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Un capitalismo con caratteristiche cinesi
di Ernesto Screpanti
Recentemente mi è capitato di leggere e ascoltare diverse favole sulla natura sociale e politica della Cina, ad esempio che si tratta di un sistema socialista. In questo articolo vorrei tentare di smontarle. Ovviamente lo farò come si può fare in un articolo di dieci pagine. Per approfondire scientificamente lo studio del sistema cinese ci sarebbe bisogno di scrivere almeno due libri, uno sugli aspetti politici e uno sugli aspetti economici. Ma credo che le cose essenziali si possano dire anche in modo semplice e sintetico.
Visto che tratterò di capitalismo, imperialismo e socialismo, devo fare una breve premessa teorica. Il capitalismo lo definisco come un sistema economico in cui il lavoro è mobilitato con il contratto di lavoro subordinato e il controllo dei mezzi di produzione è assegnato al capitale, il quale usa il lavoro salariato per estrarre plusvalore e impiega il plusvalore per valorizzare e accumulare il capitale stesso. L’imperialismo lo definisco come un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese sfrutta risorse umane e naturali di un altro paese e usa il plusvalore e la ricchezza così estratti per valorizzare e accumulare il capitale su scala mondiale.
Più difficile è definire il socialismo, se non altro per la varietà di teorie cui si può attingere. Per essere più ecumenico possibile, lo definirò facendo riferimento a due posizioni molto diverse, quasi polarmente opposte. In tal modo chiunque può scegliere quella che preferisce, tra la gamma di definizioni collocabili tra i due poli, e ognuno può valutare come vuole il grado di socialismo di un sistema reale. La prima definizione la definirò “marxista”, pur sapendo che qualche marxista non la condividerà. Secondo questo punto di vista, il socialismo è un sistema in cui il reddito è distribuito in modo da dare a ognuno secondo le sue capacità, il potere economico in modo da assegnare ai produttori il controllo della produzione e il potere politico in modo da attribuire al popolo il controllo democratico dello stato. La seconda definizione la definirò “bellamista”.
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Che cosa vuole la Cina?
di David C. Kang, Jackie S. H. Wong e Zenobia T. Chan
L’analisi controcorrente della rivista americana «International Security», che ha riaperto il dibattito sugli obiettivi di Pechino
Krisis presenta l’abstract del saggio comparso ad agosto su International Security, rivista statunitense pubblicata da MIT Press e considerata la più autorevole nel campo delle Relazioni internazionali. I tre autori, che insegnano in università americane, hanno analizzato 12.000 articoli e centinaia di discorsi del presidente Xi Jinping per capire le effettive intenzioni di Pechino. I dati emersi mostrano una Cina a difesa dello status quo, concentrata sulla stabilità interna e su obiettivi regionali chiari e limitati. Pur non lesinando critiche a Pechino, gli studiosi concludono dicendo che la minaccia militare cinese è sovrastimata: «La Cina non vuole invadere e conquistare altri Paesi».
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L’opinione corrente sostiene che la Cina è una potenza egemonica emergente, desiderosa di rimpiazzare gli Stati Uniti, dominare le istituzioni internazionali e ricreare l’ordine internazionale liberale a propria immagine. Basandoci su dati tratti da 12.000 articoli e da centinaia di discorsi di Xi Jinping, per discernere le intenzioni della Cina abbiamo analizzato tre termini o espressioni della retorica cinese: «lotta» (斗争), «l’ascesa dell’Oriente, il declino dell’Occidente» (东升西降) e «nessuna intenzione di sostituire gli Stati Uniti» (无意取代美国).
I risultati della nostra indagine indicano che la Cina è una potenza a difesa dello status quo, preoccupata della stabilità del regime e più rivolta verso l’interno che verso l’esterno. Gli obiettivi della Cina sono inequivocabili, durevoli e limitati: si preoccupa dei propri confini, della sovranità e delle relazioni economiche estere. Le principali preoccupazioni della Cina sono quasi tutte regionali e collegate a parti della Cina che il resto della regione riconosce come cinesi – Hong Kong, Taiwan, Tibet e Xinjiang.
