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giubberosse

“Vita e pensiero nel regno dell'insignificanza”

Introduzione di Sonia Milone

“Quale sarà il posto dell’uomo nella società futura?” Se lo chiedono due filosofi e scienziati in un libro che attraversa tutte le faglie del nostro tempo: “Vita e pensiero nel regno dell’insignificanza”, Acro-polis editore. Giubbe Rosse pubblica, per gentile concessione della casa editrice, l’Introduzione del volume scritta da Sonia Milone che ha curato, insieme a Massimo Cascone, il libro-intervista

ISBN VITA E PENSIERO.jpgSembra che la Terra oramai orbiti intorno all’asse dell’emergenza cosmica con il ciclico ripetersi di crisi finanziarie, sanitarie, climatiche, energetiche, belliche. Ad ogni giro si invera un’accelerazione storica che spazza via il vecchio mondo per impiantarne uno completamente nuovo dove trionfano incontrastati il neoliberismo, il globalismo, la tecnocrazia, il transumanesimo.

Il disorientamento, l’incertezza, la paura diffusi impediscono la reazione delle popolazioni, le quali, altrimenti, non accetterebbero passivamente riforme fabiane tese a introdurre un modello socio-economico che cambia in maniera radicale abitudini e stili di vita, rendendole sempre più povere e prive di diritti. È una rivoluzione che non può essere semplicemente imposta dall’alto ma necessita di un certo consenso carpito con la retorica dei buoni principi, come la crociata per la transizione digitale al fine di convertire la società al mito di un progresso che promette di portare il paradiso (artificiale) in terra.

Nel 1951 Hannah Arendt scrisse, a proposito dei totalitarismi, che «il soggetto ideale del dominio totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma le persone per le quali la distinzione tra fatto e finzione, vero e falso, non esiste più». Il rischio maggiore oggi è proprio quello di non sapere più riconoscere la verità rimanendo intrappolati dentro quelle novelle caverne platoniche che sono le bolle virtuali che ci tengono incatenati a fissare i seducenti simulacri del mondo che qualcuno proietta sulle pareti-schermi per noi a nostra insaputa. Eppure, l’uscita dello schiavo alla luce del sole è il mito fondativo di tutta una civiltà che aveva eletto il logos, la ragione, la parola e il dialogo a propria stella polare.

La crisi dei nostri tempi è, innanzitutto, la crisi del pensiero, affermano Luciano Boi e Stefano Isola, che in pagine cariche di riflessioni si confrontano su una molteplicità di temi che costituiscono le vere emergenze del nostro tempo, quelle che raramente emergono nel dibattito pubblico, smascherando le nuove forme di assoggettamento e di dominazione che si celano dietro le nuove mitologie del presente.

A cominciare dalla deriva tecnofila che autorizza il decentramento dall’umano alla macchina con l’espulsione dell’uomo dagli eventi fondamentali della vita e il suo definitivo esilio nel «regno dell’insignificanza», alla periferia dell’universo rifondato dalle multinazionali sull’imperio degli algoritmi, sul «non pensiero» dell’intelligenza artificiale, dove l’essere umano diventa il «terminale di un dispositivo che lo supera e lo sovrasta» rovesciando «il principio di utilità della tecnica in quello di utilità per la tecnica» scrive Isola.

Se le coordinate che avevano orientato il cammino del vecchio homo sapiens nella storia erano improntate a una costellazione di valori che davano senso alla vita come, ad esempio, i legami sociali e il lavoro, ora tutta quella geografia evapora nel non luogo dell’etere elettronico spostandosi alle algide latitudini di una tecnologia dove i corpi sono sostituiti dai profili; le relazioni dalle connessioni; la comunità dalla community; la città dalla smart city; la politica dalla governance; la scuola dall’Eduverso; il linguaggio dal messaggio, le professioni dai robot.

Ed è su questo terreno abilmente dissodato e livellato che viene sradicato ogni orizzonte culturale più profondo, ogni slancio verso una differente visione del mondo recintando la società entro il perimetro della vacuità, della banalità, dell’effimero, dell’edonismo, del consumismo, in un eterno presente dove il pensiero viene programmaticamente immiserito nella sua capacità di intelligere, interrogare, immaginare, sognare e creare allo scopo di neutralizzare preventivamente ogni anomalia in grado di sfuggire alle omologazioni ideologiche del sistema.

