I miliardari non dovrebbero esistere? Giusto. Ma tassarli non basta
di Alessio Mannino
Tassare di più gli ultraricchi (non genericamente i ricchi, né tanto meno i benestanti) è perfettamente giusto. Ma politicamente molto difficile. E inutile, se non si accompagni a un blocco della circolazione dei capitali all’estero. Proposte per un prelievo mirato sui milionari affermano quindi un sacrosanto valore di principio, almeno in un’ottica anti-liberista di redistribuzione delle ricchezze. E possono di conseguenza rappresentare armi di contrasto all’immagine di mondo oggi, purtroppo, comune e vincente: quella per cui le immani concentrazioni di potere economico in alto, sono accettate e anzi ammirate da chi sta in basso. In quanto i loro titolari, secondo quell’inganno di pura marca ideologica che va sotto il nome di “meritocrazia”, se le sarebbero meritate. Tuttavia, la sola forza di una petizione simbolica non basta, per porre i termini della questione su basi di realtà. Se si voglia, cioè, fare un discorso compiutamente politico. Ossia credibile.
Lasciamo perdere le pur condivisibili intemerate del neo-sindaco newyorkese Zohran Mamdani (“i miliardari non dovrebbero esistere”) e restiamo in Italia, dove la Cgil ha rilanciato un’idea che ogni tanto riciccia fuori a sinistra: la patrimoniale. Maurizio Landini propone un’aliquota dell’1,3% sui patrimoni superiori a 2 milioni di euro. Secondo un’analisi di quest’anno di uno dei primi studi di consulenza al mondo, il Boston Consulting Group (“Global Wealth Report 2025: Rethinking the Rules for Growth”), nel nostro Paese la platea di chi possiede almeno un milione di dollari in ricchezza finanziaria è costituita da 517 mila persone. Poco più dell’1% dei quasi 43 milioni di italiani contribuenti.
Con la nuova imposta, questo 1% dovrebbe pagare 1500 e rotti euro al mese, a fronte di un gettito a favore della collettività di un gruzzolo equivalente a una legge di bilancio: 20 miliardi. Uno sforzo insignificante, per una fascia di reddito che nuota nell’abbondanza.
Superfluo specificare che i detentori di cotanti averi formano la classe al vertice della piramide sociale, e dalle casematte sotto loro controllo (i media di ogni ordine e grado fino agli stessi partiti) manovrano o influenzano l’immaginario di massa. Complice un ceto intellettuale, giornalistico e artistico smidollato e più che mai prono, hanno letteralmente nelle loro mani la famosa “egemonia culturale” che, va detto, è del tutto conseguente a una società il cui fondamento di fatto consiste nel concetto falso e sviato di libertà commisurata alla sola ricchezza materiale. Il denaro non più come il mezzo per una buona vita, ma come mezzo dei mezzi. Come fine. Misura di tutte le cose. Di qui il trionfo dell’ideologia meritocratica, funzionale a legittimare il privilegio e la rendita di posizione, spacciati per diritto acquisito e giustificato. Quando poi in realtà, se si va a fare una semplice verifica empirica, si scopre che in Italia il 63% della punta estrema di quella famigerata piramide, vale a dire 71 paperoni con 272 miliardi di possedimenti complessivi, godono delle loro fortune per averle ereditate (rapporto annuale Oxfam 2024). Con tanti saluti al “merito” e al mito d’importazione americana del self made man.
Ecco spiegato, in poche parole, perché da un punto di vista politico e culturale ripescare ogni tot la patrimoniale, per quanto cosa buona giusta e fonte di salvezza, significhi recitare a priori la parte dei perdenti. Ma è anche sul piano concettuale che una leva di questo tipo, puramente fiscale, fa palesemente acqua. I detrattori hanno buon gioco nell’obiettare che lorsignori milionari e miliardari reagirebbero con lestezza di un levriero dandoci ancor più dentro in una pratica a cui già sono avvezzi: il trasferimento delle proprie ricchezze finanziarie negli svariati paradisi fiscali europei (Olanda, Lussemburgo, ecc) ed extraeuropei (Cayman, Isole Vergini, Bermuda, tutte fra l’altro sotto la Corona britannica, che Dio la stramaledica). E non lo farebbero tanto per l’esborso in sé che, come abbiamo visto, al netto dell’accertamento di eventuali evasioni ed elusioni, è francamente esiguo. No, la loro sarebbe più una protesta di classe. Politica. Una sorta di serrata in modalità fuga. E il brutto è che non si potrebbe nemmeno contestaglierlo, dato che non esiste una legge che limiti la movimentazione dei capitali.
