I Grundrisse secondo David Harvey, tra totalità e doppia coscienza
di Fabio Ciabatti
David Harvey, Leggere i Grundrisse. Un viaggio negli appunti di Karl Marx, Edizioni Alegre, Roma 2024, pp. 526, € 26,60
Parte prima
I Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica di Karl Marx, conosciuti anche come i Grundrisse, sono un testo “eccitante, frustrante, ingegnoso, ma anche ripetitivo ed estenuante”, sostiene David Harvey, eminente marxista britannico che ha scritto nel 2023 un commentario a questa opera, tradotta da poco in italiano per le Edizioni Alegre con il titolo Leggere i Grundrisse. Quando leggiamo questo scritto dobbiamo considerare che si tratta di appunti di lavoro non destinati alla pubblicazione in cui Marx parla fondamentalmente a sé stesso “attraverso qualsiasi strumento o idea a portata di pensiero, pronto a scatenare un flusso di coscienza in grado di proiettare su carta possibilità e interrelazioni che potevano o non potevano rilevarsi importanti per i suoi studi più ragionati”. In questo testo, scritto tra il 1857 e il 1858, troviamo dei “passaggi in cui Marx getta alle ortiche ogni cautela” dando spazio a “intuizioni geniali, drammatiche e spesso sbalorditive per le possibili implicazioni”.1
Insomma, i Grundrisse possono certamente letti come un testo preparatorio al Capitale, che vedrà la luce un decennio dopo, ma ci offrono anche di più. Perché si spingono oltre le conclusioni del Capitale, opera in cui Marx costringe sé stesso a un rigore metodologico che gli impedisce di anticipare qualsiasi risultato fino a che lo svolgimento del ragionamento non abbia ancora posto tutti gli elementi necessari per trattare l’argomento. Rigore senz’altro condivisibile. Peccato che Marx abbia realizzato solo una piccola parte del suo immane progetto di lavoro e questo ci privi di molte delle conclusioni cui voleva arrivare.
Per quanto spesso dispersivi, i Grundrisse hanno comunque un focus ben definito e cioè “l’elaborazione esatta del concetto di capitale” che risulta necessaria poiché, ci dice Marx,
questo è il concetto fondamentale dell’economia moderna, così come il capitale stesso […] è il fondamento della società borghese. Dalla comprensione rigorosa del presupposto fondamentale del rapporto devono risultare tutte le contraddizioni della produzione borghese, come pure il limite raggiunto il quale il rapporto tende ad andare oltre sé stesso.2
È attorno a questa problematica che Harvey concentra la sua lettura del testo. Una problematica che ci porta subito a un’altra questione fondamentale.
Marx intende indagare la formazione e il funzionamento del capitale in quanto “totalità”. Si tratta di un aspetto dell’approccio marxiano ampiamente ignorato nei commentari contemporanei. Ho il sospetto che su questo punto siano in parte da biasimare Foucault e il post-strutturalismo, nel loro ridurre ad anatema ogni discorso totalizzante e, di conseguenza, ogni evocazione del concetto stesso di totalità.3
Harvey sostiene che “’Totalità’ è la parola chiave. Leggere e costruire una teoria economico-politica interpretando il capitale alla stregua di una totalità in evoluzione è qualcosa di enormemente proficuo”.4 Marx riprende questo concetto da Hegel ma lo rielabora in profondità. La totalità del capitale, infatti, non è né prestabilita né predefinita, non è né fissa né determinata quanto a estensione nello spazio e nel tempo. È una rete di prassi sociali storicamente determinate e di rapporti costruiti e sviluppati nel tempo attraverso l’attività umana, costantemente assorta in un processo di crescita e trasformazione, in continuo “divenire”. La totalità del capitale è caratterizzata fondamentale dalla fluidità.