«Assistiamo oggi, inerti e inquieti, a un’epocale e rapida mutazione antropologica dell’uomo che rischia di divenire irreversibile e portare all’annichilamento di alcune prerogative biologiche, neuro-cognitive e psichiche essenziali degli esseri umani, in particolare del linguaggio, dell’intelligenza e della socialità» scrive Boi.

La nostra modernità vive nell’uniformità del «pensiero calcolante» (ben altra cosa è la «ragione» come chiariscono gli autori), nella sua assolutizzazione metastorica, che ha fatto dello sviluppo tecno-scientifico la potenza suprema, autoreferenziale, in grado di offuscare ogni altro orizzonte di senso, riallineando tutti gli altri saperi.

Il bisogno frainteso di sicurezza e di controllo degli eventi sentiti dalla società generano un’insperata e acritica legittimità allo strapotere scientista che diventa un vero e proprio nuovo ordine morale: la salute come bene assoluto, la scienza come religione, l’intelligenza artificiale come nuovo oracolo con capacità predittive e virtù di verità oggettiva che non possiede. Anzi, con I’espansione della gestione algoritmica a sfere sociali sempre più ampie, spiega Isola, viene legittimata un’«imperscrutabile» arbitrarietà assolutista, quindi un’irrazionalità sistemica, poiché l’elaborazione statistica dei dati non discrimina fra analisi quantitative e qualitative come quella, ad esempio, essenziale della temporalità. Ciononostante, l’intelligenza artificiale diventa oggetto di fede che scende dall’alto come deus ex machina assicurando di venire a riquadrare il disordine e l’imprevedibilità della vita attraverso un sistema perfettamente controllato e funzionale, ovvero, promettendo di venire a risolvere la tragicità della vita quando, forse, la vera tragedia dei tempi attuali è proprio quella di aver perso il senso del tragico e un’idea superiore di uomo e di destino.

In pagine di grande intensità Boi denuncia la carica ideologica della narrativa scientista riportando la scienza all’interno del suo campo di legittimità disciplinare e restituendo, al contempo, tutto lo spessore culturale ad un sapere che esplora con intuizione e creatività l’inesauribile complessità del mondo, senza volerne appiattire le pieghe allo scopo di addomesticarla.

Di fronte all’incontrastato avanzare della rivoluzione digitale, gli autori hanno il coraggio di squarciare il velo del «pensiero unico e asservito» alzando la voce della coscienza critica per la tutela dell’identità, della dignità e della libertà umana.

A rischio, infatti, non sono solo le dinamiche democratiche a fondamento dello spazio pubblico sempre più ristretto dai panopticon digitali ma «la stessa ontologia degli esseri umani». La frontiera verso la quale si stanno spingendo le odierne tecnologie riguarda l’uomo divenuto esso stesso oggetto di un progetto di manipolazione sempre più invasivo.

La scoperta della tecnica del Crispr-Cas9 (con cui E. Charpentier e J. A. Doudna hanno vinto nel 2020 il premio Nobel) consente di riscrivere il Dna di ogni specie vivente. Semi, piante e animali, la natura tutta può ora essere ingegnerizzata, inclusa quella umana come è già accaduto, fra l’altro, nel caso delle gemelle cinesi nate nel 2018 da un esperimento di editing genetico ad opera del dottor Lu You dell’università dello Sichuan. Nel frattempo, milioni di euro vengono destinati alla ricerca sull’ectogenesi, l’utero tecnologico da cui nascerà la nuova generazione di bambini Crisp venuti dal freddo della fecondazione artificiale nell’inverno demografico perenne. Bambini strappati al calore del grembo materno, culla dell’umanità, con il taglio definitivo del cordone ombelicale rispetto a tutto ciò che è umano. Il 24 gennaio 2024, invece, è stato impiantato il primo microchip nel cervello di un essere umano. L’intervento non è stato sperimentato da un avanzato centro di ricerca medica ma dalla società privata creata a scopo di lucro di un noto imprenditore che, dopo aver conquistato le strade della terra con le auto elettriche e le traiettorie del cielo con voli spaziali e satelliti, punta ora a oltrepassare la frontiera finale invadendo la mente umana, quest’ultimo spazio fino a poco tempo fa ancora protetto da ormai fragili tabù.

Il mondo nuovo si annuncia così, con l’intrusione onnipotente della tecnica nell’essenza della vita, che plasma la cultura, impone la sua ideologia, diventa conformismo di massa e trionfa senza antidoti, senza dibattito pubblico, senza una necessaria disanima razionale, politica ed etica.

