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scenari

Poetica dell’essere vero: metafisica dei costumi

di Toni Negri

Toni Negri è stato tante cose. Tra queste – tra l’operaismo e la militanza politica – è stato, forse in maniera più silenziosa, un lucidissimo studioso di Leopardi. Su Scenari, vogliamo ricordarlo con un estratto di Lenta Ginestra*. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi, opera monumentale che ha aperto nuove prospettive sull’intero corpus leopardiano.

copertina lenta ginestra scenari 1062x480.jpeg“Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire freddamente, speculando quest’arcano infelice e terribile della vita dell’universo” [1]. È questo un programma filosofico? Taluno ha insistito a dismisura su questo e analoghi passi leopardiani. Una volta, Leopardi e Schopenhauer, era lo stereotipo che si usava per liquidare la portata sovversiva della critica leopardiana [2]. Ora la moda è cambiata: Leopardi e Kafka per qualche altro menagramo… [3] Leopardi, ovvero il grande vinto, il pessimismo cosmico, ecc. Nulla di meno vero.

Questo andare di citazione in citazione, scegliendo le più disperate e tirandone conclusioni definitorie, è solo un malvezzo: d’altra parte Schopenhauer e Kafka hanno la loro propria grandezza e non si comprende davvero come possano essere chiusi nella fattispecie leopardiana. Niente in Leopardi c’è della schopenhaueriana fenomenologica progressiva teologia del nulla e tanto meno il gusto, affatto dialettico, della negazione e della devoluzione della realtà nelle figure dell’evanescenza l’uomo “vede, ovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente animalità e un mondo evanescente”, non gli basta più quindi “amare gli altri come se stesso e fare per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per l’essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la sua volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore”[4]: in Leopardi il reale è sempre fuori discussione e lo sfondo del suo materialismo è irriducibile. Né di Kafka vi sono in Leopardi l’allucinazione, una gnoseologia machiana: “nel mondo di Babele c’è come un’asfissia della parola” – poi quella kafkiana, appunto, fenomenistica analitica della psiche: “una fine apparente causa un dolore reale” [5]; in Leopardi la psiche è continuamente riportata al meccanismo del senso – e si fonda e si ricostruisce materialmente.

“L’arcano infelice e terribile della vita dell’universo”, e il suo studio, non costituiscono dunque un programma filosofico: sono semplicemente lo sfondo di un lavoro filosofico, della ricerca lunga e appassionata di un significato della vita. A partire dalle condizioni materiali della costituzione del mondo. È vero che questo lavoro filosofico leopardiano sfiora sovente baratri di pessimismo assoluto – ed è perciò anche vero che il sensismo e il materialismo leopardiani in definitiva non conoscono la tranquilla, serena forza di progressione delle scuole rinascimentali e seicentesche (anche se ne amano e, nostalgicamente e stilisticamente, ne accarezzano la tradizione). Ma in ciò probabilmente stanno l’alta originalità e la grande modernità di Leopardi, il contributo vivo e innovativo portato alla metafisica del materialismo. Mi spiego più ampiamente. Si dà, in questo Leopardi e proprio in questa fase centrale della sua vita e del suo lavoro, una sorta di rivoluzione copernicana nel materialismo.

Se in Kant la rivoluzione critica consiste nello stabilire un orizzonte trascendentale sul quale l’uomo contribuisce alla costruzione del vero o almeno alla progettazione di un vero umano sicché è proprio questo senso della relatività che può fondare un vero criticamente accertato bene, un’analoga operazione è condotta da Leopardi, fuori da ogni orizzonte trascendentale, dentro invece la trama di una dialettica della natura e della storia, del tutto finita, del tutto materiale, cui l’uomo, come parte finita di quest’universo, si confronta. E solo la sua presenza dà o toglie, trova o no, il significato del mondo. L’uomo è gettato in questo mondo e, praticamente, attraverso il senso e il trasfigurarsi e il procedere del senso fino alla facoltà dell’immaginazione, costruisce il significato del mondo. Qui va ora aggiunto un altro elemento alla nostra considerazione della rivoluzione copernicana nella filosofia del materialismo. Quest’inerenza dell’uomo all’orizzonte materiale definisce la preminenza dell’etica. Un materialismo moderno o è etico e umanistico o non è. La filosofia trascendentale classica, e soprattutto quella kantiana, pone l’assolutezza dell’etico a illuminare la relatività della conoscenza.