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Furedi: sacrosanta critica del politicamente corretto o apologia dell'imperialismo occidentale?
di Carlo Formenti
Riprendo a scrivere su questa pagina dopo una lunga pausa, che non è purtroppo dipesa dall’essermi dedicato a sollazzi balneari o a passeggiate fra ameni boschi montani, bensì dal fatto che mi sono dedicato a tempo pieno a completare la prima stesura di un libro che uscirà dall’editore Meltemi nei primi mesi del 2026, quasi contemporaneamente a un lavoro di Alessandro Visalli. I due volumi avranno lo stesso titolo Oltre l'Occidente, benché con sottotitoli diversi, in quanto sono parte di un unico progetto al quale lavoravamo da tempo. Dirò qualcosa in merito a conclusione dell’articolo che trovate qui di seguito, soprattutto per sottolineare che le nostre riflessioni divergono di centottanta gradi rispetto a quelle dell’autore che sto per commentare.
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Una delle massime più sballate di cui io sia a conoscenza è quella che recita “il nemico del mio nemico è mio amico”. Si tratta di un principio basato su un logica binaria e paranoica. Binaria, nel senso che semplifica brutalmente la realtà, riducendola a una serie di opposizioni: questo o quello, l’uno o l’altro, sopra o sotto, destra o sinistra, un punto di vista che rispecchia lo spirito di un’epoca dominata dalla successione di zero e uno che consente il funzionamento dei computer, macchine chiamate anche calcolatori appunto perché calcolano, non pensano, ma simulano il pensiero umano. Paranoica, perché rassicura chi non riesce a comprendere la complessità del reale, con le sue contraddizioni, ambiguità e sfumature, consentendogli di distinguere a priori chi e cosa considerare amico da chi e cosa guardarsi in quanto nemico (reale, possibile o immaginario). A ricordarmi quanto sia sbagliata la massima di cui sopra è stata la lettura di un libro fresco di stampa: La guerra contro il passato. Cancel culture e memoria storica di Frank Furedi (Fazi editore).
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“La Sumud Flotilla vuole aprire un corridoio per Gaza”
di Alessio Ramaccioni intervista Maria Elena Delia
Tra qualche giorno inizierà il viaggio della Global Sumud Flottilla, la più grande missione marittima civile coordinata della storia per sfidare il blocco illegale imposto da Israele sulla Striscia di Gaza. Imbarcazioni di ogni dimensione salperanno da più porti, convergendo verso Gaza per aprire un corridoio umanitario e chiedere la fine del genocidio.
Con una serie di interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, Radio Città Aperta seguirà questi ultimi giorni di preparazione, gli eventi, la partenza ed il viaggio. Sulle nostre piattaforme social e sul sito potrete ascoltare i podcast e seguire gli approfondimenti.
In questo primo episodio dello Speciale Maria Elena Delia, portavoce del Global Sumud Flottilla, spiega come è nato il progetto, che obiettivi si pone di raggiungere e racconta cosa sta succedendo in questi ultimi giorni di preparativi.
L’intervista è a cura di Alessio Ramaccioni.
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Come annunciato dalle nostre piattaforme social e dal sito, inizia oggi il racconto di Radio Città Aperta, il contributo al racconto da parte di Radio Città Aperta, del viaggio della Global Sumud Flottiglia, che vuole rompere il blocco israeliano a Gaza, aprendo un corridoio umanitario. Questa prima puntata avrà come protagonista Maria Elena Delia, che è la portavoce italiana di Global Sound Flottiglia. Da qui ai prossimi giorni proporremo interviste, approfondimenti e collegamenti dalle navi, nel corso della traversata. Entriamo nel merito con Maria Elena: vi aspettavate la visibilità, il consenso, le adesioni che stanno arrivando numerose in queste settimane?
