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sinistra

Il soggetto moderno tra Kant e Sacher-Masoch

di Carlo Di Mascio

imago22.jpgL’esistenza della schiavitù nell’antica Roma non impedì a Seneca di convincersi che «se il corpo può non essere libero e può appartenere a un padrone, l’anima resta sempre sui juris». Kant, in sostanza, non fece un gran passo avanti rispetto a questa formula, giacché in lui l’autonomia della persona si combina con le concezioni prettamente feudali del rapporto padroni-servi.

E.B. Pasukanis, La Teoria generale del diritto e il marxismo

 

1. Venus im Pelz come sintesi della filosofia politica e giuridica moderna. Kant e la transizione alla modernità

Leggere Kant attraverso Venus im Pelz di Leopold Sacher-Masoch, può costituire un utile esercizio di ripasso sulle modalità di costruzione del soggetto moderno, ma soprattutto sulle ragioni di una articolata produzione concettuale che nell’epoca moderna è stata essenzialmente diretta a razionalizzare l’ordine quale elemento connaturato a ciascun individuo. Se si prova a prescindere da alcuni stereotipi legati a questo testo - pellicce, fruste, amanti violenti, corde, arazzi, camini rinascimentali, ecc. - quali risaputi elementi funzionali all’appagamento di un desiderio più o meno perverso del protagonista Severin e delle sue strategie di convincimento, in grado di indurre una donna (Wanda) a diventare suo carnefice - l’occasione diventa allora quella di esplorare inevitabilmente il tema del potere, dell’autorità, del controllo, ma soprattutto della filosofia e della sua storia, da sempre indirizzate a mettere in riga il soggetto, a protocollare il suo desiderio nell’ambito di un dominio prestabilito.

Il romanzo, come è noto per chi lo ha letto, attiva in effetti una sostanziale operazione di cattura nell’ordine generale, e che, nel caso del protagonista Severin, consiste nell’impedirgli, al termine di quella «crudele catastrofe della mia vita»1, di intervenire follemente sull’oggetto (del proprio desiderio), atteso che l’ordine oramai è diventato capace di dispiegarsi automaticamente su di lui, assorbendolo completamente, senza bisogno di un impulso esterno. In tale ottica il percorso di Severin che ha inizio con un contratto (di schiavitù), al pari di quel suddito che per conservarsi la vita (da servus, servare, con-servare) cede tutti i propri i diritti a un potere sovrano, e termina con la sua risoluzione, sembra proprio illustrare l’intero tragitto effettuato dalla filosofia politica e giuridica moderna, la quale inizialmente ha operato sul lato della rappresentazione pattizia e razionale della sovranità, per poi rivolgersi su quello dei soggetti, modellando corpi da assoggettare, creando cioè una soggettività attrezzata a obbedire e a farsi disciplinare.

Se il problema della filosofia è stato quello, dopo la Rivoluzione, di costruire le basi per una nuova epoca, avendo sempre cura di preavvisare e porre rimedio agli sbandamenti di contenuti che le stravaganze soggettive possono introdurre in ogni organizzazione politica e sociale - Masoch invece, attraverso Severin e la sua rocambolesca vicenda esistenziale, pare sottolineare che in fondo c’è poco di nuovo perché il potere, attraverso i suoi molteplici e variegati dispositivi, a forza di ordinare e disciplinare (interiormente), finisce sempre per recuperare e neutralizzare ogni novità, ogni fuoriuscita da sé, riducendo tutto a semplice pretesa giuridica, quale nucleo logico dell’esclusione e del comando. Ed è in questa gabbia ben congegnata che Severin proseguirà i suoi giorni, trasformato, da abile sovvertitore dell’ordine costituito, da «rivoltato per sottomissione», in un reazionario, moralista e misogino2, e che ora, non più incudine ma martello, usa la frusta con le donne, e che perfettamente addomesticato non è più in grado di concepire alcuna nuova specificità «delirante» (da de-lirare, «superare il confine» (lira) tracciato dalla Legge), quale differenza assoluta capace di rompere l’immobile e univoca rappresentazione soggettiva e dominante, se non quella di riprodurre lui stesso l’ordine.

Severin, solo apparentemente guarito dalla sua ossessione, non solo è tornato alla ragione, che ha sempre bisogno di pensare secondo forme definite, e dunque, esattamente come nella prospettiva kantiana, secondo regole capaci di impedire che la frattura tra sensibile e soprasensibile diventi una impressionante voragine3: «Imparai a lavorare, ad adempiere a dei doveri»4 - ma pare oramai definitivamente catapultato in quella sostanziale incoerenza kantiana, secondo cui, da una parte, il soggetto è capace di assoluta spontaneità, ma dall’altra come questa spontaneità sia non trascendente, bensì trascendentale, quest’ultima da ritenersi come la sola libertà pratica a priori e come elemento indispensabile affinché possa darsi una legge morale che consenta di muoversi correttamente nel mondo. Una legge morale quale schema prioritario da seguire, tra lavoro, privazioni e doveri, poiché nessuna deviazione può essere più ammessa rispetto al percorso tracciato verso la sostanzialità etica, nessuna esperienza autentica della cosa è più consentita d’ora in poi, ed il compito che adesso lo attende non può che prevedere la neutralizzazione di qualsiasi desiderio.

Per alcuni versi un po’ come quei compagni di Ulisse, nel noto esempio di Adorno e Horkheimer a proposito della costituzione della soggettività, i quali, come servi-lavoratori alle sue dipendenze, non devono ascoltare in alcun modo il canto delle sirene, a tal punto che le loro orecchie devono venire otturate con la cera, per così costringerli a continuare in modo irreprensibile a non fuorviare dal preordinato programma di civilizzazione. Come scrivono i due filosofi tedeschi, «chi vuol durare e sussistere, non deve porgere ascolto al richiamo dell'irrevocabile, e può farlo solo in quanto non è in grado di ascoltare. É ciò a cui la società ha provveduto da sempre. Freschi e concentrati, i lavoratori devono guardare in avanti […] La regressione delle masse, oggi, è l'incapacità di udire con le proprie orecchie qualcosa che non sia ancora stato udito, di toccare con le proprie mani qualcosa che non sia ancora stato toccato […] Tramite la mediazione della società totale, che investe ogni impulso e relazione, gli uomini vengono ridotti di nuovo a ciò contro cui si rivolgeva il principio del Sé, la legge di sviluppo della società: a semplici esseri generici, uguali fra loro per isolamento nella collettività diretta coattivamente. I rematori che non possono parlare fra loro sono aggiogati tutti quanti allo stesso ritmo, come l'operaio moderno nella fabbrica, al cinema e nel collettivo»5.

Severin, dunque, che era riuscito a liberarsi di un Padrone, astutamente screditandolo con la complicità della Legge, essendosi limitato a obbedire meticolosamente alla sua definizione formale, ne ha conquistato uno interiore6, del tutto inestirpabile, dal momento che «adempiere a dei doveri» significa che il dovere va adempiuto per il dovere stesso, e che a tutto questo deve inesorabilmente corrispondere solo un individuo che non è più se stesso, ma piuttosto una entità assoggettata, disciplinata, alienata, obbligata a rinunciare a ogni contenuto particolare, a ogni singolarità. E così quel potenziale sovversivo di cui si era dotato, come incontrollabile soggettività, è stato completamente riassorbito, neutralizzato, per cui tornato in sé con la sua «serietà morale»7, del tutto addomesticato e formalmente mantenuto fedele a se stesso, non si accorge di essere diventato un oggetto del potere, per venire d’ora in poi catalogato in scompartimenti di totale sfruttamento, deprivandolo della sua singolarità ribelle.

