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Il nuovo volto del capitalismo: quando le élite uniscono lavoro e capitale

di Nicolò Bellanca

 

Nel nuovo capitalismo i redditi da lavoro si sommano a quelli da capitale. Spetta alla sinistra immaginarne una vera democratizzazione.

Il capitalismo sta cambiando, ma non nel modo in cui molti pensano. La tesi è provocatoria: stiamo assistendo non tanto alla sparizione delle classi sociali, quanto alla loro trasformazione radicale. E questo ha conseguenze enormi per le politiche redistributive della sinistra.

 

Oltre Marx: quando tutti sono capitalisti e lavoratori

Nel capitalismo classico, quello descritto da Marx e Ricardo, le classi erano nettamente separate: da un lato i capitalisti che vivevano di rendite, dall’altro i lavoratori che vivevano di salario. Oggi questa distinzione è sempre meno netta. L’economista Branko Milanović ha coniato un termine per descrivere questo fenomeno: homoploutia – dal greco “stessa ricchezza”. Si riferisce a quella fetta crescente di popolazione che appartiene contemporaneamente al decile più ricco sia per redditi da capitale che per redditi da lavoro. Negli Stati Uniti, circa il 30% del top 10% rientra in questa categoria – vale a dire il 3% della popolazione totale.

Sono manager, professionisti, imprenditori che guadagnano stipendi elevati e al contempo accumulano patrimoni significativi. La loro identità di classe è ibrida: capitalisti-lavoratori o lavoratori-capitalisti. Non sono più la borghesia rentier di un tempo, ma neppure i salariati tradizionali.

 

La scoperta di Ranaldi: misurare la “disuguaglianza composizionale”

Ma è un altro economista, Marco Ranaldi, ad aver fornito gli strumenti per comprendere appieno questo fenomeno. Ranaldi ha sviluppato il concetto di “disuguaglianza composizionale” (compositional inequality), che misura quanto la composizione del reddito tra capitale e lavoro varia lungo la distribuzione del reddito totale.

Immaginiamo due società con lo stesso livello di disuguaglianza complessiva. Nella prima, i ricchi vivono esclusivamente di rendite e i poveri esclusivamente di salari (alta disuguaglianza composizionale). Nella seconda, ricchi e poveri hanno tutti la stessa proporzione tra redditi da capitale e da lavoro – diciamo 20% capitale e 80% lavoro (bassa disuguaglianza composizionale). Sono lo stesso tipo di società? No. E le implicazioni politiche sono profondamente diverse.

Per misurare questo fenomeno, Ranaldi ha elaborato l’indice IFC (Income-Factor Concentration), che empiricamente varia da 1 (massima separazione: i ricchi sono solo capitalisti, i poveri solo lavoratori – capitalismo classico) a 0 (composizione identica per tutti – “nuovo capitalismo”). L’indice si basa sulle curve di concentrazione dei redditi da capitale e lavoro lungo la distribuzione del reddito totale.

 

Il mondo reale: tre capitalismi

I dati raccolti da Ranaldi e Milanović su 47 paesi rivelano tre modelli distinti:

  1. L’America Latina: alta disuguaglianza sia di reddito che composizionale. Il capitalismo classico sopravvive qui: i ricchi sono rentier, i poveri sono braccianti o precari. L’IFC supera 0,5-0,6.
  2. I paesi occidentali (Usa, Uk, Canada): livelli intermedi di entrambe le disuguaglianze. Qui cresce la classe degli homoploutoi descritta da Milanović. L’IFC si attesta intorno a 0,4.
  3. I paesi nordici: ecco il paradosso. Bassa disuguaglianza di reddito ma alta disuguaglianza composizionale (IFC sopra 0,5). Come è possibile? La risposta sta nei sistemi pensionistici privati: molti anziani vivono di rendite pensionistiche, mentre i lavoratori attivi dipendono prevalentemente dai salari. Ma quando si separa la componente pensionistica, anche i nordici si spostano verso il modello occidentale.

C’è poi un dato cruciale: non esistono paesi con bassa disuguaglianza composizionale e alta disuguaglianza di reddito. Il “nuovo capitalismo” sembra incompatibile con la disuguaglianza estrema. Perché?

 

Il nesso tra composizione e concentrazione

Qui entra in gioco una scoperta fondamentale di Ranaldi, che si può spiegare con un esempio concreto.

Immaginiamo che l’Intelligenza Artificiale faccia aumentare i profitti delle aziende del 10%, riducendo di conseguenza la quota dei salari nel Pil (è quello che sta accadendo). Cosa succede alla disuguaglianza tra le persone? Dipende.

Scenario 1 – Alta disuguaglianza composizionale (tipo America Latina). I ricchi possiedono azioni e immobili, vivono di dividendi e affitti. I poveri vivono solo di salario. Quando i profitti crescono, i soldi vanno tutti ai ricchi. La forbice si allarga drammaticamente.

Scenario 2 – Bassa disuguaglianza composizionale (tipo Slovacchia). Anche i ceti medi e popolari hanno qualche risparmio investito, quote di fondi pensione, magari una piccola casa in affitto. Quando i profitti crescono, tutti ne beneficiano un po’ – il ricco molto, il povero poco, ma nessuno resta completamente escluso. La forbice si allarga meno.

