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Postdemocrazia o de-democratizzazione?

Alcune riflessioni tra storia e politica sul dibattito contemporaneo

di Elia Zaru -This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it. Università di Bologna

joel peter witkin the aleph.jpgAbstract. Il saggio ricostruisce e analizza alcuni snodi del dibattito contemporaneo sulla crisi della democrazia, alla luce delle idee di «postdemocrazia» e «de-democratizzazione» e del legame tra crisi della democrazia e neoliberalismo rispetto al rapporto tra politica, democrazia, uguaglianza e azione collettiva. Il primo paragrafo è dedicato al lemma «postdemocrazia» e ne rintraccia le radici storico-teoriche nella «semantica del post». Il secondo paragrafo mostra il modo in cui in ottica neoliberale la crisi della democrazia non rappresenti un problema (come inteso dalla «postdemocrazia»), ma una soluzione a un problema rappresentato dall’eccesso di democratizzazione della società. A questo scopo, si traccia un collegamento tra le considerazioni espresse nel Report della Commissione Trilaterale (1975) e le proposte epistocratiche più recenti. Infine, dopo una breve analisi delle critiche all’epistocrazia, esposte nel terzo paragrafo, il quarto delinea alcune conclusioni che riallacciano il discorso della crisi della democrazia alla questione dell’uguaglianza e dell’azione collettiva.

* * * *

1. Crisi della democrazia e semantica del «post»

Che esista, nelle società occidentali, una «crisi della democrazia» è acclarato. Il primo e più immediato indicatore di tale crisi consiste nel calo costante della partecipazione elettorale1, a cui si affiancano altri fenomeni come, per esempio, lo sbilanciamento dei poteri in favore dell’esecutivo a scapito dei Parlamenti, o quella che in ambito giuridico è stata definita «decostituzionalizzazione»2. Sul piano materiale si assiste da alcuni decenni al progressivo smantellamento dei diritti sociali acquisiti nel contesto del welfare state, un processo che ha determinato «la drastica compressione della libertà e dell’uguaglianza dei lavoratori, e degli spazi di partecipazione reale dei cittadini»3.

L’esistenza di tale crisi, in sintesi, non è in discussione e non lo è nemmeno la sua cronologia, che ne riconduce l’origine contemporanea agli anni Novanta4. Per qualificare tale crisi, a partire dai primi anni Duemila si è imposto nel dibattito politologico internazionale il termine «postdemocrazia». Questo lemma identifica un concetto che, nelle intenzioni del suo promotore, Colin Crouch, fotografa con precisione la condizione in cui versano le società occidentali contemporanee. Tramite l’idea di «postdemocrazia» Crouch intende mostrare il progressivo svuotamento dei presupposti sostanziali della democrazia (la libertà e l’uguaglianza, soprattutto), pur nel contesto di un mantenimento delle sue architetture formali (il meccanismo elettorale, il bilanciamento dei poteri, lo stato di diritto ecc.)5. Anzi, il paradosso del momento «postdemocratico» consiste precisamente nel fatto che, mentre da una parte sul piano globale la forma democratica vive un’espansione6, dall’altra nella sostanza le democrazie più radicate (dei paesi europei e nord-americani) mostrano evidenti segni di esaurimento. Le cause di ciò sono varie, afferma Crouch, e possono essere sintetizzate in uno sbilanciamento dell’accumulazione di potere e degli interessi mobilitati nella società dal politico all’economico. Detto altrimenti, secondo il politologo britannico alla radice del processo postdemocratico starebbe l’incapacità della stessa politica democratica di regolare, ordinare e mediare le spinte lobbistiche provenienti soprattutto da alcuni settori della società, legati alle principali imprese capitalistiche multinazionali.

Crouch ricorda che il termine postdemocrazia si inserisce come elemento terzo nella dicotomia democrazia/non-democrazia. Esso, in altri termini, pur non rientrando nella dimensione della prima, non afferisce nemmeno alla sfera della seconda7. La postdemocrazia non è democrazia, poiché i processi decisionali che la caratterizzano sono privi di un contenuto sostanzialmente democratico ma, al contempo, non è non-democrazia in quanto quegli stessi processi conservano una democraticità formale. Per questa ragione, prosegue Crouch, la postdemocrazia descrive «una fase in cui ci siamo trovati, per così dire, sulla parabola discendente della democrazia»8. Questa situazione di decadenza viene analizzata da Crouch a partire da ciò che egli definisce come il «momento democratico» per eccellenza. Questo si verifica a ridosso dell’affermazione democratica o immediatamente dopo «una grave crisi del regime», cioè quando «l’entusiasmo per la partecipazione politica è massimo»9 e si produce un impegno collettivo da parte dei gruppi sociali a tutti i livelli per definire e raggiungere un bene comune, «delle priorità pubbliche che corrispondano finalmente ai loro bisogni», cioè ai bisogni di tutti quegli stessi gruppi10. Affermare che la democrazia si dà effettivamente solo nel momento immediatamente successivo all’affermazione del regime democratico, o dopo una sua crisi radicale, significa attribuire alla democrazia un carattere evenemenziale; la si priva, così, di uno spessore temporale in grado di attribuirle durata. Stante la definizione di democrazia elaborata da Crouch ne consegue che la postdemocrazia, lungi dal rappresentare una deviazione nel corso della sua evoluzione, ne costituisce invece una sorta di destino.

Questo riferimento al carattere destinale della postdemocrazia non è casuale. Che questo sia l’orizzonte entro cui si muove Crouch, infatti, è dimostrato da un altro elemento, finora rimasto in ombra nel dibattito che ha accompagnato le sue tesi. Si tratta del portato teorico che riguarda il prefisso «post», che il politologo attribuisce alle democrazie occidentali contemporanee. La medesima parabola che descrive il percorso dalla democrazia alla postdemocrazia, infatti, si ritrova secondo Crouch nel rapporto che lega tra loro società industriale e post-industriale e, più in generale, mondo moderno e postmoderno. Afferma Crouch: «oggi si parla spesso di “post”: postindustriale, postmoderno, postliberale, postironico. Il “post” evoca l’idea di una società che sa che cos’era e che cosa non sarà più, ma non sa dove sta andando. […] Nel “post” è insita l’idea di fondo che il fenomeno in questione percorra una traiettoria a parabola. […] Il fenomeno sociale nasce, diventa sempre più importante, raggiunge un punto culminante e di lì inizia a declinare»11. Come è evidente, l’immagine della parabola e il prefisso «post» rappresentano, in Crouch, l’idea di un superamento, un andare «oltre» – in senso figurato, ma anche temporale.

