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scienzaepolitica

A proposito di Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia

di Maurizio Ricciardi

Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Milano, Feltrinelli, 2021

Lamartine1848PhilippoteauxPIl saggio di Enzo Traverso sulla storia delle rivoluzioni si colloca all’interno, e forse all’apice, del suo lungo lavoro di ricostruzione di alcuni elementi costitutivi della storia poli­tica e intellettuale dell’ultimo secolo. L’indagine sul concetto di totalitarismo1, la ricerca sulla genesi e le strutture fondamentali della violenza nazionalsocialista2, gli studi sulla svolta con­servatrice che ha mutato il segno politico dell’ebraismo nella cultura mondiale3 sono passaggi importanti per comprendere il percorso che porta a questo testo, nel quale l’intento dichia­rato di Traverso è di riabilitare il concetto moderno di rivoluzione dopo e nonostante tutti i suoi fallimenti4. L’estetica del naufragio che apre il volume è da questo punto di vista assolu­tamente significativa. Le pagine dedicate a La zattera della Medusa di Théodore Géricault annunciano molti dei temi destinati a ritornare successivamente nel testo. L’analisi iconolo­gica proposta da Traverso si sofferma sui molti soggetti che non hanno trovato posto sulle navi che si sono allontanate dalla tempesta, lasciando indietro «marinai, soldati, operai e fa­legnami, rappresentanti delle classi inferiori». Assenti le donne, il marinaio nero - ritratto solo di schiena - diviene il significante di chi è stato relegato ai margini dal concetto contem­poraneo di rivoluzione, se non posto completamente al di fuori della sua scena principale. L’intera ricostruzione inizia così mostrando, letteralmente, l’ipoteca che grava sull’intero svi­luppo dei processi rivoluzionari.

La scelta di partire dal quadro di Géricault non è estemporanea, dal momento che l’intero testo è arricchito da un apparato iconografico, utilizzato costantemente come parte integrante della spiegazione storica.

Traverso rivendica da tempo il significato delle immagini che inter­rompono la linearità della spiegazione storica, fino al punto in cui «la scrittura della storia si trasforma in un montage d’immagini dialettiche, agli antipodi della narrazione lineare tipica dello storicismo»5. Grazie al dialogo con Walter Benjamin, egli affronta il complesso della memoria e il suo riaffiorare in specifiche «immagini di pensiero». I quadri, i manifesti, le fotografie, le immagini cinematografiche non rappresentano solo la variegata iconografia della rivoluzione, ma esprimono un’eccedenza rispetto a ogni deduzione e affermazione di una logica immanente alla storia stessa. «Le immagini dialettiche non sono riproduzioni speculari; non sono il semplice riflesso di eventi accaduti; sono “lampade” che illuminano il passato». Esse sono strumenti storiografici e, allo stesso tempo, modalità pratiche di riattivazione della memoria, perché solo il presente può tornare su quanto è avvenuto per comprenderlo e renderlo nuovamente fruibile. In questo contesto le immagini rappresentano ciò che non si condensa nel discorso rivoluzionario inteso come quell’insieme di dottrine, teorie, ideologie che fanno delle rivoluzioni non solo degli eventi più o meno dirompenti, ma un processo comunicativo dispiegato in tempi e spazi differenti. Il contrappunto delle immagini fa emergere il carattere discontinuo del discorso rivoluzionario, il suo tempo non necessaria­mente sequenziale. Traverso non la cronologia del concetto di rivoluzione, ma attraverso le «immagini dialettiche» punta a restituire il nesso tra storia, dottrina, «immagini, memorie, speranze». In questo modo il futuro di quelle immagini, cioè il presente, finisce per essere sempre debitore di un passato da riabilitare e riattivare.