È un po’ come la differenza tra un’eredità che va tutta al primogenito (alta concentrazione) e una che viene divisa tra tutti i figli (bassa concentrazione). Nel primo caso, un aumento del patrimonio familiare aumenta enormemente la disuguaglianza tra i fratelli. Nel secondo caso, tutti migliorano.

La formula matematica di Ranaldi dice esattamente questo: la velocità con cui cresce la disuguaglianza di reddito quando aumenta la quota di profitti è proporzionale alla disuguaglianza composizionale. Più i profitti sono concentrati in poche mani (alto IFC), più l’aumento dei profitti crea disuguaglianza.

Ecco perché i dati storici sono così importanti. L’aumento della quota di capitale documentato da Piketty negli ultimi decenni non ha avuto gli stessi effetti ovunque. Nei paesi dell’Est Europa come Slovacchia e Repubblica Ceca, dove la privatizzazione post-comunista ha distribuito (almeno inizialmente) le proprietà in modo più diffuso, l’impatto è stato contenuto. In paesi come Brasile o Colombia, dove capitale significa piantagioni, miniere e grandi gruppi finanziari in mano a pochi, l’effetto è stato esplosivo.

E questo spiega anche il paradosso del “non-risultato” di Ranaldi: perché non esistono paesi con bassa disuguaglianza composizionale e alta disuguaglianza di reddito? Perché quando il capitale è distribuito, anche una sua crescita non può generare concentrazioni estreme di reddito. È matematicamente impossibile.

 

Le implicazioni per la sinistra

Questa analisi ribalta alcune certezze. La sinistra ha tradizionalmente puntato su due strategie: aumentare i salari e tassare i profitti. Ma in un mondo di crescente “capitalizzazione dal basso” – dove anche i ceti medi accumulano patrimoni e ricevono redditi da capitale – queste ricette vanno ripensate.

Primo: la tassazione del capitale non può più essere vista solo come un modo per colpire i ricchi. Bisogna distinguere tra diverse forme di capitale. Tassare allo stesso modo i dividendi di un miliardario e i rendimenti del piano pensionistico di un lavoratore è insensato. Servono imposte progressive sul capitale, che colpiscano la concentrazione ma non la diffusione.

Secondo: ridurre la disuguaglianza composizionale diventa un obiettivo in sé. Non basta redistribuire reddito, bisogna redistribuire patrimoni. Le proposte di Atkinson (una dotazione di capitale a tutti i giovani) o Piketty (un’eredità universale finanziata da tasse patrimoniali progressive) vanno esattamente in questa direzione. L’obiettivo è far sì che tutti abbiano un mix equilibrato di redditi da lavoro e da capitale.

Terzo: in un’era di automazione crescente, dove la quota di capitale potrebbe continuare ad aumentare, una bassa disuguaglianza composizionale fa la differenza tra una società che beneficia collettivamente del progresso tecnologico e una in cui i robot arricchiscono solo i loro proprietari. Se tutti possiedono quote di capitale, l’automazione diventa una liberazione dal lavoro, non una minaccia all’occupazione.

Quarto: le politiche industriali e di welfare vanno ripensate in chiave patrimoniale. Fondi sovrani come quello norvegese, che distribuiscono dividendi a tutti i cittadini. Schemi di partecipazione azionaria dei lavoratori. Fondi pensione collettivi gestiti democraticamente. Sono tutte forme di “socializzazione” del capitale che riducono la disuguaglianza composizionale senza abolire la proprietà privata.

 

Verso un nuovo socialismo?

C’è un’ironia in tutto questo. Il capitalismo si sta evolvendo verso forme in cui la distinzione tra capitale e lavoro si fa più sfumata. Ma questo non significa affatto la fine dello sfruttamento o della disuguaglianza. Significa piuttosto che lo sfruttamento assume forme nuove, più complesse.

La classe degli homoploutoi descritta da Milanović non è affatto una classe media universale. È un’élite ristretta che cumula privilegi. Il loro potere deriva proprio dall’ibrida composizione del loro reddito: stipendi altissimi che permettono di accumulare capitale, capitale che genera rendite, rendite che si trasformano in potere politico per proteggere sia i propri salari che i propri patrimoni.

La sfida per la sinistra del XXI secolo è immaginare un socialismo che non neghi la proprietà del capitale, ma la democratizzi davvero. Non attraverso la nazionalizzazione novecentesca, ma attraverso la diffusione universale. Un socialismo in cui il capitale sia posseduto da tutti, non da nessuno in particolare.

È questa la promessa del “nuovo capitalismo” a bassa disuguaglianza composizionale: una società in cui il progresso tecnologico, l’automazione, l’Intelligenza Artificiale diventino beni comuni, i cui frutti siano condivisi. Non per altruismo, ma per struttura: perché tutti sono contemporaneamente lavoratori e capitalisti.

Utopia? Forse. Ma i dati di Ranaldi mostrano che alcuni paesi si stanno già muovendo in questa direzione. La domanda è se lo faranno abbastanza velocemente da evitare che il capitalismo classico – quello della netta separazione tra rentier e salariati – riemerga sotto nuove spoglie.

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