Il Coronavirus e il crollo della modernizzazione
di cybergodz
Proponiamo qui un testo proveniente dall’ambiente intellettuale tedesco che ruota intorno alla “Critica del valore”.1 Gli estensori, Roswitha Scholz e Herbert Böttcher, appartengono più precisamente all’area che ha come punto di riferimento la rivista Exit e il sito www.exit-online.org.
La Critica del valore si basa sulla tesi per la quale il capitalismo, che è essenzialmente valorizzazione di valore, è giunto al suo limite estremo, oltre il quale non può più andare. Questo a causa soprattutto della competizione capitalistica, la quale ha traghettato il mondo verso quella che è stata definita “terza rivoluzione industriale”, caratterizzata da una produttività a trazione iper-tecnologica e microelettronica.
Le nuove esigenze di questa esasperata produttività capitalistica richiedono una forte razionalizzazione dei costi, quindi l’espulsione di massa di “forza-lavoro” (come definisce l’economia capitalistica coloro che lavorano) dalla produzione, ma anche degli esseri umani in generale se non dal consorzio umano tout court, sicuramente dalla vita sociale e dai suoi benefici – quando ci sono. La onnipervasiva capacità produttiva, incredibilmente elevata, di merci a costi estremamente contenuti satura i mercati esistenti, che non sono più in grado di assorbire in modo redditizio le merci prodotte, e impedisce che se ne aprano di nuovi, ancora rispetto alla redditività necessaria. Al tempo stesso mina la “domanda” (sempre per usare questa odiosa terminologia commerciale) in quanto impoverisce il potere d’acquisto della potenziale platea di consumo, a causa proprio – come già sottolineato – della sua espulsione dal “contesto produttivo”, inteso anche in senso lato. Tutto questo genera, secondo la Critica del valore, una crisi senza ritorno.
Ovviamente un tale stato di cose non può indurre la bestia capitalistica ad una inversione di marcia, o a ripensare i propri presupposti. Piuttosto, rappresenta per essa ancora una volta un limite da valicare (questa volta però invalicabile, che è proprio ciò che rende questa crisi particolarmente pericolosa e instabile). Niente può né deve ostacolare la folle corsa capitalistica verso il nulla, né oziose argomentazioni di tipo ecologico o peggio ancora morale, tantomeno la più cruda realtà tangibile dell’ingolfamento di capitali che non trovano modo di essere valorizzati (se non in campo finanziario, cosa che però non rappresenta una soluzione dal punto di vista capitalistico, ma un segnale decisamente inquietante dell’aggravarsi della crisi stessa, in quanto ha come risultato finale il rigonfiamento di enormi bolle finanziarie che non possono tenere in eterno e che produrranno disastri devastanti al momento del loro scoppio, come è avvenuto per esempio nel 2008 con la crisi dei subprime).
La crisi del corona virus detto COVID-19 si inserisce in questo contesto, sottolineando lo stato di crisi soprattutto dal punto di vista ecologico. Il capitalismo in crisi, “bestia impazzita”, assolutamente indifferente alle condizioni della natura come degli umani (e non può essere diversamente, altrimenti non sarebbe capitalismo, cioè – ripetiamo – sistema sociale che ha come UNICO scopo la valorizzazione del capitale, quindi di se stesso, come il concetto marxiano di “soggetto automatico” ben evidenzia), non può che causare disastri immani. Il COVID-19 ne rappresenta l’emergenza attuale dal punto di vista ambientale, molti altri fenomeni degli ultimi anni (le varie guerre, la povertà sempre più diffusa, l’abbattimento a tappeto di garanzie sociali minime, il razzismo e il sessismo dilaganti, i sovranismi etc.) ne rappresentano altri aspetti, ma tutti riconducibili a quell’unica “causa”, cioè il sistema del capitale e il suo meccanismo di funzionamento.2
Il testo di Roswitha e Herbert cerca di sottolineare nuovamente quanto detto sopra, focalizzando l’attenzione su specifici aspetti, quali i danni delle privatizzazioni neoliberiste, il ruolo delle donne nella crisi, la necessità sempre più stringente per il capitalismo in crisi di disciplinare le masse, il ritorno dello Stato (sociale). Proprio su quest’ultimo punto vale forse la pena soffermarsi un attimo.