Ora, è innegabile come la vicenda masochista così riassunta sottintenda per molti versi la gestione di quella grande contraddizione che con la crisi della ragione classica si è posta nel passaggio alla modernità, con la fine cioè di quei vincoli assertivamente oggettivi fondati sulla natura o sulla divinità, stravolti dalla filosofia critica (o criticismo) capace di sottoporre la ragione a un rigoroso esame, al fine di chiarire le sue pretese legittime, respingendo quelle prive di fondamento, nonché con la conseguente trasformazione dell’assetto produttivo di tipo feudale, promossa con la Rivoluzione Francese da una nascente borghesia, desiderosa di esercitare, armoniosamente e senza conflitti, le libertà liberali in un contesto di sovranità individualistica. Una contraddizione apparentemente senza soluzione, perché si è trattato di far convivere assieme il comando, imposto da un ordine convenzionale, in ogni caso decisionista e arbitrario, con i diritti individuali, con la proprietà, con la riscoperta del piacere, della felicità e del desiderio, per definizione illimitati, e tuttavia stabilendone l’eguaglianza delle forme in grado di giustificare tale convivenza. In questo contesto è proprio Kant che fornisce le categorie interpretative fondamentali grazie alle quali diventa possibile, sul piano formale, questo progetto di complicata coabitazione di soggettivo e oggettivo, di pubblico e privato, ma soprattutto di uguaglianza e disuguaglianza dei possessi privati.

Nel rappresentare il prezioso arsenale ideologico di un capitalismo in embrione, Kant delinea le coordinate idonee a stabilire che tale coesistenza è possibile solo a condizione che l’ordine si svuoti di contenuto, che venga cioè deprivato di ogni concretezza storico-materiale, per diventare regola formale, artificio che domina la variegata e composita contingenza della vita umana. Naturalmente questo svuotamento dei contenuti può darsi solo risolvendosi nel legalismo del dovere, a sua volta conseguenza della separazione tra la dimensione necessaria della legge e quella dei soggetti con i loro desideri particolari tenuti ad attuare questa legge. Il paradosso è che tale separazione non solo nasconde una logica, come detto, puramente formale quale massima istanza morale da cui far dipendere ogni cosa, compresi il Bene e la libertà, ma nello stesso tempo finisce per dirottare ogni impulso, ogni inclinazione, ogni spontaneità naturale, nel circuito blindato del formalismo, facendoli immediatamente apparire come irrazionali e contraddittori se in distonia con i suoi paradigmi logici.

La volontà deve allora coincidere con una forma asseritamente universale, valida per tutti, ed è questa operazione che fa di un imperativo un imperativo morale o categorico. Ma per giungere a questo risultato bisogna prima spogliarla di tutte le sue possibili pulsioni, poiché una volontà generata da una legge non può mai risultare condizionata da inclinazioni personali a seguirla (né tantomeno condizionata dal bisogno di comprendere cosa essa sia e cosa esprimerebbe e, soprattutto, per quale motivo), perché è la legge stessa a determinarla, con ciò derivandone che la legge non è solo normativa, ma dovrà ritenersi nel contempo normativa e motivante. Già da qui, in chiave squisitamente teoretica, comincia a configurarsi il progetto della modernità che è quello di passare dalla centralità di ciò che è o che si è, a ciò che si deve essere pena la propria esclusione dal mondo.

 

2. La critica masochista della Legge tra progetto kantiano, liberazione borghese e nascente conflitto di classe

Il soggetto, dunque, non è più da considerare in quanto tale, con i suoi pregi e difetti, con i suoi desideri e le sue aspirazioni, frutto di concretezza storica e materiale, bensì come soggetto morale, sottoposto a un imperativo categorico o morale, espressione di un comando assoluto rispetto al quale non ci si può sottrarre (trattandosi di un soggetto, appunto, morale). Questi, del tutto alienato ed estraniato dalla realtà, è tale perché deve eseguire le condizioni delle forme a priori, secondo una massima universale, valida sempre e per tutti indistintamente, e necessaria, perché da adempiere senza nessuna riserva, dato che «una volontà libera e una volontà sotto leggi morali sono la stessa cosa»8. Se, dunque, l’imperativo categorico è pura forma, esso, non affermando nulla di concreto, si limita solo a obbligare come si deve desiderare ciò che si desidera, sicché ordinandone non il suo contenuto, ma la sua forma che è ciò che determina l’indeterminato, conferendogli così una sorta di resurrezione pratica. Solo la forma è pertanto in grado di ricondurre al proprio interno il materiale empirico, trasponendo la realtà nella rigidità della Legge, il che comporta che tutto ciò che non è formalizzabile va respinto.

Ora, è chiaro come attraverso un simile impianto teorico si riesca a giustificare tutto e il contrario di tutto, promuovendo alla bisogna una concezione astratta di ciò che è bene e di ciò che è male, di ciò che è giusto o sbagliato, il che implica come tutto e il suo contrario possano venire assoggettati e strumentalizzati dalla classe dominante, da chi ha la capacità (economica e politica) di imporre la propria verità come prevalente, con ciò dando inevitabilmente copertura a rapporti di forza. Tale operazione è alla base di quella peculiare funzione dell’ideologia giuridica che è coincisa con il rendere il diritto naturale. E difatti, laddove il diritto afferma che tutti gli uomini sono uguali, liberi e indipendenti, l’ideologia interviene assicurando che essi lo sono per natura, ma poi, abilmente, non provvedendo a obbligare per natura, in quanto tale compito viene assolto dall’ideologia morale della coscienza del giusto e del dovere in funzione delle esigenze privatistiche ed egoistiche del nascente capitalismo borghese. Tutta la vicenda aperta dalla filosofia del diritto naturale, come ha spiegato Louis Althusser, da Grozio a Kant passando per Hobbes, Locke e Rousseau, si è fondata su una straordinaria ipocrisia, quella cioè «di dover risolvere in termini di diritto privato le questioni di diritto pubblico (o politico)», il che vuol dire «trovare nel diritto mercantile (che è la realtà di ciò che i giuristi chiamano diritto privato) il modo di pensare il diritto pubblico (lo Stato) e l’instaurazione del diritto mercantile stesso nella sua garanzia»9.

Se la società è divisa in classi, il concetto di privato non può che designare ciò che appartiene a pochi individui con esclusione dei più, e se questo è meritevole di tutela, è con Kant che si assiste al passaggio del diritto soggettivo dal piano dell’immanenza a quello della trascendenza, nel senso che contro un individuo - la cui razionalità si va facendo sempre più immanente, che scopre di potersi appropriare finalmente del mondo senza alcun tipo di mediazione, di possedere quindi una nuova coscienza e, soprattutto, nuove e inimmaginabili potenzialità - il potere si organizza ricorrendo alla trascendenza assoluta del principio di autorità in grado di trasformarlo, mediante la forma, in una entità depotenziata e assuefatta a un ordine morale completamente rigido e impenetrabile. Il formalismo, così, quale priorità dell’ideologia borghese, nel camuffare il comando, pone le basi per una profonda razionalizzazione del tutto organica ad una strategia costituitiva della sussunzione10.

Proprio lo scollamento tra forma e contenuto è destinato a generare una vera e propria torsione modale, in cui il formalismo kantiano appare implicitamente predisposto anche verso l’atto crudele e malvagio, e Masoch pare mostrarlo attraverso un contratto capace di legittimare qualcosa di incredibile come un rapporto di schiavitù, così come l’inflessibile predominio della necessità del Sollen possa anche rovesciarsi nella giustificazione della diseguaglianza e della repressione. È d’altronde indiscutibile come, ad esempio, la stessa eguaglianza a cui pensa Kant, e che in epoca moderna sarà perfezionata in particolare da Kelsen, abbia richiesto una operazione di disinnesco delle forze oppositive potenzialmente idonee a minacciare l’ordine costituito. Tale operazione, che non ha nulla di giusnaturalistico, costituisce un punto di arrivo, in realtà già prefigurato dalla ragion pratica, di fatto coincidente con la sottomissione a un soggetto (più o meno) impersonale del potere.