Il quadro di Géricault è stato dipinto nel 1819, quindi dopo la Grande rivoluzione del 1789 ma prima delle vicende che dal 1848 impongono la rivoluzione come segno caratteri­stico dell’età contemporanea. Questa posizione intermedia finisce per essere significativa per la connessione specifica individuata da Traverso tra le diverse rivoluzioni. A differenza dell’edizione inglese, nella quale il sottotitolo è An Intellectual History, quella italiana, in maniera forse più chiarificatrice, suona: 1789-1989: un’altra storia. Fatte salve le tradizioni editoriali, il titolo italiano non dichiara solo l’arco temporale che il volume indaga, ma espli­cita anche l’ipotesi interpretativa che lo anima. Non a caso la rivoluzione americana recita un ruolo tutto sommato marginale in questa ricostruzione, comparendo come precondizione, o forse come immagine recuperata di memoria, dell’irruzione nel dibattito europeo ottocente­sco delle lotte per l’abolizione della schiavitù e soprattutto a proposito della nota e contro­versa tesi arendtiana sull’incolmabile distanza tra la rivoluzione politica negli Stati Uniti e quella sociale in Francia. In realtà, il 1789 interessa a Traverso perché annuncia o introduce alcuni processi che diventano successivamente essenziali per la storia delle rivoluzioni Otto e Novecentesche. Non ne fa tanto il paradigma delle rivoluzioni successive, ma rileva il lavoro costante di interpretazione, lettura, rivalutazione, cancellazione e memoria che è essenziale per la costruzione del concetto nel suo complesso. In primo luogo, la spinta verso la libera­zione dalle condizioni sociali alle quali masse enormi di uomini e di donne sono state stori­camente sottoposte. L’analisi di La libertà che guida ilpopolo di Eugène Delacroix, un altro dei punti di gravitazione iconologica del testo di Traverso, intende mostrare che la coniuga­zione pratica di liberazione e libertà, di affrancamento dalle condizioni sociali come presup­posto per il godimento della libertà politica, è un elemento fondamentale delle rivoluzioni e, di conseguenza, l’emancipazione è una categoria politica essenziale per la comprensione del concetto stesso di rivoluzione. In secondo luogo, il rapporto con la violenza che, se nella Parigi giacobina viene istituzionalizzata nel Terrore, in seguito ritorna costantemente come modalità espressiva delle folle rivoluzionarie, fino alla sua legittimazione come violenza in vista di una redenzione senza riconoscimento nella rivoluzione anticoloniale di Franz Fanon. Infine, ma non da ultimo, la riconfigurazione istituzionale del potere politico, la necessità che esso esprima i poteri sociali che hanno spinto a rivoluzionare la società. E questo è il punto maggiormente problematico perché, dal 1789 in poi, la costituzione di una nuova forma di autorità è coincisa con l’instaurazione di un ordine sovrano che, nonostante la sua origine rivoluzionaria, ha finito per replicare in maniera spesso anche più violenta e oppressiva le strutture fondamentali della modernità politica.

Questa connessione strutturale tra le rivoluzioni fa sì che, dopo il 1989, esse finiscano per essere accomunate dall’accusa di essere complessivamente degli errori fatali che hanno san­guinosamente deviato il corso della storia. Pur ripercorrendo gli scacchi teorici e i disastri empirici dei processi rivoluzionari contemporanei, l’altra storia di Traverso punta a «riabili­tare il concetto di rivoluzione come chiave interpretava della storia moderna». Questa riabi­litazione è resa necessaria dall’egemonia di posizioni storiografiche come quelle di Francois Furet, il grande accusatore ideologico delle ideologie rivoluzionarie6, ma anche, e forse so­prattutto, di quel pensiero neoliberale che, in particolare grazie a Ludwig von Mises e Frie­drich A. von Hayek, è diventato nello scorcio finale del Novecento l’ideologia politica domi­nante a livello planetario, incaricandosi di affermare la possibilità storica di una società sì moderna ma non rivoluzionaria né nella sua origine né nei suoi movimenti.

In questo quadro si spiegano i limiti temporali assegnati da Traverso a un concetto di rivoluzione il cui processo di politicizzazione si annuncia in realtà già nel XVII secolo e si presenta inizialmente come il movimento stesso della modernità politica, con la sua immaginazione di un potere politico fondato su basi completamente nuove e con il rifiuto almeno annunciato di ogni normatività tradizionale. Il moderno di Traverso coincide invece con quella cesura che, secondo Reinhart Koselleck, alla fine del XVIII, segna l’irruzione del contemporaneo all’interno della stessa età moderna. Esso comporta un’esperienza nuova del tempo orientata prioritariamente al futuro, oggetto di una costante accelerazione e dalla presenza di individui che sono contemporanei e quindi uguali dal punto di vista naturale e formale, ma non da quello sociale. All’interno di questa costellazione le esplosioni rivoluzionarie non confer­mano necessariamente il moderno, ma rivelano la sua instabilità, il suo carattere storico e quindi transeunte, la possibilità concreta del suo superamento. Ciò stabilisce il carattere pe­culiare del concetto moderno di rivoluzione, che si costituisce grazie a eventi che mettono in discussione la legittimità stessa della modernità. Nelle rivoluzioni contemporanee il passato viene “progressivamente” o “radicalmente” superato, riducendolo a mero anacronismo. C’è senza dubbio una inquieta simmetria tra la celebre frase di Thomas Jefferson: «Preferisco i sogni del futuro alla storia del passato», e l’affermazione di Karl Marx che la rivoluzione proletaria non può nutrirsi della poesia del passato, ma può prendere slancio solo dal futuro. Se è chiaro il differente soggetto al quale viene affidata la storia di questo futuro, è altrettanto evidente che siamo di fronte a una divaricazione all’interno dello stesso concetto di rivolu­zione. Esso può essere inteso come il principio d’ordine che, intensificandone i movimenti, porta a compimento la modernità stessa e la fiduciosa dichiarazione dell’Abbé Raynal - «Tutto è rivoluzione a questo mondo» - è una plastica dimostrazione di questa fiducia nel progresso rivoluzionario. Oppure, essa è sì un’accelerazione del tempo, ma popolata da sog­getti, pratiche e spazi imprevisti che mettono a rischio l’ordinato disordine rivoluzionario, la congiunzione di evento e processi che non si conclude e che, come appare chiaro nel concetto marxiano di rivoluzione in permanenza, non assume l’ordine come presupposto del suo discorso e come conferma della sua azione.

