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Operaio Sociale. Hans Jürgen Krahl

di Leo Essen

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La malinconia di molti marxisti cosiddetti occidentali, malinconia dovuta alla scoperta che nell’Unione Sovietica il comunismo non si era avverato di botto, portò a un’avversione per l’Economico che ancora alla fine degli anni Sessanta, in una persona come Krahl, non accennava a passare.

In una notarella al Che Fare?, scritta nel 1967, all’età di 24 anni, il brillante marxista tedesco, cresciuto all’ombra di Adorno, scrive quanto segue: La prassi economicista rinuncia alla sovversione e alla rivoluzione, si schiera con la riforma. La prassi economica comprende la sola attività tradunionista. La lotta meramente economica integra le masse nei rapporti di dominio economico e le costringe all’apatia.

Nonostante le analisi di primo livello, analisi che in molti punti sono in linea, per esempio, con la decostruzione francese, segno dalla magna cucuzza del ragazzo; nonostante una lettura precisa del suo tempo, Krahl subisce il fascino di quella malinconia che aveva preso le menti di quei marxisti, i quali, per età, avevano vissuto direttamente la delusione sovietica.

Non c’era bisogno che Krahl (insieme ad altri, certamente) gettasse questo discredito sull’Economico spingendo molti marxista a perdere tempo sul Politico e sul Concetto di politico – sull’autonomia del politico, eccetera.

Rimane che il suo contributo, seppur frammentario, è di primissimo livello.

 

II

Nel 1969, in un saggio pubblicato su Corrispondenza Socialista, Krahl insiste su questo tema.

Come è possibile, si chiede, mediare le nuove esigenze di emancipazione senza cadere in un inconsapevole sindacalismo che misuri tutto col metro della miseria materiale, dell’oppressione fisica e della vittoriosa rivoluzione d’ottobre? Come si può evitare di considerare l’esigenza di emancipazione già costituita e materializzata nel partito e ridurla a una coscienza empirica?

Le risposte a queste domande non tengono conto della funzione sociale del capitalismo, consolidata dall’intervento statale, né della mutata condizione dei lavoratori nelle metropoli. Coniugano i vecchi teoremi di lavoro produttivo e improduttivo e lisciano completamente le trasformazioni che hanno investito il lavoro associato e la fabbrica. Non considerano la socializzazione del lavoro produttivo e la correlativa socializzazione del capitale, ovvero la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso.

La socializzazione del capitale estende il concetto di lavoro produttivo – ecco cosa bisogna assumere! La contrapposizione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che regge e giustifica un certo economicismo marxista, deve essere rivista.

Nel Capitale (I, t2, 554) Marx illustra bene il processo che emancipa la mano dal macchinario e disloca il processo di produzione tra una sezione che progetta e una sezione che esegue, tra una sezione che computa e una sezione che trasforma o distribuisce. Il prodotto, scrive Marx, si trasforma da prodotto immediato di un lavoratore individuale in prodotto sociale, in prodotto comune di un lavoratore complessivo, cioè di un lavoratore complessivo combinato, le cui membra sono più o meno ravvicinate al maneggio del processo. Finché il processo è mero processo lavorativo individuale, lo stesso lavoratore riunisce in sé tutte le funzioni che più tardi si separano. Non bisogna affrettarsi a vedere in ciò la separazione tra lavoro manuale e intellettuale, tra lavoro di progettazione e direzione e lavoro esecutivo manuale, di fabbrica, e dunque vedere in questa fatica manuale il luogo stesso dello sfruttamento. Niente di più errato. Intanto perché a separasi non sono soltanto la testa e la mano, ammesso e non consesso che una tale separazione sia pura, definitiva, individuabile; a separarsi – a smembrasi – è lo stesso oggetto del lavoro; è la divisione tecnica del lavoro che porta uno stesso prodotto finito a essere lavorato in siti diversi, distanti nello spazio e nel tempo.