Su questo tracciato è stato Deleuze a mostrare come Kant, in effetti, sia stato in grado di sviluppare l’immagine di un pensiero che, esplicandosi nelle categorie intellettive di un piano trascendente di organizzazione, conduce inesorabilmente a sottomettere le forme esperienziali del soggetto umano a «un Qualcosa come unità superiore a ogni cosa», nonché ad «un Soggetto come atto che opera la sintesi delle cose»11. Tale svolgimento, nell’addestrare il soggetto a riconoscere e ad accettare l’egemonia di una «unità superiore», comporta pure ciò che Deleuze definisce la dénaturation du transcendantal12, che in nulla si differenzia da quell’avvelenamento del pensiero che non ammette alcuna avventura del soggetto se non quella di identificarsi sic et simpliciter con la figura del servo/suddito. La critica kantiana, in realtà, non si fa mai carico di esplorare il soggetto e le sue capacità di esercitare una vera critica sulle cose e sul mondo, ma si spegne solo in compromessi, in conciliazioni e rispettosità dell’ordine costituito, così da concepire «la critica come una forza che doveva prendere di mira le pretese della moralità - ma non la morale stessa»13.

Se allora così stanno le cose, seguendo la critica masochista della Legge, tanto vale porre «la schiavitù fin dall’inizio, come l’oggetto terribile del contratto»14, cioè rendere immediatamente chiaro e senza infingimenti il rapporto tra chi comanda e chi obbedisce, tra chi sfrutta e chi è sfruttato. Ma, soprattutto, se fondare la morale su una specifica idea di ragione a priori significa escludere le passioni e i desideri; se la legge è solo per la legge e il dovere è solo per il dovere; se la legge morale non può accogliere alcun contenuto perché diversamente ciò significherebbe far guidare il soggetto e le sue condotte da un fine estrinseco, il che snaturerebbe la morale stessa; se, dunque, questo soggetto desiderante, contrapposto al soggetto astratto della morale, la cui volontà deve adeguarsi alla legge morale sopportando qualsiasi dolore15, va senza tregua redarguito e sanzionato poiché inammissibilmente portatore di una forza del tutto incontrollabile - tanto vale anche qui predisporsi nell’inventare le strategie più incredibili per aggirare la Legge, quale «replica all’operazione paranoica del despota»16. Masoch, tra umorismo e giochi contrattuali attraverso cui camuffare il proprio desiderio da negozio giuridico, suggerisce che la liberazione non può mai comportare la partecipazione del dominato al potere del dominante, e che, a questo punto, come ricordava Foucault, occorre travestirsi per impadronirsi delle regole e stravolgerle al punto tale da rivolgerle poi contro chi le ha imposte, sicché, infine, farle «funzionare in modo tale che i dominatori si troveranno dominati dalle loro stesse regole»17.

In questa direzione la critica masochista della Legge pare così apertamente disvelare l’ipocrisia dell’impostazione kantiana che in effetti non fa che disinvoltamente ripiegare di nuovo verso quell’autorità che aveva inizialmente criticato, quando, appunto - dopo aver posto le premesse teoriche per una decisa opposizione al vecchio regime feudale, in nome di un individuo privato ed egoista che pretende di affermare la sua autonomia sul mondo e di contestare qualsivoglia organizzazione sociale fondata sulla relazione privilegiata tra potere e verità - si trova ad assegnare la libertà a quella dimensione intellegibile e trascendentale del tutto disancorata dal piano reale, sicché, separando le due dimensioni e situando la libertà solo in quella noumenica, come tale non assimilabile alla realtà tangibile, perviene a conciliare la contraddizione solo internamente al soggetto, in una relazione tutta concentrata sul compromesso borghese tra ragione e obbedienza, ovvero tra morale della persona e morale dell’ufficio.

Proprio l’impossibilità di riuscire a realizzare la corrispondenza tra dimensione razionale e quella sensibile, tra legge e desiderio, conduce Kant a doverla rinviare all’infinito, come qualcosa che deve succedere ma che in concreto non succede mai. E non è per caso che, proprio a tal fine, sia poi stato costretto a riabilitare tutti i momenti eteronomici millenariamente conosciuti, come il postulato di Dio, dell’immortalità dell’anima e in generale della fede che, essendo padrona di ogni legge e derivando ogni verità da se stessa, non ha più bisogno della legge - sicché ciò di cui pareva essersi liberato, riemerge come per incanto. Come del resto puntualizza Kant: «la conformità completa della volontà con la legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun essere razionale del mondo sensibile, in nessun momento della sua esistenza», come dire che essa va trovata «in un progresso che va all’infinito verso quella conformità completa», nel senso che «solo supponendo un’esistenza che continui all’infinito», è possibile conseguire il sommo bene coincidente, in altri termini, «con la supposizione dell’immortalità dell’anima»18.

Trattasi di una dinamica che coincide con la matrice generale delle soluzioni kantiane, in cui le proposizioni metafisiche (Dio, l’immortalità, la Legge, lo Stato, ecc.) non possono darsi che come principi e assiomi, in cui il formalismo è solo subdola schematizzazione idonea a caricare di razionalità l’eguale libertà di tutti. Per qualsiasi atto occorre muoversi sulla base di una garanzia, sia essa legata a una necessità sociale o a una sorta di legittimità normativa, nel senso che prima di fare qualsiasi cosa bisogna avere il permesso di poterla fare, essere autorizzati da un Tribunale interiore, capace di inchiodare l’individuo alle proprie responsabilità e ai propri irreversibili sensi di colpa, una sorta di coscienza morale quale giudice interno che sotto forma di un dio onnisciente, dato «soggettivamente dalla ragione pratica»19, lo scruta continuamente, impedendogli sia di mentire che di fuggire.

Anche da qui si spiega perché per Kant la purezza della legge, che sostituisce il divino, deve essere tale da sottrarsi a qualsiasi rappresentazione. In ciò l’analogia, e la conseguente comune validità, che egli individua tra quanto stabilisce la legge ebraica e la legge morale: «Forse non v’è nel libro delle leggi degli ebrei un passo più sublime di questo comandamento: «Tu non ti farai alcuna immagine o figura di ciò che è in cielo, o in terra, o sotto la terra, etc.»20.Kant, proprio in questi termini, - in quanto espressione di una determinata classe sociale e di uno specifico modo di produzione, che comincia a essere segnato dal conflitto di classe, nel garantirle il dominio attraverso la neutralizzazione in concreto della libertà per confinarla nella sfera idealizzata dell’interiorità, per poi infine svalorizzarla nella vita reale - non fa che sovrapporsi alla riforma luterana, impadronendosi dei suoi dogmi, ma rivisitandoli e correggendoli per consegnarli ad una classe dominante il cui scopo è il progresso da ottenere per via egemonica.

Egli anticipa, di fatto, quanto accadrà nella società moderna, perché se questo progresso deve procedere secondo la legalità del dovere, «nome sublime e grande [che] chiedi la sottomissione»21, la modernità, analogamente, lo farà ipergiuridicizzando ogni spazio sociale, a tal punto da regolamentarne abilmente le conflittualità e i dissensi, rendendo così non più percepibile la repressione pre-stabilita, ma mascherandola dietro un ineccepibile «pensiero formale», il cui «più alto sforzo consiste nel riconoscimento del suo nulla e del dover essere»22. Insomma, quando ci si rende conto che la liberazione promossa dal mondo borghese non può affatto essere universalizzata, e che in particolare le classi subalterne, destinate a servire il progresso dei loro padroni, per ciò stesso non possono partecipare ad alcuna felicità, dal momento che ciò che la legge morale comanda è solamente «come dobbiamo diventar degni della felicità»23, né tantomeno a poter desiderare di desiderare24 - l’esito diventa solo quello di interiorizzare i valori comuni ed essere pronti ad ubbidire, relegando invece il godimento alla mera sublimità dei valori spirituali e l’emancipazione, contenuta nel perimetro dei rapporti di produzione e riproduzione sociale, al controllo capillare delle coscienze e dei corpi.

Ecco perché, come scrive Adorno, «Kant, come dopo di lui gli idealisti, non può tollerare libertà senza costrizione. Già in lui la sua esplicita concezione produce quel timore dell’anarchia, che poi persuase la coscienza borghese alla liquidazione della propria libertà […] Il fatto che Kant si affretti a pensare la libertà come legge, rivela che egli la tratta tanto poco rigorosamente quanto la sua classe sempre. Prima ancora che cominci a temere il proletariato industriale, essa unì - per esempio nell’economia smithiana - la lode dell’individuo emancipato con l’apologia di un ordine, in cui da un lato la invisible hand si cura sia del mendicante che del re, mentre d’altro lato in esso perfino il libero concorrente deve impegnarsi al fair play, feudale.»25.