Lo Stato sociale, sostengono i due autori – ma non solo loro in questa occasione, per dire la verità – è tornato di gran moda. Osteggiato e sbeffeggiato dalla corrente neoliberista, adesso tutti tornano a bussare alla sua porta e, come figliol prodighi dopo aver sperperato tutto il patrimonio, a chiedere di nuovo soccorso. Questo almeno quello che appare, e che farebbe credere che lo Stato sociale possa ancora una volta salvare la pelle al sistema. Ma le cose non sono così semplici, purtroppo (perché piacerebbe a tutti avere un buon padre di famiglia che, al momento opportuno, riprenda in mano le redini e conduca verso qualche approdo sicuro). Lo Stato sociale, in realtà, non è qualcosa di diverso dal sistema che lo ha generato. Il Welfare, o Etat providence o keynesismo o definito in uno dei tanti modi in cui le varie lingue e culture lo chiamano, nasce come importante stampella per il buon funzionamento del capitalismo. Foucault, nei suoi studi soprattutto al Collège de France,3 sottolinea con dovizia di particolari questo passaggio, da un certo punto in poi indispensabile all’espansione capitalistica. Lo Stato sociale, oltre a sostenere il sistema, ne ha però anche bisogno perché attinge le proprie risorse proprio dal sistema stesso. Diventa quindi un circolo vizioso quando il sistema chiede aiuto allo Stato sociale perché non è più in grado di reggere né economicamente né socialmente, e lo Stato non sa come fare perché, per aiutare il sistema, dovrebbe attingere risorse proprio da quel sistema che sta crollando e non ne ha più da offrire. È un cane che si morde la coda, l’ennesimo problema senza soluzione. L’invocato Stato sociale dunque non può salvare più nessuno, perché non ha più alcuna redditività capitalistica dietro a sostenerlo. Esso, così come lo Stato tout court, non può essere la soluzione al problema (non lo è mai stato), ma adesso neanche più un palliativo. La soluzione va cercata altrove, tenendo certo presente che non può essere demandata ad una sorta di invocazione alla “natura umana” che di per sé genererebbe un sistema sociale alternativo. Sarebbe giunto il momento, invece, di pensare ad una organizzazione sociale per una volta “cosciente”, capace anche di pianificazione sensata, fondata su principi radicalmente diversi dalla “valorizzazione del capitale”.4 Ma a questo proposito, il percorso è ancora lungo e tortuoso. Buona lettura.
ps: per questa traduzione abbiamo privilegiato un approccio di “senso”, abbiamo cioè provato a riportare in un italiano più comprensibile possibile i concetti espressi nell’originale tedesco. Per una versione più “letterale” consultare:
https://francosenia.blogspot.com/2020/04/la-miccia.html.
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Il Coronavirus e il crollo della modernizzazione
di Roswitha Scholz e Herbert Böttcher
Il Coronavirus è il fattore scatenante, non la causa dell’inasprimento della crisi. Potrà solo accelerare il crollo del capitalismo. Rispetto alla crisi del 2007/8, che ha colpito soprattutto le banche “sistemiche”, adesso anche l’economia reale ha bisogno di miliardi di euro di aiuti. Ancora una volta viene chiamato in soccorso lo Stato (sociale), che durante il trionfo del neoliberismo era stato screditato come “divano sociale” e palla al piede per la competitività. Quel capitalismo nazionale, a caccia di investitori, e “a trazione finanziaria”, che era stato presentato come modello di successo, non era altro che una strategia per dilazionare la crisi del capitalismo. Non è quindi un caso che ci si trovi a fronteggiare il Coronavirus con un sistema sanitario parzialmente privatizzato e al risparmio, e nelle regioni di crisi spesso nel completo collasso delle strutture statali e di mercato.