Ed è qui il problema. Se lo Stato rinuncia a regolare in senso restrittivo la sarabanda dei flussi (che è il cuore del sistema), il capitalista, dal canto suo comprensibilmente, sfrutta gli spazi di agibilità a sua disposizione e attua senza colpo ferire le ovvie ritorsioni a propria tutela. E non c’è predicozzo moralista o patriottardo che tenga. È il mercato, bellezza. Libero, certamente: ma soprattutto per i titoli e i prodotti di quel magico mondo ridicolmente tassato che è la finanza (di cui qualche mese fa abbiamo dato una panoramica nell’articolo cliccabile qui). Apolide per logica intrinseca: va dove la porta il profitto, non il conflitto. Né potrebbe essere altrimenti. Aprire il vaso di pandora di quali provvedimenti immaginare, per contenere l’abnorme licenza di lucro da rentiers, può essere sicuramente utile in teoria. E difatti economisti su economisti in questo campo hanno sfornato fior d’idee: la Tobin Tax, introdotta da noi nel 2013 da Mario Monti, equivalente, udite udite, allo 0,2% del saldo di fine giornata; la regolamentazione dei grandi fondi internazionali, non tenuti a rispettare regole e sanzioni in vigore per le banche; il ritorno alla distinzione fra istituti di credito e istituti d’affari; l’abolizione delle enclaves off shore, i criminogeni “paradisi fiscali” di cui sopra; una stretta ai derivati, quei diabolici castelli di carta cui si deve la crisi mondiale del 2007, attualmente risaliti alla mostruosa cifra di 630 mila miliardi di dollari. Ma scervellarsi a trovare soluzioni sarebbe un esercizio ozioso. E non per la scontata considerazione che i soggetti di cui si stiamo parlando opporrebbero una potenza di fuoco, in condizioni non critiche, praticamente invincibile (pensiamo solo allo strapotere ramificato ovunque della triade americana BlackRock-Vanguard-State Street, o anche soltanto alla capacità di lobbying del sistema bancario nostrano, che riesce a far abortire perfino timidissimi tentativi di tassazione sugli extraprofitti). Questo, per paradosso, è l’ostacolo a valle. A monte, per citare il fantozziano compagno Folagra, negli stessi oppositori delle mostruose disuguaglianze è assente una prospettiva lineare e congruente che, se non vogliamo chiamare con il suo nome un po’ retrò, cioè anticapitalistica, chiamiamola anti-parassitaria, di resistenza umana a questo neo-feudalesimo + libera circolazione di capitali che altro non è, poi, che il finanz-capitalismo.
Difatti Landini, Mamdani & C non sono anti-capitalisti. Non sono neanche socialisti – altro termine da retromania, ma che ancora conserva un suo fascino. Sono blandamente socialdemocratici. Fanfaniani di ritorno. Ora, piuttosto che quell’unione consumatori con contorno di diritti civili che è la sinistra italiana e, in media, europea, per quel che ci riguarda organizzeremmo pure le sedute spiritiche, se avessero effetto per riesumare il democristiano, anti-divorzista e arrogantissimo Fanfani. Ma quel che è morto, è morto. E di nostalgia vivono i poeti, i moribondi e i depressi. Se si vuole guardare in avanti, privi di risorse e potere come siamo per lo meno dovremmo, noi-ancora-senza-nome, focalizzare la guerra d’idee sul piano giusto. Che non è quello, o non solo quello, delle idee costruttive, più o meno rigorose e accattivanti. Il lavoro da compiere in prima battuta è liberare la mente dai condizionamenti di quell’imago mundis, della visione e stile di vita che converte i valori in dollari, euro, moneta, schei, danè. Il che non corrisponde affatto a un rifiuto monastico per il benessere materiale. Piuttosto, iper-semplificando, significherebbe guardare con disprezzo, e non con invidia, chi dedica gran parte delle energie ad accumulare soldi. Più si è ricchi di quattrini, più si è poveri di vita.
Jeff Bezos, secondo solo a Elon Musk nella classifica dei nuovi re Mida, ha dovuto far firmare alla sua ultima moglie, l’ennesima, un contratto che prevede salatissime penalità nel caso lei lo tradisca. È felice, uno che potrebbe avere tutte le donne in vendita che vuole, ma arriva a comprarsi la fedeltà della coniuge? E che raccapricciante megalomania potrà rosicchiare il cervello di Musk, già di suo tarato, il trilione che lo isserà al trono di individuo più smisuratamente patrimonializzato della storia? È umano, è un progresso, è una conquista della civiltà che si sia formata una sottilissima casta di redditieri malati, squilibrati, seduti su cifre con un numero di zeri semplicemente inconcepibili per un essere umano normale? È tale degenerazione dell’umanità, è questa ossessione per l’eccesso a rappresentare l’esito ultimo delle sperequazioni di reddito, che una tassa giammai potrà combattere sul terreno delle coscienze. Come si scriveva di recente in un altro pezzo su queste colonne online, è su un’etica opposta, su princìpi completamente differenti, anti-utilitaristici e anti-economicistici, che dovrebbe basarsi una battaglia che si dica politica nel senso più ampio e fecondo della parola. Mettiamola così. Un livello di agiatezza che consenta di esprimersi secondo il proprio talento e godersi, anche voluttuosamente, piaceri compatibili con un equilibrio psichico decente: ecco, questo sarebbe un ideale sottoscrivibile da tutti. Mi correggo: non da tutti. Da un’avanguardia, da un popolo auto-selezionato che abbia ancora una testa attaccata al cuore e al resto. Una politica che si riduca all’economia non è politica: è statistica. Roba da ragionieri amanti del conguaglio. O da tossici d’accumulazione di capitale.







































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