Come abbiamo già visto, la riabilitazione di Traverso della rivoluzione contemporanea è però caratterizzata da una peculiare posizione rispetto al passato. Essa è la conseguenza dell’intenzione di farne, nonostante tutto, un passato che non passa per non concedere il dominio totale sul tempo a un presente che si nutre solo di se stesso. Per lui, infatti, le rivo­luzioni «fluttuano» tra passato e presente e «inventando il futuro salvano il passato, ma pos­sono anche travolgerlo». Attraversando il dialogo tra Carl Schmitt e Walter Benjamin, Tra­verso rinviene l’opposizione ma anche la continuità tra rivoluzione e controrivoluzione, ma seguendo il secondo, e in qualche modo salvando così l’eredità ebraica dalla sua torsione conservatrice, egli riconosce ai frammenti del passato una capacità se non direttamente salvi­fica, quanto meno di indirizzo, non tanto nel senso che è il passato che salva, ma che «il rapporto simbiotico tra memoria e storia» dovrebbe servire a mobilitare il presente. La que­stione che dunque si pone è che rapporto con il tempo instaurano le rivoluzioni e, di conse­guenza, come sia possibile relegare a un passato che non può tornare non solo i regimi pre­rivoluzionari, ma anche le esperienze devastanti di quelli socialisti o la mediocre decadenza di quelli socialdemocratici, facendo allo stesso tempo delle rivoluzioni avvenute qualcosa che è possibile rammemorare produttivamente, in modo che almeno alcuni loro frammenti di­ventino parte di nuove, possibili sollevazioni. E lo stesso problema si pone per quel discorso rivoluzionario che Traverso critica severamente per i soggetti non maschi e non bianchi che ha ignorato, per aver legittimato l’istituzionalizzazione sovrana della rivoluzione, per la sua subalternità alla temporalità specificamente capitalistica. Questa è dall’altra parte la posizione controversa degli intellettuali che, nonostante tutti i limiti derivanti dalla loro specifica socio­logia, sono al tempo stesso i «guardiani della tradizione rivoluzionaria», coloro che si incari­cano di trasmettere nel tempo i frammenti di rivoluzione, confrontandosi con la materialità storica e le sue letture politiche. Il tempo «omogeneo e vuoto», che per Benjamin caratterizza lo storicismo, non è tanto una posizione storiografica, ma una metafisica della storia che fa propria la temporalità specifica della produzione capitalistica, riconoscendola non come un dato contingente e storico, ma necessario e quasi assoluto.

Contro questa metafisica, le rivoluzioni imprimono ai concetti politico-sociali una nuova e diversa materialità, perché impongono al politico stesso di rinunciare alla sua autonomia, divenendo espressione dei movimenti antagonisti che emergono dalla società. Esse sono gli operatori in grado di trasformare la tradizione semantica, imponendo al lessico politico-so­ciale di orientarsi in direzioni nuove, perché così infatti possono deformare la «base materiale dell’esperienza collettiva, trasformandola in un insieme di luoghi di memoria puramente vir­tuali». La rivoluzione come evento irrompe nel processo storico aprendo la possibilità di stabilire una tradizione rivoluzionaria, una sorta di deposito di esperienze svincolate dal loro concreto luogo di produzione. In questo modo Traverso dà però un significato peculiare all’ossimorico concetto di tradizione rivoluzionaria.