Questa fluidità di significato nello spazio e nel tempo spinge Harvey a chiedersi come poter leggere le categorie di base marxiane nel contesto del nostro presente. Dal momento che la totalità viene trasformata, anche l’apparato concettuale che usiamo per rappresentarla dovrà in qualche modo mutare. È il genere questioni che vengono al pettine quando si parla, per esempio, di finanziarizzazione dell’economia. Prendiamo, insieme a Harvey, il caso della Cina degli ultimi due decenni. Il suo rapidissimo processo di urbanizzazione ha richiesto la costruzione di un sistema finanziario che fosse adeguato al capitale fisso e alla formazione del fondo di consumo. Esattamente come ci si poteva aspettare a partire dalle categorie marxiane. Queste, però, prevedono anche un ruolo subordinato del capitale creditizio rispetto alle esigenze quello propriamente industriale. E qui emerge, secondo Harvey l’esigenza di un aggiornamento concettuale perché bisogna riconoscere che il sistema finanziario dagli anni Ottanta in avanti è emerso come il vero padrone della circolazione e dell’accumulazione del capitale, come il sistema nervoso centrale adeguato ai bisogni della circolazione e dell’accumulazione tipici della totalità costituita dal capitale contemporaneo.
Il punto di vista della totalità, secondo Harvey, ci aiuta a evitare alcuni schematismi che hanno talvolta caratterizzato la riflessione del marxismo. Qui basterà accennare, senza avere la possibilità di svilupparle, due questioni. In primo luogo, se è vero che la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto è ritenuta da Marx “la legge più importante della moderna economia politica”5 è altrettanto importante sottolineare che essa ha a che fare con il connesso aumento della massa del valore. “Dalla prospettiva della totalità Marx evidenzia come sia la crescita assoluta del capitale (cioè la massa del valore) a definirne l’essenza”,6 commenta Harvey. In secondo luogo, “L’unità contraddittoria di produzione e realizzazione all’interno della totalità concepita in termini marxiani è una caratteristica centrale e fondamentale nella teoria del capitale”.7 Non si tratta di negare la centralità della produzione, perché questa è la sfera dove si genera il plusvalore. Ma, prosegue Harvey, valore e plusvalore esistono solo in potenza finché non vengono realizzati attraverso la vendita delle merci sul mercato.
Torniamo, dunque, al concetto di totalità che, per quanto riguarda il capitale, può essere considerata come un ecosistema isolato in funzione del suo studio, ma immerso in un ambiente più ampio, quello della formazione sociale borghese di cui costituisce il motore fondamentale, la forza trainante. Un’altra utile analogia, suggerita dallo stesso Marx, è quella con il corpo umano, costituito da diversi processi di circolazione autonomi e indipendenti, eppure compresi nella logica organica di un unico sistema. Applicare una struttura gerarchica a questi processi, sostiene Harvey, non ha senso perché il collasso di ognuno di loro minaccerebbe l’intera totalità. Allo stesso modo il capitale è costituito da differenti e interrelati processi di circolazione che riguardano lo scambio delle merci, il denaro in quanto tale, la capacità lavorativa, il denaro in quanto capitale, il capitale fisso e il capitale produttivo di interesse.
Il capitale è definito valore in movimento, ed è attraverso quest’ultimo che ogni singolo momento è collegato all’altro. Nessuno dei momenti all’interno della totalità del capitale può essere quindi compreso, nella visione marxiana, indipendentemente dai rapporti prevalenti fra loro.8
Il capitale è, per dirla direttamente con le parole dei Grundrisse, un “sistema organico” il cui “sviluppo a totalità consiste appunto nel subordinarsi tutti gli elementi della società, o nel crearsi a partire da essa gli organi che ancora gli mancano”.9 Ma nel pensiero di Marx questo tipo di considerazione non mette capo a una concezione organicistica della società, se con essa intendiamo una visione che si basa sulla interrelazione armoniosa tra le parti, tipica del pensiero politicamente conservatore. Al contrario, continuando a utilizzare le parole dei Grundrisse, il capitale è “contraddizione in processo”, “contraddizione vivente” perché pone da sé stesso i suoi specifici limiti e al tempo stesso tende a superare ogni limite. L’esempio forse più significativo in questo senso è la dinamica che lo porta a ridurre il tempo di lavoro a un minimo (attraverso la meccanizzazione del processo produttivo e la conseguente diminuzione di manodopera a parità di investimento) mentre pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte della ricchezza.