In Leopardi, al contrario, l’etico fa parte della relatività del mondo, subisce le dimensioni della finitezza, ma proprio per questo costruisce l’orizzonte conoscitivo. L’etico è l’impulso e non la garanzia della conoscenza. L’etico si confronta all’arcano del mondo, e lo penetra – e non può non farlo perché dolore e desiderio lo sospingono, l’immaginazione lo organizza. Che cos’è dunque l’ontologia di Leopardi? È questo lavoro dell’etico, che si pone sul margine estremo dell’immaginazione, su quella trama che si stende fra soggetto e mondo come continua interrogazione vitale e continua costruzione di vita. Di questa rivoluzione copernicana del materialismo, che vuole il soggetto come elemento centrale dell’orizzonte del mondo, Leopardi è uno degli autori. Da questo punto di vista il suo pensiero non è lontano, vivendo una problematica analoga, da quanto viene sviluppandosi nella critica marxiana della filosofia trascendentale e nella costruzione del materialismo rivoluzionario contemporaneo. La storia della metafisica del materialismo è innovata su questo passaggio. Dentro questa rivoluzione, l’idea della materia si stinge della determinazione di inafferrabilità metafisica per rendersi ambito della vita dell’uomo, per confrontarsi alla storia. Su queste dimensioni, il senso e l’immaginazione, sostenuti dall’apprezzamento etico del reale, conducono quella durissima lotta che è la forma stessa dell’esistenza. L’ontologia si qualifica così sempre più come metafisica dell’etico, come metafisica dei costumi. Si badi bene, questa leopardiana scoperta non è certo disancorata da un processo culturale che, sia pur dentro grandi incertezze, viene compiendosi in maniera generale. Proprio il rapporto del Leopardi, in questo periodo, con il Vieusseux e con le idee costitutive del programma dell’Antologia sta a dimostrarci la maturazione di queste idee etiche e metafisiche [6].

Ma in Leopardi, v’è, rispetto alla dinamica e alle tendenze dell’ambiente, al lento maturare della nuova filosofia, un radicalismo critico e metafisico senza uguali. Se l’ontologia deve farsi metafisica dei costumi – e così Leopardi tocca le tendenze del secolo – ciò avviene perché l’etica e il costume sono ontologia, sono materialità dispiegata, sono elementi della grande e tragica macchina dell’universo con ciò Leopardi si pone ben oltre le linee definitorie della timida filosofia del suo tempo e tocca quegli spazi che son propri della grandissima metafisica. Metafisica dei costumi, dunque [7]. Lo Zibaldone del ’23 ne rappresenta una prima importante stesura[8]. L’analisi è tutta impiantata dentro quell’universo materialistico ormai rivoluzionato che abbiamo visto sorgere dalla coniugazione della “seconda natura” e dell’immaginazione, sicché l’una è interna all’altra e in questa Umwelt si sviluppa ogni movimento, così dell’esistenza come dell’innovazione della vita.

Ora, niente meglio della lingua, come orizzonte naturale e storico, ci presenta inizialmente queste dimensioni del mondo. Moltissime sono le pagine di lavoro linguistico e filologico in questo periodo [9]. L’importanza di quest’assunzione della lingua non può essere ridotta al pur immenso lavoro che Leopardi in proposito sviluppa: v’è di più. È ben vero che spesso quest’enorme brogliaccio filologico si rivela come una modernissima analitica del linguaggio e che (quella che oseremmo chiamare) una theory of pictures viene talora intuita: ma v’è di più. V’è, nell’identificazione di questo primo elementare tessuto dell’analisi che riassume, per così dire, le indagini filosofiche del precedente periodo una nuova definizione della “seconda natura” come potenza di comunicazione e di costituzione collettiva. L’immaginazione s’è interamente innestata all’universo.