 

3. La funzione capitalistica della morale kantiana e le adattività sistemiche del soggetto nelle moderne versioni del neoliberalismo

Del resto, proprio la questione del rapporto tra libertà e ordine, segnalata poc’anzi da Adorno, consistente in un dualismo irrecuperabile, resta alla base di quel capitalismo in cui l’istituzione del mercato appare non riuscire a scongiurare la contraddizione originaria che nella storia degli uomini ha sistematicamente assunto la forma del conflitto sociale, e ciò, come è noto, a partire dalla società romana con la rivolta degli schiavi, alle rivolte contadine nella società feudale per giungere ai conflitti tra proletariato e borghesia nella società capitalistica. In tal senso, il fatto che Kant provveda a separare il piano ideale da quello reale, vale a dire il piano ontologico (l’Essere) da quello normativo (il dover essere), separazione il cui epilogo è quello di condurlo lontano non solo dall’assunzione concreta delle forme etiche oggettive già messe in pratica, ma anche dalla possibilità di acquisire qualsivoglia compiuta certezza filosofica - dato che non appena il problema della libertà (di desiderare) si riduce a quello della decisione del singolo individuo, essendo stato separato dalla società e anche da se stesso, esso non fa che conformarsi al trucco di un puro essere in sé assoluto - tutto questo non significa altro che assicurare e proteggere la società borghese effettivamente esistente26, quella società borghese che aspira unicamente al mercato libero delle merci, degli individui e dei capitali, in cui, sostanzialmente, la contraddizione può dirsi definitivamente realizzata, poiché oggettivata dentro una costruzione filosofica in cui è il soggetto trascendentale a tradurre fedelmente la priorità dei rapporti astratti che intercorrono tra gli individui, il cui modello è lo scambio27.

Il pretendere di far valere la propria massima individuale come legge universale, implica l’accettazione incondizionata dell’ordine (capitalistico-borghese) esistente, e dunque rendere inconcepibile la trasformazione di questo ordine, dato che una legge universale che stabilisse di modificarlo sarebbe all’evidenza contraria alla ragione. Come scrive Kant, «ora la coscienza di un assoggettamento libero della volontà alla legge, legata tuttavia con una coercizione inevitabile che vien fatta a tutte le inclinazioni, ma solo mediante la propria ragione, è il rispetto della legge»28. In tale ottica si spiega pure perché la morale kantiana, come acutamente ha sostenuto Costanzo Preve, rappresenti la religione astrattamente ideale per il capitalismo, non certo perché sia applicabile, «ma proprio perché è del tutto inapplicabile». Il capitalismo è la società che, per definizione, tratta gli uomini come mezzi e non come fini, e proprio per questo ha dovuto dotarsi di una religione in grado di predicare astrattamente il contrario. Tutte le religioni metafisiche tradizionali si sono basate sul dualismo trascendente fra Dio ed il mondo, e Kant ha trasformato questo dualismo trascendente in dualismo trascendentale in cui al fenomeno reale si contrappone il noumeno ideale, sicché la loro funzione non consiste nel poter essere applicate, bensì nell’allestire una sorta di scenografia compensatoria ideale al modo concretamente immorale e incoerente in cui si vive nelle società capitalistiche.

Questa scissione fra reale e ideale è dunque indispensabile e nel contempo costitutiva di tutte le società classiste, le quali, con inaudita disinvoltura, sono giunte a mescolare una propria idea di etica, assertivamente universalistica, con la conservazione del plusvalore, della miseria, dello sfruttamento e del profitto, facendo così convivere, come se nulla fosse, l’onestà teorica con la disonestà pratica. Una scissione che, d’altro canto, si è rivelata straordinariamente preziosa, in quanto condizione del tutto funzionale all’intento capitalistico-borghese di costruire un soggetto dissociato, non come unità, ma ridotto a oggetto manovrabile secondo le convenienze. Anche da qui può comprendersi la ragione per cui l’idealismo di Hegel risulti tanto disprezzato, perché al contrario ha sempre cercato di pensare radicalmente l’unità dialettica di reale e ideale29, laddove l’unità pensata da Kant è solo all’interno della scissione, gettata in un aldilà, non in un essere, bensì in un dover essere, cioè in una nozione, come dice Hegel, «priva di contenuto»30. La reale funzione del Sollen e di tutti gli assiomi fondanti la ragion pratica, risiede proprio nella giustificazione impossibile di questa pseudo-unità, che, cioè, deve essere realizzata, ma che non si realizza mai.

E si spiega pure la formidabile abilità del capitalismo moderno che, proprio grazie all’insegnamento kantiano predisposto a nascondere la vuota trascendenza dietro la legge morale, ha inventato quei «diritti dell’uomo»31, per definizione astratti, ma che, prefigurando un ideale di umanità talmente inconsistente da risultare di fatto inapplicabile a chiunque, ha fatto resuscitare con la teoresi dell’universalismo dei diritti umani - peraltro con efficacia eccezionalmente immanente e nucleo fondamentale di una nuova fase speculativa del capitalismo che è il politicamente corretto - quella stessa trascendenza della legge di matrice kantiana, di fatto coincidente con l’assioma che se da un lato, ad esempio, nessuno ha il diritto di massacrare un altro popolo, poiché in tal modo si violano i diritti umani, ciò non significa che non possano esservi altri motivi idonei a giustificarne la violenza, così da permettere non solo di mascherare le sottese ragioni di ordine politico ed economico, ma anche, del tutto assurdamente, di consolidare il principio per cui occorre possedere il diritto a non essere massacrati32.

Insomma, se la legge moderna neutralizzava le «intemperanze» del soggetto attraverso il castigo, rinviandolo sine die, il capitalismo, invece, con la retorica dei diritti dell'uomo, che in effetti «non dicono mai nulla sui modi di esistenza immanenti dell’uomo provvisto di diritti»33, lo ha portato ad autolimitarsi per il solo fatto di far parte di una fantastica umanità, ma in realtà continuando a schiacciarlo sotto il peso di un dovere o di un contratto, sempre funzionali ad un interesse di classe. La libertà di Kant è allora solo quella dell’individuo borghese, autocontrollato, che si sottomette spontaneamente alle leggi del funzionamento generale del capitale e che sempre spontaneamente deve assumere su di sé l’ordine presupposto della forma valore e della merce34, in cui il diritto costituisce simultaneamente una forma esistente fra due soggetti astratti liberi ed un indispensabile assoggettamento all’obbligo.

Da qui, come sosteneva Evgeni Pasukanis, l’incoerenza del mondo borghese che ha dovuto produrre le forme della morale e del diritto quale tentativo di porre vanamente rimedio alla contraddizione di individuale e sociale, di privato e pubblico, e che «la filosofia del diritto borghese non può riuscire a conciliare, costituendo la base reale della società borghese stessa, in quanto società di produttori di merci. Qui essa si invera in rapporti reali fra uomini che possono considerare le proprie attività private come sociali soltanto nella forma assurda e mistificata del valore delle merci»35. Come dire che la forma giuridica non è altro che il «necessario riflesso»36 della forma merce, il che implica la sottomissione della vita nella sua interezza agli imperativi della valorizzazione.