Con questo carattere cooperativo del lavoro, dice Marx, si amplia necessariamente il concetto di lavoro produttivo e del veicolo di esso, cioè del lavoratore produttivo. Ormai, dice, per lavorare produttivamente non è più necessario por mano personalmente al lavoro, è sufficiente essere organo del lavoratore complessivo e compiere una qualsiasi delle sue funzioni subordinate. La definizione di lavoro produttivo rimane valida per il lavoratore complessivo, per l’operaio sociale.

Si tratta di una visione strutturale del processo di valorizzazione. Il valore non deriva dal lavoro immediato. Non c’è lavoro immediato. Il valore, strutturalmente, deriva dal gioco delle differenze, e queste differenze corrispondono alla divisione tecnica del lavoro.

Nel 1906 Saussure teneva all’università di Ginevra i suoi corsi di Linguistica generale e metteva a punto la sua semiologia strutturalista, semiologia nella quale il valore di un pezzo deriva dalla posizione relativa di tutti gli altri pezzi, e poteva farlo perché lo strutturalismo stava (mi verrebbe da dire, in modo per niente saussurriano) stava alla lettera nelle cose – tra le cose.

Il motore, la macchina da esso azionata, e i mezzi mediante i quali trasmette la sua potenza, sono tutti costruiti adattandoli reciprocamente; così pure il numero e i tipi delle macchine impiegate, e la capacità e il genere di canali usati per l’approvvigionamento, lo spostamento e la rimozione del materiale grezzo e finito – scrive Landes (Prometeo liberato). La sostituzione di un elemento dell’attrezzatura con un altro, o l’introduzione di un nuovo congegno, può raramente essere considerata isolatamente. Per di più, la decisione circa un determinato cambiamento non è sempre interamente circoscritta all’impresa, ma dipende in grado maggiore o minore dalla collaborazione di unità esterne. Nuove tecniche di montaggio possono richiedere nuovi standard di precisione e quindi nuove attrezzature negli impianti dei sub-fornitori; attrezzature di caricamento più rapide possono rendere assai meno di quanto sarebbero in grado di fare, se i vettori non adattano i loro metodi al nuovo ritmo. D’altra parte, la manifattura meccanizzata su vasta scala ha bisogno non solo di macchie ed edifici, ma di grossi investimenti in infrastrutture: strade, ponti e sistemi di trasporto; e scuole per l’istruzione tecnica e generale.

Il capitale fisso, incorporato in una serie di macchine e la tendenza all’automazione, dice Krahl, hanno modificato ciò che Marx ha definito come sussunzione reale del lavoro al capitale. Essa si distingue dalla sussunzione formale perché modifica in senso qualitativo anche la struttura tecnologica del processo lavorativo immediato mediante l’applicazione delle forze produttive sociali del lavoro, della divisione del lavoro e della scienza. Il processo lavorativo, dice, viene socializzato in se stesso.

La scomposizione del processo lavorativo, la stessa separazione del lavoro manuale dal lavoro intellettuale, è spinta dai vantaggi comparati; la specializzazione è frutto dei vantaggi comparati; la stessa divisone del lavoro segue la linea dei vantaggi comparati. Pertanto, il bene, la merce – la lavorazione – è frutto di una ricomposizione. La composizione fa una totalità del lavoro frammentato, ne fa un lavoratore complessivo, un operaio sociale. Essa riduce a semplice momento la singola capacità lavorativa e coinvolge la misura del valore, il tempo lavorativo, in una contraddizione sempre più acuta con la realtà del capitale fisso e del processo di produzione. Si impone, dice Krahl, una nuova qualità della socializzazione del lavoro produttivo. Un numero crescente di funzioni della forza lavoro si raggruppa nel concetto di lavoro produttivo.

