Sulla relazione tra classe ed egemonia1
di Javier Balsa*
«La fede nei concetti solidi, da un lato, e nella certezza delle cose reali, dall’altro, sono all’origine delle posizioni antidialettiche più inveterate»2.
Nell’ambito dell’analisi politica, c’è una domanda che mi preoccupa da molto tempo: perché negli ultimi decenni c’è stato un abbandono degli approcci classisti, anche da parte degli analisti e delle analiste di “sinistra”? Pochi sembrano ricordare la formulazione di Karl Marx secondo cui, nonostante «a prima vista» le controversie politiche nella Francia di metà Ottocento sembrassero una lotta tra monarchici e repubblicani, tra la reazione ed «i “diritti eterni dell’uomo”», «se si considerano la situazione e i partiti più da vicino, questa apparenza superficiale, che nasconde la lotta di classe e la peculiare fisionomia di questo periodo, scompare.. .»3.
Due sono le cause relativamente riconosciute di questa dimenticanza'. la progressiva riduzione dell’incidenza diretta dell’appartenenza di classe sul comportamento politico, e la crisi dello stesso progetto socialista, che ha fatto perdere la fiducia che la classe operaia fosse la classe dirigente di un processo anticapitalista4. Tuttavia, credo che ci sia una terza causa: la stessa complessità della disputa per l’egemonia è ciò che rende difficile leggere la lotta politica in termini di lotta di classe; difficoltà che è stata aggravata dall’abbandono di una prospettiva dialettica.
Due fattori influenzano questa difficoltà a collegare egemonia e classi. Da un lato, la stessa lotta per l’egemonia contiene una componente universalistica e una discorsività retorica che, intenzionalmente, tendono a non spiegare le sue basi di classe. E, d’altra parte, lo scarso sviluppo di una teoria sistematica dell’egemonia ha generato un deficit concettuale per affrontare il rapporto tra classe e lotta per l’egemonia.
In questo lavoro approfondirò tali difficoltà, all’interno di un paradigma secondo cui la tensione tra egemonia e classi non può essere risolta, ma deve essere percorsa, in una serie di relazioni ricorsive che potremo affrontare solo nell’ultima sezione di questo testo, e che devono essere sempre analizzate nella loro condizione storicamente situata.
1. Dominazione egemonica e universalizzazione
Ogni dominio cerca di ricoprirsi di un’ideologia che lo legittimi e lo renda persino invisibile come tale. In ogni caso, nelle società di classe precedenti il capitalismo tendeva a esserci una separazione così marcata tra classi o ceti (senza uguaglianza giuridica tra questi ultimi) che la coercizione era l’elemento centrale del dominio. Al contrario, nel capitalismo, l’uguaglianza giuridica sul piano teorico e le lotte popolari hanno imposto forme di governo basate sul suffragio universale. Ciò ha significato una sfida alla dominazione di classe, perché, come ha sottolineato Marx, si è instaurata una contraddizione tra la forma di governo repubblicana e il dominio borghese: «le classi la cui schiavitù sociale essa [la Costituzione] deve eternare, proletariato, contadini, piccoli borghesi, sono messe, mediante il suffragio universale, nel possesso del potere politico, mentre alla classe il cui vecchio potere sociale essa sanziona, alla borghesia, sottrae le garanzie politiche di questo potere»5. E così, «facilitano ad ogni momento la vittoria delle classi nemiche e pongono in questione le basi stesse della società borghese»6. Oggi questo pericolo sembra scongiurato, poiché la borghesia ha saputo svilupparsi e affermarsi all’interno di una forma di dominio basata sull’egemonia, in cui la coercizione è passata in secondo piano rispetto a una logica di consenso che si concretizza nella periodica elezione delle principali posizioni politiche fondate sul suffragio universale7 . Ciò non significa che il ricorso alla coercizione sia assente, quanto piuttosto che essa opera, nella sfera pubblica, solo di fronte alla minaccia del cambiamento sociale e, più quotidianamente, funziona attraverso una serie di micro-istanze che - basate su una coercizione legittimata negli spazi di lavoro, domestici o nell’uso dello spazio pubblico (e, in generale, anche legalizzata o tollerata dalle istanze giudiziarie) - stabiliscono ciò che è corretto e desiderabile.
Nei quadri repubblicano-rappresentativi, la lotta per le posizioni di governo non si manifesta, come in passato, nei termini di una guerra tra ceti, ma in quelli di uno scontro tra partiti e forze politiche che, per la stessa dinamica della disputa per l’egemonia, tenderà inevitabilmente a nascondere (o almeno a moderare) il suo legame con le classi.
Gramsci chiarisce che, nella lotta per l’egemonia, due elementi sono essenziali: l’operazione di universalizzazione e i partiti8. Gli interessi particolari della classe dominante (o della classe che aspira a esserlo) devono essere presentati come interessi generali dell’intera società (o della sua maggioranza), cioè come presunti interessi universali. E in questo modo che la lotta politica si eleva dal livello del corporativo (eminentemente difensivo) al livello della lotta per l’egemonia, per la direzione della società. Gramsci afferma che, in questo momento, «si raggiunge la consapevolezza che gli interessi corporativi [...] possono e devono diventare interessi di altri gruppi subordinati», per i quali devono essere collocati su quel piano «universale», «creando così l’egemonia»:
«Questa è la fase più schiettamente politica, che segna il netto passaggio dalla struttura alla sfera delle superstrutture complesse, è la fase in cui le ideologie germinate precedentemente diventano “partito”, vengono a confronto ed entrano in lotta fino a che una sola di esse o almeno una sola combinazione di esse, tende a prevalere, a imporsi, a diffondersi su tutta l’area sociale, determinando oltre che l’unicità dei fini economici e politici, anche l’unità intellettuale e morale, ponendo tutte le quistioni intorno a cui ferve la lotta non sul piano corporativo ma su un piano “universale” e creando così l’egemonia di un gruppo sociale fondamentale su una serie di gruppi subordinati» (Quaderno 13, § 17, Gramsci 1975, p. 1584).
1.1. La questione dell’universalizzazione
Nel testo di seconda stesura, nel Quaderno 13 (qui sopra citato), Gramsci aggiunge un legame tra universalizzazione ed egemonia più forte rispetto alla versione del Quaderno 4, dove la relazione veniva presentata attraverso una semplice giustapposizione sintattica9.
Inoltre, le virgolette da lui apposte a “universale” (che non erano presenti nella formulazione del Quaderno 4) possono essere interpretate come un segno della volontà, da parte di Gramsci, di sottolineare che non si tratta di un piano “universale” in senso assoluto, ma di una costruzione discorsivo-ideologica. Una costruzione che sarà effettiva solo se sarà considerata vera da tutta (o quasi tutta) la società, cioè se sarà diventata egemonica.
Credo che sia necessario analizzare più in dettaglio questa questione dell’“universalizzazione” nei Quaderni del carcere. Giuseppe Cacciatore, nella voce Universale del Dizionario gramsciano, distingue anzitutto un significato filosofico, che viene individuato nel legame tra, da un lato, l’unità economica e politica e, dall’altro, l’unità intellettuale e politicomorale; una questione sviluppata nei suddetti paragrafi dei Quaderni 4 e 1310. In secondo luogo, Cacciatore distingue un ulteriore livello di natura etica e politica presente nelle associazioni, poiché tutte richiedono principi etici di natura universale, come viene notato da Gramsci nel Quaderno 6, § 79. In terzo luogo, il concetto di “universale” appare quando ci si rivolge il metodo scientifico, affermando che l’universale si troverebbe solo nella logica formale e nella matematica, che avrebbe «la metodologia più generica e universale» (Quaderno 6, §180, GRAMSCI 1975, p. 826). In quarto luogo, l’universalità è legata alla “libertà”: per Gramsci «è sola libertà quella “responsabile” cioè “universale”, in quanto si pone come aspetto individuale di una “libertà” collettiva o di gruppo, come espressione individuale di una legge» (Quaderno 6, §11, GRAMSCI 1975, p. 692). Infine, Cacciatore individua un ultimo uso del concetto laddove Gramsci definisce Soggettivo” come “universale soggettivo”, come ciò viene sviluppato nei Quaderni 8 e 11.
Più avanti analizzeremo come questi significati si legano alla questione delle classi e alla lotta per l’egemonia e, soprattutto, come si articolano tra loro in questo rapporto. Ma prima ritengo che si debba incorporare un altro significato, non sviluppato da Cacciatore. Nel Quaderno 16 Gramsci affronta ancora una volta la questione de «ciò che è “necessario”» partendo da una critica al concetto di «natura umana». Egli afferma che «un determinato tipo di civiltà economica [...] per essere sviluppato domanda un determinato modo di vivere, determinate regole di condotta, un certo costume» e aggiunge che, quindi,
«in questa oggettività e necessità storica (che peraltro non è ovvia, ma ha bisogno di chi la riconosca criticamente e se ne faccia sostenitore in modo completo e quasi “capillare”) si può basare 1’“universalità” del principio morale, anzi non è mai esistita altra universalità che questa oggettiva necessità della tecnica civile, anche se interpretata con ideologie trascendenti o trascendentali e presentata volta per volta nel modo più efficace storicamente perché si raggiungesse lo scopo voluto» (Quaderno 16, § 12, GRAMSCI 1975, p. 1876).