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Israele avvia la soluzione finale a Gaza City
di Roberto Iannuzzi
La nuova operazione militare punta a spopolare e cancellare la città, sospingendo i palestinesi verso sud in vista della definitiva pulizia etnica della Striscia. L’Occidente tace
In un mese di agosto ricco di notizie internazionali ma scarso di risultati incoraggianti, il presidente americano Donald Trump, dopo aver avviato un inconcludente sforzo negoziale in Alaska riguardo al conflitto ucraino, durante un interludio della guerra dei dazi ha autorizzato attacchi militari contro i cartelli della droga in Messico e dispiegato forze navali USA al limite delle acque territoriali venezuelane.
La Casa Bianca è anche molto attiva in Medio Oriente, dal Caucaso al Libano dove la campagna USA di pressione nei confronti del governo locale affinché disarmi Hezbollah rischia di scatenare una guerra civile. Sullo sfondo rimangono le irrisolte tensioni con l’Iran e il rischio di un secondo round nello scontro fra Tel Aviv e Teheran.
Se la guerra in Ucraina e le altre perturbazioni internazionali ci ricordano che la crisi mondiale legata al declino dell’egemonia statunitense non ammette pause estive, è la Palestina – in primo luogo con l’immane catastrofe di Gaza – a rimanere l’epicentro del collasso morale dell’Occidente.
Cancellare Gaza City
Nell’inerzia delle capitali europee, e con il consenso di fatto accordato da Washington, gli aerei e i carri armati israeliani hanno già iniziato a martellare i quartieri a nord e a est di Gaza City, in base a un piano del governo Netanyahu approvato lo scorso 8 agosto, il quale prevede che Israele assuma il pieno controllo militare della Striscia a cominciare dalla regione settentrionale.
In coincidenza con l’avvio di quella che i vertici militari israeliani hanno definito la seconda fase dell’operazione “Carri di Gedeone”, un nuovo ordine di evacuazione è stato emanato per i residenti di Gaza City dove centinaia di migliaia di persone erano tornate durante il cessate il fuoco dello scorso gennaio.
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Venezuela, storie di bufale e cartelli
di Geraldina Colotti
La notizia è ormai nota: il mese scorso, Trump ha firmato una direttiva, ancora segreta, in cui dava istruzioni al Pentagono di usare la forza militare contro alcuni cartelli della droga che il suo governo ha classificato come organizzazioni terroristiche. Quasi in contemporanea, gli Usa hanno dichiarato che una di queste organizzazioni si chiama Cartel de los Soles, e che è capeggiata dal presidente venezuelano, Nicolás Maduro. Un presidente illegittimo, secondo gli Stati uniti che, per bocca del loro Segretario di Stato, il rabbioso anticomunista, Marco Rubio, hanno dichiarato di aver aumentato la “taglia” sulla sua testa fino a 50 milioni di dollari. Quella precedente – di 15 milioni – era stata decisa da Trump nel 2020, durante il suo primo mandato.
Una canagliata subito ripresa ed enfatizzata dall'estrema destra venezuelana (che preme affinché Trump “faccia sul serio”), e dai giornali mainstream, che avallano l'accusa di “narco-stato” e il far-west trumpista, così come hanno avallato in precedenza il circo dell'”autoproclamazione” di un governo fittizio: per appropriarsi di un malloppo però assai reale come sono i beni del paese all'estero (per inciso, gli europei stanno facendo la stessa cosa con i fondi russi). Mostrare evidenza del contrario, è come convincere un terrapiattista che la terra è rotonda. Il meccanismo delle fake-news è un circolo perverso che si alimenta da sé e occulta l'inesistenza di una fonte attendibile. È stato così fin dalla messa in moto di questa balla spaziale sul Cartel de los soles, con cui inizialmente uno dei principali giornali di opposizione ha calunniato in Venezuela il vicepresidente del PSUV, Diosdado Cabello, oggi ministro degli Interni e Pace.
Nel libro La comunicación liberadora, che abbiamo pubblicato con l'Università internazionale della Comunicazione (LAUICOM), la giornalista e deputata, Tania Diaz, oggi rettrice dell'università, ha raccontato come sia stata una squadra di reporter ben collaudati a scoprire che quello “scoop” si basava su una falsa notizia di partenza: quella secondo cui era stata depositata presso un giudice di New York una presunta denuncia contro Diosdado in quanto capo del Cartel de los soles.