 

III

La singola capacità lavorativa è un momento del processo complessivo. Dunque, è errato partire dalla sua consistenza empirica, dalla sofferenza del singolo operaio, dalla fabbrica propriamente detta. Anche il proletariato industriale in senso stretto, dice Krahl, viene a rappresentare sempre più un momento del processo lavorativo complessivo e sempre meno la totalità del lavoro produttivo.

Tutti gli scioperi spontanei che possono scoppiare nella RFT o alla FIAT di Torino non riusciranno minimamente a modificare il fatto che il proletariato industriale come tale è soltanto un momento della intera classe e non la rappresenta nella sua totalità.

Eppure, bisogna non trascurare che ogni momento rappresenta il tutto, che in ogni momento si ripresenta il tutto, che ogni singolo segmento lavorativo, ogni sub-fornitura, ogni sub-appalto, ogni esternalizzazione, ogni camion e ogni vettore ha una destinazione, porta in sé l’impronta di una totalità funzionante – economica. Ogni pezzo, ogni frammento, è già in sé una merce, e diventa una merce solo in quanto non è considerato in quanto momento isolato, ma come componente di un tutto. Nella parte bisogna vedere il tutto, nel mozzo e nelle sfere dei cuscinetti bisogna vedere la bicicletta. Solo la bicicletta in vista o in vista della bicicletta i singoli componenti acquistano valore economico. L’anticipo della bicicletta nel mozzo, questa bicicletta potenziale che infesta il mozzo, che non è niente e pure è tutto, è reificazione generale – farsi cosa del valore.

Nei termini di una reificazione ristretta, il valore della merce, dice Krahl, acquista realtà cosale per il mondo dei sensi solo quando si traduce in una relazione fra le cose, nel rapporto di scambio delle merci. Il problema della presentazione del valore, dice Krahl, coincide dunque con il problema della sua reificazione.

Il valore astrattamente universale, dice Marx, riesce ad acquisire una forma fenomenica qualitativamente diversa dalla forma naturale delle merci solo in quelle forme naturali stesse. Per questo, secondo Marx, nel modo capitalistico di produzione, i valori d’uso sono in pari tempo i portatori materiali del valore. Il valore d’uso anticipa il valore. Questo anticipo, bisogna dirlo chiaramente, non significa che la destinazione è assicurata, che il piano vada a buon fine – nessuna polizza teleologica può assicurare la riuscita della spedizione.

Il valore d’uso ha la proprietà non solo di rappresentare il valore, ma di esserlo nello scambio effettivo. E a coloro che considerano questo autonomizzarsi del valore come pura e semplice astrazione, dice Krahl, Marx fa osservare che dimenticano che il movimento del capitale industriale è questa astrazione in actu.

La reificazione pare mettere fuori gioco l’obiezione centrale che Kant rivolge contro la prova ontologica dell’esistenza di Dio, che cioè «essere, manifestamente, non è un predicato della res», bensì «semplicemente la posizione di una o certe determinazioni in se stesse». Infatti, la cosificazione del valore sociale nella merce, «tempo di lavoro realizzato», e l’autonomia che esso acquista nel denaro, si rappresentano come la reale predicazione di una posizionalità pura che duplica il contesto del prodotto sinteticamente posto dal lavoro concreto e ne fa una merce. Kant osserva: «La determinazione è un predicato, che si aggiunge al concetto del soggetto e lo accresce. Essa quindi non vi può essere già contenuta».

La critica kantiana si rivolge contro l’incarnazione delle astrazioni logiche, dei concetti, Kant non si stanca di avvertire «di non concludere senz’altro dalla possibilità dei concetti (logica) alla possibilità delle cose (effettive, ontologiche)». La prova ontologica dell’esistenza di Dio sarebbe basata sulla confusione fra predicato logico e predicato effettivo. Eppure, dice Krahl, questo quid pro quo tra logico e ontologico si compie nella produzione del capitalismo industriale.