La totalità del capitale non si limita a riprodurre sé stessa. Bisogna infatti considerare, come ripetutamente sottolineato da Harvey, che la circolazione del capitale non è un semplice circolo, ma, utilizzando direttamente le parole dei Grundrisse, “una spirale, una curva che si amplia”.10 Tornando a Harvey,
se il capitale è denaro usato per fare altro denaro, e alla fine del giorno dovrà risultare più capitale monetario che all’inizio, è evidente che la totalità, per sopravvivere, dovrà mantenersi in uno stato ininterrotto di espansione infinita.11
Per Marx è chiaro che “quanto più alto è lo sviluppo del capitale, tanto più esso appare come ostacolo alla produzione”. Ma il capitale non si può fermare di fronte a nessun tipo di crisi dovendo “ricominciare da capo il suo tentativo, a partire da un grado superiore di sviluppo delle forze produttive ecc., con la prospettiva di un collasso sempre più grave in quanto capitale”.12 Il capitale ovviamente produce soluzioni alle sue crisi, ma anche esse si rivelano contraddittorie. Senza alcuna pretesa di sistematicità, se ne possono citate alcune di cui Harvey parla prendendo spunto dalle pagine dei Grundrisse per trattare di temi di attualità (come gli capita spesso in questo testo): l’enorme espansione del capitale finanziario, l’espansione geografica del capitale (quello che Harvey definisce “spatial fix”), il consumo improduttivo nella forma di investimenti nell’urbanizzazione e in ogni genere di infrastrutture fisiche, ma anche delle spese militari.
A dire il vero, nota Harvey, l’economia bellica è trattata da Marx solo attraverso pochissimi commenti. Il marxista britannico, però, cita una breve ma significativa digressione in cui l’autore dei Grundrisse afferma essere un’ovvietà il fatto che dedicando risorse alla guerra “dal punto di vista economico è come se la nazione buttasse a mare una parte del suo capitale”.13 Un accenno importante perché prefigura la volontà di costruire una teoria più generale su questo argomento. Una teoria, commenta Harvey, in grado di spiegare come “Ogni tendenza verso la sovraccumulazione […] può essere risolta incanalando e dissipando il capitale in investimenti inutili e in campagne militari”.14
In ogni caso l’incessante espansione del capitale generalizza e intensifica il suo dominio nella forma che propriamente gli si addice, quella dei “rapporti di dipendenza materiale in antitesi con quelli personali”15 tipici di sistemi precapitalistici. Questo significa che “Gli individui [sono] dominati da astrazioni mentre in precedenza dipendevano gli uni dagli altri”.16 Non si tratta di un dominio delle idee, come quello che viene chiamato spesso in causa quando si vuole spiegare l’affermazione dell’ideologia thatcheriana, e più in generale neoliberista, con la sostituzione di una concezione statalista keynesiana con il pensiero filo-imprenditoriale di Hayek e Friedman. Questa è una prospettiva idealistica che ragiona come se “la dissoluzione di una determinata forma di coscienza” fosse “sufficiente a uccidere un’intera epoca”17. Dal punto di vista storico-materialistico di Marx, invece, occorre identificare quali forze di classe e quali origini sociali si nascondano dietro queste astrazioni. “Perché l’astrazione o idea non è altro che l’espressione teorica di quei rapporti materiali che esercitano il dominio”18 sugli individui. Sono specifiche pratiche sociali e condizioni storico-materialistiche, per esempio, che “pongono” (per dirla alla Marx) l’esistenza del valore in qualità di astrazione capace di governare l’azione sociale. Così come accade per la gravità, il valore non lo si può vedere o misurare direttamente, ma la sua esistenza viene confermata chiaramente dai suoi effetti. Questo ha delle conseguenze politiche di importanza tutt’altro che secondaria.
Se siamo governati dalle astrazioni, come Marx insiste a dire, l’unico obiettivo dell’agire umano che abbia un senso è prendersela con quei processi che le producono in modo tale da renderli infine irrilevanti: esattamente ciò che l’ideologia e la politica capitalista si rifiutano di prendere anche solo in considerazione. D’altra parte, contemplare una lotta di classe contro le astrazioni sembra anche parecchio complicato.19
Ma delle vicissitudini della lotta di classe di fronte alla totalità capitalistica ci occuperemo nella seconda e ultima parte di questo articolo.