Così, vediamo che una certa idea di «oggettività e necessità» (in termini di requisiti di un modo di produzione) si aggiunge aU’interpellanza “universalista” secondo cui un certo “conformismo” dovrebbe essere accettato per lo sviluppo economico di una società in un certo momento.
Qui emergono almeno tre piani di tensione in cui si articola buona parte dei significati di “universalità” presenti in Gramsci. In primo luogo, ci sarebbero alcune esigenze che deriverebbero dai modi di produzione, o dalle loro forme più specifiche, come chiaramente si argomenta nel Quaderno 22, dedicato aU’americanismo e al fordismo. In questo senso, sarebbero requisiti “oggettivi” nel senso “strutturale” del termine. E questo è legato a una certa “oggettività” del contenuto universalistico del progetto che vuole essere egemonico: contiene un nocciolo di verità nel suo appello a far progredire la società; la sua “promessa” deve essere fattibile, praticabile. Tuttavia, Gramsci, pur riconoscendolo, relativizza questo oggettivismo strutturale. Da un lato, nel Quaderno 11 ha affermato che «l’obiettivo» è «universalmente condiviso»11, e nel paragrafo precedentemente citato, abbiamo visto che l’obiettività e la necessità storica non sono scontate, ma costruite (discorsivamente). Come Gramsci afferma nel § 17 del Quaderno 13, questa costruzione della necessità storica è il prodotto degli «sforzi incessanti e perseveranti» delle «forze politiche operanti». Pertanto, l’esistenza delle «condizioni necessarie e sufficienti» dipenderà dai rapporti di potere, e non da questioni meramente economiche. Sono queste forze antagoniste che «tendono a dimostrare [...] che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente» (GRAMSCI 1975, p. 1580). Come si vede nel frammento nel suo insieme, questa manifestazione e la sua “verità” si ottengono con la vittoria politica che consente la costruzione di una nuova realtà:
«Questi sforzi incessanti e perseveranti [delle forze politiche che cercano di difendere la struttura] (poiché nessuna forma sociale vorrà mai confessare di essere superata) formano il terreno dell’“occasionale” sul quale si organizzano le forze antagonistiche che tendono a dimostrare (dimostrazione che in ultima analisi riesce solo ed è “vera” se diventa nuova realtà, se le forze antagonistiche trionfano, ma immediatamente si svolge in una serie di polemiche ideologiche, religiose, filosofiche, politiche, giuridiche ecc., la cui concretezza è valutabile dalla misura in cui riescono convincenti e spostano il preesistente schieramento delle forze sociali) che esistono già le condizioni necessarie e sufficienti perché determinati compiti possano e quindi debbano essere risolti storicamente (debbano, perché ogni venir meno al dovere storico aumenta il disordine necessario e prepara più gravi catastrofi)» (GRAMSCI 1975, p. 1580).
In secondo luogo, in ogni congiuntura, il progetto che aspira a essere egemonico cercherà di presentarsi come l’incarnazione dei bisogni generali o “universali” della società, e quindi come capace di garantirne lo sviluppo. Nella misura in cui la sfida avrà successo, e la stragrande maggioranza della società la condivida, i postulati del progetto diventeranno “oggettivi”, nel senso di “universalmente soggettivi” (al di là del fatto che, ai margini dell’opinione pubblica, ci siano gruppi che li criticano). Questa proposta avrà il suo lato più “strutturale”, nel senso che certi progetti difficilmente possono ottenere la crescita economica e/o l’inclusione della maggioranza in almeno qualcuno dei tipi di partecipazione ai benefici di tale crescita. L’egemonia raggiunta in questi casi sarà di breve durata e, molto probabilmente, ne deriverà una sorta di crisi egemonica, che sicuramente, in quanto crisi organica, ostacolerà il consolidamento del progetto e la dimostrazione della sua “necessità”. Mentre troviamo diversi riferimenti che indicano che Gramsci sta ponendo la maggior parte di queste questioni in termini di transizione dal capitalismo al socialismo, il ruolo dell’universalizzazione in relazione alla necessità storica potrebbe essere esteso a cambiamenti di tipo meno rilevante. E possibile osservarlo nella sua analisi del rapporto tra americanismo e fordismo, e anche nei suoi riferimenti alla capacità di ricostituzione dell’egemonia borghese. In quest’ultimo senso può essere interpretato il brano seguente, in cui Gramsci distingue l’esistenza di una maggiore “crisi organica” in Inghilterra, rispetto alla Germania, collegando questo tipo di crisi con l’impossibilità di riassorbire la disoccupazione:
«Si può dire che la disoccupazione inglese, pur essendo inferiore numericamente a quella tedesca, indica che il coefficiente “crisi organica” è maggiore in Inghilterra che in Germania, dove invece il coefficiente “crisi ciclica” è più importante. Cioè nell’ipotesi di una ripresa “ciclica”, l’assorbimento della disoccupazione sarebbe più facile in Germania che in Inghilterra» (Quaderno 9, § 61, GRAMSCI 1975, p. 1132).
In terzo luogo, è opportuno segnalare l’esistenza di una ricorsività tra consenso e fattibilità di un certo progetto e, quindi, la sua postulata “universalità”, ma anche il suo “vero” carattere favorevole per l’intera società. Alti gradi di consenso possono generare adattamenti nelle soggettività e il rifiuto di progetti alternativi da parte della maggioranza; anche le resistenze corporative possono essere notoriamente ridotte in un clima di rassegnazione di fronte all’affermazione di un progetto che, così, diviene fortemente egemonico. In questo modo si riduce il conflitto sociale e, quindi, aumenta la fattibilità del progetto dominante e la sua capacità di generare crescita economica per la società nel suo insieme.
Questo accade perché la fiducia nella fattibilità è ricorsiva. Nel caso dei progetti capitalistici, perché la borghesia, se sviluppa un forte sentimento della propria continuità, fa gli investimenti che garantiscono la crescita, e la sua necessità storica è “dimostrata”; al contrario, in un clima di incertezza, non effettua gli investimenti e mette in questione la sua fattibilità. Nel caso dei progetti di transizione al socialismo, solo la fiducia in un futuro migliore e nella sua concreta capacità di sconfiggere i tentativi di restaurazione capitalista può portare a sforzi, sacrifici e privazioni tipici di questi periodi di transizione. Una precisazione è necessaria: lo sviluppo economico può essere consolidato anche attraverso periodi in cui prevale una forte coercizione; tappe che hanno operato come momenti di consolidamento di nuovi tipi di ordinamenti economici (per fare solo due esempi: la lunga dittatura cilena e la sua imposizione del modello neoliberista, e lo stalinismo come forma di consolidamento del “socialismo reale”). In alcuni casi, la costruzione dell’egemonia avviene dopo questo consolidamento coercitivo del modello economico come base materiale di appoggio.
In contrasto con un rapporto armonico tra egemonia e sviluppo, situazioni di forte contesa tra progetti tendono a indebolire questi effetti ricorsivi positivi, come Juan Carlos Portantiero ha mostrato per la realtà argentina degli anni Sessanta12. Ma questo criterio si potrebbe applicare anche per descrivere le controversie dell’ultimo decennio: in una situazione di “pareggio egemonico” diventa difficile per il progetto dominante “dimostrare” la sua necessità storica, non c’è “oggettività” nella forma di credenze universalmente condivise, tende a crescere il conflitto sociale e, quindi, è difficile consolidare un progetto egemonico13.
In sintesi, è possibile collegare questi tre significati di universalità: come verità epistemologico-cognitiva (“oggettiva” oltre che “universalmente soggettiva”), come necessità di un progetto specifico per lo sviluppo economico di una società (e il dispiegamento di una certa capacità di integrazione sociale) e come presentazione politico-discorsiva di interessi particolari come universali.
Tuttavia, al di là di certi limiti strutturali dell’universalità come esigenza progettuale (e delle difficoltà insite in questi temi14), è possibile osservare che il centro dell’argomentazione gramsciana si trova nella capacità discorsiva di universalizzare interessi particolari, e di imporre una certa “oggettività” attraverso la lotta politico-ideologica. Pertanto, nel resto del lavoro ci concentreremo su questo livello di “universalità”, senza trascurare le precedenti riflessioni.