Con una approfondita e lungimirante analisi, gli autori ci portano pagina dopo pagina ad affacciarci sulle derive dell’attualità e ammoniscono che siamo sulla soglia di un abisso: all’apice del nostro sviluppo tecnologico, rischiamo di precipitare autodistruggendoci.

La ricerca di una società perfetta, l’utopia di liberare l’uomo dalla caducità fisica e da ogni forma di sofferenza, è il grimaldello con cui, nei laboratori di mezzo mondo e con finanziamenti ultramilionari, si stanno rivoltando i connotati del vecchio homo sapiens. «La natura umana deve essere considerata come un lavoro in corso, come un inizio incompleto che dobbiamo imparare a modellare nella maniera più conveniente» ha scritto il filosofo Nick Bostrom, fondatore con David Pearce dell’Associazione Mondiale Transumanisti. L’evoluzione naturale si sarebbe dimostrata lenta, incontrollabile e imprevedibile, la nuova evoluzione dovrà essere rapida, mirata e prodotta interamente dall’ingegno umano al fine di eliminare tutti quegli aspetti fallimentari come la malattia, la disabilità, l’invecchiamento e ogni altro residuo di casualità, magari riuscendo anche a sconfiggere la morte, il sogno di sempre.

I sacerdoti del Transumanesimo, in perenne competizione con la natura, invasati dal delirio di onnipotenza, hanno trovato la propria terra promessa in quella Silicon Valley che si erge oramai come un «faro» per traghettare la civiltà verso un radioso avvenire in cui la specie umana, dopo essere stata a lungo imbozzolata nella rete digitale, deve compiere la grande metamorfosi, spiccare il volo e rinascere nell’artificiale.

I profeti della rivoluzione digitale non hanno mai nascosto la loro adesione al Transumanesimo come ideologia più o meno ufficiale. Fra le personalità più influenti c’è, ad esempio, Raymond Kurzweil, secondo il quale siamo prossimi all’avvento della “singolarità” che rappresenterà il culmine della fusione tra sfere biologiche e digitali; dopo non ci sarà più distinzione tra realtà fisica e realtà virtuale, tra umano e macchina. L’homo sapiens scomparirà annichilito all’interno della tecnologia, al suo posto la nuova specie post-umana.

Gli antichi greci chiamavano tutto ciò hybris, ossia la tracotanza nel travalicare i limiti dell’ordine costituito dalla natura, dall’etica, dal divino. Icaro, Tantalo, Sisifo, Edipo sono tutte figure della hybris punite con un castigo che non ammetteva nessuna eccezione, neanche quando era fatta a fin di bene, come insegna il mito di Prometeo che ruba il fuoco per donarlo agli uomini. Per il pensiero greco il limite è sempre una zona di instabilità che i miti presidiavano con attenzione. L’uomo faustiano di oggi, invece, non risponde più a niente che non sia la propria volontà di plasmare sulla natura l’artificiale come natura seconda oltrepassando qualsiasi limite.

La forza di questo libro è riuscire a palesare che ciò che è davvero inquietante dell’ideologia transumanista non è solo l’alleanza fra potere finanziario e potere tecnologico, bensì il modo in cui essa sta già modellando la nostra cultura, le nostre convenzioni sociali, i nostri valori morali, le nostre istituzioni e tutto ciò che ha finora sorretto la vita delle nostre comunità.

E, tuttavia, in queste pagine non c’è spazio per la rassegnazione e per gli epitaffi alla cosiddetta “morte dell’Occidente”: il testo freme di indignazione e rabbia dalla prima all’ultima riga invitando ad alzare la testa spezzando la sottomissione al conformismo autoritario e omologante.

Essere all’altezza del proprio tempo significa riprendere in mano con coraggio le sorti del nostro destino senza abdicare alla responsabilità individuale e collettiva per reagire a una crisi quale è quella attuale che non è più solo geopolitica, politica o economica, ma è la crisi della cultura stessa in un momento di attacco profondo all’umano. D’altronde, il termine «crisi» ha assunto un’accezione negativa solo nella modernità. Infatti, in origine indicava la capacità di scegliere, di discernere, di separare il buono dal cattivo. Ed è proprio a una scelta che siamo oggi urgentemente chiamati a rispondere: quale idea di uomo, di società e di mondo vogliamo costruire?

È esattamente su questo orizzonte che il discorso di Boi e Isola appare particolarmente illuminante. Scrive Isola: «sarà dunque compito di chi mantiene salde le radici, nella molteplicità autocreatrice della dimensione umana, attivare processi di auto-educazione popolare, nonché costruzione di concrete alternative, magari proprio a partire dal fronte più antico di esautoramento ed espropriazione da parte del Leviatano digitale, quello dell’agricoltura contadina e del lavoro artigiano».