La tesi del politologo britannico ha suscitato diverse reazioni, tre delle quali sono rilevanti ai fini del discorso qui affrontato. Stephen Welch ha rigettato l’idea di un declino della democrazia, affermando al contrario l’esistenza di un suo eccesso. Le società occidentali contemporanee, per Welch, sono «iperdemocratiche», cioè attraversate da una serie di rivendicazioni democratiche su questioni che mal si prestano a essere governate tramite gli istituti propri della democrazia (tra cui la scienza). Ciò a cui si assiste è, per Welch, la politicizzazione dei presupposti «pre-politici» della democrazia – per esempio, la natura e l’entità del demos che esercita il kratos –, con la conseguenza di un tilt delle funzioni di decision making12. Klaus von Beyme, invece, ha sottolineato nella proposta di Crouch un limite relativo a un eccesso di descrizione (e pessimismo), e ha auspicato la ripresa di temi normativi nella riflessione teorico-politica per sopperire, in modo prescrittivo, a questo eccesso descrittivo. A partire, quindi, dall’affermazione dell’inesistenza di una qualsiasi «età dell’oro» della democrazia13, von Beyme propone di sostituire il termine postdemocrazia con quello di «neo-democrazia» e di osservare i correttivi già in essere che garantiscono, comunque, uno svolgimento democratico dei processi decisionali. Il termine «neo-democrazia», nella sua prospettiva, perde il pessimismo che innerva la «post-democrazia» e riesce a inquadrare in maniera più precisa i fenomeni di rinnovamento democratico manifestati, per esempio, dallo sviluppo di nuovi modelli di partecipazione politica compatibili con la democrazia rappresentativa pur se differenti dagli schemi classici14. Infine, Eduardo Mendieta contesta la validità del concetto di postdemocrazia poiché, afferma, «non siamo mai stati realmente democratici»15: se anche fosse corretta l’immagine della parabola, lungi dall’aver raggiunto il picco e iniziato la discesa, per Mendieta non abbiamo in realtà mai iniziato la scalata.

Queste tre risposte all’ipotesi di Crouch, se considerate nel loro insieme, permettono di riconnettere il concetto di «postdemocrazia» alle sue radici storico-teoriche. Il dibattito suscitato da Crouch si è concentrato perlopiù sul secondo lemma – democrazia –, considerando il prefisso post una sorta di mero accidente. In realtà, come osservato, è proprio l’immagine evocata da tale prefisso (la parabola) a qualificare qualitativamente il concetto. Non a caso, lo stesso Crouch ha legato il concetto di «postdemocrazia» a quelli di «postmoderno» e «postmodernità», anch’essi strumenti che intervengono nel tentativo di concettualizzare una crisi – della modernità, prima che della democrazia –, e che hanno suscitato un ampio dibattito. Non deve stupire che nel caso della crisi della modernità si ritrovano tre posizioni analoghe a quelle prima menzionate: anche il concetto di «postmodernità» ha trovato dei contraltari nelle idee di «ipermodernità», «neo-modernità» o in chi ha dichiarato l’impossibilità di definirsi moderni tout court.

Questa sovrapposizione di termini non è casuale, ma contestuale. Il rimando di Crouch a concetti come quelli di «postmoderno» e «postindustriale» per spiegare il significato dell’idea di «postdemocrazia» qualifica quest’ultima più di quanto lo stesso Crouch dà a vedere. Già nel dibattito degli anni Ottanta e Novanta sulla crisi della modernità, infatti, era stata tematizzato il problema di una «crisi della democrazia». Il versante epistemologico-politico di quella discussione ha operato una sovrapposizione di modernità e democrazia (quantomeno, di certe loro interpretazioni, non esenti da problematiche) tale per cui dibattendo della crisi della prima veniva discussa la crisi della seconda. I prodromi della disamina sulla «postdemocrazia» si possono ritrovare già nella diatriba aperta da Jürgen Habermas e JeanFrançois Lyotard sulla differenza tra il modo in cui modernità e condizione postmoderna pensano un concetto cardine come quello di «istituzione», termine chiave per via del suo posizionamento mediano tra società e politica16.

Se, infatti, da una prospettiva moderna (in piena sintonia con il compito che la modernità ha dato a sé stessa) l’istituzione si caratterizza per la sua capacità di strutturare e stabilizzare politicamente la vita sociale, la concezione postmoderna rovescia questa natura ordinatrice in un contrasto continuo e centrifugo segnato dalla persistenza del conflitto (Lyotard), piuttosto che dal raggiungimento del consenso (Habermas). È questo spostamento, dal consenso al conflitto discorsivo, che caratterizza l’interpretazione postmoderna della democrazia nelle sue diverse declinazioni17. Al netto delle differenze esistenti tra queste prospettive18, esse condividono la necessità di ripensare il rapporto tra società e politica democratica alla luce di una crisi che ha investito tanto la prima quanto la seconda. I «moderni» hanno invece riaffermato l’idea di politica come ordinamento della società, meccanismo senza il quale non sarebbero possibili né la democrazia, né l’emancipazione19. Alla base di queste differenti prospettive stanno due diverse concezioni epistemologicopolitiche, cioè due diversi modi di intendere il rapporto tra conoscenza, verità e politica. Laddove la prospettiva postmoderna si basa sull’epistemologia anarchica (soprattutto Paul Feyerabend), nella visione moderna è l’accumulazione di sapere resa possibile dall’ottenimento di un certo grado di verità oggettiva a costituire la base dell’azione politica (e della democrazia). Non a caso, nel dibattito contemporaneo il fenomeno della postdemocrazia si accompagna a quello della post-verità20 e trova nella giunzione tra populismo non-democratico e postmoderno il segno della sua concretezza21.