Infine, prima di abbandonare questa riflessione sulla questione dell’“universalità”, possiamo esplorare la possibilità di collegare le questioni più generali che abbiamo appena considerato con il piano dell’universale presente nelle associazioni. Nel § 12 del Quaderno 16, dopo aver riflettuto sulla questione dell’“artificiale” e del “convenzionale” nei fenomeni di massa, Gramsci sottolinea la centralità del «problema di chi dovrà decidere che una determinata condotta morale è la più conforme a un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive». E risponde negando che è possibile «creare un “papa” speciale o un ufficio competente» per prendere queste decisioni e che, al contrario, «le forze dirigenti nasceranno per il fatto stesso che il modo di pensare sarà indirizzato in questo senso realistico e nasceranno dallo stesso urto dei pareri discordi, senza “convenzionalità” e “artificio” ma “naturalmente” (GRAMSCI 1975, pp. 1878-79). Si osserva qui una difesa del dibattito democratico come base per la risoluzione delle divergenze all’interno delle organizzazioni popolari15. Una riflessione che può essere collegata a una critica delle costruzioni politiche autoritarie, in cui predomina l’“autorità” contro 1’“universalità”, vincolate, rispettivamente, alla «dittatura (momento dell’autorità e dell’individuo)» e all’«egemonia (momento dell’universale e della libertà)», sebbene non come «opposizione di principio tra principato e repubblica» (Quaderno 13, § 5, GRAMSCI 1975, p. 1564). In tal modo, si stabilisce un rapporto tra egemonia e universalità a livello di costruzione delle forze politiche. In questo senso, si può recuperare il significato di “universale” legato all’associazionismo, illustrato da Cacciatore, poiché Gramsci afferma che «non può esistere un’associazione permanente con capacità di sviluppo che non si basi su determinati principi etici» e che è una «tendenza universale all’etica di gruppo che deve essere concepita come capace di diventare norma di condotta per tutta l’umanità». A partire da ciò, egli critica l’idea di una «élite-aristocrazia-avanguardia come [...] una collettività indistinta e caotica; in cui, per grazia di un misterioso spirito santo o di altra misteriosa e metafisica deità ignota, cali la grazia dell’intelligenza, della capacità, dell’educazione, della preparazione tecnica ecc.; eppure questo modo di concepire è comune», e «da ciò l’assenza di una democrazia reale, di una reale volontà collettiva nazionale e quindi, in questa passività dei singoli, la necessità di un dispotismo più o meno larvato della burocrazia» (Quaderno 6, § 79, GRAMSCI 1975, pp. 750-51). In breve, vediamo così come Gramsci congiunga la democrazia interna alle associazioni politiche con la “filosofia della praxis”, con l’idea di “egemonia” e di “universalità”. Il che ci collega con la questione del partito e del ruolo che il Quaderno 13 gli assegna nella lotta per l’egemonia.
1.2. Il ruolo dei partiti politici e dei progetti
Nel processo di universalizzazione, il ruolo dei partiti è imprescindibile. Nel Quaderno 3 Gramsci scrive che «se è vero che i partiti non sono che la nomenclatura delle classi, è anche vero che i partiti non sono solo una espressione meccanica e passiva delle classi stesse, ma reagiscono energicamente su di esse per svilupparle, assodarle, universalizzarle» (§ 119, GRAMSCI 1975, p. 387). E, tornando al paragrafo 17 del Quaderno 13, vediamo che il secondo elemento imprescindibile che appare in questa riscrittura è il ruolo del “partito” nel passaggio al piano della lotta per l’egemonia (elemento che non era neanche presente nella versione del Quaderno 4). Gramsci può allora scrivere che «le ideologie germinate precedentemente diventano “partito”, vengono a confronto ed entrano in lotta...» (Quaderno 13, § 17, GRAMSCI 1975, p. 1584). In modo analogo, nel paragrafo 1 di questo stesso Quaderno 13 Gramsci precisa che il partito moderno dovrebbe sviluppare questa logica universalizzante: «il partito politico, [è] la prima cellula in cui si riassumono dei germi di volontà collettiva che tendono a divenire universali e totali» (GRAMSCI 1975, p. 1558).
Sulla stessa linea, sottolineando la centralità dei partiti e del progetto, Raul Burgos ha sostenuto che il tema della guerra di posizione è un “soggetto-progetto” che lotta per l’egemonia. Così, i soggetti che si costituiscono nella lotta lo fanno «intorno a un progetto e nel corso di un processo-progetto. In questo senso potremmo parafrasare Althusser, dicendo che i progetti “interpellano i gruppi sociali e gli individui costituendoli in soggetti” (nel senso di “attirarli al centro gravitazionale”) di un certo progetto». Burgos ribadisce la sua idea, sostenendo che, per questa ragione, per Gramsci «le grandi trasformazioni sociali sono opera di volontà collettive, prefigurazione e insieme realizzazione di un blocco sociale intellettuale e morale, alma mater del nuovo blocco storico (una nuova formazione economico-sociale)»16.
Sorge così una prima difficoltà a comprendere le lotte per l’egemonia in termini di interessi di classe, poiché queste si presentano come lotte tra partiti, progetti e “volontà collettive”, che, a loro volta, si propongono come difensori di interessi “universali” (o quasi-universali) e non a sostegno degli interessi corporativi delle classi17. Quindi, in queste lotte per l’egemonia, le classi sembrano perdere di importanza. Come sintetizza James Martin, in Gramsci «le classi sono decentrate come agenti politici concreti ma, tuttavia, sono privilegiate come attori storici»18. Questo fenomeno colpisce le classi nella loro capacità di riconoscere la dominazione. In primo luogo, le classi dominate, che tendono a non percepire la loro situazione di dominazione. Gòran Therborn ha analizzato come le proposte ideologiche dominanti cerchino, come obiettivo primario, di evitare di tematizzare l’esistenza stessa dei rapporti di dominio. Solo come seconda opzione, se si percepisce la dominazione, si cerca di valorizzarla positivamente19. In secondo luogo, anche le classi dominanti (o quelle che cercano di esserlo) trovano più complesso identificare i propri interessi quando si invischiano in una lotta per l’egemonia, poiché devono moderare il contenuto di classe dei progetti politici che promuovono. Gramsci afferma che, affinché questa operazione egemonica abbia successo, gli interessi della classe dominante devono sapersi frenare: «gli interessi del gruppo dominante prevalgono ma fino a un certo punto, non cioè fino al gretto interesse economico-corporativo» (Quaderno 13, § 17, GRAMSCI 1975, p. 1584). Come analizzeremo in seguito, la valutazione, in ogni congiuntura, degli interessi di classe nell’interazione dei rapporti di potere va interpretata, e qui il ruolo degli intellettuali è fondamentale, ma, allo stesso tempo, si sviluppa in un rapporto complesso con le altre classi. In altre parole, l’aggiornamento degli interessi della classe, ad ogni congiuntura, implica la rinuncia, “fino a un certo punto”, ai suoi interessi “gretti”; ma quanto bisogna cedere per raggiungere l’egemonia o quanto meno si può cedere, sarà sempre una questione di come si interpreta il rapporto di forze, sia in termini tattici che strategici.
Possiamo aggiungere che questo “certo punto” dipenderà non solo dalle proprie forze, ma anche dalla capacità delle classi antagoniste di lottare per l’egemonia. Se questa facoltà è elevata, è probabile che le classi dirigenti (o quelle che cercano di esserlo) debbano rinunciare a molti dei loro interessi più immediati per difendere il proprio status di classe dirigente (o la possibilità di diventarlo). Questo è, forse, più facile da osservare nel corso delle “rivoluzioni passive” che, come sosteneva Ernesto Laclau in Politica e ideologia nella teoria marxista, comportano sempre un rischio per la classe dirigente che prova questa strategia, perché «quando una classe dirigente è andata troppo oltre nel suo assorbimento di contenuti dal discorso ideologico delle classi dominate, corre il rischio che una crisi perda la propria capacità neutralizzante e che le classi dominate impongano il proprio discorso articolato all’interno degli apparati statali»20.
In casi estremi, può essere difficile individuare la centralità della difesa degli interessi della classe dominante, poiché può sembrare che molte delle rivendicazioni delle classi subordinate siano realizzate e, addirittura, legittimate dal potere statale (sebbene proprio l’obiettivo di una “rivoluzione passiva” è che questi cambiamenti siano fatti “dall’alto” e non “dal basso”). Forse l’esempio più noto di quelle situazioni che possono essere percepite come perdita di interessi di classe sono stati gli Welfare States dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra. Per difendere la società capitalista da una possibile deriva delle masse verso il comuniSmo, molte concessioni furono fatte alla classe operaia, non solo in termini materiali, ma anche in termini di sedimentazione di diritti ritenuti legittimi. La borghesia lo fece fino a che la concessione divenne intollerabile e/o fino a quando percepì che il pericolo comunista si era dissipato e potè lanciare la sua offensiva neoliberista, smantellando la maggior parte di queste concessioni e lo stesso consenso attorno alla loro legittimità. Ora, il fenomeno storico stesso di questi Welfare States può essere interpretato come una deviazione da parte della classe operaia, rappresentata dai partiti socialisti o socialdemocratici che, per ottenere democraticamente la direzione politica della società, ha dovuto fare troppe concessioni agli interessi di classi potenzialmente alleate o anche a frazioni della classe dirigente, per cercare di dividere la loro unità21. Così, nelle lotte per l’egemonia, si sono persi gli originari obiettivi anticapitalistici (che, almeno in teoria, erano parte dei progetti riformisti), quando forse la possibilità di realizzarli era possibile. A differenza della borghesia, che ha saputo riprendere l’offensiva con obiettivi chiari, vediamo oggi che la maggior parte dei partiti legati alla classe operaia europea non si propone più, nemmeno a medio termine, di avviare processi di transizione verso il socialismo.