Il valore è un’entità generica. Il genere non è una cosa. Ed è genere proprio in quanto non è una cosa. La cosificazione è proprio un processo che particolarizza l’universale. Nel segno sensibilmente percepibile, dice Krahl, l’astratto acquista una esistenza cosale, un essere spazio-temporale nelle relazioni fra gli uomini.

Il valore non è soltanto una proprietà che, insieme ad altre, si aggiunge alla merce – dice Krahl. Nella produzione mercantile capitalistica, la merce è immediatamente valore e pare essere un puro in sé. Marx non fa che modificare la dottrina dell’impredicabilità dell’essere. Per Kant, invece, il valore non si incontra nell’esperienza.

Gli uomini – per Marx – si rapportano agli astratti valori come a concreti valori d’uso perché queste astrazioni sembrano esistere.

La forma di equivalente «consiste proprio nel fatto che un corpo di merce, come l’abito, questa cosa così com’è, tale e quale, esprime valore, cioè possiede nella materia forma di valore. Certo, questo vale soltanto all’interno del rapporto di valore, nel quale la merce tela è riferita come equivalente alla merce abito».

La sussunzione dei valori d’uso particolari all’universale legge del valore, dice Krahl, pare porre realmente un puro in-sé. La reificazione è l’apparente predicazione del puro essere. L’incarnazione delle astrazioni logiche, dei concetti, a entità antologiche sui generis, a idee, che il realismo critico di Kant sconfessava con incorreggibile vigore, ha le sue radici nella produzione di merci generalizzata a livello sociale.

Il valore che si presenta nella cosa-merce ha una rilevanza spettrale. La spettrale oggettività di valore delle merci, dice Krahl, esercita una violenza materiale che non può essere dissolta per via concettuale: essa occupa i valori d’uso non-identici e, al culmine dell’alienazione, luccica nella concrezione sensibile della forma-denaro.

Non solo nella merce, che con ciò inizia a danzare e avere grilli per la testa, ad animarsi di vita propria, come un feticcio, ma anche nel denaro, che luccica e lancia segnali, parla o quasi-parla, o perlomeno si fa leggere, il valore si manifesta, si presenta, si presenta senza presentarsi, senza apparire, apparendo come cosa, infestandola, eccetera. Si giri e rigiri il materiale di cui è composto il supporto (oro, argento, carta, bit), non si troverà una briciola di valore, una molecola di valore, un atomo di valore. Eppure il valore c’è, materialmente c’è. Qui sta il senso del materialismo marxista. In cui la materia non è mera materia, non è mero fatto, non è l’oggetto positivo del positivismo. La materia è più di ciò che è. È più di ciò che abbiamo tra le mani. È anche meno, perché la merce-cosa rimanda a un alcunché che non c’è, che non è qui, che non è presente. Rimanda alla totalità di cui è un momento. Il mozzo rimanda alla bicicletta, e solo rimandando alla bicicletta, e alle implicazioni sociali in cui questa è impigliata, che esso ha un senso, ha un valore. Viceversa, non avrebbe alcun senso, sarebbe un oggetto muto. Verità che si impara nella crisi, dove il mozzo che non può diventare bicicletta, perché non trova un acquirente, piomba a terra come metallo senza valore.

Nella merce-cosa e nel denaro-cosa, dice Marx, il valore non tramonta. È dotato di un «potere apparentemente trascendentale», vale, cioè, non come mero «fatto emotivo», ma regola anzi la fatticità oggettuale, in quanto sia espressione rappresentativa, simbolo universale della totalità del mondo delle merci, calato in una esistenza singolare.

Il singolo pezzo effettivamente esistente porta in sé l’intero processo. È un vettore che trasporta notizia della sua destinazione. Il mozzo non è un mero pezzo di metallo, porta in corpo il segno della bicicletta. Il suo corpo fa segno alla bicicletta.

L’astrazione di valore, dice Krahl, che non è sensibile, ma neppure positivamente sovrasensibile, ha bisogno, per la sua esistenza particolare, dei valori d’uso sensibili, è quindi mediata da essi nel momento stesso in cui li assume in sé.