E così, se i rapporti che il soggetto moderno intrattiene sono sempre e comunque destinati a svilupparsi nell’ambito di tale forma, ne consegue che la sua libertà non libera in ogni caso dal dominio in quanto tale, ma libera da ogni sentimento, da ogni pulsione, da ogni relazione, per permettere, sempre liberamente, di penetrare all’interno di un dominio astratto in cui tutti gli esseri umani sono diventati tipologie funzionali della legge del valore delle merci e dello scambio. «L’inclinazione è cieca e servile, sia essa benigna o no, e la ragione, quando si tratta della moralità, non deve semplicemente farle da tutrice, ma, senza alcun riguardo, deve solo curare, come ragion pura pratica, il proprio interesse. Anche quel sentimento della compassione e della simpatia tenera, se precede la riflessione su che cosa sia il dovere e diventa motivo determinante, è gravoso alle stesse persone che pensano bene, confonde le massime su cui hanno riflettuto, e produce il desiderio di esserne liberi e di essere soggetti soltanto alla ragione legislatrice»37. Tutto questo, naturalmente, all’insegna di una armonia generale capace di produrre quel soggetto automatico, quale perfetta realizzazione del soggetto autonomo di Kant, che oramai slegato, come direbbe Hegel, dal rapporto che lo lega al movimento dell’intero e che esclude da sé il suo altro, separato dalla realtà e divenuto trascendentale, privo di sensibilità e che analizza la violenza che lo circonda in modo algido e senza emozioni - vive e opera nella società feticista del capitale come immediato consumatore intercambiabile, completamente sottomesso ai meccanismi del controllo politico ed economico, cioè a quel sistema che, dietro le nozioni capitalistiche di democrazia e libertà, rende totalitaria la vita sociale, neutralizzando ogni critica e ogni forma di resistenza.

Qui non è più in gioco l’autonomia in sé del soggetto, che mai è stata davvero tale, ma un’autonomia solamente formale, nel senso che l’autonomia del soggetto moderno costituisce la forma che assume la sua dipendenza sociale in una fase determinata del processo sociale di produzione38. Come sottolineava Marx, «nel sistema di scambio sviluppato […] gli individui sembrano indipendenti (questa indipendenza che è pura illusione e più correttamente andrebbe chiamata indifferenza), sembrano liberamente entrare in contatto reciproco e scambiare in questa libertà»39. L’a priori kantiano, dunque, in una società fondata sulla divisione del lavoro, per definizione gerarchica ed escludente, non è allora la hegeliana lotta per la vita e per la morte, un desiderio di umano riconoscimento in cui la libertà inizia per il servo con la coscienza della sua servitù, bensì il mercato capitalistico che impone proprio quella «indifferenza affettiva (apatheia, flegma in significatu bono) di un animo che segue rigorosamente i suoi principi immutabili [e che] è sublime, e in una maniera singolare, perché ha dalla sua anche la benevolenza della ragione»40, quale indifferenza assoluta verso gli uomini e le loro azioni, da considerare solo come rivali a ogni livello.

La logica della valorizzazione e della competizione esige la massima insensibilità e la freddezza più spietata per concepire se stessi e gli altri come merce, il cui valore essenziale è una promessa di felicità, e come tale venire gettati nel mercato. E per questo occorre essere vuoti, privi di spessore, servili al suo dominio, neutri, privi di contenuto, senza storia, formati dalla forma e per questo infinitamente fluidi, aperti a tutto, depsicologizzati, destrutturati, deterritorializzati, derealizzati, surrogati da desideri indotti e universalizzati nella scala della produzione e degli scambi. Il capitalismo vive di questo, ha bisogno di un apparato in cui il soggetto, desocializzato e incapace di criticare l’esistente fuori di sé, flessibile e disposto ad accettare la precarietà come espressione di libertà individuale, performante e sempre disponibile, venga organizzato solo per contenere il movimento dell’economia capitalistica e per questo programmato per essere sempre economicamente antagonista41 e, nello stesso tempo, socialmente idiota, poiché «in una società feticizzata, non può esserci un soggetto autonomo e cosciente […] tutto ciò che i soggetti [plasmati dal] valore possono pensare, immaginare, volere o fare si presenta già sotto forma di merce, denaro, potere statale, diritto [legale].»42.

L’esercizio dello sfruttamento, un tempo identificabile in una dinamica più lineare e facilmente inquadrabile nei rapporti di classe, è stato frammentato in una miriade di micro dispositivi contrattuali, predisposto sotto forma di lavori autonomi o collaborazioni occasionali, come sinonimo di libertà e potere decisionale a opera del singolo lavoratore. La storica identità di classe, che rappresentava un collante per lo sviluppo di movimenti collettivi, è stata progressivamente rimpiazzata dalla presunta capacità individuale di gestire autonomamente le proprie risorse in termini di emozioni e superamento delle difficoltà. Invece di stimolare organizzazioni collettive e solidali per affrontare problematiche sistemiche, l’attenzione si è spostata sulle attitudini personali: ciò che oggi viene richiesto al singolo non è una critica al sistema, ma la coltivazione di una idoneità interiore di prendersi cura di sé stessi in una prospettiva che resta di totale isolamento e subordinazione. Il punctum pruriens non è dunque posto sul funzionamento del sistema economico e sociale, bensì sull'individuo, il quale deve imparare a desiderare il capitale incessantemente, senza però mai riuscire a farlo proprio.

Il soggetto moderno non può allora coincidere con un essere umano, ma con un soggetto che sviluppa tutte le qualità per sopravvivere nel capitalismo, un capitalismo autoritario che si manifesta quotidianamente tra politiche di disciplinamento sociale, austerità finanziaria, analfabetismo politico, ritardi culturali, manipolazioni, propagande e strategie della tensione veicolate all’occorrenza da guerre e virus, e che è giunto a concepire la filosofia non come strumento di comprensione del presente storico, ma come strumento che si occupa solo dei propri ideali, cioè solo di ciò che appare auspicabile e perciò deve diventare reale. E in tal senso le giuste coordinate vengono fornite ancora da Kant, proprio sul piano della moralità, in grado di dare spazio, in assenza di contenuto, a un’unica certezza, quella della soggettività che opera nel quadro di un cieco automatismo totalmente in sintonia con qualsivoglia schizofrenia capitalistica, all’insegna, come la definisce Hegel, di una «soggettività che afferma se stessa come l’Assoluto»43, di una soggettività cioè che crede di avere una propria identità mediante la quale dominare aggressivamente ed euforicamente la realtà, senza rendersi conto di venire ogni volta disarticolata e riarticolata in base alle necessità del comando capitalistico, oramai definitivamente ingabbiata in una dimensione di totale passività, e che oggi procede integralmente per imitazione verso una macchina esterna (tecnologica, dotata di codici informatici e complessi sistemi algoritmici) che le propone modelli di esistenza e di cultura dei quali ignora completamente il funzionamento.

Le stesse traduzioni moderne del neoliberalismo, di derivazione kantiana, rispondono alle nuove esigenze del capitalismo contemporaneo, così come tutto lo sforzo della teoria politica di stampo liberale è stato rivolto a contenere soltanto gli effetti simbolici dello scambio diseguale. L’attenzione a certi diritti che si assumono violati e non ad altri, così come le nuove forme del politicamente corretto, quale surrettizia perimetrazione di ciò che si può dire o non dire, costituiscono qualcosa che solo l’astrattezza di un sistema come quello kantiano ha potuto permettere, al pari delle cosiddette dislocazioni sociali che storicamente sono avvenute prima con la famiglia44, nelle società disciplinari, espressione borghese della divisione del lavoro, e poi, nelle attuali società del controllo, con l’individuo slegato dalla comunità che vive da solo, che non si sposa e non fa figli, ugualmente espressione della divisione del lavoro, e che per produrre non può che ricorrere ad un altro individuo qualsiasi con il quale non si condivide nulla.

Il prodotto, dunque, non cambia, ma è solo direttamente proporzionale alle trasformazioni strutturali del modo di produzione capitalistico. La legge della libertà, nel predisporre il quadro fissato dalla logica della valorizzazione e della competizione senza scrupoli, stabilisce le coordinate essenziali: il desiderio, dalla cui codificazione da parte della forma-merce i diritti naturali borghesi hanno avuto origine, consente l’apertura di nuovi orizzonti; il potere li mantiene possibili; il dovere ne seleziona uno, neutralizzando l’apertura verso altre possibilità, e infine la conoscenza - ridotta unicamente a coefficiente di produzione del tutto in sintonia con gli imperativi dell’adattamento capitalistico - ne orienta la prospettiva secondo l’ottica prevaricante dell’obiettivo politico dominante, se del caso, quando l’interesse di classe lo impone, anche con la guerra, la quale, come dice Kant, se«condotta con ordine e nel sacrosanto rispetto dei diritti civili, ha in sé qualcosa di sublime»45.