In breve, il progetto che presenta gli interessi di una classe come gli interessi dell’intera società (o della sua maggioranza) può finire per mettere in secondo piano o tralasciare il nucleo degli interessi di quella classe. E anche possibile che l’operazione di universalizzazione delle proposte finisca per offuscare completamente gli obiettivi originari di partiti e progetti che cercavano di difendere gli interessi di una determinata classe22.
Ma queste saranno sempre valutazioni relative, basate sull’analisi della correlazione di forze tra le classi effettuata da ciascun e ciascuna analista. Non sono dati “oggettivi” indiscutibili. Una classe che non sa rinunciare ai suoi interessi più “gretti” può finire per minare la propria egemonia spingendo contro di essa quasi tutto il resto della società o, al contrario, una classe che cerca di lottare per l’egemonia senza costruire articolazioni con classi potenzialmente alleate e senza dividere la classe dirigente, si sottrarrà sicuramente a questa lotta. Pertanto, l’analisi di quali siano queste correlazioni e delle diverse capacità di modificarle in ogni congiuntura sarà fondamentale per proporre il progetto migliore per difendere gli interessi di una classe. In questo senso, si deve evitare una lettura “possibilistica” delle relazioni di potere che tenda a concettualizzarle come statiche. Al contrario, sono relazioni sempre trasformabili attraverso lotte politiche e ideologiche. Anche quelle relazioni che Gramsci colloca nell’ambito della “struttura” e che, nella congiuntura, si rivelano «una realtà ribelle» che «nessuno può modificare» (Quaderno 13, § 17, GRAMSCI 1975, p. 1583), possono essere modificate nel medio periodo attraverso politiche specifiche.
2. Il posto e il problema della retorica nella lotta per l'egemonia
Consideriamo ora il secondo elemento che aggiunge complessità alla consapevolezza del nucleo di classe dell’egemonia: la retorica. Laclau ha spiegato come l’uso di metafore, metonimie e catacresi abbia un ruolo centrale nella costruzione dell’egemonia23. A ciò possiamo aggiungere anche l’uso del ragionamento retorico24. La retorica è l’arte della persuasione e si basa sull’ambiguità. C’è sempre un retore che persuade, e un pubblico che viene convinto perché non ha chiarezza di come funzionino queste operazioni retoriche. Elemento chiave di queste operazioni è l’uso di significanti ambigui, («tendenzialmente vuoti», direbbe Laclau) che hanno la capacità di interpellare e conquistare un’enorme diversità di settori sociali a un dato progetto politico. Forse il più notevole è stato il significante “popolo”, l’asse delle costruzioni populiste, e con il quale lo stesso marxismo ha intrattenuto un rapporto complesso25.
Sia i significanti tendenzialmente vuoti, sia il ragionamento retorico, per la loro intrinseca ambiguità, rendono difficile comprendere correttamente ciò che “descrivono” o “spiegano” retoricamente: non consentono di vedere chiaramente i rapporti di dominio26. Sebbene questo sia proprio l’obiettivo per cui vengono utilizzate, queste difficoltà colpiscono non solo le classi che vogliono dominare, ma colgono anche le stesse classi sociali che cercano di essere dominanti (oltre a oscurare la capacità di interpretazione dell’analista).
Il problema, sia per le classi dirigenti che per quelle che sfidano questo dominio, è di servirsi di queste operazioni retoriche e di universalizzazione, senza cadere nella loro stessa manipolazione. Sviluppare la sua “poesia” (Marx) ma, allo stesso tempo, cercare un linguaggio che riveli il dominio e permetta di tracciare percorsi d’azione più vicini agli interessi della classe; cioè, controllare il repertorio semiotico per cercare un’analisi scientifica della realtà sociale27. In questo senso, non si può non parlare di una tensione che nasce in ogni progetto di emancipazione che tenti la strada della lotta per l’egemonia: poiché nella presentazione del progetto è essenziale l’uso dell’universalizzazione e della retorica, ci sarà sempre una perdita di chiarezza per gli stessi membri del collettivo emancipatore. Da questo processo tende a derivare la centralità del o della leader nella dinamica politica populista, poiché possono infatti occupare il ruolo di unico retore che persuade, con un certo grado di consapevolezza delle operazioni retoriche utilizzate per configurare un “popolo”. Ma questa centralità del leader contraddice la proposta di sviluppare l’autocoscienza e l’emancipazione delle classi subalterne.
3. La critica laclausiana della classe e dell'interesse di classe e la diluizione del concetto di “dominio”
Finora abbiamo sviluppato due componenti inerenti alle operazioni egemoniche che tendono ad oscurare gli interessi delle classi, sia per i dominati che per i dominatori. Tuttavia, non abbiamo ancora affrontato il concetto stesso di “interesse di classe” come dovremmo, poiché senza di esso non è possibile collegare le classi con l’egemonia. A mio avviso, è stato Ernesto Laclau, nella sua aspra critica al concetto di “interesse di classe”, a fare più chiarezza su due questioni: l’essenzialità del suo impiego, se si vuole mantenere un legame tra classi sociali ed egemonia, e la componente teleologica o utopica che inevitabilmente possiede.
Laclau è partito da una critica del classismo come strategia politica (inteso come corporativismo), ritenendolo inefficace nella lotta per l’egemonia, per poi scivolare verso un attacco totale alla centralità della classe nella lotta politica. Ma, nel formulare questa critica teorica, è finito in una posizione in cui il suo anticapitalismo e, in definitiva, l’uso dell’idea stessa di “dominio” sono svaniti.
Nel 1977 Laclau affermava che le classi «in quanto tali non hanno una forma di esistenza necessaria a livello ideologico e politico». Pertanto, «se la contraddizione di classe è la contraddizione dominante al livello astratto del modo di produzione, la contraddizione popolo/blocco di potere è la contraddizione dominante al livello della formazione sociale»28. In questo senso, nella sua presentazione al Seminario di Morelia del 1980, ha sostenuto che «non esiste un’identificazione primaria di classi a livello di base da cui derivano “interessi di classe” chiaramente definiti»29. Tuttavia, non ha mai sviluppato la possibilità che questi interessi potessero essere specificati e quindi si possa mantenere l’articolazione tra classe ed interessi di classe nella lotta per l’egemonia. Al contrario, si è rivolto completamente contro l’idea di “interessi di classe”.
Così, in Egemonia e strategia socialista, Laclau e Chantal Mouffe spiegano che solo l’idea di “interesse oggettivo”, inteso come una serie di “interessi storici” (nel loro esempio: della classe operaia per l’instaurazione del socialismo), potrebbe consentire di collegare il concetto di classi, come posizioni sociali, con l’idea di classe come attore politico30. In questo modo, sarebbe possibile stabilire un legame che non dipenda dalla contingenza della capacità dei discorsi di riuscire ad articolare posizione di classe e progetto politico. Ma Laclau e Mouffe scartano questa opzione affermando che la nozione di “interesse oggettivo” è priva di qualsiasi fondamento teorico e, addirittura, di evidenza storica, poiché è stata sostenuta nell’attesa di un processo di unificazione di tutti i settori subordinati intorno alla classe operaia (per un impoverimento e una proletarizzazione generalizzati), cosa che non è avvenuta. Per questo, assumere che le classi abbiano “interessi oggettivi” e, indirettamente, pensare alle classi come soggetti politici, ha per loro un’intrinseca carica teleologica. D’altra parte, poiché le identità sociali non sono fisse, non è necessario porre limiti di classe nell’analisi della logica della costituzione simbolica del sociale31.
In testi successivi, Laclau ha chiarito che il soggetto dell’egemonia è un soggetto che non preesiste alle controversie discorsive, ma si costituisce all’interno dei discorsi e, quindi, dipende da essi. La costituzione dei soggetti in classi è dunque solo una possibilità storica e non va pensata come un destino inesorabile32. Si aprono qui tutti i problemi della concezione del soggetto in Laclau33.
Vorrei esprimere il mio accordo su due punti: (1) senza il concetto di “interesse di classe” non è possibile mettere in relazione le posizioni di classe con l’elaborazione di proposte politiche relative alla lotta di classe, né analizzare le dinamiche politiche in termini di classe e (2) al di là della connotazione negativa della parola “teleologico”, ogni attribuzione di interessi, al di fuori di ciò che i membri di una classe sociale manifestano positivamente, richiede sempre un giudizio basato su un qualche tipo di stima sul futuro possibile, a breve o lungo termine.
Ma, poiché Laclau rifiuta entrambe le componenti (la componente “interesse di classe” e la componente “prospettiva”), finisce per far dipendere l’esistenza delle classi, nell’arena politica, dal fatto che i loro membri realizzino un auto-riconoscimento della loro appartenenza alla “classe” e che agiscano guidati da questa identità. Un problema direttamente derivato da questa argomentazione è che non solo potrebbero non esserci “classi” che influenzano il piano politico, ma anche che il “dominio” potrebbe scomparire. Se un discorso diventasse fortemente egemonico, potrebbe accadere che i soggetti dominati non si rappresentino come “classe” e nemmeno come “dominati” e, quindi, non si possa parlare né di settori dominati né di dominazione. E vero che Laclau non ha mai scritto testualmente questo, ma è noto l’abbandono, nei suoi scritti, dell’uso del concetto di “dominio”.