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Parte seconda
Totalità è la parola chiave per interpretare i Grundrisse secondo Harvey. Si tratta di un concetto di chiara provenienza hegeliana che Marx rielabora in profondità, utilizzandolo all’interno di un approccio teorico di natura storico-materialistica. Quella del rivoluzionario tedesco è infatti una totalità fluida, contraddittoria, in continua espansione e governata da astrazioni. Ne abbiamo parlato nella prima parte di questo articolo. Ora ci rivolgiamo alle considerazioni di natura politica che sono espresse dal marxista britannico nel suo commentario a partire da questo approccio. La prima cosa da notare è che il concetto di totalità viene spesso respinto perché appare come una costrizione insuperabile per qualsiasi prassi liberatoria. Il riferimento critico di Harvey a Foucault e al post-strutturalismo, che abbiamo richiamato nella prima parte della recensione, nasce da questo tipo di considerazioni. A prima vista l’anatema nei confronti della totalità non appare infondato. È lo stesso Harvey, infatti, a dirci che i processi capitalistici possono dare luogo a una sorta di cristallizzazione sclerotica tale da produrre l’impressione che
l’umanità abbia ingabbiato sé stessa nella sua rete di rapporti sociali (di classe), di strutture istituzionali (ovvero giuridiche), di interazioni sociali. Di continuo si ritrova irretita nel tentativo di rompere i vincoli e le barriere che lei stessa ha creato. Ecco la contraddizione fondamentale implicita nel modo di produzione capitalistico.1
Non è un caso che Antonio Negri, nel suo Marx oltre Marx, testo del 1979 che reca come sottotitolo Quaderno di lavoro sui Grundrisse, sostenga con lo stile militante e non alieno alle forzature interpretative che contraddistingue questa opera: “L’orizzonte metodico marxiano non è mai investito dal concetto di totalità; piuttosto che dalla totalità esso è caratterizzato dalla discontinuità materialistica dei processi reali”.2 Questo approccio porta Negri a prediligere i Grundrisse rispetto al Capitale perché il primo scritto sarebbe focalizzato sul rapporto tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria, mentre nel secondo il sistema marxiano sembra chiudersi in una sorta di totalità autosufficiente. Per dirla in altro modo i Grundrisse sarebbero un testo eminentemente politico mentre Il capitale sarebbe fondamentalmente un’opera economica, suscettibile di essere interpretata in senso oggettivistico e deterministico proprio per il suo spirito di sistema.
Dopo aver precisato che Negri non viene menzionato da Harvey, in generale avaro di citazioni riguardanti la letteratura secondaria sui Grundrisse, arriviamo al punto che ci interessa in questa sede: l’utilizzo del concetto di totalità in chiave politica da parte del marxista britannico che va in senso opposto a quello dello studioso italiano.
È come se Marx volesse invitare i lavoratori a unirsi a lui nel dissezionare il corpo del loro scontento. Il metodo storico-materialista e anti-idealista stabilito nella cosiddetta «Introduzione di Marx» suggerisce come i lavoratori debbano rivolgere il proprio sguardo alla totalità della loro esperienza di vita, della loro cultura, e appropriarsene in quanto soggetti politici nel processo di trasformazione in esseri dotati di coscienza di classe.3
Secondo Harvey, il luogo paradigmatico per la formazione di una coscienza di classe è costituito dalla sfera della produzione dove si esplicano con maggiore chiarezza i rapporti di dominio e sfruttamento. Ma ogni lavoratore è soggetto a esperienze materiali radicalmente differenti: oltre a partecipare al processo produttivo, vende la sua capacità lavorativa, ha un potere discrezionale legato al potere monetario del suo salario, compra merci sul mercato, è immerso in molteplici forme di riproduzione sociale nella quotidianità della famiglia o nel contesto di un quartiere. Esperienze diverse che tendono a generare differenti soggettività politiche. L’identità di lavoratore viene “cancellata”, ci dice Marx, quando si presenta sul mercato per comprare le merci diventando un consumatore come tutti gli altri. Come sostenere allora una coscienza di classe trasversale a tutti questi momenti?
Ogni soggettività politica, legata com’è al suo specifico momento, non fa che nascondere il carattere complessivamente classista del modo capitalistico di produzione. Ebbene è soltanto dalla prospettiva della totalità che questo carattere può venire totalmente alla luce.4
In questo modo, secondo Harvey, Marx vuole offrire un quadro di riferimento in cui i lavoratori possano fare i conti con tutte quelle forze capaci di condannarli a condizioni di lavoro e di vita tanto oppressive e inadeguate da evocare una prospettiva di rivolta proprio perché esse non sono frutto del caso o dell’arbitrio ma sono condizioni del tutto adeguate dal punto di vista del capitale e della sua incessante brama di profitto e dunque di sfruttamento dei lavoratori.