A fianco di tale dinamica persiste la mistificazione dell’uguaglianza, quale astrazione magicamente plasmata sugli scambi della forma-merce, che poi, parafrasando Carla Lonzi, è quanto la filosofia borghese è riuscita a consegnare sul piano delle leggi, dei diritti e della cultura, vale a dire quel principio in base al quale i dominanti continuano a condizionare i dominati46, un principio sistematicamente impregnato di antiscienza e falsificazione, funzionale a mantenerli subalterni al feticismo, nonché a impedire loro di capire le linee di tendenza che governano il capitalismo, le sue strutture e i suoi rapporti di potere, addestrati ad accogliere passivamente una narrazione secondo cui i conflitti sociali non ci sono più perché le classi sociali in conflitto non esistono più.

La stessa attuale retorica legata al primato dell’autonomia e delle libertà formali, in molti casi spacciata come inclusività, non rappresenta altro che il plusvalore del capitale ottenuto sfruttando le diversità, cioè le diseguaglianze, l’isolamento, anche relazionale e sessuale, di interi gruppi minoritari. Una inclusività, peraltro, che non ha nulla a che fare con la giustizia sociale, dato che perviene solo a convalidare la forza del dominante che - continuando abilmente a preservare l’ineguale distribuzione delle risorse, l’insicurezza sociale e la riduzione dello stato sociale mediante la falsa adesione a talune cause sociali funzionali solo alle proprie esigenze di profitto e respingendone altre - stabilisce chi, come e quando includere e chi, come e quando escludere dei dominati47, di tal che non provvedendo affatto a rivoluzionare i presupposti dell’esclusione, ma a consolidarli ulteriormente secondo il proprio esclusivo punto di vista, facendo così finta di non accorgersi della crescente miseria e della diseguaglianza nel mondo, a loro volta placate da quella kantiana volontà buona sulle sorti dei poveri e dei miserabili, sovente mistificata dalla irrisorietà delle somme elargite per cause benefiche rispetto alla immensa concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, il cui scopo è soprattutto quello di occultare la sua origine.

Il traguardo è dato dall’attuale nefasta chiusura progettuale del pensiero politico e dell’immaginazione sociale, trattandosi solo di riprodurre quanto già esiste con le sue inossidabili adattività alle crisi sistemiche e strutturali del mercato, con conseguente incapacità di comprensione delle cause politiche che le producono. In effetti, a prima vista, si ha la sensazione di stare dalla parte giusta, di vivere nella libertà, ma poi si percepisce che tutte le sue possibilità riguardano solo i livelli di libertà imposti dai dominanti e che questa nostra società, prima disciplinare e adesso insieme del controllo e delle assertive libertà e scelte autonome, appare invece perfettamente configurata per impedire in concreto qualsiasi libera scelta. Occorre ancora ripensare a Lenin, quando affermava che «non si tratta di scegliere una via […] ma di sapere quali passi pratici dobbiamo fare su una via già nota, e in che modo precisamente farli. Si tratta del metodo e del piano di attività pratica»48.