Ritengo che la base dei problemi di questa riflessione di Laclau non sia nell’eccessiva centralità che assegna al “discorso” (come vuole la critica a lui mossa dalla maggior parte dei marxisti), ma nel suo rifiuto a porsi su un piano critico-speculativo. La sua paura di cadere nel “tecologismo” lo ha portato a una posizione positivista, che ha ridotto il reale a ciò che è dato; nel suo caso, a ciò che è effettivamente enunciato. La sua adesione al programma foucaultiano AeWArcheologia del sapere (al di là di qualche critica), lo porta a pensare a un’egemonia di formazioni discorsive senza soggetti, o con soggetti che emergono solo all’interno di queste stesse formazioni. Non a caso, Michel Foucault riconosce il profilo positivista di questo suo lavoro34.
Per uscire dalle aporie a cui ci conduce la proposta di Laclau, dobbiamo approfondire il riconoscimento di una chiara posizione epistemologica. Una posizione che non implichi il ritorno a un positivismo marxista che sostenga un’identificazione a priori tra classe e ideologia (che Lenin criticava già nel Che fare?), ma che non riduca il reale al dato, in questo caso, al dato in modo discorsivo. Vale a dire, che operi una netta rottura epistemologica con il positivismo, in qualsiasi sua versione.
4. Rottura epistemologica e proposta critico-speculativa
Un’analisi critica non può limitarsi a descrivere la realtà nei termini degli enunciati, cioè a considerare la realtà sociale come equivalente a quanto viene detto. In questo caso, la ragione non svolgerebbe nessuno ruolo nel processo cognitivo e l’effetto conservatore degli studi sociali sarebbe epistemologicamente sancito.
Tornando a Fredric Jameson, crediamo che l’“essenza” di una realtà sia un postulato del pensiero speculativo e, in questo senso, non possa mai essere dimostrata. Il pensiero speculativo è sempre un salto, una scommessa, in termini metafisici o ideologici35. In questo senso, nei paragrafi seguenti formuleremo una serie di postulati sulle classi, le loro lotte e i loro interessi, che non pretendiamo che siano verificabili.
Per sfuggire al positivismo si deve postulare che una nuova realtà qualitativamente diversa si trova potenzialmente nella realtà stessa, e questo è il fulcro di ogni critica sociale (come fecero gli illuministi e i marxisti). Come sintetizzava Irving Zeitlin, stabilendo una chiara opposizione al positivismo sociologico della metà dell’ottocento, per Marx, riprendendo la tradizione illuministica e hegeliana, «il dominio del’“è” deve essere sempre criticato e messo in discussione per rivelare le sue possibilità intrinseche. L’ordine fattuale esistente è una negatività transitoria che deve essere trascesa»40. In tal modo, Marx recupera l’operazione fondamentale dell’Illuminismo: sottoporre le istituzioni «a una critica implacabile dal punto di vista della ragione» e chiedere «un cambiamento in coloro che le contraddicevano» e che «impedivano agli uomini di realizzare il loro potenziale»41.
Per questa ragione, quando Laclau ha salutato la fine della «dittatura razionalista dellTlluminismo»38, non ha potuto fare a meno di perdere questo spirito critico, sostituendogli solo l’assunzione di una posizione personale. Come diceva Hugo Zemelman, senza la credenza in un qualche tipo di prefigurazione di una possibile società radicalmente alternativa a quella data, non è possibile promuovere un processo di cambiamento sociale e, nemmeno, formulare una critica sostanziale della realtà presente39. Pertanto, «la capacità di potenziare una direzionalità consiste nel saper cogliere le dinamiche costitutive di una realtà, ciò che significa il riconoscimento delle opzioni»40. Sulla stessa linea, Adrian Piva afferma che «identificare classe e lotta è anche una scommessa politica. E spingere nella direzione di una possibilità pratica, un intervento nella lotta per la definizione del campo del confronto sociale»41.
Questa conoscenza critica non deve essere pensata in termini di riflesso della realtà, ma piuttosto come una costruzione discorsiva che cerca di rendere conto di quella realtà nel miglior modo possibile. Una conoscenza che può essere perfezionata ed elaborata a partire da una metodologia anche criticabile e migliorabile e, in questo senso, legata ad una prospettiva scientifica. Allo stesso tempo, la conoscenza che scaturisce da questo atteggiamento critico deve, come impulso all’azione, essere considerata “vera” dalla militanza, ma deve anche essere sottoposta alla verificazione della praxis, che funge da guida per il dispiegamento del potenziale a partire dal dato42. Questa questione inoltre è ancora più complessa, poiché, come ha analizzato Gramsci e come abbiamo avuto modo di sottolineare in precedenza, la stessa lotta ideologica può modificare ciò che è considerato “dato”, come “vero” dalla maggioranza.
In contrasto con questa rivendicazione dello speculativo e della sua articolazione con la praxis, risulta preoccupante il fatto che la maggior parte del marxismo accademico cerchi oggi di attenersi “ai dati”. Una delle “formule” trovate è stata quella di ridurre il marxismo a una sociologia economica o a una sociologia del lavoro; l’altra è stata quella di convertire gli studi marxisti in studi sulla storia del marxismo. Di conseguenza, i dibattiti sulla strategia politica brillano per la loro assenza.
5. Il problema della circolarità tra classe e formazione della classe e la necessità di adottare un punto dipartenza che la eviti
I rapporti tra le classi sono modellati dalla stessa lotta di classe. Così, i cambiamenti legislativi o la quotidiana lotta politico-sindacale specificano il rapporto tra le classi (possono persino aprire percorsi di ascesa sociale che alterano le posizioni di classe a livello intergenerazionale) e, in modi più drastici, così fanno anche le rivoluzioni sociali. Non solo il piano giuridico e quello politico alterano i rapporti di classe: le operazioni ideologiche, come analizza Louis Althusser, devono raggiungere un’efficacia della interpellazione nel costruire soggettività che accettino posizioni di classe dominate, almeno quanto basta per occupare le posizioni essenziali affinché il sistema continui a funzionare e le classi dirigenti possano continuare a goderne43. Il rischio di avviare l’analisi del confronto politico-ideologico tra le classi, però, è quello di cadere in una circolarità problematica in cui, per poter parlare di classe, è richiesta la formazione della classe e al tempo stesso la sua coscienza44. Se la classe si forma in processi storici di lotta, allora questa formazione è contingente, come ogni lotta. In questo modo è possibile che la classe non sia costituita come tale e si arrivi ad un risultato uguale, o quasi, a quello a cui è arrivato Ernesto Laclau.
Forse il punto di nascita di questa circolarità può essere rintracciato in una lettura particolare dell’uso da parte di Marx del concetto di classe nelle sue analisi politiche della congiuntura francese a metà del XIX secolo. Così, nel Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, Marx scrive che i contadini «formano una classe», «nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile». Ma, a lo stesso tempo, afferma che, come «tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe» e, allo stesso tempo, «non formano una classe»45.
Tuttavia, una semplice lettura di questo libro nel suo insieme mostra chiaramente che il fatto che i contadini non si fossero formati come classe, o come comunità, o come organizzazione politica, non impediva a Marx di fare un’analisi approfondita del ruolo di questa classe nelle dinamiche politiche di quella congiuntura. E lo stesso si può dire delle altre classi, poiché, nonostante l’enfasi che molti analisti hanno posto sulle difficoltà dei contadini di costruire la propria rappresentanza politica, si possono trovare osservazioni qualitativamente simili su quasi tutte le altre classi46. Vale a dire, la non conformazione della classe sul piano politico (che, d’altronde, è sempre questione di gradi, al di là della dicotomizzazione che Marx aveva scritto nella Miseria della Filosofia, distinguendo una situazione di costituzione in «classe per sé»47) non implica che la classe sia estranea ai rapporti di lotta con le altre classi. Al contrario, è proprio in questi processi di lotta (che è politica) che la classe diventa classe per sé. Come dice Erik Olin Wright, le classi e «la lotta di classe esistono anche quando le classi sono disorganizzate»48.