 

2. Crisi della democrazia e neoliberalismo: dalla Trilaterale all’epistocrazia

A quest’altezza del dibattito, la questione della democrazia (e, con essa, della modernità) viene affrontata da un punto di vista normativo che da una parte universalizza la costruzione occidentale delle norme democratiche (cioè, assume come punto più alto dello sviluppo democratico la democrazia liberale costruitasi nel contesto europeo e occidentale più in generale), e dall’altra non affronta la questione della crisi della democrazia in relazione ai rapporti sociali ed economici esistenti. Detto altrimenti, tanto la post-democrazia di Crouch (e le critiche a essa rivolte) quanto il dibattito sul nesso tra crisi della modernità e crisi della democrazia degli anni Ottanta e Novanta discutono la questione della democrazia all’interno di una prospettiva che attribuisce alla dimensione del politico un’autonomia pressoché totale. Il fatto stesso che Crouch consideri la post-democrazia alla luce di una intrusione dell’economico nel politico (le spinte lobbistiche a cui prima si faceva riferimento) è indice di ciò. Se, come afferma Crouch, alla radice del processo postdemocratico risiede una sovrapposizione di economia e politica tale per cui quest’ultima si mostra ormai prona agli interessi della prima (tanto da spingere la maggior parte della popolazione a disinteressarsi dei processi decisionali), si potrebbe pensare che per tornare alla democrazia nel suo senso più pieno sia sufficiente restituire alla politica la sua autonomia.

Tuttavia, una tale ipotesi trascura l’intreccio che esiste tra le due dimensioni, e il modo in cui la politica stessa è stata rimodulata, trasformata e rivoluzionata dall’espandersi del regime neoliberale22. Dal punto di vista dell’economico (cioè, dal punto di vista del modo di produzione capitalistico), la post-democrazia non rappresenta un problema ma, al contrario, la soluzione a un problema. Questo risulta evidente se si scava ulteriormente e si retrodata la riflessione contemporanea sulla crisi della democrazia. Nel 1975 la Commissione trilaterale pubblica il suo Report on the Governability of Democracies con il titolo, emblematico, di Crisis of Democracy. Gli autori dello studio, Michael Crozier, Samuel Huntington e Joji Watanuki, affermano nella loro introduzione di considerare la crisi come una «messa in discussione» dell’intero ordine politico ed economico delle società occidentali. «Disgregazione dell’ordine civile», «disfacimento della disciplina sociale», «debolezza dei leader» ed «estraniazione dei cittadini» sono gli epifenomeni caratterizzanti questa crisi della democrazia23, a cui si aggiungono tre tipi di minacce24: contestuali (derivanti cioè dall’ambiente esterno), sociali (la «cultura antagonista») e intrinseche (collegate al sistema democratico per sua natura)25. La crisi, secondo questa analisi, si apre nel momento in cui emerge il dilemma di fondo della governabilità democratica: quando, cioè, aumentano le rivendicazioni, ma ristagnano le possibilità (soprattutto di carattere economico). Lo iato tra pressioni (rivendicazioni) e possibilità della loro realizzazione determina il momento critico delle democrazie.

Le singole analisi sviluppate dagli autori prendono in esame tre diversi contesti (Europa, Stati Uniti, Giappone), ma concordano nella diagnosi comune: è la democratizzazione sostanziale ad aver provocato la crisi della democrazia. In altre parole, il problema delle democrazie occidentali all’altezza dei primi anni Settanta è, per paradosso, un eccesso di democrazia, un surplus di rivendicazioni democratiche e spazi democratizzati. Questo ha portato a una delegittimazione del principio dell’autorità politica (ora non più riconosciuta come in grado di rispondere alle esigenze della società) e a un sovraccarico del funzionamento governativo, il tutto a discapito della governabilità26. Come nella diagnosi, le analisi di Crozier, Huntington e Watanuki concordano anche su prognosi e cura. Se le democrazie occidentali vogliono superare il momento di crisi in cui si trovano occorre che adottino «modelli più flessibili che potrebbero generare un controllo sociale maggiore con una pressione coercitiva minore»27, al fine di ripristinare l’equilibrio tra vitalità e governabilità del sistema democratico adottando una serie di «limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica»28. Da questo punto di vista, è indicativo il modo in cui viene considerato il Giappone. L’assenza di una crisi profonda della sua democrazia viene spiegata, infatti, a partire dalla presenza nella società nipponica di una forte riserva di valori tradizionali, l’obbedienza in primo luogo29.

Non serve una interpretazione audace per affermare che il bersaglio primario della critica avanzata dalla Trilaterale è costituito sul piano teorico dall’uguaglianza che accompagna l’idea stessa di democrazia e sul piano storico dai movimenti sociali che, durante gli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, hanno animato le rivendicazioni studentesche, della classe operaia, delle donne, dei colonizzati e delle minoranze oppresse in genere. Sono gli stessi autori a chiarirlo, in modo esplicito:

lo spirito democratico è ugualitario, individualista, populista e insofferente delle differenze di classe e condizione sociale. Il diffondersi di questo spirito riduce le minacce poste tradizionalmente alla democrazia da gruppi quali l’aristocrazia, la chiesa e l’esercito. Al tempo stesso, però, uno spirito di democrazia, troppo diffuso, invadente, può costituire una minaccia intrinseca e insidiare ogni forma di associazione, allentando i vincoli sociali che reggono la famiglia, l’azienda e la comunità. Ogni organizzazione sociale richiede, in una certa misura, disparità di potere e differenze di funzione. Nella misura in cui l’indole democratica intacca, nel suo diffondersi, tutte queste componenti, esercitando un influsso livellatore e omogeneizzatore, distrugge le basi della fiducia e della cooperazione tra i cittadini e intralcia la possibilità di collaborazione per un fine comune30.