Secondo Harvey, insomma, Marx con il suo apporto teorico sembra puntare a rafforzare quelle dinamiche che portano lo sviluppo capitalistico a favorire l’avvento di un nuovo tipo di forza lavoro educata, flessibile, adattabile e potenzialmente rivoluzionaria. Siamo di fronte al “lavoratore emancipato”, espressione che Marx utilizza una sola volta ma che, secondo Harvey, sembra spesso affiorare come una sorta di commentatore interno al testo, in particolare quando il rivoluzionario tedesco si chiede come andrebbero le cose se i lavoratori associati assumessero il controllo delle tecnologie disponibili per alleggerire i loro fardello materiale al minimo e liberare così il proprio tempo.
A proposito del “lavoratore emancipato”, si può introdurre una questione che ha a che fare con quella che Harvey definisce la “doppia coscienza” di Marx il quale, da una parte, sottolinea la grande “influenza civilizzatrice” del capitale e, dall’altra, ne denuncia la forza distruttiva e alienate, direi addirittura annichilente. Nel primo caso, lo sviluppo delle forze produttive, che porta con sé la possibilità di sviluppo universale dell’individuo, pone le premesse per il passaggio a una forma sociale superiore. Siamo insomma di fronte a una concezione sostanzialmente ottimistica che “non vede alcun ostacolo immediato per un compimento finale salvo le contraddizioni interne del capitale”.5
Quello che vorrei suggerire è l’ipotesi che il “lavoratore emancipato” sia il protagonista adatto a questa prima coscienza di Marx, mentre se ci rivolgiamo al secondo tipo di coscienza la troviamo “piena di punti interrogativi” e le cose si fanno maledettamente più complicate. Harvey parla addirittura di una legge cui Marx accenna sebbene appaia riluttante a nominarla esplicitamente: “la legge della crescente perdita di potere da parte del lavoratore”.6 Una legge legata all’enorme sviluppo del capitale fisso (i macchinari) che rende irrilevante le capacità del singolo lavoratore riducendolo a impotenza. Una condizione che “ha rappresentato a lungo un arduo ostacolo contro l’organizzazione della lotta e della coscienza di classe”.7 Dal punto di vista della seconda coscienza di Marx, sembra che la violenta distruzione dei sistemi precapitalistici ci abbia precipitato in una “situazione di totale svuotamento” facendoci perdere irrimediabilmente qualcosa di importante, al punto che “le contraddizioni interne del capitale finiranno per vanificare la piena realizzazione dei suoi migliori obiettivi”.8
In ogni caso, sostiene Harvey, queste due concezioni “non si escludono l’un l’altra, più semplicemente rappresentano due lati della natura profondamente contraddittoria dell’umanità come progetto”9 e potrebbero dirci “qualcosa di importante sulle molte ambivalenze che inevitabilmente colorano ogni progetto socialista, aiutarci a comprendere come e perché così tanti progetti onesti abbiano finito per imbarbarirsi sulla via della loro realizzazione”.10 Come quelli delle sinistre ecuadoriane e boliviane, l’esempio è di Harvey, che facendo affidamento sul ruolo progressivo del capitale hanno portato avanti politiche sviluppiste ed estrattiviste, finendo per entrare in aperto e talvolta violento contrasto con la loro base indigena uscendo da questo scontro fatalmente indebolite.
La risposta non sta nell’abbandono dello sviluppismo di sinistra come prima pietra sulla via del socialismo, ma nel creare spazi e opportunità nelle rigidezze dello sviluppismo affinché ci sia concesso cercare un significato, una socialità e una fisicità non alienata, immergerci nel rapporto metabolico con la natura, aprire conflitti per la “completa estrinsecazione dell’interiorità umana”.11
Qui, verrebbe da commentare, la seconda coscienza di Marx viene sussunta (nel classico significato di conservata e superata) dalla prima. E, per tornare a quanto già accennato, l’agente principale di questa operazione sembra essere il “lavoratore emancipato”. Ma a partire dalle stesse considerazioni di Harvey potremmo anche ipotizzare il processo inverso e questo ci porterebbe sulla soglia di una dinamica storica che procede attraverso catastrofi, siano esse di natura sociale, ambientale o bellica.