Proponiamo, quindi, un primo postulato che ci permetta di rompere con la circolarità ed evitarne i rischi: (1) è possibile iniziare l'analisi riconoscendo la presenza delle classi sociali, come posizioni nella divisione sociale del lavoro (che, comunque sono relazioni di classe; evitiamo il termine “relazioni” solo per dare maggiore chiarezza a questo punto di partenza che esclude analiticamente il livello più “politico-soggettivo” che potrebbe essere considerato presente nell’idea di “relazione”). Interpretiamo in questo senso, come punto di partenza dell’analisi, l’individuazione di Gramsci di un primo momento dei rapporti di forza: un «rapporto di forze sociali strettamente legato alla struttura, obbiettivo, indipendente dalla volontà degli uomini», «raggruppamenti sociali», «una realtà ribelle», perché «nessuno può modificare il numero delle aziende e dei suoi addetti, il numero delle città con la data popolazione urbana, ecc.» (Quaderno 13, § 17, GRAMSCI 1975, p. 1583). Ovviamente, queste affermazioni vanno intese nei termini di una proposta per l’analisi della congiuntura: Gramsci non negherebbe che sia possibile, nel medio o lungo termine, sviluppare, ad esempio, industrie e processi di urbanizzazione che modifichino questa «realtà ribelle».
La scelta di un punto di partenza per l’analisi in una data congiuntura permette di rompere con una circolarità che impedirebbe inesorabilmente un’analisi di classe nei casi in cui le classi non si “formano” a livello politico-ideologico o, anche, al livello più elementare, di sociabilità comune. Quindi, sebbene sia vero quanto afferma Marcelo Gómez che «sono le classi con le loro azioni che stabiliscono il “potere di mercato” di alcuni tipi di proprietà invece di altri, la sua distribuzione e i suoi limiti», questo non rende «fuorviarne» il fatto di «dedurre le classi dalla proprietà», come dice lui, poiché, dalla prospettiva che proponiamo (e che indirettamente, a volte, Gómez usa, ad esempio, quando scrive «sono le classi»), il punto di partenza dell’analisi si trova nell’identificazione delle classi esistenti in una determinata congiuntura49. Va chiarito che non esiste un momento ex-ante alla lotte e ai progetti. Le classi non preesistono loro. Semplicemente, come ipotesi scegliamo un approccio che parte dall’esistenza delle classi in quanto posizioni di classe. Ma queste classi sono definite, anche come posizioni sociali, non in termini di stratificazione, ma dal loro rapporto con altre classi sociali. E queste relazioni sono segnate dal potere.
Quindi, possiamo aggiungere un secondo postulato, che propone che (2) le classi si trovano in diversi gradi di tensione o lotta con le altre classi per mantenere, aumentare o raggiungere una posizione di dominio. Questo dominio, nel caso delle classi, è la condizione di possibilità che consente lo sfruttamento o, comunque, attraversa un processo che ne cerca lo sradicamento50. Con questo postulato, otteniamo un fondamento che si colloca su un piano che è analiticamente antecedente alla lotta tra partiti o gruppi ideologici, e che ci permette di finire di eludere la circolarità a cui ci riferivamo.
E possibile generalizzare questi due postulati e renderli indipendenti dal concetto di “classi sociali”. Ogni analisi può avviarsi da un punto di partenza che definisca gli individui come le unità di analisi, con una certa indipendenza dalla costituzione discorsiva dei soggetti e dal loro grado di organizzazione nella lotta per l’egemonia, e postulare, da lì, l’esistenza di situazioni di dominio (che potrebbero non avere necessariamente come obiettivo lo sfruttamento). Così, si potrebbero fare simili postulati per altre situazioni di dominio, come quella dei bianchi, degli europei o occidentali, dei “normali” e un lungo eccetera. Ciò non significa negare che i soggetti egemonici o egemonizzati si costituiscono, in modi molto più specifici, nelle lotte discorsive. Ma questi tipi di postulati ci permettono di mantenere l’idea di fondo che l’operazione egemonica è un’operazione di dominio. Riteniamo solo fruttuoso riprendere, in questa prospettiva che assume questi punti di partenza, la proposta della centralità dell’“articolazione” di diverse posizioni dominate, con le loro conseguenti domande, per sviluppare strategie socialiste di lotta per l’egemonia51, nonché analizzare le “costellazioni egemoniche” che consolidano le posizioni dei dominanti52.
6. Interessi di classe e lotta per l'egemonia
A questi primi due postulati bisogna aggiungere la questione degli interessi di classe per concettualizzare il rapporto tra classi ed egemonia. Per questo formuleremo un terzo postulato, legato al secondo attraverso la questione del potere. Sosterremo che (3) le classi hanno “interessi di classe” nel mantenere o cambiare un dato ordine sociale. Sono questi “interessi di classe” che ci permettono di capire perché la classe dirigente opera per perpetuare l’ordine sociale capitalista e apportare i cambiamenti necessari per adattare o, addirittura, approfondire la sua posizione di dominio. Allo stesso tempo, l’esistenza di questi interessi permette di postulare la convenienza, per le classi dominate, a modificare questa realtà che le pone come tali, cioè a porre fine al capitalismo.
Ecco perché le classi sociali costituiscono il fattore esplicativo fondamentale per la stabilità di un modo di produzione, e le frazioni di classe spiegano l’interesse a consolidare un certo modello di accumulazione. Ed è la lotta tra le classi sociali che risolve il predominio di un modo di produzione e del tipo di società che esso definisce, come sottolinea Gramsci (Quaderno 13, § 18, GRAMSCI 1975, p. 1595), ricordando l’importanza del frammento della Prefazione a Per la Critica dell’Economia Politica, dove Marx scrive che è nelle «forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto [contraddizione tra le forze produttive materiali e i rapporti di produzione esistenti] e di combatterlo»53.
Questi “interessi di classe” sono attribuzioni fatte da chi realizza l’analisi. Come ha sostenuto Wright, gli interessi di classe sono ipotesi sugli obiettivi delle lotte che avrebbero luogo «se gli attori avessero una comprensione scientificamente corretta delle loro situazioni»54. In un certo senso, l’idea di Georg Lukàcs secondo cui la coscienza di classe sarebbe le «idee, i sentimenti, ecc., che gli uomini avrebbero avuto in una determinata situazione di vita, se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa situazione e gli interessi da essa emergenti, sia in rapporto all’agire immediato, sia in rapporto alla struttura - conforme a questi interessi - dell’intera società; si riconoscono quindi le idee, i sentimenti, ecc., che sono adeguati alla loro situazione oggettiva»55. E aggiunge poche righe dopo: «la coscienza di classe è la reazione razionalmente adeguata che viene in questo modo attribuita di diritto ad una determinata situazione tipica nel processo di produzione»56. Lasciando da parte le chiare ed esplicite reminiscenze weberiane di queste riflessioni, esaminiamo alcune questioni che ritengo fondamentali per la nostra argomentazione. In primo luogo, Lukàcs non afferma che questa coscienza di classe esiste, ma piuttosto che è qualcosa che l’analista marxista attribuisce alla classe.
In secondo luogo, questa attribuzione è costruita in termini così ideali (nuovamente Weber) che potrebbe funzionare solo come un orizzonte irraggiungibile. Lukàcs non lo dice esplicitamente, ma la complessità della lotta per l’egemonia, dovuta alle sue componenti universalistiche e retoriche, oltre al complicato rapporto tra intellettuali e classe (di cui parleremo nell’ultima sezione), significa che è impossibile (almeno, in modo inequivocabile) “cogliere pienamente” una situazione storica, con le sue molteplici determinazioni, in modo tale da avere una chiara consapevolezza della situazione e degli «interessi da essa emergenti».
Infine, il significante “coscienza” fa sorgere una serie di problemi legati al suo quasi ineludibile senso soggettivo che, a volte, utilizza lo stesso Lukàcs, nonostante per questo livello abbia proposto il concetto di “psicologia di classe”, chiaramente differenziato dal concetto di “coscienza di classe”57.
Di fronte a questi problemi semantici e, persino, meccanicistici, accantoniamo il concetto di “coscienza di classe” e manteniamo solo quello di “interessi di classe”. In ogni caso, come accennato, questi interessi sono anche imputati, contengono un elemento controfattuale o utopico e, allo stesso tempo, sono storicamente situati. A questo proposito José Aricó sosteneva che in Lenin la coscienza di classe non era legata al bisogno astratto di socialismo (come in Kautsky), ma piuttosto alla conoscenza (scientifica) della totalità economico-sociale, nel senso della realtà concreta di una formazione economico-sociale58.
D’altra parte, è fondamentale differenziare gli interessi imputati alla classe dagli interessi individuali, che, come hanno sottolineato Adam Przeworski59 e Gómez, sono altamente competitivi: «la somma degli interessi competitivi non dà interessi collettivi ma quasi sempre tutto il contrario: gli interessi collettivi sono solitamente associati alla sospensione o al superamento degli interessi competitivi e gli interessi competitivi in generale sono poco compatibili con gli interessi collettivi»60.
Riteniamo che, sebbene gli “interessi di classe” siano attribuzioni discorsive, in qualche modo possano essere verificati a posteriori, ma all’interno della complessità della lotta politica tra le classi. Da qui l’importanza dei controfattuali per evitare di rimanere solo sul piano del “dato”, ma anche per misurare le reali possibilità presenti in ogni congiuntura. La complessa rete di rapporti di forza tra partiti e progetti che lottano per l’egemonia consente solo una valutazione ex-post di quale di essi sia stato quello che meglio difendeva gli interessi di una certa classe. Cioè, solo dopo lo sviluppo di una certa lotta politica (e generando un arbitrario taglio di tempo), sarà possibile osservare quale progetto ha giovato di più a ciascuna classe, in base alla capacità oggettiva che possedeva. E, in questo senso, si potrebbe analizzare quale analista avesse ragione nelle attribuzioni di interessi.