Una delle questioni principali del Report viene messa in luce da Gianni Agnelli, autore della prefazione all’edizione italiana del rapporto. Nelle prime righe del suo testo, Agnelli ricorda infatti che la Trilaterale è un «organismo privato» dedito però alla ricerca di «interessi comuni ai paesi che rientrano nell’area geografica e socio-politica considerata»31 – cioè, come si evince a più riprese, l’occidente32. Bisognerebbe riflettere sulla possibilità che un organismo privato sia in grado di formulare un interesse effettivamente comune e ragionare sul rischio che, invece, la sua azione consista nella capacità di far passare un interesse privato per comune. Tuttavia, il testo di Agnelli non si pone tale problema. Anzi, e qui risiede la sua importanza in questo contesto, egli procede in modo ancora più diretto sul binario tracciato dalla Trilaterale. Secondo Agnelli, infatti, ciò che è importante rilevare dal Report è che «il concetto di democrazia, per sua stessa natura, tende a sfuggire a qualsiasi analisi sistematica», e dunque se si vuole parlare di democrazia occorre «prendere in esame le strutture attraverso le quali si esprime il “metodo democratico” di governo della società»33. Anche Agnelli, sulla scia del Report, afferma la necessità di superare la crisi della democrazia tramite uno scostamento della questione dalla sostanza concettuale della democrazia, alla forma applicativa del suo funzionamento. In altri termini, trasferire l’analisi dal piano della democrazia a quello della governabilità permette di superare la crisi della prima e di orientare in modo più proficuo l’azione della seconda. Tutto ciò al fine di trasformare le «linee di conflittualità» che negli anni Settanta attraversano le società occidentali (quella italiana in primis) in «linee di cooperazione»34.

Quest’affermazione, che conclude (quasi in modo simbolico) la prefazione di Agnelli, ha il merito di inquadrare immediatamente il punto di vista da cui muovono le analisi della Trilaterale. La questione della democrazia e di una sua crisi, infatti, non è affrontata per ragioni puramente teoriche, ma al fine di trovare un modo di far ripartire la crescita economica capitalistica, i cui diversi processi di estrazione e accumulazione del valore erano stati bloccati, in modo più o meno radicale, dai movimenti espressione di quella «cultura antagonista» che la Trilaterale include tra le «minacce» interne alla democrazia. Detto altrimenti, la crisi della democrazia a cui la trilaterale cerca una soluzione non riguarda tanto la forma di governo democratica, quanto piuttosto la sua capacità di farsi garante politica della validità e legittimità dei rapporti sociali ed economici che, in essa, si sviluppano.

Il rapporto per la Commissione trilaterale viene discusso e pubblicato nel 1975. Michel Foucault non ha ancora elaborato le sue riflessioni sul concetto di «governamentalità» e sul neoliberalismo (al centro dei suoi corsi al Collège de France nel periodo 1977-1979)35, ma è evidente la possibilità di sovrapporre le sue lezioni al riferimento continuo alla «governabilità» che si ritrova nel Report. I decenni successivi alla pubblicazione del testo hanno visto una continua implementazione di politiche neoliberali che si sono indirizzate precisamente lungo gli assi individuati nel Report, con l’obiettivo di risolvere la crisi della democrazia ripristinando la capacità della forma democratica di governo di gestire l’accumulazione di capitale. Mentre, da una parte, i processi di democratizzazione sono stati via via contenuti, dall’altra sul piano formale questo non ha portato a un cambio di regime nelle forme di governo dei paesi occidentali, che tutt’oggi possono, sotto questo aspetto, dirsi democratici. Dal punto di vista della Trilaterale, dunque, la crisi della democrazia può dirsi risolta. Crouch, tuttavia, attribuisce a questa soluzione il nome di «postdemocrazia» e la qualifica come un problema. Laddove per quest’ultimo la parabola democratica inizia la sua discesa proprio nel momento in cui la democrazia si svuota dei suoi presupposti sostanziali pur lasciando inalterati quelli formali, per la Trilaterale questo processo costituisce una cura, e non un male, della democrazia.

Per cogliere fino in fondo la natura ambigua di una crisi che rappresenta per alcuni (la Trilaterale) una soluzione, mentre per altri (Crouch) un problema, è utile sottolineare che, in fondo, con il loro Report, gli autori di The Crisis of Democracy hanno riproposto l’idea del «governo di tutti» come fonte di disordine. Stante l’impossibilità di dedurre da questo presupposto la preferenza esplicita per altre forme di governo possibili – monarchia, aristocrazia, oligarchia ecc. – in ragione del carico insieme politico, storico e valoriale che grava sul concetto di «democrazia» in età contemporanea, Huntington, Crozier e Watanuki hanno optato per una trasformazione surrettizia della democrazia che passa per un restringimento della semantica democratica ora limitata al suo lato formale e procedurale36. Non stupisce, quindi, che la loro soluzione poggi sulla reintroduzione di elementi di mediazione atti ad affievolire la rivendicazione delle istanze sociali e a neutralizzare il conflitto, portatore di disordine. I «limiti potenzialmente auspicabili all’ampliamento indefinito della democrazia politica» di cui parlano gli autori altro non sono che strumenti in grado di affievolire la spinta democratica, riportando così ordine all’interno della società.

Non a caso, metafore e immagini che rimandano a contesti disordinati (sporchi finanche) vengono utilizzate a più riprese nella discussione contemporanea sulla cosiddetta «epistocrazia». «Chiedere a tutti di andare a votare è come chiedere a tutti di buttare immondizia in giro»37, afferma Jason Brennan in un’opera intitolata in modo emblematico Against Democracy. La tesi del politologo americano è semplice: la democrazia si trova in uno stato di crisi in seguito all’estensione quantitativa del diritto di voto. In breve: è il suffragio universale a mandare la democrazia in tilt, perché esso non si è accompagnato alla diffusione di quello che l’autore chiama «il principio di competenza»38. L’elettorato è «ignorante, irrazionale, menomato, immorale, corrotto»39, cioè esso bada al proprio interesse anche se questo nuoce all’utile comune40 (evidente l’assonanza con la considerazione aristotelica della democrazia come forma corrotta di governo).

Per questo Brennan propone di sostituire la democrazia con l’epistocrazia, una forma di governo in cui vige il «principio di competenza» e l’elettorato è selezionato in base al superamento di un «esame di qualificazione al voto»41 strutturato secondo il modello del test per la cittadinanza, oppure contenente «una serie di enigmi logici e matematici», o la richiesta di «identificare almeno il 60 per cento dei Paesi su una cartina geografica»42, o altre formule analoghe. Un test di questo tipo sarebbe da prevedere, secondo Brennan, non solo nel caso di una «epistocrazia con voto ristretto», ma anche nello schema ibrido di un «suffragio universale con veto epistocratico»43, dove cioè «il sistema presenta gli stessi corpi politici e le stesse istituzioni che troviamo in una normale democrazia: il suffragio è uguale senza restrizioni; tutti i cittadini hanno diritto di votare e di candidarsi per le cariche pubbliche. Queste libertà politiche sono garantite. Ma il sistema prevede anche un consiglio epistocratico, un corpo deliberativo formalmente epistocratico»44, aperto a chiunque superi il test sopra menzionato, con potere di «disfare le leggi»45. La cosa che qui interessa, al di là della proposta specifica e dei suoi limiti, è che essa viene presentata come un sostituto migliorativo di una forma di governo (la democrazia) incapace di fornire ordine e stabilità alla società. Brennan si sforza di ribadire che la proposta di un’azione epistocratica attuata sulle decisioni democratiche (e a loro discapito) costituisce un correttivo, un miglioramento della democrazia stessa, eliminandone i difetti e conservandone (almeno formalmente) i pregi46.