Hannah Arendt ha sostenuto che la comprensibile riluttanza dei rivoluzionari a sottostare alla ripetizione degli eventi ha impedito il consolidarsi di una tradizione rivoluzionaria fon­data sulle esperienze di organizzazione collettiva autonoma che lei vede costantemente ripro­porsi dalle ward republics di Jefferson alle società rivoluzionarie francesi, dai soviet russi ai consigli tedeschi. Rivendicarla sarebbe per Arendt tanto più necessario perché lo «spirito rivoluzionario» non può essere solo lo «spirito di cominciare qualcosa di nuovo, ma di co­minciare qualcosa di permanente e di duraturo». Questa coniugazione di novità e perma­nenza, di rivoluzione e istituzione, non comporta necessariamente la riaffermazione dell’eterna necessità di un ordine. Anche oltre la comprensione arendtiana dello spirito rivo­luzionario e della constitutio libertatis, la questione della permanenza della rivoluzione oltre l’evento rivoluzionario consente la sua emancipazione dall’originario significato astronomico e teologico del termine che, presente nella preistoria del concetto, viene costantemente ri­chiamato come negazione della sua carica trasformativa. Solo così esso può cessare di essere la forma della ripetizione di qualcosa di accaduto o l’espressione di una tendenza storica che i soggetti presenti possono solo confermare. Il concetto stesso può sfuggire alla personifica­zione che pure l’ha caratterizzato, sapendo che a esso è applicabile ciò che Marx dice della storia, cioè che essa «non fa nulla, essa non possiede alcun enorme potere, essa non combatte nessuna lotta».

Di fronte al fiasco storico delle esperienze rivoluzionarie del Novecento, all’impossibilità teorica e pratica di considerare duraturo ciò che esse hanno prodotto, Traverso oppone al comunismo-regime il comunismo-rivoluzione, al processo rivoluzionario la rivoluzione come evento. In questo modo, tuttavia, il significato della rivoluzione come progetto collettivo viene completamente subordinato all’insuccesso più o meno tragico della sua realizzazione. Scivola così sullo sfondo il problema della costituzione di un collettivo che avviene attraverso la pro­gettazione di un futuro che non è la conferma di una teleologia preesistente, ma il processo di condivisione che si assume il rischio della durata. La tradizione rivoluzionaria è invece per Traverso una «contraddizione insolubile tra un momento estatico di autoliberazione e la sua inevitabile trasformazione in azione organizzata». A essa non viene assegnata la possibilità di stabilizzarsi oltre le rappresentazioni del moderno, di imprimere il segno del proprio kairos sul chronos della storia, ma rimane costantemente sospesa tra due temporalità, di cui una è sempre esposta al sospetto di essere postrivoluzionaria in quanto negazione della rivoluzione stessa.

Traverso ha scritto che bisogna riconoscere che «una “memoria storica” esiste: è il ricordo di un passato che percepiamo come concluso ed entrato a far parte della nostra storia»7. All’inizio di questo saggio egli rileva però che i movimenti sociali degli ultimi decenni non hanno mostrato alcun particolare interesse per la mediazione politica e organizzativa, e nem­meno qualche peculiare tensione a inserirsi nella storia delle rivoluzioni. «Sono nati da una tabula rasa e non hanno elaborato il passato». Il rompicapo che il testo ci consegna è se, di fronte a questa profonda cesura, il lavoro della memoria possa davvero riattivare una storia della rivoluzione, mostrando che non si è esaurita.


Note
1 E. TRAVERSO, Totalitarismo. Storia diun dibattito, Milano, Bruno Mondadori, 2002.
2 E. TRAVERSO, La violenza nazista. Una genealogia, Bologna, Il Mulino, 2002.
3 E. TRAVERSO, La fine della modernità ebraica: dalla critica alpotere, Milano, Feltrinelli, 2013.
4 Alcuni elementi importanti per la ricostruzione critica del concetto di rivoluzione sono già presenti in E. Tra­VERSO, A ferro e a fuoco. La guerra civile europea (1914-1945), Bologna, Il Mulino, 2007, che ricostruisce quel momento storico europeo attraverso una fenomenologia della guerra civile, analizzando il conflitto tra le normatività presenti, lo scontro tra la violenza istituzionalizzata e quella che la nega, la contraddittorietà degli esiti politici.
5 E. TRAVERSO, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Milano, Feltrinelli, 2016, p. 195.
6 «Furet e i suoi allievi destoricizzano la rivoluzione, trasformandola in una rappresentazione nella quale agiscono soltanto dei concetti, senza dimensione sociale e al di fuori di qualsiasi circostanza esterna, con il risultato di costruire una metafisica del Terrore», E. TRAVERSO, Il secolo armato. Interpretare le violenze del Novecento, Milano, Fel­trinelli, 2012, p. 49.
7 E. TRAVERSO, Il secolo armato, p. 179.

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