Questi “interessi di classe” operano su tre piani analiticamente distinguibili: quello strutturale, quello congiunturale e quello organizzativo, che mira a realizzare l’unità di classe; anche se, in realtà, i tre sono fortemente intrecciati. La possibilità di mantenere, approfondire o modificare radicalmente il modo di produzione centrale in una società è legata alla più congiunturale situazione politica, ideologica, sociale ed economica ed anche al livello organizzativo; cioè dipende dalla capacità della classe di unificarsi (e dividere le altre classi) e di imporre i loro interessi più immediati in ogni congiuntura. In ogni caso, il rapporto tra questi tre tipi di interessi non è affatto lineare. Se l’unità e i profitti a breve termine possono aiutare a rafforzare la capacità della classe di lottare per il tipo di società per essa migliore, può anche accadere il contrario: ad esempio, può farle dimenticare questo obiettivo strategico. Questo ci costringe a pensare all’articolazione tra questi tre piani di interessi di classe e, in nessun modo, a metterne da parte alcuni rispetto ad altri.
Infine, l’imputazione degli interessi dipenderà dall’analisi dei rapporti di forza e delle possibilità che ciascuna classe ha di avanzare nella realizzazione di tali interessi. Quindi, gli interessi delle classi devono essere pensati e soppesati in termini relazionali e congiunturali. Ma non solo, devono anche essere formulati e condivisi dai membri delle classi. Una questione complicata dalla dinamica stessa della lotta per l’egemonia, in cui i dirigenti e gli intellettuali delle classi tendono a non esprimere chiaramente i propri interessi, anche per la propria classe nel suo insieme.
7. La complessità della costruzione-riconoscimento degli interessi di classe nelle lotte per l’egemonia
Abbiamo già un approccio epistemologico e una serie di postulati di base che ci permettono di approfondire la complessità del rapporto tra classi ed egemonia. A questo proposito, Gramsci ha cercato di pensare al rapporto tra le classi e ai loro interessi sulla base di un insieme di concetti: “buon senso”, “spirito di scissione”, “senso comune”, “autocoscienza”, “egemonia” e “intellettuali organici”, pur operando un chiaro ampliamento del concetto di “intellettuale”, includendo al loro interno tutti coloro che svolgono una «funzione intellettuale», «persone “specializzate” nell’elaborazione concettuale e filosofica», ma anche in quanto «organizzatori e dirigenti» (Quaderno 11, § 12, GRAMSCI 1975, p. 1386). Con questa batteria concettuale, Gramsci ha aperto un percorso per evitare il salto quasi metafisico tra la classe e la consapevolezza dei suoi interessi. Cercheremo di tracciare una strada che li colleghi in modo più sistematico, sviluppando questioni non sempre analizzate da Gramsci.
Per valutare quale progetto politico sostenere, le classi hanno, in primo luogo, alcune capacità “istintive” o di “buon senso” che consentono loro di capire se i loro interessi più elementari sono presi in considerazione o ignorati (o direttamente lesi) da queste proposte61. Questo istinto genera un senso di «distacco» rispetto ai progetti che chiaramente danneggiano quegli interessi. Tuttavia, queste valutazioni “istintive” sono estremamente rudimentali e, per Gramsci, non costituiscono una “coscienza di classe”. Gramsci postula che a questo livello si sviluppa un «senso di “distinzione”, di “distacco”, di indipendenza appena istintivo» (Quaderno 11, § 12, GRAMSCI 1975, p. 1385). Dunque, l’«odio “generico” è ancora di tipo “semifeudale”, non moderno, e non può essere portato come documento di coscienza di classe: ne è appena il primo barlume, è solo, appunto, la posizione negativa e polemica elementare». E semplicemente che «il “popolo” sente che ha dei nemici e li individua solo empiricamente nei così detti signori» (Quaderno 3, § 46, GRAMSCI 1975, p. 323)62.
Inoltre, le classi hanno anche elementi di «ideologia di classe», che sarebbero, secondo Therborn, il cuore dei discorsi propri di ciascuna posizione di classe. E, pur non essendo gli stessi «interessi di classe», né «dottrine», sono elementi dai quali i membri delle classi percepiscono la convenienza, o meno, di sostenere certe alternative politiche63.
Ma né queste ideologie di classe né il senso di «distacco» assicurano una corretta difesa degli interessi di classe nel mezzo delle lotte per l’egemonia. Poiché le proposte egemoniche evitano di difendere gli interessi “gretti” delle classi e fanno ampio uso di operazioni retoriche, la complessità della lotta per l’egemonia potrebbe portare le classi a molti malintesi, se fossero guidate solo da questi apprezzamenti semplici e a breve termine.
Per questo motivo, per fare valutazioni più accurate su quale progetto politico le classi dovrebbero sostenere e anche per elaborare i propri progetti di lotta per l’egemonia, le classi ricorrono ai propri «intellettuali organici». Così come, in base a quanto abbiamo visto, l’analista attribuisce degli interessi alle classi e può valutare la coscienza e la capacità politica della classe di difenderli (o imporli) in una determinata situazione, gli intellettuali organici della classe compiono un’operazione simile ma più strettamente legata alla praxis della classe64. In questo modo, gli intellettuali che sono organici a una classe costruiscono discorsivamente quali sarebbero gli interessi della classe per la quale lavorano. Questi intellettuali propongono tali interessi alla classe in modo che la classe li adotti e regoli su di essi la sua condotta nel campo della lotta di classe65.
Gramsci ha descritto sinteticamente questa relazione ricorsiva all’inizio del Quaderno 12, per cui la classe crea i propri intellettuali, che, a loro volta, sono quelli che riescono a elaborare l’unità della classe ed a renderla consapevole dei suoi interessi, da loro costruiti, anche a livello politico:
«Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico» (Quaderno 12, § 1, GRAMSCI 1975, p. 1513).
Questo slittamento verso l’arena politica è dovuto al fatto che la classe deve analizzare e scegliere quali partiti e progetti riceveranno il suo sostegno e anche se deve promuovere la creazione di nuove alternative politiche e ideologiche. In altre parole, deve immergersi in tutta la complessità della lotta per l’egemonia, almeno se non vuole essere un attore passivo in queste lotte. Ovviamente, la classe può anche emarginarsi dalla contesa per la direzione politico-ideologica; Marx lo ha espressamente commentato in diversi passaggi del Diciotto Brumaio, come quando scriveva che il proletariato, dopo la sconfitta del giugno 1848, «in parte, [...] si abbandona a esperimenti dottrinari», manifestando un certo atteggiamento di autoesclusione dalla lotta politica, rifugiandosi in entità mutualistiche come «banche di scambio e associazioni operaie». Questo, per Marx, implica «un movimento in cui rinuncia a trasformare il vecchio mondo» e, d’altra parte, «cerca piuttosto di conseguire la propria emancipazione alle spalle della società, in via privata, entro i limiti delle sue meschine condizioni d’esistenza, e in questo modo va necessariamente al fallimento»66.
Quindi, per lottare per l’egemonia o almeno per poter partecipare alla lotta politica, la classe ha bisogno dei suoi stessi intellettuali. Ritengo opportuno differenziare, almeno analiticamente, due livelli all’interno di questi “intellettuali organici”: uno più vicino alla classe e l’altro situato proprio sul piano della lotta politica67.
Tra quelli più vicini alla classe, troviamo i dirigenti delle organizzazioni corporative delle classi (compresi quelli più prossimi alle loro basi, come un delegato sindacale) e anche i membri della classe che, senza essere capi delle loro organizzazioni, ne costituiscono le figure più in evidenza, sia nella sfera pubblica che negli spazi di socialità comune della classe (dai luoghi di incontro esclusivi dell’alta borghesia, agli spazi di riunione nei quartieri popolari)68.
Inoltre, tra queste e questi intellettuali vicini alla classe spicca l’incidenza di coloro che fanno parte delle fondazioni o centri di ricerca legati alla classe. Quest’ultima è una cosa che la borghesia sta sviluppando con maggiore capacità, ma viene fatta anche dalle centrali sindacali e, più indirettamente, dalle frazioni piccolo borghesi69. Queste e questi intellettuali hanno la funzione specifica di valutare le diverse opzioni politiche e ideologiche nella prospettiva degli interessi della classe che li finanzia. Normalmente, i loro testi e discorsi sono gli input chiave in base ai quali i membri della classe e anche altri intellettuali vicini alla classe fanno le proprie valutazioni.
Tutti questi intellettuali, nella loro accezione più ampia, esprimono giudizi permanenti (positivi o negativi) sulla convenienza, per la classe, di sostenere oppure opporsi a determinati progetti o partiti che lottano per l’egemonia.