La proposta di Brennan si muove nello stesso solco tracciato dal Report per la Trilaterale. Anche in questo caso, la responsabilità della crisi della democrazia è da attribuire a un eccesso di democratizzazione – il suffragio universale senza condizioni. E, ancora una volta, la proposta di soluzione passa per un restringimento dei diritti acquisiti unito a una proceduralizzazione formale del processo di governo. Brennan, in altre parole, dà un nome – epistocrazia – alla soluzione pensata dalla Trilaterale, radicalizzandone i presupposti. Egli non si interroga sulle condizioni materiali che stanno alla base del problema che solleva (la scarsità di conoscenze e competenze dell’elettorato), non propone (per esempio) come soluzione un aumento della spesa pubblica destinata all’istruzione al fine di trasmettere per via pedagogica alla maggior parte di persone tali competenze civiche, ma pretende di risolvere il problema alla radice semplicemente togliendo potere decisionale al corpo elettorale, e restringendo quest’ultimo.

 

3. Critiche all’epistocrazia

Brennan, in fondo, presenta una versione aggiornata del «governo dei custodi», un’idea basata sulla convinzione che sia «ridicolo pensare che si possa fare affidamento sulla capacità della gente comune di comprendere e difendere i propri interessi, e tantomeno gli interessi della società nel suo complesso»47. La critica che Robert A. Dahl muove a questa prospettiva si articola su un piano logico-formale. In breve, essa afferma l’impossibilità di realizzare realmente e concretamente un «governo di saggi», e questo per due ragioni: a) l’inesistenza di una scienza composta di verità «oggettivamente valide e convalidate»48 (scienza che dovrebbe, secondo la teoria del governo dei custodi, fondare la conoscenza dei saggi); e b) l’impossibilità di dimostrare che, anche esistendo una tale scienza, essa sarebbe accessibile solo a una minoranza ristretta di persone (e non, almeno in via di principio, a tutte). In breve, poiché entrambi i presupposti logici del «governo dei custodi» risultano falsi (ma il ragionamento vale anche se solo uno dei due lo fosse), l’intera argomentazione che lo sostiene crolla. Per queste ragioni, l’epistocrazia (il «governo dei custodi») si presenta agli occhi di Dahl come una prospettiva limitante, e sulla base di queste considerazioni egli giunge infine ad affermare che occorre rifiutare tale proposta «perché ostacola lo sviluppo delle capacità morali di un intero popolo», mentre la democrazia offre «la speranza – negata in partenza dal governo dei custodi – che, impegnandosi nel governo di sé stessi, tutti (e non solo alcuni) possano imparare ad agire come esseri umani moralmente responsabili»49.

Al di là della logica, su un piano più concreto l’epistocrazia di Brennan manifesta quello che Jacques Rancière ha chiamato «odio per la democrazia»50. Grazie alla riflessione del filosofo francese, è possibile muovere al «governo dei custodi» una critica che investe la sostanza del concetto di «democrazia». Rancière afferma che alla base dell’odio per la democrazia risiede «una tesi molto semplice: c’è soltanto una democrazia buona, quella che frena la catastrofe della civiltà democratica»51. Il Report per la Trilaterale mostra la ragion d’essere di una tale affermazione, ma ciò che risulta interessante dell’argomentazione di Rancière è il fatto che essa muove da una premessa radicalmente diversa rispetto a quella che ha animato la discussione sulla crisi della democrazia osservata fino a questo momento. Per il francese, «la democrazia non si identifica mai con una forma giuridico-politica», poiché «il potere del popolo è sempre al di qua o al di là»52 di una tale forma e delle sue possibili declinazioni. Ciò che conferisce alla democrazia questo statuto è il suffragio universale in una condizione di uguaglianza formale dell’elettorato: la democrazia non può funzionare «senza riferirsi in ultima analisi a quel potere degli incompetenti che fonda e nega il potere dei competenti, a quella uguaglianza che è necessaria al funzionamento stesso della macchina della disuguaglianza»53. Qui risiede lo «scandalo della democrazia»:

alcuni governano perché sono più anziani, più nobili, più ricchi o più sapienti. Ci sono modelli di governo e pratiche d’autorità fondate su questa o quella distribuzione dei ruoli e delle competenze. È quella logica che proponevo di pensare sotto il termine di polizia. Ma se il potere degli anziani deve essere più che una gerontocrazia, se il potere dei ricchi deve essere più che una plutocrazia, se gli ignoranti devono capire che occorre obbedire agli ordini dei sapienti, il loro potere deve fondarsi su un requisito supplementare, sul potere di chi non ha alcuna qualità che lo predisponga governare più che a essere governato. Il potere deve diventare politico. E potere politico significa in ultima analisi il potere di coloro che non hanno nessuna ragione naturale per governare su coloro che non hanno nessuna ragione naturale per essere governati. Il potere dei migliori può legittimarsi in definitiva solo attraverso il potere degli eguali54.

Questa prospettiva rovescia le premesse di qualsiasi ipotesi epistocratica e ne attacca il fondamento, ossia la naturalità della diseguaglianza. Al contrario, afferma Rancière, «democrazia» è il nome che definisce una condizione paradossale della politica, in cui «ogni legittimità si confronta con la sua assenza di legittimità ultima, con la contingenza egualitaria che sostiene la contingenza inegualitaria»55. In questa paradossalità sta, secondo Rancière la ragione dell’odio che essa provoca.