Si tratta infatti di una missione, quella di riappropriarci di aree vitali ancora generative di significati umani tornando, innanzitutto, alle «mani», ossia recuperando il contatto con la realtà. La reductio ad digitum dell’homo digitalis è la condizione dell’utente che picchia incessantemente con il dito sul mouse in un atto meccanico e ripetitivo, metafora dell’atrofizzazione del pensiero, della parola, della creatività e dell’azione, mentre «il corpo, il gesto, la mano, sono un linguaggio ricco e complesso, che svela aspetti di una razionalità multiforme e processuale» scrive Boi, evocando «il gesto del matematico, del filosofo, del poeta, dell’artista o dell’artigiano».

I corpi collegati da remoto, alienati dietro uno schermo, assenti dalla società ma presenti nella rete, sono corpi spogliati, mortificati e sterilizzati dello spessore millenario della gestualità, andando a legittimare uno sdoppiamento in cui il virtuale diventa più vero del reale nella fruizione passiva di finzioni.

Il gesto del contadino, ad esempio, è l’atto millenario di chi, con le mani, pianta e raccoglie i prodotti della terra, custodendo la memoria di un rapporto fondativo con la natura, prendendosene cura nei tempi lenti delle stagioni, continuando a seguire il ritmo della vita piuttosto che quello di una civiltà artificiosa. È il lavoro di chi piega la schiena verso la terra senza smettere di volgere gli occhi al cielo, verso un orizzonte di senso e una costellazione di valori al riparo dalle tempeste della storia e dalla cupa atmosfera dei nostri tempi che non lascia spazio per nessuna forma di slancio verso una qualche forma di idealità. È il compito di chi resta in piedi, fermo e radicato nella propria dignità contro un sistema dove vige l’imperativo categorico di fluidificare sistematicamente tutte le strutture identitarie personali e collettive. È l’azione di chi coltiva aree libere dalla logica opprimente del mercato, rifertilizza il terreno, salva il seme dell’umano, rivitalizza le radici culturali e, citando Platone, quelle dell’«albero rovesciato» quale è l’uomo, perché è dalla radice della sua «testa» che prende forma tutto ciò che è.

Il contadino sa che occorre resistere all’inverno, ai venti cattivi, al gelo della brina, ma ha fiducia nella rinascita, nel ritorno di un nuovo “impulso primaverile”, così come noi oggi abbiamo il dovere di «resistere a tutti i soprusi, le menzogne e i tentativi di asservire gli individui a un potere cinico, corrotto e irresponsabile, ed estraneo ai reali bisogni degli esseri umani».

La resistenza non può che partire dalla riappropriazione del linguaggio come strumento di orientamento per eccellenza dell’uomo nel mondo, mezzo privilegiato che la «cancel culture» con tutte le propagande di cui essa è madre stanno progressivamente annichilendo. Operazione esemplificata in questa sede da Luciano Boi e Stefano Isola, seminatori di parole vere che arano il campo della cultura per far rifiorire il pensiero critico e i frutti buoni della conoscenza, risvegliando la fiducia nelle qualità più nobili dell’essere umano.

E poi recuperando anche quella saggezza interrogativa e dubbiosa che era tipica delle antiche culture agrarie del Mediterraneo. Ad Atena si deve la nascita del primo ulivo della storia. Alla sua sapienza, simbolizzata dalla civetta che vede anche di notte, oltre il buio, si deve la nascita delle istituzioni che regolavano la polis greca, ossia la “molteplicità” (politeia). È sotto il suo sguardo che più di 2500 anni fa è nata ad Atene la democrazia, la forma politica che accoglie e abbraccia quell’elemento incommensurabile dell’esistenza che è la libertà che la tecnocrazia vorrebbe imbrigliare nel suo ordine algido, immobile e sterile.

Luciano Boi e Stefano Isola, Vita e pensiero nel regno dell’insignificanza. Dialoghi su scienza, filosofia, tecnica, cultura e società, a cura di Sonia Milone e Massimo Cascone, Acro-polis editore, 256 pp., 2025.