Note
1* Questo testo è apparso in edizione spagnola con il titolo Libertad, orden y capitalismo. El sujeto moderno entre Kant y Sacher-Masoch nel volume di Carlo Di Mascio, Kant con Sacher-Masoch. Elementos para una crítica masoquista de la Ley en La Venus de las pieles, Cuaderno 1, Independently published, 2025.
L. Sacher-Masoch, Venus im Pelz, in: H. Lorm: Ein adeliges Fräulein, Berlin [1910], (S.9–138). Erstdruck in »Das Vermächtnis Kains: Novellen«, Teil 1: »Die Liebe«, als fünfte Novelle, Stuttgart (Cotta) 1870. Erste Einzelausgabe: Dresden 1901. Venere in pelliccia, trad. it. di G. De Angelis e M. T. Ferrari, ES, Milano, 2010, p. 142. D’ora in poi Venus im Pelz e la pagina di riferimento della traduzione italiana. Sul rapporto tra Kant e Sacher-Masoch e su altre questioni filosofiche presenti in Venus im Pelz, mi permetto di rinviare a C. Di Mascio, Masoch sovversivo. Cinque studi su Venus im Pelz, Phasar Edizioni, Firenze, 2018.
2 Come dichiara Severin «[la donna potrà essere compagna dell’uomo] solo quando godrà di diritti uguali ai suoi, quando gli sarà pari per educazione e lavoro», in L. Sacher-Masoch, Venus im Pelz, p. 144.
3 Scrive Kant: «Devono esserci regole dell’uso della libertà in generale che precedano gli impulsi sensibili. Queste riguardano una libertà conforme a regole, che è dunque conforme alle condizioni sotto le quali la libertà può essere un bene. La perdita di esse non può essere sostituita da nessun bene», I. Kant, Reflexionen, hrsg. von E. Adickes und F. Berger, in Kants Gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Prueßischen Akademie der Wissenschaften zu Berlin, 1902, (7212, XIX, 287).
4 L. Sacher-Masoch, Venus im Pelz, p. 142.
5 M. Horkheimer - T.W. Adorno, Dialettica dell'Illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino, 1974, pp. 41 e 44.
6 Proprio come individua Hegel nella sua critica a Kant, dato che se la legge morale rende autonomi da ogni autorità esterna, nel contempo produce la sottomissione ad una nuova autorità interiore, sicché «le pure leggi morali determinano i limiti dell’opposizione in un medesimo essere vivente; in tal modo una facoltà di questo essere domina su un’altra sua facoltà» G.W.F. Hegel, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, in Scritti teologici giovanili, tr. it. a cura di N. Vaccaro e E. Mirri, Guida, Napoli, 1977, II, p. 376.
7 L. Sacher-Masoch, Venus im Pelz, cit., p. 143.
8 I. Kant, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten, trad. it., Fondazione della metafisica dei costumi, a cura di F. Gonnelli, Editori Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 129.
9 L. Althusser, Écrits philosophiques et politiques (1946-1986), tome I, Editions Stock/IMEC, Paris 1994, pp. 428-429.
10 Sussunzione dei più ad opera di pochi individui, la cui nozione [die Subsumtion, dal verbo subsumieren, cioè includere e sottomettere in una classificazione], non a caso, è tratta proprio dalla Critica del Giudizio di Kant.
11 G. Deleuze, Due regimi di folli e altri scritti, Testi e interviste 1975-1995, Einaudi, Torino, 2010, p. 321.
12 Ivi, p. 321.
13 G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, Einaudi, Torino, 2002, p. 133. Cfr. anche D. Losurdo, Autocensura e compromesso nel pensiero politico di Kant, Bibliopolis, Napoli, 1983.
14 G. Deleuze, Il freddo e il crudele, trad. it. di G. De Col, SE, Milano, 1996 e 2007, p. 104.
15 Per Kant ciascun individuo possiede un segnale sicuro attraverso cui riconoscere l’adeguarsi della volontà alla legge morale, e questo è il dolore [Schmerz]: «ogni inclinazione e ogni impulso sensibile sono fondati sul sentimento, e l’effetto negativo sul sentimento (mediante il danno che avviene alle inclinazioni) è anche sentimento. Quindi possiamo vedere a priori che la legge morale, come motivo determinante della volontà, perché reca danno a tutte le nostre inclinazioni, deve produrre un sentimento che può essere chiamato dolore; e qui ora abbiamo il primo, e forse anche l’ultimo caso nel quale, con i concetti a priori, possiamo determinare la relazione di una conoscenza (qui è conoscenza di una ragion pura pratica) col sentimento del piacere o del dispiacere», I. Kant, Kritik der praktischen Vernunft, trad. it. Critica della ragion pratica, a cura di F. Capra, Editori Laterza, Roma-Bari, 2012, p. 159. Sulla concezione del dolore in Venus im Pelz, cfr. M. A. Claassen, Die Schmerzdarstellung und das Weiblichkeitsbild in Sacher-Masochs Venus im Pelz“, Grin Verlag, München, 2009.
16 G. Deleuze - F. Guattari, Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma, 2003, p. 180.
17 M. Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino, 1977, p. 41.
18 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 269.
19 I. Kant, Metaphysik der Sitten, trad. it., La Metafisica dei Costumi, a cura di G. Vidari, Editori Laterza, Roma-Bari, 1996, p. 300.
20 I. Kant, Kritik der Urteilskraft, trad. it., Critica del giudizio, Utet, Torino, 1970, p. 128. Ciò, come è noto, sarà profondamente criticato dal giovane Hegel, quello de Lo Spirito del cristianesimo e il suo destino (1798-1799) scritto durante il suo soggiorno a Francoforte. I temi che vi dominano vanno dal cristianesimo, all’ebraismo sino al kantismo. Hegel mostra come la legge morale di Cristo sia superiore a quella kantiana, in quanto la prima si fonda sull’amore, la seconda invece sul dovere. La legge morale kantiana diviene una sorta di omologo della legalità ebraica, per cui l’etica del dovere costituisce una specie di Dio ebraico interiorizzato nei singoli esseri umani. Ora Cristo, predicando l’amore, tenderebbe a contrapporsi sia all’ebraismo che al kantismo, facendo in altri termini evolvere dialetticamente l’eticità su un livello superiore rispetto al dovere, sicché io non uccido perché la legge me lo proibisce, ma perché amando non ucciderò, ovvero perché «nell’amore viene meno ogni pensiero di dovere». Ovviamente il destino di questo porsi etico, seguendo alla lettera il messaggio cristiano in cui tutto finisce per ridursi a una volontà buona che, in quanto tale, non esclude il dovere ad amare [cfr. Il Vangelo secondo Giovanni: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri», in GV 15, 12.17, oppure la Lettera ai Romani di Paolo di Tarso: «l’amore è il compimento della legge […] Perché chi ama l’altro ha adempiuto la legge», Rm, 13, 1-14] - non può che culminare nell’autoalienazione dal mondo, per cui il vero mondo finisce per diventare solo l’aldilà. Ciò condurrà Hegel a ritenere la morale cristiana del tutto insoddisfacente sia in un’ottica pratica che teoretica. Dopo aver trascorso gli anni a Berna e a Francoforte, riflettendo su tematiche religiose, Hegel si recherà a Jena il cui soggiorno si concluderà nel 1807 con la pubblicazione della Fenomenologia dello Spirito.
21 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 189. Sia chiaro: il dovere certamente esiste e va compiuto. Il problema è che Kant non lo concepisce in termini di comunitarismo solidale, bensì in termini proprio individualistici, di sovranità originaria, di puro atomismo in cui gli individui si muovono secondo logiche privatistiche ed egoistiche. Come fa rilevare Lucien Goldmann, Kant non sarebbe «mai passato dall'Io al Noi come soggetto dell'azione; che, prigioniero di una visione individualista, ha continuato a concepire la «totalità umana» come universalità, Universalitas, e non come comunità concreta e materiale, Universitas», in L. Goldmann, Introduzione a Kant, Mondadori, Milano, 1975, pp. 36 e 141.
22 G. W. F. Hegel, Fede e sapere, in Primi scritti critici, trad. it. a cura di Remo Bodei, Mursia, Milano, 1990, p. 228.
23 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 285.
24 Per molti versi è in questa direzione che si struttura il noto interesse egoistico in Max Stirner, il quale risulterebbe sistematicamente deflagrato dalla morale borghese, la quale, innescando sottili meccanismi ideologici, avrebbe provveduto con successo al depotenziamento della volontà politica delle classi subalterne, accusate di egoismo per il fatto di voler sabotare il bene pubblico, e per questo educate ad aver vergogna dei propri desideri, della loro stessa vita, marchiando qualsiasi loro azione come antisociale poiché non in linea con gli interessi delle classi dominanti, sino a farsi ingabbiare dall’inconsistente meccanismo della denuncia morale: «Le classi oppresse - scrive Stirner - po­terono sopportare tutta la loro miseria finché furono cri­stiane: infatti il cristianesimo non permette il loro mormo­rio e la loro rivolta. Ora invece non basta più l’accantona­mento dei desideri, si esige il loro appagamento. La borghe­sia ha predicato il vangelo del godimento mondano, del gusto materiale, e ora si meraviglia che questa dottrina abbia tro­vato seguaci anche tra noi, tra i poveri: essa ha mostrato che non fede e povertà, bensì cultura e possesso fanno feli­ci: e questo lo capiamo anche noi proletari», M. Stirner, L’Unico e la sua proprietà, trad. it. di C. Berto, Mursia, Milano, 1990, p. 142. Sul rapporto tra diritto e morale, tra diritto positivo e diritto naturale in Max Stirner, mi permetto di rinviare a C. Di Mascio, Stirner giuspositivista. Rileggendo L’Unico e la sua proprietà, Edizioni del Faro, Trento, 2011/2015. Altra cosa, naturalmente, è l’idea neoliberale, con venature socialistiche, che ha preteso di emancipare dal lavoro e non dal capitalismo, facendo fare il lavoro che non piace agli altri. D’altronde, in un’affermazione attribuita a Kant, l’unico modo di fuggire dal lavoro è far lavorare gli altri per sé [„Es gibt nur eine Ausflucht vor der Arbeit: Andere für sich arbeiten zu lassen” (Ders.: Kritik der Urteilskraft, 1790), cit. da Claus Peter Ortlieb, Arbeitszwang und Arbeitsethos da Zwang und Ethos. Ein Gruß zum »Tag der Arbeit«, konkret 5/2012].
25 T. W. Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 1970, p. 208 e pp. 224-225 [corsivo mio].