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Dall’Ucraina a Gaza: il doppio standard dell’Occidente
di Elena Basile
Se vogliamo avere contezza delle contraddizioni delle oligarchie illiberali bisogna concentrarsi sul pensiero progressista e stanare l’ipocrisia che lo domina. Sono colpita da come i media più ascoltati riescano a continuare a sabotare i deboli tentativi di mediazione che Mosca e Washington potrebbero raggiungere sull’Ucraina e presentarsi, insieme alle classi dirigenti europee, come i detentori di una morale basata su Rule of Law e diritti umani. Era chiaro ai più che la difesa di questa narrativa non era conciliabile con il sostegno al genocidio in corso a opera di Netanyahu.
Questo spiega come mai su alcuni giornali del mainstream la denuncia dei crimini di guerra in Cisgiordania, del genocidio di Gaza e del regime fascista di Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir sia ormai comune. Articoli che ci consolano e che potrebbero uscire dalla nostra penna. La denuncia del terrorismo di Stato di Israele non è tuttavia accompagnata dalla proposizione realistica di politiche di concreto isolamento del Paese. L’unica possibilità di frenare la hybris israeliana sarebbe costituita dalla fine della cooperazione politico-militare, economica ed energetica con Israele da parte dei Paesi europei. Sanzioni dure, diciotto pacchetti di sanzioni alla stregua di quelle applicate alla Russia, dovrebbero essere fortemente sostenute. Ursula von der Leyen e Kallas potrebbero essere assediate e costrette ad affermare che l’UE ha raggiunto una decisione comune dalla quale si astengono l’Ungheria, l’Italia e pochi altri. Non avviene, purtroppo.
Messi alle strette, i Macron, Starmer e Scholz, per citare i più influenti, che fingono di disapprovare il genocidio, l’apartheid e l’invasione di Gaza, non oserebbero prendere alcuna misura concreta che penalizzi Israele. Si tratta della stessa posizione di tanta parte della diaspora ebraica che si mette la coscienza a posto con la critica al genocidio di Netanyahu, considerato un incidente di percorso di una storia di Israele mai esaminata nelle sue premesse, che hanno determinato i crimini odierni.
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Come i ‘diritti umani’ sono diventati un’arma occidentale
di Kit Klarenberg*
Kit Klarenberg denuncia come l’Occidente abbia trasformato i ‘diritti umani’ in un’arma dopo gli accordi di Helsinki, trasformando un’idea nobile in uno strumento per regime change, sanzioni e guerre imperialiste.
Il 1° agosto ha segnato il 50° anniversario della firma degli Accordi di Helsinki. Il giubileo d’oro dell’evento è trascorso senza grandi commenti o riconoscimenti da parte del grande pubblico. Eppure, la data è assolutamente ‘sismica’, le cui conseguenze distruttive si ripercuotono ancora oggi in tutta Europa e oltre. Gli Accordi non solo hanno sancito la condanna a morte dell’Unione Sovietica, del Patto di Varsavia e della Jugoslavia anni dopo, ma hanno anche creato un mondo nuovo, in cui i ‘diritti umani’ – in particolare, una concezione occidentale e imposta – sono diventati un’arma formidabile nell’arsenale dell’Impero.
Gli Accordi miravano formalmente a concretizzare la distensione tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In base ai loro termini, in cambio del riconoscimento dell’influenza politica di quest’ultima sull’Europa centrale e orientale, Mosca e i suoi satelliti del Patto di Varsavia accettarono di sostenere una definizione di ‘diritti umani’ che riguardasse esclusivamente le libertà politiche, come la libertà di riunione, espressione, informazione e movimento. Le tutele di cui godevano universalmente gli abitanti del blocco orientale – come la garanzia di istruzione gratuita, lavoro, alloggio e altro – erano del tutto assenti da questa tassonomia.