La totalità (in Hegel) cerca di opporre la mediazione tramite la negazione determinata, ma si sussume le cose particolari abbassandole a semplici momenti della mediazione che tutto risolve. La totalità mantiene la reificazione del trascendentale in quanto lo dispiega (superamento della cosa in sé, sintesi immanente).

La totalità – universale, infinito, libero, eccetera – si palesa tramite la negazione determinata. Si incarna nella merce, si manifesta nella cosa, poi l’abbandona, la cosa viene venduta o consumata, spira, sale al cielo. Sussume le cose particolari abbassandole a semplici momenti della mediazione che risolve tutto. In Marx la totalità mantiene la reificazione, la cosa non viene tolta, incarna il trascendentale (Dio), e si dispiega – si dissemina.

 

IV

Non siamo più di fronte a un partito che totalizza e subordina alla sua azione gli stati e i paramenti, siamo dentro un processo di socializzazione del lavoro produttivo e della proprietà privata capitalistica che si svolge sul terreno stesso del modo capitalistico di produzione e che, quindi, relativizza il significato del lavoro e del tempo lavorativo.

Non ritengo – dice Krahl – che si possa, per questo, parlare di una seconda fonte di plusvalore, ma è certo – è certo! – che la realtà del processo di produzione non coincide più con il processo lavorativo. La produzione non avviene più – o esclusivamente – nei luoghi di produzione. Il lavoro che produce plusvalore si slega dalla produzione. È la fine del concetto di lavoro produttivo.

Già Rubin – negli anni Venti –, ribaltando il rapporto tra produzione e circolazione e legando la sua teoria del valore alla circolazione, faceva fatica a segnare il margine tra lavoro produttivo e improduttivo. Ma qui siamo al ribaltamento definitivo.

Se è così, dice Krahl, se la contraddizione fra socializzazione e proprietà privata, fra lavoro sociale e lavoro privato dispiega una dimensione nuova e tale da manifestarsi, allora, in una certa misura, si è allargata anche la totalità della classe proletaria. Per questo stesso fatto si allarga anche il concetto di lavoro produttivo, al di là del singolo reparto di fabbrica vera e propria. E, secondo me, dice Krahl, non è possibile tradurre tutti questi problemi in un’adeguata coscienza partitica della totalità, in coscienza di classe, se ci si attiene a un concetto tradizionale di proletariato industriale, se cioè si rimane aggrappati all’esercito degli operai che lavorano alle macchine.

Questa dislocazione del lavoro produttivo – questa relativizzazione del lavoro produttivo – questa svalutazione del lavoro – si sviluppa all’interno della tradizione del marxismo occidentale che, dice Krahl, va da Lukács, attraverso Horkheimer, fino a Merleau-Ponty, e che porta alla coscienza ciò che gli strateghi del riformismo socialdemocratico e dell’ortodossia del marxismo sovietico hanno rimosso: la riduzione del progresso emancipativo a progresso tecnico, della rivoluzione sociale a rivoluzione industriale. Questa tradizione del marxismo occidentale riapre la prospettiva di una politica e di una violenza che rifiutano il compromesso, propone l’idea di una liberazione che va al di là dell’intensificazione industriale attuata mediante piani. La riduzione del processo rivoluzionario di liberazione a rivoluzione industriale continua a trascinare con sé la miseria della reificazione e sottomette gli individui alla servitù impersonale dei mezzi materiali di produzione.

La fine del lavoro produttivo seppellisce l’industrialismo sovietico e l’operaio massificato. L’operaio sociale non è un lavoratore, è un ribelle, una sorta di sottoproletario che aspira a staccare la sua cedola di reddito garantito.

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Liliana
Saturday, 23 December 2023 12:30
Molto interessante. Per caso, l'operaio sociale è quello teorizzato da Toni Negr
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