26 Conservazione e protezione della società borghese che naturalmente, in forza della separazione tra ideale e reale, raggiunge l’apice con la corrispondente giurisprudenza borghese, a sua volta erede di Kant, proprio attraverso l’omologa separazione tra morale e diritto. A tal proposito è stato sicuramente il giurista sovietico Evgeni B. Pasukanis (1891-1937) a chiarirne il paradosso, mostrando come il diritto, da un lato, venga limitato dalla pura politica, e, dall’altro, dalla pura moralità, ma allorquando si cerca di rendere sistematica la posizione giuridica di fronte ad uno di questi due limiti, si scivola ineluttabilmente nell'altro, sicché «[…] quando si afferma l'autonomia del diritto - scrive Pasukanis - rispetto alla morale, il diritto si risolve nello Stato in forza di una maggiore sottolineatura della coercizione autoritaria esteriore. […] quando il diritto viene contrapposto allo Stato, cioè al dominio di fatto, emerge inevitabilmente l’elemento del dovere nel senso del tedesco Sollen (e non müssen) e abbiamo così dinanzi, per così dire, il fronte unito di morale e diritto». Se allora si cerca di distinguere il diritto dal momento cosiddetto politico, non è chiaro che cosa riesca a differenziarlo dalla morale. Ne consegue, dunque, che «se il dovere giuridico non ha nulla in comune con il dovere morale «interno», allora la subordinazione al diritto non può in alcun modo distinguersi dalla subordinazione alla forza come tale […] La filosofia del diritto borghese si esaurisce in questa fondamentale antinomia, in questa lotta senza fine con i suoi propri presupposti», E. B. Pasukanis, La Teoria generale del diritto e il marxismo, in Teorie sovietiche del diritto, a cura di U. Cerroni, Giuffré, Milano, 1964, p. 212. Per un’analisi critica del pensiero giuridico-filosofico di Pasukanis e delle sue implicazioni teoriche con Kant e il neokantismo, mi permetto di rinviare a C. Di Mascio, Pašukanis e la critica marxista del diritto borghese, Phasar Edizioni, Firenze, 2013.
27 Cfr. T. W. Adorno, Critical Models Interventions and Catchwords, Columbia University Press, New York, 2005, p. 248.
28 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 175.
29 C. Preve, A duecento anni dalla morte di Immanuel Kant (1804-2004). Considerazioni attuali sul rapporto fra la filosofia classica tedesca ed il marxismo, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2004. In questo senso, circa la perfetta conciliabilità della dottrina etica kantiana con la fede in dio e, dunque, con quella capacità dell’imperativo categorico di unificare le contraddittorie istanze del capitalismo moderno, si veda ancora Evgeni B. Pasukanis, La Teoria generale del diritto e il marxismo, cit., p. 202.
30 Ed è attraverso questo andamento che la contraddizione in Kant non evolve in nessuna direzione, restando solo allo stato di pura forma: «La fede è priva di contenuto, perché l’opposizione le resta esteriore; il contenuto, se lo si dovesse caratterizzare positivamente, sarebbe l’irrazionalità, poiché è un aldilà assolutamente non pensato, non riconosciuto e incomprensibile», G. W. F. Hegel, Fede e sapere, cit., p. 161.
31 Come già facevano notare con grande chiarezza Deleuze e Guattari, «i diritti dell'uomo sono degli assiomi: possono coesistere sul mercato con ben altri assiomi, in particolare quelli relativi alla sicurezza della proprietà, che li ignorano e li sospendono ancor più di quanto non li contraddicano […] Chi può controllare e gestire la miseria e la deterritorializzazione - riterritorializzazione delle bidonvilles, se non i poliziotti o gli eserciti potenti che coesistono con le democrazie?», G. Deleuze-F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, tr. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino, 2002, p. 101. D’altronde, come altrove dirà Deleuze, «nel capitalismo di universale c’è solo una cosa, il mercato», e di certo «non saranno i diritti dell'uomo a farci benedire i «vantaggi» del capitalismo liberale», in G. Deleuze, Controllo e divenire, in Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata, 2000, p. 227.
32 Osserva ancora Deleuze: «Si invocano invece i diritti dell'uomo, e cosa significa? Significa dire ai turchi che non hanno diritto di massacrare gli armeni. D’accordo, non hanno il diritto di massacrarli, e allora?», G. Deleuze, Abecedario di Gilles Deleuze, lettera G - Gauche, video-intervista in 3 DVD a cura di C. Parnet. I sottotitoli italiani sono curati da I. Bussoni, F. Del Lucchese e G. Passerone, DeriveApprodi, Roma, 2005.
33 G. Deleuze-F. Guattari, Che cos'è la filosofia?, cit., p. 102.
34 In tale ottica, come sottolinea Robert Kurz, Kant può definirsi uno dei più grandi pensatori strategici per la visione borghese del mondo, poiché egli «non è stato solo semplicemente un pensatore riflessivo, ma è stato anche un militante ideologo dell’imposizione della socializzazione del valore.», R. Kurz, Negative Ontologie. Die Dunkelmänner der Aufklärung und die Geschichtsmetaphysik der Moderne, Krisis: 26/2003 (Zeitschrift: 13-42).
35 E. B. Pasukanis, La Teoria generale del diritto e il marxismo, cit., p. 213.
36 Ivi, p. 125.
37 I. Kant, Critica della ragion pratica, cit., p. 261.
38 Sul punto cfr. N. Trenkle, Gebrochene Negativität. Anmerkungen zu Adornos und Horkheimers Aufklärungskritik, Krisis, 25, 2002, pp. 39-65; A. Jappe, Narcissisme et fétichisme de la marchandise. Quelques remarques à partir de Descartes, Kant et Marx, Revue Rue Descartes, n. 85-86, 2015.
39 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politicaGrundrisse»), Einaudi, Torino, 1983, vol. I, p. 95 [secondo corsivo mio].
40 I. Kant, Critica del giudizio, cit., p. 126.
41 Per dirla con Adorno, «la società [del capitale] si mantiene in vita non malgrado il suo antagonismo, ma tramite esso», in T. W. Adorno, Dialettica negativa, cit., p. 287 [Corsivo mio]. Qui, naturalmente, il termine «antagonismo», per come è stato sempre concepito da Adorno, non si identifica con il tema della rivoluzione sociale o con quello della lotta di classe marxisticamente intesi, bensì con quello della conflittualità permanente che vede gli individui, nella società borghese, sistematicamente allenati ad essere competitivi tra di loro, cioè perennemente ostili, prepotenti, sopraffattori, ecc. Ne deriva che lottando tra loro, gli individui si illudono di far emergere la loro propria individualità, non accorgendosi invece di riprodurre il controllo della totalità sociale su loro stessi.
42 A. Jappe, Les Aventures de la marchandise. Pour une nouvelle critique de la valeur, Denoël, Paris, 2003, p. 170.
43 G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, trad. it., Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano, 1996, § 140, p. 267.
44 Può essere utile ricordare che l’iniziale significato di familia, in latino, sta ad indicare il gruppo degli schiavi che compongono la servitù all’interno delle mura domestiche; l’aggettivo familiaricus sottolinea ciò che concerne la servitù; familiola, invece, servitù poco numerosa; famularis, servile. L’intero complesso di parole collegate, deriva dalla radice arcaica famul, poi famulus, che significa schiavo.
45 Nonostante una diffusa opinione che ritrae Kant come costruttore di pace stabile e perpetua tra gli uomini, anch’egli giunge a sostenere che «la guerra stessa, quando è condotta con ordine e nel sacrosanto rispetto dei diritti civili, ha in sé qualcosa di sublime, e rende il carattere del popolo che la conduce in tal modo tanto più sublime, quanto più numerosi sono stati i pericoli affrontati e ora giustamente superati; mentre al contrario una lunga pace suole lasciare libero campo al puro spirito mercantile, e quindi al basso interesse personale, alla viltà ed alla mollezza, degradando il carattere del popolo», I. Kant, Critica del giudizio (1790), Utet, Torino, 1993, p. 237.
46 C. Lonzi, Sputiamo su Hegel. La donna clitoridea e la donna vaginale, Gammalibri, Milano, 1982, p. 27.
47 Sulla questione, e in particolare sulla nozione di woke capitalism, quale nuova forma di imperialismo culturale che attraverso la tutela di certi diritti e la promozione di talune cause sociali, prettamente di carattere culturale e identitario, mira a violarne altri funzionali ai propri interessi materiali, si veda C. Rhodes, Capitalismo woke, come la moralità aziendale minaccia la democrazia, Fazi editore, Roma, 2023. «L’adozione da parte delle imprese di posizioni progressiste - scrive Rhodes - esercita una notevole pressione politica su altri soggetti - ad esempio i dipendenti -, affinché sposino quelle stesse posizioni, anche se non ci credono. L’esempio […] è quello dell’IKEA, la multinazionale svedese che ha licenziato un dipendente per aver disapprovato il sostegno dato dall’azienda al movimento del gay pride, perché in contrasto con le sue convinzioni religiose», Ivi, p. 94. In questo senso il capitalismo woke, formalmente predisposto nei confronti del sociale, non fa altro che individuare nuovi spazi di mercato per vendere meglio le proprie merci, sicché le diversità, amplificate in forma ideologica e pubblicitaria, finiscono per venire confinate solo in una dimensione etica e culturale, ma senza tuttavia tradursi in un effettivo cambiamento economico e politico.  E si pensi anche alle recenti istanze del neofemminismo, connotate da una retorica classista della donna, capaci di mettere assieme imprenditrici e lavoratrici, promuovendo così una falsa solidarietà - falsa perché fondata sulla insanabile contraddizione di interessi circa la distribuzione di profitti e salari - in evidente contrapposizione alla solidarietà di classe intragenere. Il che, in realtà, implica come dietro la promozione del conflitto sessista e/o identitario, vi sia solo l’obiettivo di impedire la lotta di classe tout court.
48 V. I. Lenin, Che fare?, Opere Complete, vol. 5 [1901-1902], Editori Riuniti, Roma, 1958, p. 9.
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Nicolai
Saturday, 26 April 2025 21:19
Riflessioni molto importanti. Grazie.
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