C’era un altro inconveniente. Gli Accordi portarono alla creazione di diverse organizzazioni occidentali incaricate di monitorare il rispetto dei termini da parte del Blocco Orientale, tra cui Helsinki Watch, precursore di Human Rights Watch. Successivamente, queste entità visitarono frequentemente la regione e strinsero stretti legami con le fazioni politiche dissidenti locali, supportandole nelle loro attività di agitazione antigovernativa. Non si parlava nemmeno di invitare rappresentanti dell’Unione Sovietica, del Patto di Varsavia o della Jugoslavia a valutare il rispetto dei ‘diritti umani’ in patria o all’estero da parte degli Stati Uniti o dei loro vassalli.
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I palestinesi non sono responsabili dello stermino degli ebrei. Perché ne pagano la colpa?
di Alessandra Ciattini
Certamente i palestinesi non sono responsabili dello sterminio degli ebrei e, pertanto, non può essere invocato contro di loro. D’altra parte, stiamo assistendo ogni giorno al massacro dei palestinesi, ridotti ormai a dei cadaveri viventi, i cui figli malnutriti se non moriranno non si riprenderanno mai. Eppure, si insiste nel negare la parola genocidio, nonostante le esplicite dichiarazioni dei leader israeliani che intendono fare di Gaza tabula rasa. Per un paradosso storico gli stessi poteri che non mossero un dito per salvare gli ebrei dai campi di sterminio, cui sfuggirono pochi fortunati, stanno ora collaborando con Israele nel massacro dei palestinesi.
Molto rumore e scandalo suscitarono, vari anni fa, le dichiarazioni rilasciate in differenti occasioni dall’allora presidente dell’Iran, Mahmud Ahmadinejad, in particolare quando, invitato a tenere una conferenza alla Columbia University di New York nel 2007, affermò che a suo parere si dovrebbe ancora indagare sull’olocausto degli ebrei avvenuto durante la Seconda Guerra mondiale. Traggo questa informazione da un articolo di Shlomo Shamir pubblicato da Haretz il 25 settembre 2007. Naturalmente, questa sua affermazione suscitò molte proteste negative tra i presenti e il presidente dell’università, Lee Bollinger, intervenne definendo il presidente un “dittatore meschino e crudele”. A quella considerazione Ahmadinejad avrebbe aggiunto, che lo Stato sionista (avrebbe sempre usato questa espressione) ha sempre utilizzato le sofferenze subite per giustificare le sofferenze inflitte ai palestinesi, chiedendosi perché questi ultimi debbono pagare il prezzo di un crimine che non hanno commesso né potevano commettere?
Mi rendo conto che si tratta di un argomento molto delicato e complesso e che certo nessuno può negare l’olocausto che, tuttavia, come sappiamo, non riguardò solo gli ebrei, ma anche altri gruppi etnici (rom, slavi etc.), invalidi, dissidenti politici, etc. D’altra parte, scorrendo anche la stampa dell’epoca, non è facile stabilire cosa intendesse dire effettivamente Mahmoud Ahmadinejad in tutte quelle occasioni in cui fu invitato a parlare in Occidente.