 

4. Uguaglianza e collettività: alcune conclusioni

La riflessione di Rancière ha il merito di esplicitare la posta in gioco di questo dibattito – una interpretazione sostanziale del concetto di «democrazia» e del suo legame con l’uguaglianza. Tuttavia, nonostante la sua radicalità, anch’essa mostra un limite analogo a quello che è possibile riscontrare nelle tesi sulla post-democrazia, in quanto fatica a inquadrare la dimensione storica e sociale del fenomeno che descrive, rappresentata dal neoliberalismo e dal modo in cui esso ha rimodulato i rapporti tra politica ed economia. Pur prendendolo in considerazione, Rancière sembra sottovalutare l’impatto del Report della Trilaterale, che già nel 1975 delineava i tratti delle future democrazie occidentali. Se si prendono sul serio le affermazioni contenute nel Report, non si può pensare che la soluzione praticabile per risolvere la crisi della democrazia passi per la semplice riaffermazione dello statuto ontologico della politica democratica – la sua «paradossalità».

Su questo punto, vengono in aiuto le riflessioni di Wendy Brown, che consentono di approfondire il modo in cui, nel neoliberalismo, queste due dimensioni sono non solo interrelate, ma soggiogate dalla «ragione neoliberale». Il neoliberalismo, secondo Brown, si distingue dal liberalismo proprio per il fatto di aver superato le relative autonomie delle due sfere, con la conseguenza che l’intero spazio pubblico (servizi, infrastrutture ecc.) si è trovato normato dalla logica del calcolo economico e del profitto. Ciò, tuttavia, non ha significato una semplice sottomissione del politico all’economico, ma una vera e propria ridefinizione del primo a opera del secondo. Si tratta di un processo che Brown ha definito di «de-democratizzazione»56, o «“economizzazione” della vita politica»57, e che ha portato all’affermazione di politiche antidemocratiche in ragione dello svuotamento progressivo dei fondamenti della democrazia, a partire dall’uguaglianza58. Sheldon Wolin ha dato a questo processo il nome di «totalitarismo invertito»59.

Per quanto queste riflessioni abbiano il merito di mettere a fuoco il problema della crisi della democrazia in tutta la sua portata, poiché considerano centrale l’elemento della disuguaglianza in relazione alle trasformazioni socio-economiche avvenute nel contesto del regime neoliberale, il loro limite consiste in un eccesso di tragicità. Étienne Balibar le ha definite «visioni apocalittiche»60, poiché segnalano l’esistenza di una crisi pensata come irreversibile, dopo la quale «non sarà più possibile ritornare a modalità di azione precedenti»61. In questo senso, tali prospettive condividono con il paradigma crouchiano della postdemocrazia l’idea di un carattere destinale della democrazia. Per contro, Balibar propone di «democratizzare la democrazia» nel senso di un «divenire istituzionale» dei principi che fondano quest’ultima. Si tratta, per Balibar, di una differenza «rispetto alle pratiche attuali della politica, o meglio ancora: un differenziale che disloca le pratiche politiche in modo da affrontare apertamente la carenza di democrazia delle istituzioni esistenti [in primis, sul fronte della disuguaglianza] e da trasformarle più o meno radicalmente»62. Ciò significa ampliare i diritti sociali, civili e politici di una cittadinanza pensata nei termini dell’«insurrezione»63.

Il merito della riflessione di Balibar consiste nel fatto che essa considera l’uguaglianza non solo in termini di principio, ma sulla base degli effetti pratici che essa provoca (da cui la riflessione sulla cittadinanza) e che si esprimono nella possibilità che si verifichino forme di azione collettiva in grado di trasformare i rapporti sociali.

Ciò che accomuna il Report della Trilaterale e le ipotesi epistocratiche, infatti, è il rifiuto di questa possibilità. La riduzione quantitativa e qualitativa delle spinte democratiche e dei processi di legittimazione politica mira precisamente a sottrarre al corpo sociale la sua importanza nei processi decisionali. Tanto l’ostilità manifestata dagli autori del Report nei confronti della «cultura antagonista» quanto l’idea di Brennan secondo cui partecipazione politica e politicizzazione sono da abbandonare in quanto corruttrici, portatrici di inimicizia e divisione64 attaccano lo stesso obiettivo polemico, vale a dire l’azione (e la rivendicazione) collettiva in nome di un’uguaglianza tendenziale, a cui si aspira.

Come si intuisce, in gioco non vi è solo la questione della democrazia, ma della politica tout court. Da un lato, infatti, «all’interno del programma neoliberale la democrazia non è un valore in sé, ma un mezzo per raggiungere il fine della libera società di mercato»65, come dimostrato dal Report della Trilaterale e dall’epistocrazia. Dall’altro «gli individui neoliberali non possono in alcun modo accedere a una forma collettiva di azione e rischiano costantemente di lasciare la società senza direzione»66, in un quadro in cui «a essere messo in discussione non è tanto il mutamento di funzione della forma politica democratica, ma la stessa utilità della politica in quanto modo per raggiungere decisioni collettivamente vincolanti»67. Per questa ragione «la tensione alla de-politicizzazione del collettivo può […] coesistere con le istituzioni democratiche», poiché «il suo bersaglio reale è il movimento di democratizzazione della società più che la democrazia come regime»68. Per lo stesso motivo, inquadrare come «postdemocratiche» le società occidentali contemporanee non è sufficiente, poiché tale formulazione manca di cogliere la specificità e radicalità dell’attacco neoliberale contro l’uguaglianza. Parlare di «de-democratizzazione» aiuta a risolvere questo problema, a patto di considerare l’uguaglianza non solo in termini di principio, ma come concetto fornito di una dinamica praticopolitica, in grado cioè di esprimere tramite l’azione e la rivendicazione collettiva una critica della società all’ordinamento della politica.