Quando Negri nel 1979 proponeva la sua lettura dei Grundrisse pensava si fosse “in una fase di rifondazione del movimento rivoluzionario, e in forma non minoritaria”.12 Benché questa lettura della fase fosse alquanto ottimistica, bisogna comunque ammettere che la congiuntura storica attuale è assai diversa e questo ha un peso sull’approccio al testo marxiano. Anche Harvey propone una lettura dei Grundrisse che ha un obiettivo politico. Ma alla politica ci si arriva per gradi, verrebbe da dire alla fine del processo di dispiegamento della totalità. E questo perché a essere venuta meno è proprio la certezza del nesso immediato tra crisi ed emergenza della soggettività rivoluzionaria.
In conclusione, la lettura dei Grundrisse di Harvey mi pare nasca da una disposizione d’animo più vicina all’atteggiamento di Marx che, dopo la sconfitta dei moti rivoluzionari del 1948, si prepara ad una battaglia di lunga lena riprendendo i suoi studi di economia politica. Il problema è che noi, rispetto a Marx, sembra proprio che di tempo a disposizione ne abbiamo molto meno. Le dinamiche distruttive del capitale appaiono oramai sopravanzare di gran lunga la sua “influenza civilizzatrice” conducendoci verso il baratro della disgregazione sociale, del disastro ambientale, dell’olocausto bellico. Per non parlare di quella vera e propria catastrofe dell’umano rappresentata dal fatto che ci stiamo assuefacendo a un genocidio trasmesso, per la prima volta nella storia, in diretta TV e social.
Certamente appaiono pure delle controtendenze come la mobilitazione studentesca contro lo sterminio di massa di Gaza. Ma è altrettanto certo che avremmo bisogno come il pane di quella soggettività evocata da Marx attraverso la figura del “lavoratore emancipato” che, con la sua capacità di allargare il proprio sguardo sulla totalità dei rapporti di sfruttamento e dominio del capitale, sia in grado di contrastare quel simulacro di classe operaia nazionalizzata e razzializzata risvegliato dai populismi fascistoidi. Temo però che questo non sia sufficiente e che emerga l’esigenza di uno scarto significativo rispetto ai soggetti collettivi che si sono affacciati fin qui sul proscenio della storia, ancora troppo legati al proprio ruolo nell’ambito della produzione e riproduzione capitalistica, quasi che il comunismo potesse essere concepito una prosecuzione sufficientemente lineare della missione civilizzatrice del capitale. Temo che occorra una soggettività all’altezza della seconda coscienza di Marx, quella che si presenta con tratti che si fa fatica a non definire apocalittici.
Note parte prima
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024, p. 24. Per le precedenti citazioni vedi p. 12. Harvey ha pubblicato anche due commentari dedicati rispettivamente al primo e al secondo volume de Il capitale, successivamente raccolti in un unico volume: A Companion to Marx’s Capital: The Complete Edition, Verso Book 2018. Del primo è disponibile una traduzione italiana: Introduzione al Capitale. 12 lezioni sul primo libro e sull’attualità di Marx, La Casa Usher 2014. I commentari di Harvey nascono dalle sue lezioni che sono disponibili in video sul sito Intenet https://davidharvey.org/.
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K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi 1976, p. 285.
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p.15.
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Ivi, p. 15.
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K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 767.
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 448.
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Ivi, p. 2017.
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Ivi, p. 44.
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K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit. p. 227.
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Ivi, p. 213.
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 199.
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K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 384.
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Ivi, p. 54.
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 82.
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K. Marx, Lineamenti fondamentali, cit., p. 96.
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Ibidem.
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Ivi, p. 529.
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Ivi, p. 96.
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 433.
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Note parte seconda
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, Edizioni Alegre, Roma 2024 (p. 19.
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A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979, p. 55.
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D. Harvey, Leggere i Grundrisse, cit., p. 495.
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Ivi, p.493.
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Ivi, p.285.
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Ivi, p. 512.
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Ivi, p. 389.
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Ivi, p. 284.
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Ivi, p. 287.
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Ivi, p.285.
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Ivi, p. 292.
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A. Negri, Marx oltre Marx, cit. p. 29.