Fai una donazione

Questo sito è autofinanziato. L'aumento dei costi ci costringe a chiedere un piccolo aiuto ai lettori. CHI NON HA O NON VUOLE USARE UNA CARTA DI CREDITO può comunque cliccare su "donate" e nella pagina successiva è presente (in alto) l'IBAN per un bonifico diretto________________________________

Amount
Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Opporsi al DDL Gasparri. Il punto di vista dell’antropologia culturale

di Antropologhe per la Palestina

Vogliamo in questa sede esprimere profonda preoccupazione per la presentazione del Disegno di Legge 1627 annunciato nella seduta n. 339 del 10 settembre 2025, noto come DDL Gasparri, volto a emanare “Disposizioni per il contrasto all’antisemitismo e per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo”.

Intendiamo come antropologhe e antropologi proporre alcune riflessioni, soprattutto di ordine storico e culturale, che speriamo contribuiscano a chiarire la capziosità e la faziosità della sovrapposizione tra antisionismo e antisemitismo che il DDL propone.

Partiamo dal contesto: si tratta di un DDL su cui si è iniziato a discutere in concomitanza alle partecipatissime mobilitazioni contro il genocidio e in solidarietà alla Global Sumud Flotilla, a seguito delle quali la situazione in Palestina è arrivata a una fase di apparente tranquillità con la proposta del piano Trump, la cui natura coloniale e di congelamento dello stato delle cose non abbiamo qui lo spazio per affrontare.

La proposta del DDL è stata espressa inizialmente mediante una serie di dichiarazioni riguardanti il mondo della scuola e dell’università, atte a creare un clima di intimidazione. In quella che appare chiaramente come una campagna volta a un “regolamento di conti”, la ministra Roccella ha descritto in modo sprezzante le università come luoghi di “non riflessione”.

A ciò sono seguite le richieste alla CRUI, fatte dal segretario del MUR Marco Mancini, di regolamentare le università, nonché le diverse dichiarazioni governative che hanno commentato negativamente le mozioni di rottura dei rapporti accademici con Israele approvate da vari dipartimenti e senati accademici.

In questo clima si colloca il DDL 1627, costituito da 4 articoli tanto chiari quanto inquietanti.

Dopo aver fatto propria, con l’articolo 1, la definizione operativa di “antisemitismo” proposta dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance), il DDL propone (articolo 2) dei corsi di formazione sulla cultura “ebraica ed israeliana” destinati a magistrati, operatori della Forza Pubblica e docenti della scuola e dell’università. Lo scopo di questi corsi sarà chiaramente quello di favorire l’identificazione di atti di antisemitismo e la redazione di verbali di denuncia adeguati.

Il comma 2 dello stesso articolo, dedicato alla formazione riservata al mondo studentesco in tale ambito, non lascia dubbi rispetto ai fini ideologici di tale formazione: l’“antisionismo” vi compare infatti esplicitamente come forma particolare dell’“antisemitismo”.

Gli articoli 3 e 4 costituiscono poi il cuore repressivo del DDL. L’articolo 3 introduce una fattispecie di reato che prevede nuove sanzioni disciplinari nei confronti di chi assista ad atti di antisemitismo e di antisionismo (come recita l’art. precedente) senza denunciarlo alle autorità competenti. Si produce qualcosa di più dell’invito alla delazione: in sostanza torna, sotto altra forma, quell’articolo 31 del DDL sulla “sicurezza urbana” che prevedeva l’obbligo per il personale universitario di collaborare con i servizi segreti, e che è stato giustamente eliminato dal testo definitivo del decreto.

L’obiettivo del DDL Gasparri qui è particolarmente chiaro: si tratta di colpire le proteste contro il sionismo e contro le sue politiche di apartheid e genocidio che in questi anni, e in particolare in queste ultime settimane, si sono manifestate nello spazio pubblico.

L’articolo 4 aggrava particolarmente queste minacce di repressione, perché prevede l’applicazione immediata dell’articolo 604 bis del Codice penale, che si riferisce ai reati di odio razziale, puniti con pene dai 2 a 6 anni di carcere. Tale pena è aumentata sino a 9 anni se “recata con l’uso, in qualsiasi forma, di segni, simboli, oggetti, immagini o riproduzioni che esprimano, direttamente o indirettamente, pregiudizio, odio, avversione, ostilità, lotta, discriminazione o violenza contro gli ebrei, la negazione della Shoah o del diritto all’esistenza dello Stato di Israele”.