Già dai primi esperimenti neoliberali degli anni Settanta, che Augusto Pinochet – sostenuto dai Chicago Boys che ruotavano intorno a Milton Friedman – aveva condotto in Cile sotto una dittatura militare omicida, gli osservatori più attenti avevano notato come la parola d’ordine fosse “lo Stato sociale schiavizza, lo Stato di polizia rende liberi”. Di fatto, la storia successiva del neoliberismo è legata all’intensificarsi della repressione, soprattutto contro persone divenute superflue dal punto di vista dello sfruttamento capitalistico: disoccupati, precari, rifugiati, malati, anziani non redditizi. L’esclusione e la repressione non sono semplicemente prodotti del capitalismo neoliberale, ma sono espressione della stretta connessione tra capitalismo e democrazia, tra liberalismo e repressione; la stessa che è alla base dello “stato di emergenza”. Negli ultimi decenni, lo “stato di emergenza” è diventato sempre più lo “stato normale”, soprattutto per i rifugiati. Sotto la pressione della crisi del Coronavirus ci sono già state deportazioni forzate collettive dalla Grecia verso la Turchia. C’è da temere che la repressione dello Stato già nota si intensifichi con questa crisi – insieme ad una crescente ferocia della polizia e della magistratura (corruzione, legami mafiosi etc.)
Come già nel 2015 a proposito della cosiddetta “cultura dell’accoglienza”, anche questa volta non ci si può fidare dei vari proclami di solidarietà. Nessun politico ha mai seriamente pensato di migliorare le “risorse” dei senzatetto e dei mendicanti durante questa crisi. Le loro possibilità di sopravvivere grazie alle donazioni dei passanti o raccogliendo viveri qua e là sono molto limitate. Né è stata dimostrata alcuna solidarietà politica a sostegno di coloro che dipendono da Hartz IV5 e dall’assistenza di base in età avanzata, o che si trovano ad affrontare un peggioramento della condizione alimentare dovuto all’accaparramento di prodotti a basso costo, tale da causare il crollo delle mense per i poveri. La solidarietà politica si estende, nella migliore delle ipotesi, a coloro che sono utilizzabili e “sistemicamente rilevanti” e, al massimo, agli anziani che devono trascorrere il loro meritato riposo dopo una vita di lavoro.
In questa situazione sono in particolare le donne ad essere richieste come “ultimo bastione” contro la crisi. In questo ruolo stanno ricevendo, in questo momento, molti apprezzamenti. Va ricordato, però, che questo riconoscimento arriva in un momento in cui il patriarcato capitalista si sta disintegrando. Per questo motivo le donne sono ora coloro più sotto pressione nella lotta per la sopravvivenza. La loro importanza e la loro funzione dovrebbero quindi essere considerate all’interno di questo contesto, piuttosto che per richiedere semplicemente la riqualificazione del lavoro delle donne e una remunerazione adeguata. Sarebbe importante considerare ora il processo di crisi strutturale in corso nel suo insieme come punto di partenza per l’analisi, anche per una riflessione su come intervenire.
Nel frattempo, si ergono sempre più numerose le voci che chiedono il diritto a libertà “liberali” e che al tempo stesso sottolineano la necessità di preparare un ritorno alla normalità nell’interesse dell’economia. A questo scopo, sono disposte anche a sacrificare le persone nella follia social-darwiniana. In particolar modo sono gli anziani coloro che si vedono negare il diritto alla vita.6 Non sorprende che anche i cosiddetti “business ethicists”, come Dominik H. Enste sul Tagesspiegel del 24 marzo scorso, abbiano tanta voce in capitolo. La logica utilitaristica segnala come la salute non debba rappresentare un costo eccessivo. Il riferimento esemplare sono gli inglesi, i quali hanno “definito chiaramente quanto può costare il prolungamento di una vita: 30.000 sterline, con eccezioni fino a 70.000 o 80.000 sterline”. Non ci vuole molta fantasia per immaginare come le richieste di attenzione per il fattore “costo umani” continueranno ad aumentare in futuro.