Ora, i progetti politici sono, a loro volta, sviluppati dai politici, cioè da altri intellettuali che prendono le distanze, almeno relativamente, dalle classi per presentare i loro progetti a un livello più universale. Normalmente, questi politici e queste politiche sono imbevuti di un atteggiamento ideologico intrinseco al loro ruolo di “politici” che li spinge a ottenere e mantenere il più alto grado possibile di potere statale. Questo atteggiamento può portarli persino a pensare di essere indipendenti dalle classi e di essere legati, nelle loro dinamiche, a quelli che Gramsci chiama “intellettuali tradizionali”.
Queste possibilità di successo nella lotta per il controllo del potere statale possono essere pensate in termini più personali o in base alle loro convinzioni ideologiche (ovviamente, le distinzioni sono di solito difficili da fare, tranne nei casi più evidenti). In ogni caso, al di là degli obiettivi personali, l’azione di qualsiasi politico o politica è sempre, in sostanza, più vantaggiosa per alcune classi che per altre. Pertanto, continuano ad essere “intellettuali organici” di qualche tipo, anche quando non ne sono chiaramente consapevoli (quindi, questa catalogazione è sempre un’attribuzione dell’analista).
Su questa questione del rapporto classe-intellettuale, non vi è alcuna differenza qualitativa tra le diverse classi sociali. L’associazione implicita in Gramsci (e in gran parte della sinistra della sua generazione) tra gli intellettuali della classe operaia e il Partito Comunista è stata fonte di seri problemi quando si effettuava un’analisi e una proposta gramsciana per la sinistra (l’introduzione dell’idea del “mito-partito” non risolve in alcun modo il problema, ma può tendere ad aggravarlo). Nella realtà storica, la classe operaia si trova sempre con opzioni diverse, incarnate in forze politiche diverse, e gli intellettuali organici più vicini alla classe devono effettuare valutazioni costanti di quale strategia e quali tattiche siano quelle che meglio rappresentano o costruiscono i loro interessi in ogni congiuntura.
Se non c’è differenza qualitativa, c’è però sì differenza in termini quantitativi. Le classi subalterne hanno molte più difficoltà ad organizzarsi. Gramsci lo descrive in termini alquanto pessimisti nel suo Quaderno 25, affermando che «la tendenza all’unificazione» «dei gruppi sociali subalterni» «è continuamente spezzata dall’iniziativa dei gruppi dominanti» (Quaderno 25, § 2, GRAMSCI 1975, p. 2283). Tuttavia, in realtà, tutti i Quaderni puntano a proporre modi per invertire questa situazione, quindi questa idea pessimistica non deve essere ipostatizzata. E chiaro che per le classi subalterne non è facile avere l’appoggio di intellettuali organici, sia quelli più vicini alla classe, sia quelli che si battono per l’egemonia politica. Riconoscere il problema potrebbe essere un primo passo per evitare percorsi che ritengo sbagliati e spesso diffusi nelle forze marxiste, come confondere l’interesse attribuito alla classe operaia con l’interesse che la maggioranza dei membri di quella classe ha in mente. Ciò ha portato molte volte a considerare la forza politica o il gruppo sindacale ritenuto più vicino a questi interessi attribuiti alla classe, come se fosse “la classe”. E neppure l’organizzazione sindacale o la forza politica votata dalla maggioranza dei membri di una classe devono essere considerate automaticamente difensori degli interessi della classe. Per tutto questo, bisogna stare molto attenti quando si parla dell’azione de “la classe” in campo politico.
La lotta per l’egemonia implica, quindi, un gioco di lotte tra partiti e progetti diversi che, pur combattendo contro partiti e progetti sostenuti da altre classi sociali, devono dimostrare alle classi che li sostengono che sono loro a difendere meglio i loro interessi, con la mediazione degli intellettuali a esse più vicini. In questo processo di “dimostrazione”, i partiti operano sui membri delle classi cercando di socializzarli entro una certa prospettiva in relazione all’ordine sociale e, più precisamente, in determinate letture della realtà congiunturale. Il riferimento ai “partiti” oggi va ampliato, perché negli ultimi decenni si è assistito a una progressiva diluizione di questo ruolo socializzante delle ideologie (i partiti hanno avuto la tendenza a ridursi ad apparati elettorali, se non a semplici articolazioni attorno a una figura personale). Questa funzione di “partito” è stata occupata da media concentrati e da organizzazioni politico-ideologiche che si muovono “nell’ombra”. In ogni caso, il ruolo delle forze politiche continua ad essere imprescindibile nella lotta per l’accesso elettorale alle cariche pubbliche e, quindi, nella lotta per l’egemonia politica.
Sebbene il taglio tra intellettuali più legati alla classe e intellettuali più legati alla politica sia estremamente utile per comprendere meglio le dinamiche tra classi ed egemonia, esso non è mai netto. E molto più vicino alla realtà concettualizzare un gradiente che va dai membri della classe che svolgono un certo ruolo intellettuale, pronunciandosi a proposito degli interessi della classe, ai politici che fanno parte di partiti con legami molto deboli con le classi. Oltre ad essere pensato come un gradiente e non uno spartiacque dicotomico, ci sono forti legami lungo questo continuum. Da un lato, gli intellettuali più vicini alla classe sono fortemente influenzati dai progetti e dai discorsi ideologici diffusi dagli intellettuali più legati ai progetti politico-egemonici. Non sono solo “organici” alla classe, ma tendono solitamente a concepirsi con una certa indipendenza da essa ed a cercare di avere una prospettiva ideologica che vada oltre quella meramente socioeconomica. Anche per la loro stessa funzione intellettuale, devono conoscere ed essere legati al livello politico o, almeno, all’analisi politica. Cioè, tende a crearsi uno sfasamento permanente tra la classe ed i suoi stessi intellettuali. E, d’altra parte, i politici sono solitamente attenti alle osservazioni e ai giudizi emessi dagli intellettuali più vicini alle classi di cui cercano di ottenere il sostegno.
A questa dinamica congiunturale bisogna aggiungere due elementi. In primo luogo, come abbiamo già detto, lo scenario della correlazione “oggettiva” delle forze può essere modificato, nel medio termine, in funzione del peso economico e demografico-elettorale delle classi. In questo senso, la «strana non morte del neoliberismo»70 si spiega, in larga misura, con le stesse trasformazioni nei processi lavorativi, nelle soggettività e nelle strutture dei media che hanno rafforzato il potere “oggettivo” della borghesia più concentrata e indebolito le capacità di unificazione e di lotta delle classi subordinate, e anche di allearsi con frazioni della media e piccola borghesia.
In secondo luogo, c’è la possibilità che la classe aiuti a costruire nuovi progetti politico-ideologici alternativi, pur manifestando, allo stesso tempo, un sostegno a altri progetti al livello congiunturale. Forse l’esempio più chiaro è stato il dispiegamento da parte della borghesia della più pura proposta neoliberista negli anni Sessanta (promozione di una serie di centri intellettuali), mentre sosteneva politiche concessive nei confronti della classe operaia da parte di partiti più “centristi”. Cioè, la classe può alterare la correlazione delle forze su un piano ideologico più radicale. Qualcosa di simile accadde con la classe operaia e il suo sostegno al marxismo alla fine del XIX secolo, mentre il proletariato difendeva anche posizioni più moderate, come il sindacalismo e la ricerca del suffragio universale nelle alleanze con varie forze politiche. Ma questi due piani hanno avuto la tendenza a dissociarsi nel caso della classe operaia, mentre la borghesia è stata più abile a dispiegare simultaneamente tattiche di accordo e strategie di combattimento ideologico più radicale.
Per concludere, aggiungo solo che il rapporto tra egemonia e classi comprende anche altri elementi che gli aggiungono complessità ma che non potremo qui affrontare, come la questione del linguaggio (che non è mai trasparente), quella della rappresentazione politica (in cui vari livelli si giustappongono) e quella dei vari piani in cui le lotte per l’egemonia incidono sugli atteggiamenti dei membri delle classi, in modi che trascendono lo specifico politico e ideologico, e si dispiegano attraverso vari aspetti della vita quotidiana in cui gli individui devono accettare o “negoziare” situazioni al di fuori delle proprie preferenze, ma che, a medio termine, finiscono per essere introiettate in processi di “ibridazione”.
Infine, spero di aver fatto un po’ di chiarezza su come la centralità del concetto di “classe” possa essere mantenuta nell’analisi delle lotte per l’egemonia. A tal fine è essenziale formulare una serie di postulati e, ad ogni congiuntura, questa analisi di classe richiede che questi postulati più astratti siano contestualizzati in relazione ai discorsi, alle tradizioni e alle identità che esistono in ogni momento e che effettivamente interpellano, con capacità diverse, i membri di ciascuna classe. In questo senso, l’analisi di classe delle lotte per l’egemonia richiede di soppesare ex-ante le concrete alternative politico-ideologiche e le loro possibilità di successo, valutando ex-post la pertinenza di questi giudizi. Allo stesso tempo, è necessario saper coniugare una prospettiva che mantenga la tensione esistente tra classi ed egemonia, nel senso di non cercare di dissolvere le prime nella lotta per l’egemonia, né ridurre questa a uno epifenomeno di un semplice scontro tra le classi.
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