Oltre a sollevare diverse perplessità a livello giuridico, come antropologi e antropologhe vogliamo soffermarci sui fenomeni storici e socio-culturali al centro del decreto.

L’antisemitismo ha una lunga storia nel contesto europeo di cui l’antigiudaismo è parte, e in cui il caso italiano ha specificità di cui, pur non potendole qui analizzare a fondo, è necessario tenere conto per quanto riguarda forme di omissione e mancanza di consapevolezza nella memoria pubblica. L’antisemitismo oggi è una delle deprecabili manifestazioni del razzismo, inteso come processo di naturalizzazione di rapporti di potere basati su dominazione, inferiorizzazione e stigmatizzazione di un gruppo umano all’interno di un contesto storico-politico determinato.

L’antisemitismo colpisce un’identità storico-culturale complessa che viene ridotta e definita in termini razziali come “semita” e associata alla religione ebraica. Si tratta di meccanismi analoghi a quelli che sostengono anche altre forme di razzismo, come ad esempio l’islamofobia, un’ostilità rivolta a un’identità definita anch’essa in termini di appartenenza religiosa.

Tra i fenomeni di discriminazione e violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, l’antisemitismo assume però un ruolo particolare. Un ruolo che non deriva, come si sarebbe portati a pensare, semplicemente dal tragico peso della Shoah sulla storia europea contemporanea, che trova da sempre ampia attenzione nei programmi della scuola pubblica.

Oggi la categoria dell’“antisemitismo” è diventata infatti uno strumento usato tatticamente e consapevolmente per reprimere ogni forma di opposizione al nazionalismo sionista e alle politiche di occupazione, apartheid e genocidio da esso progettate e perpetrate, che hanno un nesso con il colonialismo di insediamento e il suo ruolo nella costruzione dell’Europa e dell’Occidente così come li conosciamo oggi.

La confusione tra antisionismo e antisemitismo è concettualmente e ideologicamente preparata dalla definizione che l’IHRA ha proposto del secondo. Una definizione purtroppo approvata dal Consiglio dell’Unione Europea, che attraverso questa equiparazione impone oggettivamente dei limiti alla libertà di critica – come è stato evidenziato recentemente dalla British Society for Middle Eastern Studies e dall’European Legal Support Center. Facciamo peraltro notare che Kenneth Stern, redattore di IHRA, si è dissociato dall’uso che alcuni governi europei ne hanno fatto, sostenendo che IHRA non è stata redatta per ambiti accademici dove finisce, appunto, col ledere la libertà accademica.

Il DDL Gasparri, mettendo insieme “discriminazione o violenza contro gli ebrei”, “negazione della Shoah” e “negazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele ripropone in chiave repressiva la stessa equiparazione tattica che fa del mondo ebraico e dello stato israeliano due realtà coincidenti.

Si tratta di un’immagine falsa. Infatti, il mondo ebraico è stato storicamente diviso quanto alla necessità di costruire uno stato ebraico in Palestina. Nel corso dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento, ci sono state diverse fasi di immigrazione ebraica in Palestina del tutto estranee all’idea di creare uno stato ebraico nella regione. L’esistenza dello stato di Israele non è dunque da oggi oggetto di dibattito, e certamente non un dibattito animato da soli sentimenti antisemiti.

Al di là dalla posizione che si può avere in questo dibattito, la vera questione riguarda la visione che il movimento sionista ha dato dello stato di Israele. Nella storia del mondo ebraico è stato in effetti questo movimento politico di stampo nazionalista, emerso nel clima antisemita europeo di fine Ottocento, a rivendicare la creazione di uno stato-nazione ebraico dove la piena cittadinanza fosse riservata, di fatto, alla parte ebraica della popolazione.

In tale costruzione si sono trovati a convergere due traiettorie politiche europee: quella del nazionalismo che si trova costitutivamente alla base dello stato-nazione e quella del colonialismo. Il progetto sionista trova infatti realizzazione grazie alla sua alleanza con il dominio coloniale europeo: sarà durante il Mandato britannico della Palestina che la Dichiarazione di Balfour (1917) impegnerà il Regno Unito a sostenere la creazione di un “focolare nazionale ebraico” in terra palestinese.

Dopo l’orrore della Shoah, le potenze coloniali occidentali potranno ripulirsi la coscienza scaricando sul popolo palestinese la soluzione politica al dramma dello sterminio degli ebrei in Europa. Il grande paradosso storico e culturale che si viene a creare è che la logica razzista culminata nel nazismo – giudicato da intellettuali come Aimé Césaire e Michel Foucault nei termini di un “ritorno a casa” dell’oppressione coloniale — si è riproposta nuovamente come “esportazione europea”, in Palestina.