La lingua è la risultante dell’interna produttività di una potenza strutturale [10]. Ogni lingua nazionale contiene elementi strutturali di autoproduttività, che si esprimono secondo norme immanenti. Ma ciò non basta. Oltre agli elementi strutturali, ogni lingua si costruisce sul ritmo costruttivo della civiltà di una nazione [11]. Il sistema storico delle lingue è dunque duplicemente aperto alla dinamica della creatività: sul lato strutturale e sul lato storico. Termini modernissimi di una dialettica filologica di storia e struttura, di creatività e di stile, vengono qui impiegati da Leopardi per ricondurre continuamente le affermazioni generali alle analisi particolari [12]. Ma ciò che più importa è che in questa analisi, che per taluni versi è anche un elogio delle lingue e delle nazionalità (lingua francese: ossia la lingua dello stile e della forza stilistica, della prosa e della prosa poetica; lingua tedesca: ossia la lingua della scienza, sua conformabilità, adattabilità, sua capacità di mimesi del reale; lingue classiche, il greco e il latino e l’italiano: ossia le lingue della creatività per eccellenza, e della poesia…)[13] – in quest’analisi, dunque, la seconda natura linguistica si presenta sempre come potenza.

Una potenza che si conforma alla storia ma che anche innova nella storia, e di questa determina caratteri così come ne subisce l’involuzione e il degrado – a ogni modo è una potenza viva. Ripetiamo: l’immaginazione si è innestata fin nel profondo della seconda natura ed è – di conseguenza – divenuta collettiva. Su questo tema, dell’immaginazione collettiva, dell’immaginazione come potenza storica, non si parla abbastanza negli studi su Leopardi [14]. Ed è evidente perché. È questa, in effetti, un’ipotesi di lavoro che modifica in maniera radicale ogni interpretazione del pensiero leopardiano – sull’arco intero dei suoi molteplici scorci: dal formalismo all’interpretazione religiosa, dalla lettura biografica e sentimentale a quella politica progressiva. Il presupposto indiscusso di tutte queste interpretazioni è l’individualismo, quasi il solipsismo dell’esperienza poetica di Leopardi; ora, invece, quanto noi veniamo scoprendo, vale il contrario e cioè: in questo momento di accessione alla maturità teorica e poetica, la nuova base, il nuovo tono del discorso leopardiano sono quelli del collettivo.

L’universalità umana è considerata nell’articolazione che le grandi soggettività nazionali, e poi tutti i gruppi fino ai soggetti individuali, producono, secondo lo schema della creatività linguistica. Lo schematismo trascendentale della ragione è così demistificato e condotto a questa materialità storica, determinata, organica. Il grande soggetto astratto dell’idealismo, vera leva di traduzione mistificante del reale, è distrutto e riportato alle articolazioni delle soggettività autonome e soggettivamente configurantisi. Con ciò non è posta solo la base di una modernissima concezione della lingua – con ciò è anche sviluppata un’idea della comunicazione linguistica che è parametro di costituzione collettiva del mondo. S’intende con facilità, a questo punto, perché il lavoro filologico-linguistico di Leopardi ci sembra talmente importante nel costituirsi della sua metafisica dei costumi. Lo strumento linguistico è strumento creativo nel rapporto fra quest’universo nel quale siamo immersi e la nostra attività – attività etica di soggetti.

Come scintille da un ramo che brucia, piovono uno dopo l’altro attorno a noi, innumerevoli, gli elementi della costruzione metafisica. Scintille, “larve” potrebbe dire Leopardi, di un sapere che ricostruiamo per infinite vie di un vero che, per quanto doloroso, è costitutivo. Leopardi si dilunga in questa sua meravigliosa riscoperta della lingua, nello svelamento di quest’arcano nel quale natura e storia, struttura e creatività tanto bene giocano assieme. Si dilunga, si perde in un labirinto di problemi, ricuce ipotesi diverse, inventa. Una delle cose più curiose, e nondimeno interessanti di queste pagine [15] – che qui vale ricordare per insistere sulla ricchezza del vagabondare di Leopardi in materia linguistica è l’interesse alla genesi dell’alfabeto. Stupore per questa costruzione collettiva, per quest’opera enorme dei primordi dell’umana civiltà – e insieme sperimentazione di un metodo analitico-genetico, fortemente strutturato, nell’analisi del linguaggio come potenza naturale.