Con le parole di Balibar, «bisogna ritornare, in una prospettiva democratica, cioè dal basso, alla questione fondamentale che Hobbes, all’alba della filosofia politica moderna, poneva in una prospettiva dall’alto, dal punto di vista cioè di una completa identificazione tra la “sfera pubblica” (commonwealth) e la potenza sovrana: la questione cioè di una procedura collettiva di acquisizione della potenza nella forma del suo trasferimento, o della sua comunicazione»69. Tornare dal basso a tale questione significa ripensare le categorie fondamentali della democrazia alla luce della svolta impressa dal neoliberalismo. Ciò, d’altro canto, non vuol dire ipostatizzare tali categorie, né tantomeno rivendicare una loro natura autentica, pura, originaria, che il neoliberalismo avrebbe, in qualche modo, corrotto. Quale significato assume il demos nel quadro dell’individualismo neoliberale e come è stato rimodulato il suo kratos alla luce della moltiplicazione globale dei poteri e del progressivo esaurimento del monopolio della sovranità statuale moderna? Per abbozzare delle risposte a queste domande occorre ritornare in modo critico all’apparato concettuale della democrazia e alle aporie e contraddizioni che esso reca con sé70, al fine di concepire la «crisi della democrazia» nel senso di «democrazia come crisi». Non, quindi, come problema (Crouch) e nemmeno come soluzione (Trilaterale, epistocrazia), ma come opportunità: l’occasione che si apre quando la semantica democratica mette in discussione quel processo di individualizzazione e spoliticizzazione che, negli ultimi quarant’anni, ha investito le società occidentali.