Indice del volume
Prefazione di Massimo Cascone
Introduzione di Sonia Milone
Parte I. Colloquio di Sonia Milone con Luciano Boi
1. Il silenzio degli intellettuali e l’indifferenza della moltitudine di fronte al genocidio
2. Il pensiero unico dalle grandi potenze economico-finanziarie e digitali e l’apatia della società civile
3. Un mondo senza più giustizia e responsabilità. Riscoprire il vero senso della democrazia
4. Opporsi alla menzogna e all’asservimento. Quale ruolo per gli intellettuali?
5. Perché l’umano e le sue prerogative vanno difese?
6. L’importanza dei “linguaggi” gestuali e dell’immaginazione nella conoscenza e nell’insegnamento
7. Le nuove tecnologie, l’umano e la barbarie del transumanesimo
8. Pensare l’impossibile. Non ci sarà un futuro diverso senza una ribellione delle coscienze
9. Digitalizzazione, impoverimento del linguaggio e involuzione neuro-cognitiva e comportamentale
10. Sui rapporti tra immaginazione scientifica e creazione artistica. L’importanza dell’integrazione di corpo e mente per la percezione e l’attenzione
11. La rinascita della scuola e il suo ruolo nella società. Per una ricomposizione della cultura scientifica e della cultura umanistica
12. La frontiera tra umano e inumano e tra normalità e anormalità. Ricostruire il legame sociale e il senso di responsabilità
13. Sui rapporti tra tecnologia, ecologia e sviluppo. Una nuova concezione della natura per il futuro della terra e dell’uomo
Letture
Parte II. Colloquio di Massimo Cascone con Stefano Isola
1. Un progresso senza persone
2. Dalla scienza alla nescienza
3. Comportamenti, generatività e insignificanza nella società digitale
4. Nuove corrispondenze tra progresso tecnologico e regressione civile
5. Un nuovo mondo smart
6. Guerra robotica e nuova barbarie
7. Illusioni riparatorie e direzioni di resistenza
Letture
 
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Comments

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Lorenzo
Friday, 19 September 2025 21:08
"Nel 1951 Hannah Arendt scrisse, a proposito dei totalitarismi, che «il soggetto ideale del dominio totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma le persone per le quali la distinzione tra fatto e finzione, vero e falso, non esiste più». Il rischio maggiore oggi è proprio quello di non sapere più riconoscere la verità rimanendo intrappolati dentro quelle novelle caverne platoniche che sono le bolle virtuali che ci tengono incatenati a fissare i seducenti simulacri del mondo che qualcuno proietta sulle pareti-schermi per noi a nostra insaputa"

La volontà delle scimmie glabre a distinguere tra fatto e finzione non è mai esistita pel semplice fatto che la loro comunità è interamente tenuta assieme da finzioni aggregative, e i primati ci tengono più a vivere che a fare chiarezza.

Dov'è la capacità d'individuare finzioni d'una civiltà ch'è andata avanti per sedici secoli a suon di cristianesimo (o islamismo), fra Lazzaro risorto, il dio antropomorfico che impregna le donne mortali, la persecuzione del genere umano pel peccato di Adamo e il paradiso delle vergini coll'imene ricaricabile?

Forse la cosa è migliorata in epoca contemporanea colle guerre fra i credenti nelle religioni della razza-nazione, dell'umanità e del comunismo? Un credente nel manitù umanista avrà il coraggio di parlare di criticare le finzioni altrui?

Ve l'immaginate una società che giustifica la proprietà privata sulla base del lavoro e del merito e poi ne istituzionalizza la trasmissibilità ereditaria, con uno che nasce figlio d'un magnate e uno d'un baraccato - senza per questo dissolversi istantaneamente in un furto e in una rapina ininterrotta di tutti contro tutti?

L'unica differenza fra la modernità contemporanea e i branchi - pardon le società - del passato consiste nel fatto che l'enorme crescita della tecnologia e dell'organizzazione hanno moltiplicato l'efficacia sia dei metodi di propaganda, sia degli strumenti atti a demistificarla (beninteso coll'intento di contrapporgliene un'altra).

La giudea Arendt, al pari di tutti gli scimmioni, viveva come alcunché di naturale e scontato - quindi completamente sottratto all'indagine critica - i pregiudizi che aveva introiettato e le piacevano, mentre denunziava a gran voce l'irrealtà di quelli avversi. La sua propensione per l'affabulazione e l'infingimento si vede benissimo nella sua storia della rivoluzione americana, trasfigurata in una gloriosa epopea ispirata ad elevatissimi ideali anziché realisticamente studiata come una querelle fra la monarchia inglese e le proprietary classes coloniali pel controllo dei proventi della tassazione locale, con buona parte del popolo che parteggiava per la madrepatria e combattè al fianco delle truppe britanniche.
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