* A. Negri, Lenta Ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi (Mimesis Edizioni, 448 pag., 26,60€, 2023)

Note
[1] Lettera 331, a Pietro Giordani, Recanati, 6 maggio 1825 [EPIST, I, 690, 884-885].
[2] Riassumendo quanto abbiamo già più volte ricordato a proposito di Schopenhauer, e riprendendo la bibliografia (De Sanctis, Nietzsche, Croce – ma anche in buona parte R. Bacchelli, Leopardi e Manzoni. Commenti letterari, Mondadori, Milano 1960 e K. Vossler, Nel centenario di Giacomo Leopardi, Cedam, Padova 1937) – dunque, riassumendo, possiamo qui stabilire: a. esiste un rapporto concettuale preciso fra lo sviluppo di pensiero di Leopardi e quello di Schopenhauer – questo rapporto consiste nell’assumere il problema critico come problema centrale della filosofia, nell’assumere l’uomo in quanto soggetto come rivelazione della “cosa in sé”, nel considerare il problema della natura come tema della “seconda natura”; b. la distinzione fra le filosofie dei due autori consiste nel fatto che Schopenhauer cede all’irrazionalismo, Leopardi vive la dimensione razionale della filosofia occidentale con estrema coerenza (sull’irrazionalismo schopenhaueriano vale pur sempre G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag, Berlin 1949). Mi sembra che su una posizione analoga abbia ben insistito in genere S. Timpanaro, di cui tuttavia mi risulta sospetta l’estrema attenzione concessa al pessimismo leopardiano, rispetto alle tesi di Luporini e Binni. Voglio dire che in Timpanaro il fascino di un’interpretazione schopenhaueriana di Leopardi, pur dominato filologicamente, implicitamente riappare quando l’inversione etica del pensiero leopardiano è esclusivamente considerata, quasi schiacciata sull’ultimissimo periodo della sua esperienza lirica e vitale: ed è chiaro che questo rapporto è diventato un passaggio obbligato dell’interpretazione leopardiana ed è chiaro anche come esso sia stato caricato di tanta passionalità, data la centralità del problema. Per quanto mi riguarda mi sembra fondamentale riprendere lo studio di questo rapporto, insistendo sul fatto che, comunque, Schopenhauer rappresenta nella filosofia dell’Ottocento una delle linee antitetiche alla dialettica hegeliana. Un’affermazione come quella che qui sotto riportiamo, così radicale, così filosoficamente pregnante, Leopardi stesso avrebbe potuto sottoscriverla: “Lavorando adunque con questa disposizione, e vedendo frattanto ognora il falso e il cattivo in pregio universale, anzi la gonfia vacuità e la ciarlataneria in altissima stima, ho da lunga pezza rinunziato al plauso dei miei contemporanei. È impossibile che una generazione, la quale per vent’anni ha tanto forte strombazzato un Hegel, questo Calibano intellettuale, come il più grande dei filosofi, da risuonarne l’Europa intera, possa far venir gola del proprio plauso a chi ha visto un tale spettacolo. Essa non ha più corone da largire: il suo plauso è prostituito, e il suo biasimo non ha alcun valore. Che io dica questo sul serio, risulta dal fatto che, se mai avessi aspirato al plauso dei miei contemporanei, avrei dovuto cancellare venti luoghi, i quali contrastano appieno con tutte le loro opinioni, anzi, in parte, devono apparir loro scandalosi. Ma io mi ascriverei a delitto il sacrificare anche una sola sillaba a quel plauso. Mia stella polare è stato in tutta sincerità il vero: col seguir questo io potevo aspirare soltanto al mio proprio plauso, avendo distolto affatto lo sguardo da un’età profondamente decaduta rispetto a tutte le aspirazioni superiori dello spirito, e da una letteratura nazionale, in cui l’arte di accordare alte parole con basso sentimento ha toccato il suo vertice. Ai difetti e alle debolezze, inerenti per necessità alla mia natura come a ciascun’altra, non posso io di certo sottrarmi in nessun modo: ma non li accrescerò con accomodamenti indegni” (Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1982, vol. I, p. 15).
