate, quindi sempre più fragili e costose da proteggere, e dal suo rimontaggio, amplificazione e ricircolo nel sistema mondiale ed interconnesso di intermediazione finanziaria. Un sistema interamente fondato sulla liquidità apparente.

Insomma, vicolo cieco.


Note
[1] - Prabhat Patnaik, “Monopoly Capital then and now”, Monthly Review, vol. 68, numero 03, 01 lug 2016. Nello stesso numero un intervento di Samir Amin su “Reading Capital, Reading Historical Capitalisms”, ed altri interventi di John Bellamy Foster, Jan Toporowsky, Costas Lapavitsas, mary Wrenn, Kent Klitgaard, Michael Meeropol.
[2] - Paul Baran, Paul Sweezy, “Il capitale monopolistico”, 1966
[3] - Per Paul Baran, “Il ‘surplus’ economico”, 1957, per Paul Sweezy, “La teoria dello sviluppo capitalista”, 1942.
[4] - In particolare, Michal Kaleki, “Aspetti politici del pieno impiego”, 1943
[5] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, PGreco 2012,
[6] - Nikolai Bukharin, "L'imperialismo e l'accumulazione del capitale", ed or. Laterza 1973.
[7] - Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”, Laterza, 2017
[8] - Per questa nozione si veda il testo di Baran del 1957, in sostanza ciò che resta dopo che sono stati reintegrati i costi di produzione, lavoro e materie prime.
[9] - Se l’esperienza passata mi dice che non riesco a vendere ed i magazzini si stanno riempiendo fermo la produzione.
[10] - Si vedano le conclusioni di Sweezy nel testo del 1942.
[11] - Per questa distinzione il testo di Baran del 1957.
[12] - Joan Robinson, “The Accumulation of Capital”, Palgrave Macmillan, 2013
[13] - Josef Steindl, “Maturità e stagnazione nel capitalismo americano” Monthly Review Press, 1976
[14] - Paolo Sylos Labini, “Oligopolio e progresso tecnico”, Einaudi, 1964.
[15] - Si veda la discussione di qualche anno fa tra Krugman, Summers, Rogoff ed altri.
[16] - Si veda Hyman Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, 1975.

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