Tutto deve essere pronto per il momento cui sarà possibile rilanciare la presunta normalità del capitalismo e con essa l’economia. C’è da temere che ciò conduca a ulteriori restrizioni e sconvolgimenti sociali, che potrebbero anche portare a disordini e saccheggi, come sta già accadendo in Sicilia. Per far fronte a questo, la polizia e i militari sono già allertati per fronteggiare lo “stato di emergenza”. Per il loro impiego, per esempio, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha già pronto un piano per poter trattenere le persone a tempo indeterminato senza processo.7 Praticamente l’estensione di Guantanamo a tutta la società. Le attuali polemiche in Germania mostrano la tendenza a far sì che vi sia un allentamento dello “stato di emergenza” sociale generale in favore di uno “stato di emergenza” per anziani e gruppi a rischio, ovvero in favore del loro isolamento.
All’isolamento e ad ulteriori ondate di impoverimento, repressione e imbarbarimento sono esposti soprattutto coloro che sono stati trasformati in “Io SpA”,8 orientati verso la competitività nel contesto dell’individualizzazione. Soprattutto gli appartenenti alla classe media sono combattuti tra lo stress, che è quasi diventato uno status symbol, e gli imperativi di relax provenienti dall’industria della scoperta di sé, in cui il “rilassamento” diventa una top-performance, senza per questo essere veramente salutare. Le conseguenze socio-psicologiche dell’isolamento si stanno già manifestando sotto forma di depressione e di escalation della violenza, soprattutto contro le donne, in situazioni in cui le persone vengono respinte in se stesse e nell’ambiente immediatamente circostante. Meno si intravede il ritorno alla normalità abituale e tanto più si diffondono l’impoverimento e il declino sociale, più il soggetto della competizione orientata alla “lotta di tutti contro tutti” minaccia di condurre ad una guerra sociale darwiniana che non tiene neanche conto delle perdite.
Ciò che Robert Kurz ha descritto in molti dei suoi libri, e quello che sappiamo soprattutto dalle regioni globali in decomposizione, con ogni probabilità lo sperimenteremo ora anche noi in modo veramente sensibile. Sia i movimenti sociali che la sinistra ignorano completamente o non prendono sul serio le teorie della crisi e del crollo, così come la critica del valore e della dissociazione sessuale. Circolano invece dubbie fantasie cospirative come quelle di Dirk Müller (“Mr. Dax”)9 e analisi del crollo come quelle di Friedrich/Weik,10 i quali dopo il “più grande crash di tutti i tempi” si stanno ora adoperando per un capitalismo nuovo e perfezionato. La sinistra si getta in un iper-social-democraticismo con parole d’ordine come Green New Deal, redistribuzione, espropriazione, etc. Tutta l’umanità viene qui interpretata come “classe lavoratrice” contro l’“uno per cento” dei possidenti e ogni disastro non è attribuito al capitalismo e alla sua intrinseca “contraddizione in progress”, bensì al neoliberismo.
È sempre più difficile occupare di volta in volta, in base al corso della crisi, i poli del mercato o dello Stato, poiché la crisi nel suo corso si aggrava e va incontro, in modo sempre più netto, ai suoi limiti interni. Un ritorno allo Stato nazionale sarebbe fatale. La chiusura delle frontiere testimonia l’impotenza ed è piuttosto un’azione di ripiego. Sarebbe invece necessario pragmatismo e cooperazione su scala internazionale per contenere l’attuale crisi scatenata dal Coronavirus. La ricerca, il trasporto delle merci, la produzione di beni vitali dovrebbero essere regolate oltre i confini nazionali in modo non burocratico e gratuito per contrastare ulteriori conseguenze barbariche. La situazione di necessità richiede aiuto e cooperazione reciproca. Tuttavia, tale pragmatismo e cooperazione non devono essere confusi stupidamente con la comparsa di un’altra società. Essa potrà vedere la luce solo quando il pensiero e l’azione porteranno ad una rottura con le forme della socializzazione determinate dal valore e dalla dissociazione sessuale.
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