[3] Cfr. supra, nota 60 del cap. I. Anche qui riassumendo: a. per quanto riguarda il rapporto concettuale fra il pensiero di Leopardi e quello di Kafka è fuori dubbio che alcune delle determinazioni del loro discorso (come l’idea di crisi, di molteplicità degli scenari di questa; della multiversalità della razionalità moderna, la determinazione del dolore ecc.) coincidono; b. esiste una differenza fondamentale e questa differenza consiste nel fatto che Kafka condivide interamente le dimensioni fenomenistiche della filosofia e della sensibilità neokantiana. Non è da dimenticare la tesi di Kafka sul pensiero di Mach; c. è chiaro che il giudizio che si può dare sul rapporto è, in questo caso, puramente sentimentale.
[4] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., vol. II, paragrafo 68.
[5] Cfr. M. Cacciari, Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985.
[6] A Gian Pietro Vieusseux, Recanati, 5 gennaio e 2 febbraio 1824 [EPIST, I, 606, 775-776 e 612, 784-787]. Si riconsiderino qui, per quanto riguarda il clima generale politico del tempo ed in particolare l’evoluzione dell’Antologia, i testi di Candeloro, Badaloni, Carpi (Antologia), Ferraris, Timpanaro, citati alla nota 14 del cap. I. Ma vedi anche B. Biral, op. cit., passim. U. Carpi, Il poeta e la politica, cit., pp. 126 sgg., chiarisce bene la situazione generale nella quale si sta attestando il pensiero politico dell’Antologia: eclettismo liberale, progressista, riformista. Bene, poco interessano qui le successive definizioni che il Carpi appiccica al pensiero politico di Leopardi, per staccarlo (con segno negativo) da quello degli altri autori dell’Antologia: Leopardi sarebbe un nobile emarginato, poi un letterato senza collocazione, emarginato dunque di nuovo… Facile immaginare una risposta a questi giudizi: che altro è, e può essere, un intellettuale non integrato, non organico nel mondo capitalistico? Non ha mostrato l’intera storia di questi secoli di civiltà capitalistica che l’unica posizione possibile per l’intellettuale è quella dell’emarginazione, della libertà critica? Quello che sfugge al Carpi è che questa collocazione leopardiana non elimina la capacità del poeta di criticare dall’interno lo sviluppo capitalistico. Leopardi non è legato alle posizioni del riformismo aristocratico, non è “prima” del capitalismo vi è “dentro”. Ma va sottolineato qui un ulteriore elemento di distacco di Leopardi da Vieusseux e dai suoi amici. Esso consiste nel fatto che il circolo fiorentino dell’Antologia costituisce uno dei crogiuoli del trasferimento della tematica critica e dialettica dall’Europa all’Italia (cfr. in proposito G. Gentile, Storia della filosofia italiana da Genovesi al Galluppi, Milano 1932; M.F. Sciacca, Il pensiero italiano nell’età del Risorgimento, Marzorati, Milano 1963). Ora, il circolo fiorentino non è semplicemente un luogo di passaggio ma è anche un circolo potenzialmente predisposto all’accettazione del discorso dialettico. Di nuovo qui troviamo la ragione del contraddittorio rapporto di Leopardi con questo circolo: consiste nel fatto che egli accetta la posizione del problema critico ma ne rifiuta la soluzione dialettica.
[7] La Grundlegung zur Metaphysik der Sitten di Kant apparve in prima edizione nel 1785 a Riga. I due volumi successivi: Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre e Metaphysische Anfangsgründe der Tugendlehre apparvero a Königsberg separatamente nel gennaio e nell’agosto 1797. Sulle influenze critiche su Leopardi, cfr. supra, nota 66 del cap. I. È ben noto il paradosso contenuto nella kantiana “metafisica dei costumi” – e cioè il continuo passaggio dall’argomentazione a priori a quella a posteriori, le difficoltà della deduzione del concreto che si risolvono in una valutazione accurata e in un recupero accanito del particolare – sicché si è potuto notare che, ferme