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E’ uno sporco lavoro / 3: Hiroshima Nagasaki Russian Roulette
di Sandro Moiso
Sganciarono la bomba nel 45 per far terminare la guerra mondiale
Nessuno aveva mai visto niente di così terribile, prima
il mondo guardava con gli occhi spalancati per vedere come sarebbe andata a finire
Gli uomini del potere eludevano l’argomento
era un momento da ricordare, non dimenticheremo mai
Stavano giocando alla roulette russa con Hiroshima e Nagasaki
(Jim Page – Hiroshima Nagasaki Russian Roulette, 1974-77)
Sono ancora una volta delle parole, in parte esplicite e in parte giustificatorie, quelle da cui partire per una riflessione sul presente e sul passato di un modo di produzione e della sua espressione politico-militare. Ciò di cui qui si parla prende infatti avvio dalla affermazione fatta da Donald Trump, dopo il bombardamento dei siti nucleari iraniani, secondo il quale: «I raid sull’Iran, come Hiroshima e Nagasaki, hanno chiuso la guerra». Secondo tale narrazione, infatti, i bombardamenti delle due città giapponesi avvenuti rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945 avrebbero costituito l’ultima ratio per risparmiare la vita di un numero di soldati americani che andato crescendo nel tempo da 500 000 a un milione. Ma nel corso di questo articolo si vedrà se è stato davvero così. Per adesso, quel che si può dire è che il riferimento ha suscitato l’indignazione degli “hibakusha”, i sopravvissuti giapponesi alle bombe, poiché:
Guardati con le lenti del diritto contemporaneo, gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki si configurano come crimini di guerra plateali, e verosimilmente come due immensi attacchi terroristici. Usarli come esempio di una soluzione rapida e pulita, come Trump ha fatto, non è solo una falsificazione storica ma un ritorno inquietante alla lettura di quegli eventi che una parte di occidente si era fabbricata subito per giustificarli, e che nel tempo abbiamo superato. [Ma] il paragone ignominioso di Trump ha tuttavia almeno un merito: ci ricorda, se ce ne fosse bisogno, che a ottant’anni da Hiroshima siamo ancora immersi nell’era atomica, che non ne intravediamo la fine, perché forse fine non ci sarà. Di tutte le aberrazioni che l’umanità ha prodotto, la bomba atomica resta ancora la peggiore. E non è affatto, come ci siamo a lungo convinti e come si auguravano i fisici pentiti di Los Alamos, la miglior garanzia di pace possibile»1.
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Politica dei dazi, multipolarismo e rischio di crisi del dollaro: qualche riflessione
di Andrea Fumagalli
Si sa che a furia di ripetere il falso, la menzogna si invera. Media mainstream e governanti europei accettano passivamente l’idea trumpiana che i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea siano del tutto squilibrati a vantaggio dell’Europa, capace di esportare negli Usa molto più di ciò che importa. In tale contesto, i dazi vengono così legittimati e giustificati e, tutto sommato, il raggiungimento di un accordo che li posiziona al 15% non è poi tanto male. Si dimentica, tuttavia, che tale accordo rimane valido solo se accompagnato da 600 miliardi di dollari di investimenti oltreoceano e 750 miliardi in forniture energetiche americane, gnl in testa, nei prossimi tre anni. Considerando che ad oggi l’importazione in Europa di prodotti energetici dagli Usa è pari a 75 miliardi, difficilmente questa condizione potrà essere rispettata.
Ma i rapporti economici tra Usa ed Europa stanno realmente come millantato da Trump?
I dati ufficiali pubblicati dall’ufficio statistico del Consiglio d’Europa raccontano un’altra storia.
Nel 2024, per quanto riguarda la bilancia commerciale (ovvero l’export e import di merci e servizi), considerando le sole merci, si registra un surplus commerciale a favore dell’Europa di ben 198 miliardi di euro (532,3 miliardi di euro è il valore delle esportazioni dell’UE verso gli USA contro 334,8 miliardi di euro delle importazioni dagli USA). Ma se prendiamo in esame anche i servizi (soprattutto quelli intangibili), la situazione cambia radicalmente. Gli Usa infatti presentano un surplus commerciale di 148 miliardi, a fronte di un export Usa verso l’Europa pari a 334,5 miliardi e import dagli Usa in Ue di 482,5 miliardi. Ne consegue che l’Europa presenta un surplus commerciale complessivo di 50 miliardi, cioè solo il 3% dell’intero interscambio di merci e servizi tra le due aree economiche (pari a 1.684,1 miliardi).
Ma non basta. Per dare un quadro esaustivo del frapporti economici tra Usa e UE occorre considerare anche i movimenti di capitali, che comprendono l’insieme delle transazioni finanziarie e creditizie.