Omettendo la presenza della popolazione indigena, così come in precedenti esperienze di colonialismo europeo, la Palestina sarà decantata dal celebre motto sionista come “una terra senza popolo per un popolo senza terra”: in realtà si trattava di un popolo colonizzato, quello palestinese, alle cui spese sarebbe stato costruito uno stato-nazione ebraico che lo avrebbe spossessato della sua terra.

Così con la pulizia etnica della popolazione arabo-palestinese e l’espropriazione delle case e delle terre, la “catastrofe” della guerra del 1948 istituirà lo stato ebraico su confini ben diversi da quelli che le stesse Nazioni Unite avevano poco tempo prima disegnato al fine di garantire ai colonizzati degli spazi residuali.

Come oggi tutti sappiamo, l’espansione coloniale israeliana continua ininterrotta nei territori palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, che Israele ha occupato illegalmente nel 1967 e dei quali da sempre ambisce l’annessione. Israele, infatti, ha storicamente prodotto i propri confini attraverso la guerra, seguendo un progetto coloniale di insediamento. Un colonialismo, dunque, che ha fatto e continua a fare degli ebrei immigrati i cittadini del nuovo stato, escludendo dal diritto il popolo palestinese e provocando al contempo la sua espulsione.

Il tanto vantato – dall’Occidente che lo ha sorretto – “stato di diritto” israeliano, è uno stato di diritto solo per una parte della popolazione: quella di discendenza e/o di religione ebraica, negando il diritto all’autodeterminazione per il popolo palestinese. L’assenza di una costituzione, d’altronde, mostra bene la logica di eccezione che sta alla base dello stato d’Israele, che governa e legifera in nome di una cittadinanza definibile, di fatto, solo in termini etno-confessionali.

L’antisionismo va quindi compreso in virtù del processo storico-politico che ha trasformato il nazionalismo ebraico e lo stato israeliano in un progetto coloniale e suprematista fondato sull’eliminazione della popolazione indigena di Palestina.

Voci autorevoli di intellettuali di origine ebraica (Hannah Arendt, Walter Benjamin, Albert Einstein, Primo Levi, fino a Judith Butler, Ronit Lentin e Alana Lentin) hanno da sempre criticato questo sviluppo, dissociandosi dal sionismo stesso e/o dalle politiche israeliane. Ancora oggi esistono gruppi nel mondo ebraico che rifiutano di sottomettersi a una logica dello stato-nazione che esclude e opprime la parte arabo-palestinese della popolazione.

Equiparare la critica a un movimento politico come il sionismo a una forma di razzismo come l’antisemitismo è pertanto storicamente scorretto oltre che giuridicamente dubbio. È il frutto di una prospettiva nazionalista e religiosa che fa dello Stato di Israele l’unico rappresentante legittimo dell’identità ebraica, schiacciando quest’ultima su un progetto coloniale e ignorando le voci che ne criticano le premesse ideologiche nonché gli esiti genocidari.

Il contrasto al razzismo presuppone semmai l’opposizione a una tale violenza coloniale dello stato qualora, come sancito dal diritto internazionale, l’autodeterminazione della popolazione indigena ne sia minacciata. In più, l’essenzializzazione di una supposta “cultura ebraica”, ambiguamente affiancata nel DDL alla “cultura israeliana”, non rende giustizia alla varietà socio-culturale della diaspora ebraica, che ha coinvolto la vita di ebree ed ebrei dallo Yemen al Nord Africa, dall’Etiopia alla Spagna, dagli USA all’Europa dell’Est. Probabilmente non rappresenta nemmeno la diversità interna alla stessa popolazione di Israele.

Alla luce di queste brevi considerazioni storiche e socio-culturali, appare insomma chiaro che il DDL Gasparri è intrinsecamente destinato a rinforzare e non a sradicare le logiche razziste. È un palese tentativo di limitare la libertà di critica contro le politiche israeliane, se non addirittura un atto di difesa e complicità con esse.

Propone un uso distorto e fazioso del concetto di antisemitismo, che finirà paradossalmente per rendere più vulnerabili e invisibili le diverse espressioni del mondo ebraico, facendo delle sue prime vittime gli ebrei antisionisti, uniti nel movimento globale che chiede la fine della colonizzazione della Palestina e l’autodeterminazione del popolo palestinese.

Pin It

Add comment

Submit