Note
1 Cfr. F. KOSTELKA – A. BLAIS, The generational and institutional sources of the global decline in voter turnout, «World Politics», 73, 4/2021, pp. 629-667. Le cifre riportate dagli autori e relative all’affluenza elettorale raccontano di un calo di oltre il dieci per cento (dal 77 per cento di affluenza media negli anni Sessanta ameno del 67 per cento dal 2010 a oggi).
2 A. BRANDALISE, Democrazia e decostituzionalizzazione, «Filosofia politica», 3/2006, pp. 403-414. Cfr. anche H. HOFMANN, Riflessioni sull’origine, lo sviluppo e la crisi del concetto di costituzione, in S. CHIGNOLA – G. DUSO, Sui concetti giuridici e politici della costituzione dell’Europa, Milano, FrancoAngeli, 2005, pp. 227-237. Sulla «frammentazione giuridica» come possibilità di emancipazione, e dunque come un elemento democratizzante, cfr. S. CHIGNOLA, Introduzione, in S. CHIGNOLA (ed), Il diritto del comune. Crisi della sovranità, proprie e nuovi poteri costituenti, Verona, ombre corte, 2012, pp. 7-14.
3 L. BASSO, Trasformazioni della democrazia e percorsi soggettivi, in F. TUCCARI – G. BORGOGNONE (eds), La sovranità. Trasformazioni e crisi in età contemporanea, Roma, Carocci, 2021, p. 89.
4 Cfr. International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA), Voter Turnout Trends around the World, rapporto 2016, p. 25, fig. 4.
5 C. CROUCH, Coping with Post-Democracy, London, Fabian Society, 2000; Post-Democracy, Cambridge, Polity Press, 2004; Post-Democracy After the Crisis, Cambridge, Polity Press, 2020.
6 C. CROUCH, Post-Democracy, p. 1; trad. it. Postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2005, p. 3. Nel 2020 Crouch ha tuttavia corretto il dato: se nel 2006 il 13 per cento della popolazione mondiale viveva in paesi «pienamente democratici» secondo il Democracy Index, nel 2017 l’indice «è precipitato al 4,5 per cento», a ulteriore conferma di una «crisi» della democrazia (C. CROUCH, Post-Democracy. After the Crisis, p. xv; trad. it. Combattere la postdemocrazia, Roma-Bari, Laterza, 2020, p. xii.
7 Ivi, pp. 19-20; trad. it. pp. 25-26.
8 Ibidem.
9 Ivi, p. 7; trad. it. p 10.
10 Ibidem.
11 C. CROUCH, Post-Democracy. After the Crisis, p. 1; trad. it. Combattere la postdemocrazia, p. 4.
12 W. WELCH, Hyperdemocracy, New York, Palgrave Macmillan, 2013.
13 K. VON BEYME, From Post-Democracy to Neo-Democracy, Berlin, Springer, p. 102.
14 Ivi, p. 112.
15 E. MENDIETA, Post-democracy. From the depoliticization of citizens to the political automata of perpetual war, «Juncture», 22, 3/2015, pp. 203-209.
16 Sul punto cfr. E. ZARU, Crisi della modernità. Storia, teorie e dibattiti (1979-2020), Pisa, ETS, 2022, pp. 95-105.
17 Per esempio, la «democrazia infondata» di Rorty, l’agonismo politico di Chantal Mouffe, il populismo di Ernesto Laclau (cfr. R. RORTY, Contingency, Irony, and Solidarity, Cambridge, Cambridge University Press, 1989; C. MOUFFE, The Democratic Paradox, London, Verso, 2005; On the Political, London-New York, Routledge, 2005; E. LACLAU, On Populist Reason, London, Verso, 2005).
18 Differenze anche radicali: per l’anti-fondazionalismo di Rorty è impossibile parlare di «scopi democratici», mentre il post-fondazionalismo di Mouffe e Laclau tenta (non senza qualche difficoltà) un ripensamento dei presupposti della democrazia, ma non dei suoi obiettivi.
19 Cfr. S. BENHABIB, Democracy and Difference, Princeton, Princeton University Press, 1996; S. WOLIN, Fugitive Democracy and Other Essays, a cura di N. Xenos, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2016.
20 L. MCINTYRE, Post-Truth, Cambridge (MA), MIT Press, 2018, pp. 123 ss.
21 M. MCMANUS, The Rise of Post-Modern Conservatism, Cham, Palgrave Macmillan, 2019.
22 W. BROWN, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, «Theory&Event», 7, 1/2003, pp. 1-43.
23 M.J. CROZIER – S.P. HUNTINGTON – J. WATANUKI, The Crisis of Democracy, New York, New York University Press, 1975, p. 2; trad. it. La crisi della democrazia, Milano, Franco Angeli, 1977, p. 20.
24 Nell’edizione in lingua originale si parla di «challenges», ma è evidente che si tratta di sfide (come da traduzione letterale) che, nell’ottica degli autori, mettono a dura prova la tenuta dell’intero sistema, da cui la decisione di rendere in lingua italiana con il termine «minacce».
25 Ivi, pp. 3-8; trad. it. pp. 21-24.
26 Ivi, p. 162; trad. it. p. 149.
27 Ivi, p. 55; trad. it. pp. 63-64.
28 Ivi, p. 115; trad. it. p. 110.
29 Ivi, p. 152; trad. it. p. 142.
30 Ivi, pp. 162-163; trad. it. p. 149.
31 G. AGNELLI, Prefazione, in M.J. CROZIER – S.P. HUNTINGTON – J. WATANUKI, La crisi della democrazia, p. 11.
32 Ivi, p. 12.
33 Ivi, p. 13.
34 Ivi, p. 14.
35 Cfr. M. FOUCAULT, Sécurité, territoire, population, Paris, Seuil-Gallimard, 2004 (trad. it. Sicurezza, terri- torio, popolazione, Milano, Feltrinelli, 2005); Naissance de la biopolitique, Paris, Seuil-Gallimard, 2004 (trad. it. Nascita della biopolitica, Milano, Feltrinelli, 2005).
36 Un aspetto, questo, che secondo Luigi Ferrajoli si riscontra anche nella politologia italiana di quegli anni, da Bobbio a Sartori (cfr. L. FERRAJOLI, Principia iuris, Roma-Bari, Laterza, 2007). Sul punto, cfr. S. CINGARI, Postfazione, in S. CINGARI – A. SIMONCINI (eds), Lessico postdemocratico, Perugia, Perugia Stranieri University Press, 2016, p. 219.
37 J. BRENNAN, Premessa, in Contro la democrazia, Roma, Luiss University Press, 2018, p. 36.
38 «Si presume che se le decisioni di un corpo deliberativo incompetente, o decisioni prese in maniera incompetente o in cattiva fede, privano i cittadini della vita, della libertà o della proprietà, o danneggiano significativamente le loro aspettative di vita, siamo davanti a un’ingiustizia e a una violazione dei loro diritti» (J. BRENNAN, Against Democracy, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2016, pp. 141-142; trad. it. R. Bitetti, F. Morganti, Contro la democrazia, , p. 190). Brennan non sembra considerare la possibilità che alcune decisioni possano «privare» alcuni cittadini, ma favorirne altri (cioè, egli pare non accorgersi del fatto che la società è popolata da interessi diversi e spesso contrapposti).
39 Ivi, p. 158; trad. it. p. 207.
40 Ibidem.
41 Ivi, p. 211; trad. it. p. 262.
42 Ivi, p. 212; trad. it. p. 263.
43 Ivi, p. 215; trad. it. p. 266.
44 Ivi, pp. 215-216; trad. it. pp. 266-267.
45 Ivi, p. 216; trad. it. p. 267.
46 «Il suffragio universale con veto epistocratico sembra offrire quello che c’è di desiderabile in una epistocrazia senza per questo essere una epistocrazia. Inoltre, offre molto di quello che c’è di desiderabile in una democrazia, fornendo allo stesso tempo dei contrappesi all’irrazionalità e all’incompetenza democratica» (Ivi, p. 220; trad. it. p. 271).
47 R.A. DAHL, Democracy and its Critics, New Haven-London, Yale University Press, 1989, p. 53; trad. it. La democrazia e i suoi critici, Roma, Editori Riuniti, 1990, p. 77.
48 Ivi, p. 65; trad. it. p. 99.
49 Ivi, p. 79; trad. it. p. 120.
50 J. RANCIÈRE, La haine de la mocratie, Paris, La fabrique, 2005; trad. it. di A. Moscati, L’odio per la democrazia, Napoli, Cronopio, 2007.
51 Ivi, p. 10; trad. it. p. 10.
52 Ivi, p. 62; trad. it. p. 67.
53 Ibidem. Sul punto cfr. anche P. ROSANVALLON, La société des égaux, Paris, Éditions du Seuil, 2011; trad. it. a cura di A. Bresolin, La socie dell’uguaglianza, Roma, Castelvecchi, 2013.
54 Ivi, p. 54; trad. it. p. 58.
55 Ivi, p. 103; trad. it. p. 113.
56 W. BROWN, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, Cfr. anche American Nightmare: Neo- conservatism, Neoliberalism and the De-Democratization, «Political Theory», 34, 6/2006, pp. 690-714.
57 W. BROWN, Undoing the Demos, New York, Zone Books, 2015, p. 17.
58 W. BROWN, In the Ruins of Neoliberalism. The Rise of Antidemocratic Politics in the West, New York, Columbia University Press, p. 23.
59 S. WOLDIN, Democracy Incorporated. Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism, Princeton-Oxford, Princeton University Press, 2008. Va specificato che sia Brown sia Wolin affermano di riferire le loro analisi al contesto nord-americano, ma le fondamenta teorico-politiche del loro ragionamento e l’affermazione pressoché globale del neoliberalismo consentono una sua estensione.
60 É. BALIBAR, Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2012, pp. 142-143.
61 Ivi, p. 138.
62 Ivi, p. 161.
63 Ivi, p. 170: «l’insurrezione, nelle sue diverse forme, è la modalità attiva della cittadinanza: quella che la inscrive negli atti. Si può dire dunque che il “risultato finale” è una funzione del “movimento”, che è la vera modalità di esistenza della politica. E al tempo stesso non si può pensare che esista un giusto mezzo tra l’insurrezione e la de-democratizzazione o la degenerazione della politica. Insurrezione vuol dire conquista della democrazia o diritto ad avere dei diritti, ma ha sempre come contenuto la ricerca (e il rischio) dell’emancipazione collettiva e della potenza che questa conferisce ai suoi partecipanti, in contrapposizione all’ordine costituito che tende a reprimere questa potenza».
64 J. BRENNAN, Against Democracy, pp. 54 e ss., pp. 231 e ss.; trad. it. a cura di R. Bitetti, F. Morganti, Contro la democrazia, p. 97 e ss., pp. 283 e ss.
65 M. RICCIARDI, La fine dell’ordine democratico. Il programma neoliberale e la disciplina dell’azione collettiva, in R. BARITONO – M. RICCIARDI (eds), Strategie dell’ordine: categorie, fratture, soggetti, «Quaderni di Scienza&Politica», 8/2020, p. 299.
66 Ivi, p. 300.
67 Ibidem.
68 Ivi, pp. 301-302.
69 É. BALIBAR, Cittadinanza, pp. 152-153.
70 Cfr. G. DUSO, La democrazia e il problema del governo, «Filosofia politica», 3/2006, pp. 367-390. Si veda anche G. DUSO (ed), Oltre la democrazia, Roma, Carocci, 2004.

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