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Il “cortile di casa degli Usa” guarda ai Brics per uscire dalla stretta del trumpismo
di Marco Consolo
In un mio articolo precedente avevo esaminato i risultati del vertice BRICS 2025 (Rio de Janeiro 6-7 luglio) [i]. Questa nota è invece dedicata al rapporto tra l’America Latina e i Brics.
Il commercio interno dell’America Latina beneficia di una lingua comune, di una cultura in gran parte condivisa e di legami storici. In particolare, nel continente sono intensi gli scambi commerciali tra Messico, Brasile, Cile e Argentina.
La regione è però caratterizzata da una debolezza politica intrinseca. Infatti, nonostante abbia legami culturali e storici molto più stretti di quelli condivisi dai BRICS tra loro, nella politica internazionale l’America Latina non forma un blocco unito.
Nel passato decennio “progressista”, la cosiddetta “decada ganada”, la regione aveva cercato di avere una sola voce e si era data un’architettura istituzionale in cui, per la prima volta, non c’era la presenza ingombrante degli Stati Uniti e del Canada. Attraverso le organizzazioni UNASUR, CELAC, ALBA i Paesi del continente hanno cercato una propria strada, autonoma dal gigante del nord. Da subito è iniziata una “offensiva conservatrice”, guidata dalla Casabianca, per soffocare i vagiti di una integrazione regionale autonoma e riconquistare i governi del “cortile di casa”. Un obiettivo parzialmente raggiunto, con le vittorie delle destre in Argentina, Ecuador, El Salvador, Panama, Paraguay, Perù.
Più in generale, la regione deve affrontare tre insidie dello sviluppo: una bassa capacità di crescita; un’elevata disuguaglianza con una scarsa mobilità sociale e una debole coesione sociale; una capacità istituzionale e di governo poco efficaci.
I Paesi della regione possono migliorare le proprie politiche di attrazione degli investimenti e coordinarle con le politiche di sviluppo produttivo, in modo da aumentare anche il loro impatto sulle economie destinatarie.
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Tricontinental | Iper-imperialismo: una nuova fase pericolosa di declino
Introduzione
di Antiper
Introduzione a Tricontinental. Institute for Social Research, Hyper-Imperialism: A Dangerous Decadent New Stage, 23 gennaio 2024
Sono passati appena 30 anni da quando gli ideologi della borghesia, in un impeto di wishful thinking, hanno dichiarato la “fine della storia” dando per scontata l’intangibilità dell’imperialismo statunitense. Ma per le lotte e i movimenti popolari che sentivano sul collo lo stivale dell’imperialismo, non si intravedeva all’orizzonte una fine del genere.
Nonostante la violenta repressione, come nel massacro di Carajás in Brasile nel 1996, il Movimento dei Lavoratori “Sem terra” guidò la riappropriazione delle terre per realizzare una riforma agraria popolare attraverso occupazioni e coltivazioni, sfidando i colossi dell’agrobusiness, come la multinazionale statunitense Monsanto. [2]
Un “soldato che ha scosso il continente”, Hugo Chávez, vinse le elezioni popolari [in Venezuela] nel 1999, una brusca svolta a sinistra che fu seguita da altri paesi in America Latina. Questa svolta incluse un’ondata di mobilitazioni di massa di milioni di lavoratori, contadini, indigeni, donne e studenti che nel 2005 sconfisse le proposte di Area di Libero Scambio delle Americhe [ALCA] degli Stati Uniti, sfidando direttamente quasi 200 anni di Dottrina Monroe. [3]
Nel 2002, le donne nigeriane si radunarono ai cancelli della Shell e della Chevron per protestare contro la distruzione e lo sfruttamento ambientale nel Delta del Niger. Gli haitiani rifiutarono secoli di umiliazioni con manifestazioni di massa in seguito alla destituzione di Jean-Bertrand Aristide da parte degli Stati Uniti e all’occupazione statunitense nel 2004. Milioni di nepalesi celebrarono il rovesciamento della monarchia attraverso la resistenza armata sotto la guida dei comunisti nel 2006. Quando il fruttivendolo Mohamed Bouazizi si diede fuoco nel 2010, il popolo tunisino si ribellò al sistema neoliberista che lo aveva spinto ad un gesto così estremo.