restando le premesse generali, qui Kant trascorre dal giudizio “sintetico a priori” ad un’ipotesi “analitica a posteriori”. Quali che siano le definizioni, è certo che su questo limite critico si verifica una tensione inesausta – che, mentre percorre il dualismo originario del pensiero kantiano, per così dire lo consuma nel tentativo di afferrare le grandi figure dell’ordine sociale e storico. Che su questo terreno le differenze del pensiero kantiano da quello di Leopardi possano essere grandissime è fuori dubbio: ma è anche vero che, nella metafisica dei costumi di Kant, la ricerca di un punto ideale di incrocio dell’idealità etica e della concretezza istituzionale è fortissima. È attorno a questo punto di incrocio che, come nota Antimo Negri, art. cit., pp. 485 sgg., le differenze fra il pensiero di Kant e quello di Leopardi si appannano: “le favole”, i “poemi”, “i romanzi” critici diventano leggibili a Leopardi… Comunque per quanto riguarda altri aspetti del rapporto Kant-Leopardi cfr. infra, nota 80 di questo capitolo.
[8] Lo Zibaldone del ’23 prende inizio dal ritorno di Leopardi a Recanati da Roma, quindi nel maggio. Fra maggio e dicembre Leopardi stende da p. 2686 a p. 4006 del suo grande e geniale brogliaccio (TO, vol. II, pp. 683- 1027). È un periodo importantissimo, questo: i vari filoni della ricerca raggiungono un culmine di concentrazione, unificandosi nel lavoro filosofico. Dal ’24, al declinare del lavoro allo Zibaldone corrisponderanno la redazione delle Operette morali e poi, via via, altre preoccupazioni. Sull’importanza dello Zibaldone del ’23, cfr. soprattutto Binni e Biral.
[9] Per quanto riguarda un bilancio delle pagine linguistiche di questo periodo (nello Zibaldone), cfr. S. Gensini, op. cit., passim. Naturalmente il lavoro di questo periodo va collegato a quello del ’21 (cfr. supra il paragrafo 4 del cap. II) È fra il ’21 e il ’23 che la linguistica leopardiana si forma.
[10] Zib 2722-2725, 25-27 maggio 1823. S. Gensini, op cit., pp. 103 sgg.
[11] Zib 2694-2700, 17 maggio 1823. S. Gensini, op cit., pp. 125 sgg.
[12] Cfr. K.O. Apel, op. cit.; G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, La Nuova Italia, Firenze 1976; L. Rosiello, Linguistica illuministica, il Mulino, Bologna 1967. Per quanto riguarda la modernità della linguistica leopardiana mi sia qui permesso riferirmi a due posizioni, tanto distanti l’una dall’altra quanto apparentate da elementi di una medesima sensibilità: parlo di Leo Spitzer e di N. Bachtin. Per entrambi il problema fondamentale, in quanto linguisti, è quello di saper identificare il processo di integrazione della creazione linguistica e di quella letteraria e di osservare le forme dei rapporti che vengono determinandosi fra orizzonte linguistico generale e produzioni individuali. Così l’idealista Spitzer e il materialista Bachtin (lavorando entrambi, e certamente senza contatti, su Rabelais) pervengono a risultati analoghi: perché è infatti questa centralità produttiva della lingua che caratterizza la moderna e scientifica comprensione di essa. Come in Leopardi.
[13] In generale, su questi temi, cfr. gli Indici dello Zibaldone. Per quanto mi riguarda, su questi argomenti, ho soprattutto studiato le pp. 2845-2861 e 2906-2917 (TO, vol. II. pp. 718-722 e 733-736). S. Gensini, op. cit., pp. 179 sgg.
[14] S. Gensini ha ben sottolineato la necessità di affrontare il problema dell’immaginazione in Leopardi. Dubito tuttavia che la prospettiva storicistica, “gramsciana”, che egli assume possa essere sufficiente a risolvere un problema siffatto. Come mi sembra di aver sottolineato più sopra, è ad una diversa impostazione, decisamente materialistica, decisamente fenomenologica, che possiamo chiedere un approfondimento del tema. Cfr. supra, nota 38 del cap. I e nota 82 del cap. II.
[15] Zib 2948-2960, 12-14 luglio 1823.

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