Negli anni successivi, si verificarono cambiamenti, a volte piccoli e impercettibili, altre volte turbolenti ed esplosivi. Questi cambiamenti coinvolsero sia movimenti popolari che attori statali, in alcuni casi estremamente potenti.
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L’indicibile genocidio è ciò che avviene
di Alfonso Gianni
“Regalo un rifugio a te e ai piccoli,
i piccoli addormentati come pulcini nel nido.
Non camminano nel sonno verso i sogni.
Sanno che la morte è in agguato.
Le lacrime delle madri sono ora colombe
che li seguono, trascinandosi dietro
ogni bara.”
Hiba Abu Nada, 20/10/2023, uccisa da
bombe israeliane lo stesso giorno in cui
aveva postato questi versi.1
“La morte dell’empatia umana è uno dei primi
e più rivelatori segni di una cultura sull’orlo
della barbarie”
Hannah Arendt
Chissà che cosa avrebbe scritto oggi Nuto Revelli, ufficiale degli Alpini nella tragica missione in Russia prima, comandante partigiano poi, e autore del testo di quello splendido canto partigiano che è Pietà l’è morta, la cui musica risale a una canzone – Il ponte di Perati – cantata dagli Alpini ai tempi della Prima guerra mondiale. Chissà se l’orrore del genocidio del popolo palestinese in corso in questi mesi, senza che nessuno riesca a fermarlo, avrebbe trovato modo e spazio per esprimersi nei versi di una canzone di rabbia e di lotta. Allo stesso tempo un inno alla pietà per quelle vittime della ferocia e della stupidità umana. Come è appunto Pietà l’è morta. Come si ricorderà, nel 1949 Adorno aveva dichiarato che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie» Con questo aforisma, diventato subito famoso – oggi si direbbe virale - non voleva certo stilare un atto di morte per un intero genere letterario quanto segnalare una estrema difficoltà, anche per un pensiero critico, di misurarsi in modo congruo con le problematiche di un sistematico sterminio, cioè un genocidio. Inoltre segnalava che quel genocidio fissava una cesura epocale nella storia umana e del pensiero.
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L’ex portavoce di Gheddafi: «L’Italia sostenga la riconciliazione del popolo libico»
Maurizio Vezzosi intervista Ibrahim Moussa
Intervista esclusiva a Ibrahim Moussa, che precisa: «Non cerchiamo vendetta. Cerchiamo giustizia e dignità». Per capire cosa sta davvero accadendo in Libia, Krisis dà voce a Ibrahim Moussa, ex portavoce di Muammar Gheddafi e oggi attivo nella diaspora libica. Le sue parole rappresentano una lettura radicalmente diversa degli eventi del 2011 e delle loro conseguenze: dure verso l’intervento Nato, critiche nei confronti dell’Occidente e fortemente legate all’eredità politica della Jamahiriya. Per affrontare le questioni aperte su giustizia, sovranità e riconciliazione in Libia, Krisis ritine importante ascoltare anche questo punto di vista, spesso ignorato nei circuiti informativi tradizionali.
Ibrahim Moussa è stato il portavoce di Muammar Gheddafi durante la guerra condotta dalla Nato in Libia nel 2011. Attualmente è Segretario Esecutivo dell’African Legacy Foundation, un’organizzazione non governativa con sede a Johannesburg, in Sudafrica.
* * * *
Quali sono, secondo lei, le ragioni che hanno portato all’attacco francese e statunitense alla Libia nel 2011 e all’uccisione di Muammar Gheddafi?
«Mi permetta di dirlo senza filtri diplomatici. L’attacco alla Libia del 2011 non aveva come scopo la protezione dei civili. È stato un attacco imperialista calcolato, guidato da Francia, Stati Uniti e Nato, per eliminare Muammar Gheddafi e annientare la sua visione per la liberazione africana. Nel 2011, Gheddafi si era posto alla guida di un progetto di trasformazione panafricana. Un progetto che stava gettando le basi per:
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